luca schieppati - Università Bocconi

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luca schieppati - Università Bocconi
DIVISIONE STUDENTI
ISU BOCCONI
Cerimonia di premiazione dei vincitori dei premi di laurea
“FONDAZIONE ACHILLE E GIULIA BOROLI” 2012
Consegnano i premi
il Professor Francesco Saita, Dean Graduate School, Università Bocconi
la Dottoressa Marcella Boroli Balestrini, Vice Presidente della Fondazione
Concerto del pianista
LUCA SCHIEPPATI
Giovedì 18 aprile 2013 ore 21
Aula Magna Università Bocconi, Via Gobbi 5
WaVe – l’onda del bicentenario
Wagner e Verdi: brani originali, trascrizioni, omaggi
Programma
Prima parte
Richard WAGNER
SONATA per l’album di Mathilde Wesendonck
Giuseppe VERDI
ROMANZA SENZA PAROLE per pianoforte
VALZER per pianoforte
Gioachino ROSSINI/Franz LISZT LI MARINARI (“Sturm-Duett”), dalle Soirées musicales
Richard WAGNER/Franz LISZT
Ingresso libero fino
ad esaurimento posti.
Per informazioni:
DIVISIONE STUDENTI
ISU Bocconi
Piazza Sraffa 11
20136 Milano
tel. 02 5836.2147
Il calendario delle attività
culturali e sportive dell’ISU
e dell’Università Bocconi è
disponibile sul sito internet
www.unibocconi.it/eventi
SPINNERLIED da Der fliegende Holländer
Richard WAGNER/Carl TAUSIG WALKÜRENRITT
Seconda parte
Richard WAGNER/Franz Liszt
ISOLDENS LIEBESTOD
Carlo GALANTE
WALHALLA POSTCARDS (prima esecuzione assoluta)
Giuseppe VERDI/Franz LISZT
DON CARLO, CORO DI FESTA E MARCIA FUNEBRE
AIDA, DANZA SACRA E DUETTO FINALE
PARAFRASI DAL RIGOLETTO
In collaborazione con la
e con la
Furcht Pianoforti
Kawai in concerto
www.furcht.it
Luca Schieppati è concertista, didatta, organizzatore di eventi musicali.
Ha eseguito un vastissimo repertorio solistico e da camera, con particolare attenzione ad autori e
brani di rara esecuzione, anche su strumenti antichi. Vincitore di concorso per titoli ed esami, insegna
pianoforte principale presso il Conservatorio “Guido Cantelli” di Novara; a Milano cura la direzione
artistica dei concerti di Spazio Teatro 89, degli Spazi Scopricoop, del Concorso Internazionale
“Encore! Shura Cherkassy e del Concorso Nazionale” Coop premia la Musica.
Musicista onnivoro e polimorfo, insofferente a ruoli e schemi predefiniti, ritiene che la Musica possa
e debba far parte della vita di tutti. Vorrebbe che i concerti fossero momenti di incontro e di scambio
di idee capaci di suscitare più domande che risposte e a questo fine, con modestia e perseveranza,
si adopera da anni.
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WaVe - L’onda del bicentenario
Ha senso celebrare gli anniversari di autori conosciutissimi ed eseguitissimi come Verdi e Wagner?
Forse no, perchè inseguendo queste ricorrenze interpreti e direttori artistici finiscono spesso per
rinunciare a ogni originalità nella scelta dei programmi, appagandosi di una conformistica coazione a
ripetere il già noto. Ma forse sì, perchè, se preso per il verso giusto, ovvero con spirito critico e
propositiva intraprendenza, anche un compleanno può diventare feconda occasione per esplorare
con maggiore e diversa attenzione il catalogo degli autori festeggiati, alla ricerca di quei brani (e ve
ne sono sempre) che pur di pregevole fattura sono stati finora inspiegabilmente trascurati. Anche qui
occorre aver cautela, perchè dirimpetto al conformismo, come Scilla di fronte a Cariddi, sta il pericolo
opposto, che è l’eccentricità fine a se stessa, e dunque bisogna anche stare attenti a non trasformare
i concerti in noiosi inventari di partiture «riscoperte» e «rivalutate» che, alla prova dell’ascolto,
rivelano impietosamente quanto il nostro ardore apologetico fosse degno di miglior causa. Ciