Il Grande Mare di sabbia

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Il Grande Mare di sabbia
S TEFANO M ALATESTA
Il Grande Mare di Sabbia
Storie del deserto
NERI POZZA EDITORE
Ad Adriana, Alberto, Emanuele, Gabriella,
Giancarlo, Letizia, Livia, Maria e Piero
allegri compagni di viaggio nei deserti
Arrivammo infine, per nostra fortuna, a Timbuctù, nel
momento in cui il sole toccava l’orizzonte. Vedevo dunque questa capitale del Sudan che da così lungo tempo
era stata lo scopo di tutti i miei desideri. Entrando in
questa città misteriosa, oggetto di tante ricerche da parte
delle nazioni civili d’Europa, fui preso da un sentimento inesprimibile di soddisfazione... Ma non appena mi
fui ripreso dall’entusiasmo, trovai che lo spettacolo che
avevo davanti non rispondeva certo alle mie aspettative.
Mi ero fatto della grandezza e della ricchezza di questa
città tutt’altra idea: a prima vista essa è soltanto un
ammasso di case in terra, mal costruite. In tutte le direzioni non si vedono che immense pianure di sabbia
mobile, di un bianco che dà sul giallo ed estremamente
aride...
Viaggio a Timbuctù di René Caillié
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Il Grande Uomo di Niafounqué
lo sceicco bianco e gli spiriti del Niger
Non avevo nessun desiderio di andare a Timbuctù, un
nome che veniva usato in letteratura, televisione e altro,
da chi non c’era mai stato, per confusi effetti evocativi
di luoghi remoti e mitici, al di là dei deserti. Una volta,
spingendomi ai limiti delle coltivazioni dell’oasi di Goulimine, nell’estremo Sud del Marocco, mi ero trovato di
fronte un cartello piantato nella sabbia in direzione del
Sahara, con una scritta che diceva: «Timbuctù: duemila
chilometri». Non una di quelle trovate che mi facevano
perdere la testa.
Sapevo che aveva l’aspetto di una cittadina polverosa
e poco attraente, non da oggi, ma negli ultimi due o tre
secoli. Incorporata nel Mali come attrazione turistica e
affollata di abitanti sedentari, tutti con il velo-copricapo
dei tuareg, anche se non erano mai saliti in vita loro su
un dromedario. Così vendevano meglio le cianfrusaglie
tirate fuori da sotto la veste. Il primo europeo che la raggiunse, all’inizio dell’Ottocento, fu anche il primo a
esserne deluso, tanto diversa si era presentata rispetto alla
sua fama nel medio evo e nel rinascimento, dovuta all’università coranica, all’oro che arrivava dal Ghana, e al
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mistero che l’avvolgeva. Mi attiravano molto di più le
piccole metropoli lagunari e presahariane, come Mopti,
o le bizzarre forme architettoniche da science fiction di
Djenné. E naturalmente pensavo da anni di risalire il
Niger. Era un grande fiume orgoglioso, che per mantenere la sua imponente larghezza durante la stagione calda
riduceva la profondità fino a mezzo metro e avevo visto
magnifiche fotografie degli abitanti rivieraschi, sempre
immersi nell’acqua a lavarsi, che lo attraversavano a piedi.
Eppure, quando arrivava il momento di scegliere se tornare in Egitto o andare finalmente oltre il Sahara, all’interno dell’Africa occidentale – il Senegal lo conoscevo
bene – sceglievo sempre l’Egitto. O lui decideva per me.
Poi una sera, a cena, incontrai un mio vecchio e carissimo amico, Oscar, e dopo averlo ascoltato, presi una decisione sbagliata due volte, come non mi era mai successo (forse non era sbagliata: doveva semplicemente accadere). Mi convinsi a seguirlo in un viaggio nel Mali, nell’accordo non detto, ma implicito, che sarebbe stato lui
ad organizzarlo, anche se le sue doti risiedevano altrove.
E accettai di partire nel periodo meno adatto, quando la
temperatura sale fino a cinquanta gradi, sapendo di non
essere da tempo nelle migliori condizioni fisiche. Ma il
suo racconto era stato così irresistibile, molto più per
quello che faceva intravedere che per quello che in realtà
diceva, da lasciarti con la sensazione che avresti perso
qualcosa di unico, se rimanevi a casa. E questo non andava bene.
Oscar è un giornalista specializzato in musica moderna, in particolare musica rock. Nei giorni precedenti
aveva incontrato alla Fondazione Cini nell’isola di San
Giorgio, a Venezia, il più magnetico e innovativo musi12
cista e interprete africano, così almeno lui diceva, che sarà
chiamato d’ora in poi il Grande Uomo, le cui composizioni erano uscite dal giro delle curiosità tribali e avevano
vinto il Grammy Award, l’Oscar delle incisioni. Non
sono un grande intenditore del genere, ma anch’io avevo
ascoltato anni prima un CD del Grande Uomo ed ero
rimasto impressionato da come fosse riuscito a trasformare con infinitesimali variazioni la ripetitività del ritmo
africano in qualcosa di libero e di emozionante, servendosi di una sorta di liuto a una sola corda, da cui estraeva suoni che non esiterei a chiamare melodiosi, se il termine non suggerisse una musica tradizionale. Invece
erano di una modernità sconcertante: composizioni uscite dai moduli locali troppo stretti, che viaggiavano su e
giù nel tempo. Infatti mi pareva di sentire gli echi dei
blues. Ma non ero così sicuro. Comunque Oscar sognava
da anni di incontrare il Grande Uomo e al primo contatto rimase estasiato. (Forse sto calcando un po’ la mano,
anche se Oscar, Cuore d’Oro, ha la tendenza alla mitizzazione. Ma che dovrebbe fare uno che si occupa di rock
messo di fronte a una rockstar?) E il Grande Uomo, vanitosissimo, ricambiò immediatamente la simpatia, che
non costava nulla, raccontando come fosse stanco di girare in Europa e negli Stati Uniti per i concerti, anche se
erano stati proprio questi a dargli la gloria. Si era ritirato
nel suo paese natale, Niafounqué – o Niafunqué o
Niafunké – una cittadina sul Niger vicino a Timbuctù,
aveva comprato bastante terra e ora coltivava mango e
papaya e la sera ascoltava le voci degli spiriti del Niger.
Mentre di giorno si faceva condurre sulla sua personale
pinasse, la barca a fondo piatto con la prua e la poppa
allungate, girando per i suoi feudi, terre fangose da tutt’e
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due le parti del fiume, vestito con un boubou viola damascato e lo zucchetto tradizionale.
Non so chi sia stato a parlare per primo di un viaggio a Niafounqué, se Oscar o l’altro. Secondo il mio
amico, il Grande Uomo descrisse nei dettagli tutte le
meraviglie che aspettavano il giornalista del rock in terra
d’Africa: le sue case, non aperte, ma spalancate per gli
ospiti (tanto spalancate da sembrare che si dormisse all’aperto, come poi vedremo); il cibo squisito come il montone arrosto; la città di Niafounqué di cui continuava a
descrivere il fascino ineguagliato. E poi c’era lui, il
Grande Uomo, il personaggio più popolare del Mali,
gran benefattore dei poveri, che lo avrebbe intrattenuto
a tavola e fuori. Con una grande pinasse sarebbero scesi
lungo il Niger e il musicista seduto sulla prua avrebbe
celebrato, suonando con il suo strumento a corda, il paesaggio che scivolava davanti alla barca, e cantato l’antico impero Songhai e il suo fondatore, Sonni Alì, insieme con gli spiriti del fiume, i pescatori Bozo che vivevano nell’acqua, la caccia agli ultimi lamantini, la bellezza delle donne che si lavavano lungo le rive, fingendo di
ricoprirsi se passava qualcuno. E a Niafounqué, come suo
ospite, avrebbe potuto avere quello che chiedeva, perché
l’ospitalità del deserto era incommensurabile, come la
fede dei suoi abitanti. Insomma, alla fine del racconto
proposi ad Oscar di portarmi con lui. Quello che si prospettava era un viaggio così interessante e l’accoglienza
sembrava così fastosa e unica, che non ci potevano essere esitazioni.
Il fiducioso Oscar, naturalmente, non fece nessun
controllo sull’affidabilità dell’invito, allargato a tutti gli
amici che voleva portare, prendendo per buone le iper14
boli adoperate dal musicista. Ma il vero ingenuo ero io,
perché meglio di altri avrei dovuto conoscere gli africani, fantasisti nati, incapaci di definire con nettezza il confine tra le creazioni dei desideri e gli stolidi, mortificanti e ingombranti dati della realtà, un’attitudine che ha
sempre costituito il loro charme. In questo modo, la
vicenda prese un andamento che mi sfuggiva, e non potevo fare nulla perché la primogenitura del viaggio apparteneva a Oscar e non mi sarei sognato d’interferire nella
sua organizzazione, che fin dall’inizio risultò traballante.
Ma tutto ciò non rendeva meno affascinante la prospettiva di scendere lungo il Niger e come al solito, m’immersi nella lettura dei libri che avevo trovato tra Parigi
e Londra. E ricordo, come se fosse stato un avvertimento,
di aver esitato a comprare in una piccola, ben fornita
libreria di Blackland Terrace, a Chelsea, l’unico testo che
mi sarà indispensabile per le mie ricerche e che stavo per
lasciare in Italia al momento della partenza. E a differenza delle altre volte, la lettura era stata accompagnata
dal continuo ascolto dei CD del Grande Uomo, pescati nel grande magazzino discografico di Leicester Square,
a Londra, tra i quali Talking Timbuctù, interpretato
insieme con un bravissimo musicista cubano. In quei
giorni di preparativi, la mia casa vibrava di percussioni
africane e le note emesse dallo strumento a una corda
del Niger riecheggiavano nelle stanze in modo così ossessivo, che cominciavo ad essere guardato con sorpresa
anche da amici abituati alle mie stranezze.
Partimmo quando la temperatura a Bamako, la capitale del Mali, aveva superato i quaranta gradi e saliva
ancora. Con noi c’era anche un bravissimo fotografo,
Piero, e la fidanzata di Oscar, raggiante e compunta, per15
ché doveva aver promesso di stare tranquilla. La sera
prima mi aveva informato che sarebbe venuta con noi,
adoperando l’abituale tecnica di autopromozione: «Per
fortuna ci sarà un’organizzatrice in mezzo a tre disorganizzati», e io non ero riuscito a mormorare una sola parola, rimanendo muto al telefono per un tempo imbarazzante. Oscar aveva prenotato in un piccolo, reputato
albergo che voleva essere di genere etnico-ispirato, per
gente fine come noi, di proprietà della donna più celebre del Mali, una ex ministra della cultura, che ora viaggiava da una conferenza all’altra per il mondo. La ex
ministra, che ci venne a salutare, appena poche parole,
aveva l’aria di una persona vivace e intraprendente, ma
l’albergo era molto più etnico che ispirato e le camere
non troppo pulite, poco illuminate e claustrofobiche. Il
servizio non esisteva, e per bere una cocacola bisognava
dare i soldi e una mancia a un volenteroso perché l’andasse a comprare al chiosco più vicino. Ma non ho mai
giudicato un paese dagli inconvenienti che incontra il turista.
Le strade di Bamako erano intasate da un traffico convulso e caotico di ferraglie che in Europa nessuno avrebbe chiamato automobili. E nello stesso modo caotico di
quasi tutte le città africane, questa interpretazione caricaturale del trasporto moderno conviveva con la forma
più antica e più esemplare di locomozione. Bastava guardare qualche metro più in là e uno ritrovava l’Africa di
sempre che marciava lungo i marciapiedi, così scavati dal
continuo calpestìo da essere ritornati allo stadio di sentiero nella savana arida. File interminabili di esseri
umani, di cui era impossibile dire dove iniziavano e dove
finivano, si muovevano come se fossero in marcia di tra16
sferimento dall’alba dei tempi, con quel loro instancabile, inimitabile, elastico, fluido, veloce passo e come se il
marciare senza un attimo di sosta costituisse il loro unico
scopo. Una popolazione in continuo esodo, composta in
maggioranza da donne, sulle quali vorrei dire due o tre
cose. Forse le etiopi sono più belle e più nobili di viso,
le eritree più statuarie, le migiurtine hanno i lineamenti più delicati. Ma le maliane, le Peul in particolare,
appartengono ad un altro mondo e come dice un mio
amico africanista, riferendosi ai Nuba sudanesi: «Le razze
esistono e ci sono razze superiori e razze inferiori. E la
razza africana è la razza superiore». Non so se questa differenza fisica, a volte umiliante per le donne occidentali, dipenda da uno scheletro leggero, dalle gambe smisuratamente alte e dalle caviglie sottili, dai fianchi stretti e
all’infuori e come appesi nell’aria, dall’estrema souplesse
dei movimenti che però non danno mai un’idea di torpidità o di lentezza, ma al contrario di essere pronti allo
scatto, o da altri requisiti che mi sfuggono. Fermarsi in
un caffè all’aperto di Bamako significava assistere ad una
stupefacente parata di donne superbe che camminavano
come nessuna modella riuscirebbe a fare, vestite con gli
abiti più fantasiosi e colorati che nessuno stilista riuscirebbe a inventare, anche se ci hanno provato tutti, dove
le più miserabili sembravano delle principesse.
Chi parlava volentieri delle donne africane era Giorgio
“il congegnatore meccanico” come si definiva, di cui diventai subito amico. Andava e veniva da Bologna da oltre
trent’anni e nell’Africa occidentale costruiva radio private e anche governative. Oltre alla casa-ufficio di Bamako,
era il proprietario di una seconda casa a Dakar, nel
Senegal, e una terza a Lomé nel Togo, da dove si senti17
vano le onde dell’Atlantico infrangersi con un tuono
nella immensa spiaggia e la sera, stando in giardino, arrivavano gli odori di fritto dei vicini. L’Africa non gli aveva
portato via l’accento e se uno chiudeva gli occhi, sembrava di assistere al Cardinale Lambertini nella versione
con Gino Cervi. Per tutto il resto era un africanista convinto. Si capiva dalle stupende figure nere, presentate
come mogli di qualche suo amico, che incontravi nel suo
ufficio e che andavano a infilarsi nei corridoi con la velocità di gazzelle spaventate, dietro la stanza del computer.
Stava quasi sempre in giro tra una capitale e l’altra,
Dakar, Lomé, Ouaga e diceva di non essere diventato
ricco, ma di aver scelto di fare la vita che gli piaceva,
come capita a pochissimi. Una sera lo portai a cena in
un pretenzioso ristorante francese e mi raccontò come
aveva fatto a sopravvivere in Africa: i trucchi, le donne,
la tenacia sul lavoro. In Italia lo aspettava una moglie,
la terza, ma anche se non lo ammetteva chiaramente, si
ritrovava meglio nella libertà della boscaglia che ai concerti in piazza Grande e ai festival dell’Unità. Conosceva
le donne africane come pochi anche dal punto di vista
diciamo tecnico e aveva parecchie storie divertenti. Una
volta si ritrovò in casa di un prete, un prete italiano, che
nell’articolo che scrissi sul “congegnatore meccanico”
chiamai don Pietro. E c’era una serva che solo a vederla ti faceva diventare matto. E quel giorno, lavando i
panni, le si era tutta bagnata la camicetta strizzata sulle
tette, e Giorgio non era riuscito a trattenersi e l’aveva
abbrancata da dietro. E la serva, senza voltarsi, aveva
detto: «Non ora don Pietro, devo finire di lavare i panni».
Quando ricontrai Giorgio in Italia mi disse che avevo
combinato un bel casino. Perché esisteva dalle sue parti,
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nel Togo, un missionario che si chiamava don Pietro. E
si era arrabbiato moltissimo a leggere quella storia.
Partimmo con uno sgangherato fuoristrada fornito da
un organizzatore italiano, un simpatico e atletico ex parà,
lo stesso che aveva promesso di farci trovare a Mopti la
più bella pinasse in navigazione lungo il Niger. L’auto
doveva essere diversa da quella prevista, ma ogni volta
l’organizzatore diceva che le migliori erano in giro per
altri servizi e l’autista tornava sempre al volante dello
stesso rottame, quando avevamo bisogno di lui. Feci il
viaggio fino a Mopti scontento delle mie condizioni fisiche, che erano peggiorate con il gran caldo, la mancanza di sonno e una probabile intossicazione da medicinali. In un momento più favorevole sarei andato in giro
ad annusare come un cane randagio le strade e i mercati di questo magnifico porto fluviale, punto d’arrivo e di
partenza dell’intera flotta di piroghe di tutto il paese: le
grandi pinasses a motore o a vela, con le bandiere innalzate a pavese e gli stracci appesi ad asciugare; i trasporti che si trascinavano dietro altri trasporti minori, incastrati gli uni negli altri; le piccole barche da pesca familiare. Riuscii appena a visitare la zona portuale, passando la maggior parte del tempo, in attesa dell’imbarco, in
un caffè chiamato Le Bozo. Ho un debole per i locali
casuali, che incontri nei viaggi e con l’intenzione di fermarti pochi minuti e al momento di ripartire sei già convinto che potresti rimanere per settimane. Questo assomigliava al posto esotico dove arriva Yves Montand in
Vite vendute, nelle vesti di un camionista che trasporta
nitroglicerina, ancora allegro perché non sa che il destino colpisce alle spalle, come dicevano i romanzi dell’epoca. Poi mi ricordai che il film si svolgeva in Sud America
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e la somiglianza non mi sembrava più così evidente. Nei
giorni precedenti, lungo la strada per arrivare a Mopti,
avevo trovato all’hotel Indépendance di Ségou un altro
bar che mi piaceva, con il bancone alto di legno pregiato, i ventilatori e uno stanzone così scuro che non riuscivi a vedere nulla per i primi cinque minuti da quando eri entrato. Poi le pupille contratte per difendersi dalla
luce del sole tropicale si allargavano e ti rendevi conto
che non c’era niente e nessuno da vedere. Un posto dove
il cameriere ti portava gli stuzzichini insieme con la birra,
anche se non li avevi chiesti.
Nel caffè Le Bozo non c’erano né stuzzichini, né birra,
né bancone, né penombra sotto il tetto di paglia. Si affacciava da un’altura sopra il Niger, in un punto in cui
le acque si facevano ancora più lente e torpide e se uno
si accontentava di una bottiglietta gelata di pura chimica color arancione ed evitava di mangiare qualsiasi cosa
che non fosse pane, ed era sopravvissuto ai quarantasette gradi segnati dal termometro dell’albergo, allora poteva assistere a un concentrato di africanità inteso come
puro incanto visivo. Più sotto, in un triangolo di fango
non più largo di duecento metri, tra un deposito precario di blocchi di sale che arrivavano dalle depressioni del
Sahara ancora a dorso di cammello e l’approdo dei pescatori, s’incrociavano tutte le etnie del Sahel e del Mali: i
contadini Bambara con lo zucchetto e buoni musulmani, i nobili e slanciati Peul con il fazzolettone al collo
come i cow-boy perché anche loro conducono il bestiame attraverso una savana molto più polverosa e arida del
West, i Toucouleur, i Dogon, l’etnia dell’Africa occidentale più studiata al mondo, scesi dalle loro falaises alla
ricerca di pesce essiccato, i pescatori Bozo che vendeva20
no il pesce ai Dogon, i mauritani e i tuareg ora pacificati, che chiedevano per le insegne in argento dei loro
Kel prezzi irragionevoli.
La mattina della partenza, imbottito di chinino, non
pensavo né alla bilharzia in agguato nelle acque stagnanti,
né all’anofele, né al caldo che saliva di dieci gradi l’ora,
né al fatto che la cuoca di bordo stava preparando il
cuscus servendosi dell’acqua raccolta dal fiume con un
barattolo, dopo averne mandato giù un sorso. E nemmeno alla grande piroga che non assomigliava per nulla
all’ammiraglia della flotta. Il simpatico parà, africanizzatosi solo in quello che gli conveniva, prometteva quello
che non aveva. Muovendomi al rallentatore, mi lasciai
scivolare sul fondo coperto di stuoie, dispiaciuto, ma
nello stesso tempo felice di allontanarmi dal frastuono
del porto di Mopti e di immergermi in un mondo esclusivamente acquatico e silenzioso come in un liquido
amniotico. Ogni tanto mi risvegliavo e vedevo sfilare lentamente davanti a me una costa bassa e grigia che le onde
del calore rendevano tremolante e opaca, e quando si
alzava di qualche metro, solo allora comparivano per
inspiegabili ragioni mandrie di bovini dalle corna lunate che tornavano dall’abbeverata. Più in basso, dove l’acqua era meno fangosa, sguazzavano bambini dagli occhi
smisuratamente grandi e giovani donne nude fino alla
cintola si lavavano per ore le ascelle, i seni e le braccia
o risciacquavano in continuazione panni. Sembrava che
tutta la popolazione infantile e femminile dei territori attraversati dal Niger si fosse adattata al fiume come un
unico animale anfibio e anch’io stremato dal caldo mi
sarei tuffato in quell’acqua torbida che pure mi sembrava così invitante, se non avessi avuto la sensazione che
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mi sarei preso in un solo momento tutte le più orribili
malattie dell’Africa. I Bozo, gli uomini e i ragazzi più
grandi, li incontrammo appena usciti dal porto di Mopti,
che pescavano al centro delle corrente e mentre uno faceva avanzare la piroga con un colpo elastico della pertica, l’altro gettava una piccola sciabica, o lanciava l’arpione. Qualche piroga aveva anche una vela rattoppata
di cotone o di paglia intrecciata, ma non andava molto
più veloce di quelle spinte dalle pertiche.
Vivevano quasi tutto il tempo in queste imbarcazioni primitive e funzionali, facendo la gioia degli antropologi francesi, come una volta gli Yaganes della Tierra
del Fuego narrati da Francisco Coloane. La donna cucinava al centro della barca su un braciere di argilla cotta,
l’uomo restava a poppa a manovrare e i bambini venivano sistemati sotto un riparo fatto anch’esso di paglia.
A differenza dei Somono, un’altra etnia che pescava con
le reti lungo il Niger, i Bozo non consideravano la cattura dei pesci semplicemente come un duro lavoro e un
mezzo per sopravvivere, ma come un momento significativo del ritmo cosmico che andava assecondato in ogni
momento della vita. Questa e altre credenze venivano da
una mitologia che non aveva nulla a che fare con l’Islâm.
Come tutti gli abitanti del Mali, compresi i Bambara e
i Peul, anche loro erano musulmani in superficie e animisti nel profondo, e cominciando a leggere il saggio che
avevo comprato senza essere troppo convinto e portato
malvolentieri con me, avevo creduto all’inizio che parlasse di loro, quando faceva riferimento ai culti di possessione.
Il saggio, rivelatosi, in una forma non immediata e
in un certo senso circolatoria, come il vero anche se ma22
scherato protagonista del viaggio, era I geni del fiume
Niger, una versione inglese dell’originale in francese che
era esaurito e aveva l’aspetto non particolarmente attraente di un testo di etnologia, scritto da Jean-Marie Gibbal, di cui non sapevo nulla se non quello che dicevano
il risvolto di copertina e l’introduzione. Le prime pagine che cominciai a leggere, svogliatamente e solo perché
non riuscivo a dormire, parlavano dei culti di possessione e del misterioso “Ghimbala”, un nome che nello stesso tempo definiva una regione particolare abitata dagli
spiriti che abitano le acque del Niger, gli stessi spiriti e
il loro culto. Era una strana storia, molto africana, di cui
all’inizio compresi assai poco, attribuendo la mia scarsa
capacità d’intendere alla stanchezza e alla mancanza di
sonno, ma che doveva emanare un forte potere di fascinazione. Perché, invece di abbandonare il libro, mi misi
a leggerlo con più attenzione.
La navigazione verso Niafounqué durò tre giorni e
ogni giorno che passava faceva sempre più caldo. E a
partire dal secondo, stanco di scendere nei villaggi a fotografare le donne che pulivano e seccavano il pesce, mi
ero concentrato quasi esclusivamente sul libro di Gibbal,
che a differenza della maggior parte dei saggi degli etnologi francesi, dediti alla retorica letteraria, era scritto in
una prosa splendida e aveva la trama di un giallo. Che
cosa era veramente questo Ghimbala? Che potere avevano i guaritori e i féticheurs quando evocavano in trance
gli spiriti e in che modo li usavano? Non riuscivo sempre a seguire facilmente l’etnologo nel suo viaggio attraverso il lato oscuro di un animismo propagatosi lungo il
corso del Niger molti secoli prima, come reazione della
popolazione locale alla crescente egemonia del monotei23
smo islamico. Avevo anche l’impressione – si capiva da
certe frasi di Gibbal, dall’urgenza con cui si era spostato da un posto all’altro facendo interviste incrociate e
partecipando ai loro riti – che le reazioni dei guaritori,
che pure si erano lasciati fotografare insieme a lui, non
dovevano essere state tutte benevole. Il francese non stava
forse come rubando i segreti del mestiere?
Poi successe un fatto curioso, una di quelle coincidenze detestate dai matematici e amate dagli scrittori.
Durante il lento progredire della pinasse avevo letto in
fretta un certo numero di pagine che mi erano sembrate meno interessanti o meno chiare. Una volta finito il
libro, le iniziali perplessità si erano trasformate in un’ammirazione incondizionata e così ritornai su quelle pagine dimenticate, trovando citato inaspettatamente e con
mia enorme sorpresa il nome del Grande Uomo che mi
aspettava a Niafounqué. Gibbal ne faceva un veloce,
preoccupante ritratto, come un uomo famoso che da
ragazzo aveva subito l’influenza della nonna, una potente sacerdotessa del Ghimbala. La donna si era molto affezionata a questo giovane promettente e aveva cominciato a trasmettergli le sue arcane conoscenze fino a quando non morì, lasciando il nipote incerto sulla strada da
scegliere, quella del féticheur o quella dell’artista, due
indirizzi non così lontani tra loro come poteva sembrare. Alla fine, convinto dalla madre, il ragazzo aveva scelto la musica, probabilmente sfruttando a suo favore la
benevolenza che gli avevano dimostrato gli spiriti del
Niger. E il suo strumento favorito era diventato il
djerkelé, una sorta di liuto a una corda i cui suoni commuovono questi geni dai gusti musicali.
Quando sbarcammo a Niafounqué era quasi notte. Il
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Grande Uomo, che ci stava aspettando nell’albergo di
sua proprietà e anche l’unico del paese, una decina di
stanze simili a locali di tortura, accolse Oscar come se
fosse suo figlio, stritolandolo per qualche minuto tra le
sue potenti braccia e mi ricordo che pensai: ma allora è
tutto vero! Poi quella serata si svolse in maniera così confusa e veloce che nella ricostruzione bisogna andare per
passaggi successivi, senza sperare in un racconto fluido.
In albergo non c’era posto, ma non pensavamo di dormire in una simile galera – come poi fummo costretti a
fare il giorno dopo, e a pagamento. Contro tutti i segnali che stavano arrivando, ci illudevamo che il Grande
Uomo fosse in grado di mantenere almeno una parte
delle promesse e quando disse con enfasi: «Sarete ospiti
nella mia home», lo seguimmo vergognosamente. Questa
home non stava troppo lontana, circondata dalla sabbia
e da un giardinetto dove non c’erano luci e per entrare
dovemmo chiamare un’auto che illuminasse con i fari un
cancelletto di ferro. Stravolti dalla fatica e carichi di borse
ci ritrovammo in due stanze e un locale che venne indicato come il bagno, e in quel momento compresi che la
punizione per gli sciocchi stava arrivando e in forma
esemplare. Perché non era possibile che qualcuno avesse
pensato di ospitare in quelle stanze degli esseri umani.
Di quel luogo, che non sono in condizione di descrivere, perché ogni memoria è svanita (io non ho “rimosso”
nulla, per intenderci, è la memoria che se n’è andata),
ricordo solo il colore nerastro delle pareti del bagno,
incrostate di una sostanza viscida, come fosse esploso
dentro il water closet qualcosa di innominabile, i cui resti
erano finiti sui muri.
Rimasi in piedi, non avendo nemmeno la forza di
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mollare le borse. Sentivo che dovevo fare qualcosa, come
ritornare indietro, o agguantare il Grande Uomo e chiedergli spiegazione. Non feci nulla, perché arrivò Piero il
fotografo, che era andato in avanscoperta dietro la casa
ed era piegato in due dalle risate. «Ho visto quattro materassi nerastri sulla spianata di calcestruzzo che guarda il
Niger», disse. «Questa notte si dorme all’aperto». Intanto
il Grande Uomo, sempre abbracciando ad intervalli un
Oscar assente, ci segnalò che la festa in nostro onore
stava per cominciare. E dopo pochi minuti eravamo
seduti davanti a un pentolone che conteneva un intero,
puzzolente, croccante montone, che alcuni paesani ospiti avevano cominciato a triturare sotto i denti facendosi
complimenti reciproci e offrendone un pezzo da mezzo
chilo alla fidanzata di Oscar, già con le narici raggricciate dallo schifo. Quella volta l’ho ammirata: niente
affatto intimorita dalle offerte pressanti dell’ospite e dai
mormorii di Oscar, di cui furono comprensibili solo un
paio di frasi mormorate a mezza voce come «...li stai
offendendo...», continuò a respingere tutti i tentativi di
farle assaggiare la bestia immonda, destreggiandosi come
sapeva benissimo. Dovevamo aver perso tutti la testa,
perché durante il pasto del montone arrivai a consegnare al nostro una meravigliosa coperta kashmira ricamata
a mano, che mi ero portato dall’Italia, come regalo, pensando al lusso e allo sfarzo con cui saremmo stati accolti. E lui la prese con degnazione, ripiegandola in fretta
con le mani unte.
Quella notte dormii meno del solito, che era già pochissimo, pensando ai motivi a virgola così finemente ricamati della coperta e attendendo l’alba africana con il
corpo avvolto da una zanzariera doppia da letto, l’unica
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che ero riuscito a trovare. Gli altri dormivano sodo e
basta. Nei due o tre giorni che rimanemmo a Niafounqué – ero troppo debilitato per prendere esatta nota
non solo delle ore, ma dei giorni – continuai a rileggere il libro di Gibbal e ad attendere il momento per parlare con il Grande Uomo della storia che nascondeva al
margine delle sue pagine. Ma era un’attesa faticosa e un
giorno, invitati nella casa della sua seconda o terza
moglie, giovane, ma non una bellezza, decisi che sarebbe stata l’ultima volta che pranzavo con lui. Era disgustoso come riusciva a trasformare in una maialata il rigido, aristocratico galateo arabo del mangiare senza posate, adoperando le mani come una benna che raschiava il
fondo del piatto e poi strizzando il cibo raccolto lo lasciava cadere in bocca. La mia insofferenza nei suoi riguardi stava crescendo e avrei abbandonato la polverosa, insignificante Niafounqué, dopo averlo interrogato su
Gibbal, se non fosse successo un piccolo episodio che mi
riconciliò con il musicista. In una delle case che possedeva o che comunque erano abitate da parenti, fratelli,
figli e donne del suo clan, avevamo visto, legato nel cortile accanto a un’antenna parabolica della televisione satellitare, un leggiadro stallone arabo con il collo perfettamente arcuato, le froge grandi e scoperte e i muscoli
che fremevano sotto il manto bianco. Pensando sempre
al documentario, ad Oscar venne l’idea di girare qualche
minuto di una fantasia araba, protagonista il Grande
Uomo a cavallo che trottava in parata per le strade della
cittadina. Glielo chiese un po’ incerto, perché non era
sicuro che la proposta fosse gradita. Mezz’ora più tardi
il Grande Uomo stava davanti a noi bardato da tuareg
da operetta da capo a piedi, calzato con stivali lussuosi,
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inturbantato e velato, con una doppia cartuccera che gli
attraversava il torace, pronto a lanciarsi all’attacco del fortino dei legionari. Era già in groppa allo stallone bianco, che faceva impennare con alti nitriti. Per un attimo
si scoprì il viso, mostrando un sorriso incontenibile.
Disse: «Seguitemi con la cinepresa», e dando un paio di
calci allo stallone partì di gran carriera, sollevando un
turbine di polvere, con tutta la popolazione di
Niafounqué fino ai sedici anni che gli correva dietro. I
miei amici si misero a correre anche loro e per qualche
tempo si sentirono urla che si allontanavano e si avvicinavano, e altre nuvole di polvere apparvero qua e là, oltre
le case. Io rimasi impalato, disperatamente cercando di
ricordare dove avevo già visto un altro simile, esilarante
uomo del deserto. E finalmente l’archivio della mente rilasciò l’immagine registrata molti anni prima: un arabo
o un beduino dall’aspetto di un figlio di uno sceicco
fasullo, vestito di bianco, che si dondolava su un’altalena sporgendosi verso una ragazza e mostrando un sorriso maliardo. Spero che abbiate riconosciuto Alberto Sordi, nello Sceicco bianco di Fellini, girato sulla spiaggia di
Ostia, tra i bagnini e i pattini! In quel momento fui grato
al Grande Uomo.
Intanto continuava a ronzarmi in testa la vicenda dell’etnologo. Avevo veramente apprezzato il libro, che era
intessuto di una vena poetica simile a quella di Afrique
fantôme di Michel Leiris e l’ultima sera prima di ripartire, a cena con il musicista che mi chiamava «mon malade» e mi aveva aiutato presentandomi un bravo medico
dell’ospedale, gli chiesi bruscamente che cosa aveva ucciso Gibbal. Il Grande Uomo non si dimostrò sorpreso
dalla domanda. Rimase muto per qualche attimo di trop28
po perché la sua esitazione fosse genuina. Poi tirando
fuori dai visceri una voce impostata che non gli conoscevo, ma che mi aspettavo, mormorò lentamente: «Ha
avuto un flusso di sangue dagli occhi, dalle orecchie, dal
naso e dalla bocca. In quel momento stava in Francia e
nessun medico ha potuto capire che cosa fosse. E in tre
giorni è morto senza che nessuno riuscisse ad aiutarlo».
Chiesi cosa tutto questo significasse e il Grande Uomo,
disinvoltamente disegnò in aria con la mano una piccola figura di un corpo umano simile a un feticcio o a una
bambola e fece come l’atto di trafiggerla con degli immaginari spilloni. Infine, dopo una seconda esitazione ancora meno autentica della prima, aggiunse: «Il est allé trop
loin. Il a peché par orgueil parce qu’il voulait savoir des
choses qu’on ne doit pas savoir. Ici nous sommes en
Afrique». Quello fu il momento più teso della serata, che
poi andò avanti bizzarramente e si continuò a parlare di
magia, ma in modo più rilassato e anche comico. Il
Grande Uomo era stato in Italia e aveva trovato una città
diabolica. Veramente? E come si chiamava? «Pontedera»,
rispose.
Prima di ripartire fummo alleggeriti di un certo
numero non previsto di franchi da un suo sottoposto
con funzioni di esattore, da lui inviato per farci pagare
fino all’ultima birra. Il conto totale risultò molto superiore ai servizi resi e non aiutava pensare allo scialle kashmiro, regalato per fare fronte alla munifica ospitalità. Ci
dovevano considerare dei veri babbei perché il sottopanza, dopo avere incassato in contanti, trasse da parte Oscar
confidandogli che il Grande Uomo avrebbe gradito una
busta con dentro mille dollari, come omaggio. Oscar, stavolta, dimenticando la sua infatuazione per il musicista,
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adoperò quelle due o tre parole che ci volevano per definire la richiesta e che avrebbe dovuto adoperare molto
prima.
Tornati a Bamako, cominciai a contattare tutte le persone che avevano conosciuto Gibbal, sperando di poterne cavare informazioni che mi aiutassero a capire. Fu una
delusione, rapida e inaspettata, perché al momento di
dire qualcosa, soprattutto sulla sua morte, si erano tutti
tirati indietro: o non lo avevano conosciuto così bene o
non sapevano o tutt’e due le cose. E quando sentivano
le parole “féticheur” e “fattura”, chiudevano rapidamente la conversazione. Innervosito, una mattina sono entrato in un albergo di lusso della città, dove c’è anche la
libreria più fornita di testi sul Mali e ho chiesto ad alta
voce al libraio: «Avete un libro sui féticheurs?» L’uomo,
terrorizzato, si guardò intorno e poi mi disse a bassa voce
di ritornare a esercitare quel tipo di humour nel mio
paese o qualcosa di simile.
Intanto avevo conosciuto il console onorario italiano
nel Mali, Loriana Dembelé di San Giovanni d’Asso, che
mi era parsa subito una donna in gamba, vedova di un
maliano. Viveva a Bamako da trentadue anni e non sapeva nulla di Gibbal, ma sapeva molto di quello che succedeva nel Mali e raccontò questa storia assolutamente
autentica: «Parecchi anni fa, durante la dittatura militare, il ministro dei lavori pubblici, il secondo uomo più
importante del paese, decise di abbattere delle vecchie
case di Bamako per fare posto a una nuova e sfolgorante autostrada. Queste case appartenevano alla famiglia
Niaré, una delle più antiche del Mali, che aveva fondato la città. Quando si seppe delle decisione del ministro,
il vecchio Niaré, capo spirituale della famiglia, andò da
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lui e lo pregò di non fare una cosa così sacrilega per la
loro etnia, i Bambara. “Anche se sei un militare, dovresti conoscere la nostra cultura”, gli disse. “Per noi la casa
non è solo un edificio, ma la sede degli spiriti degli antenati, e la residenza delle donne che si occupano dei figli.
Al suo interno c’è tutta la nostra vita, quella passata, presente e futura. E dunque ti preghiamo di ripensarci”.
Due giorni dopo il ministro, che era un duro, mandò i
bulldozer e fece spianare tutto».
«Il giorno successivo all’abbattimento delle prime
case, al ministro cominciarono ad apparire sulle pelle
degli orrendi bubboni, come avesse preso la peste. Lo
portarono subito in aereo a Parigi, nel migliore ospedale della città, chiamando a consulto i migliori medici,
ma nessuno riuscì a capire da quale malattia fosse stato
attaccato. Le analisi non davano nessuna indicazione perché erano tutte negative e i trattamenti, cortisone, antibiotici, bruciature, argento vivo, non servirono a nulla.
Quando il ministro capì che stava peggiorando e che
rischiava di morire, chiamò la moglie e le ordinò di tornare immediatamente a Bamako e di trovare il vecchio
Niaré perché ritirasse la fattura che certamente gli aveva
lanciato contro. La moglie fece come aveva detto il ministro, e andò a cercare il vecchio Niaré, trovandolo accampato tra le macerie delle vecchie case Bambara, perché
nessuno della nobile famiglia si era mosso. Ma il vecchio
fu irremovibile. Disse che la distruzione delle case era
stato un atto temerario, e poi lui non sapeva nulla di
quello che poteva essere successo a suo marito – e non
si commosse nemmeno quando la donna, con i capelli
tagliati in segno di penitenza e di umiltà, si mise a implorare in ginocchio, anche lei tra le macerie. Solo dopo un
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mese di preghiere e di invocazioni, dopo aver portato i
sei figli alla sua presenza e fatto l’elemosina ai poveri del
quartiere, la donna riuscì a vedere ancora il vecchio Niaré
che alfine proclamò: “Non prendere il prossimo aereo per
Parigi e nemmeno quello successivo, ma il terzo”. La donna prese il terzo aereo e all’ospedale c’era il ministro dei
lavori pubblici, ancora molto indebolito, ma i bubboni
erano spariti e un’équipe di medici lo stava esaminando
e tutti erano molto perplessi, perché un fatto simile non
era mai accaduto e non sapevano come spiegarlo».
Avrei potuto raccogliere molte altre storie simili, nel
Mali o in tutti i paesi confinanti. Quello che mi mancava erano i riferimenti diretti con Gibbal e la sua morte.
Così decisi di dimenticare la sua vicenda e di interessarmi ad altro fino a quando non fossi tornato a Roma.
Ma è stato sempre a Bamako, durante una pausa, mentre stavo preparando i bagagli che si portavano dietro
tutta la polvere del Sahel, che feci una telefonata a un’amica di Parigi. Gibbal aveva lavorato come direttore di
ricerca al Centro Nazionale della Ricerca Scientifica, un
organismo di magnifica reputazione e qualcuno lì dentro doveva essere in grado di dire qualcosa. Conoscevo
la riluttanza dei funzionari di questi sussiegosi organismi
a fornire informazioni riservate di qualsiasi tipo e figurarsi a un non francese. Ma conoscevo anche la tenacia
della mia amica, giornalista di un famoso settimanale che
girava in auto per Parigi a velocità folle lungo itinerari
proibiti alle auto private, e quando veniva fermata dalla
gendarmeria, si scusava con la più formidabile faccia di
bronzo affermando di essere attesa a Palais Matignon. E
se si metteva in testa di avere una notizia, non l’avrebbe fermata nemmeno un battaglione di gendarmi.
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Accettò subito d’indagare su Gibbal come per una scommessa e dopo un paio di giorni mi chiamò a Roma, dove
ero già arrivato, dicendomi di essere riuscita a parlare
con il direttore per l’Africa del Centro, Jean-Pierre Dozon. L’approccio era stato cauto, e Dozon aveva dimostrato gentilezza e una disponibilità, almeno formale, raccontando che Gibbal era morto in due o tre settimane
per un tumore fulminante al cervello. A quel punto la
giornalista aveva accennato, sempre con molta cautela, a
certe dicerie africane, al fatto che potesse essere caduto
sotto influssi negativi, chiedendo cosa lui ne pensasse.
Contrariamente a quello che la mia amica si aspettava,
Dozon non aveva liquidato la cosa come un’idiozia, né
fatto commenti in un senso o in un altro. Dopo una
breve pausa aveva spiegato che Gibbal aveva tentato di
curarsi anche con i metodi tradizionali africani, risultati
purtroppo inefficaci come i metodi occidentali sperimentati in precedenza, perché la malattia era di quelle a
decorso rapidissimo. Poi aveva troncato la conversazione. Per ora è tutto quello che ho potuto sapere. Da allora mi sono successi tanti piccoli incidenti, non paragonabili nemmeno alla lontana con quello che è accaduto
all’antropologo, però molto sgradevoli e in un certo senso
maligni, che comincio a pensare che non ero io a essere stato sulle tracce di una storia. Era la storia che stava
sulle mie tracce.
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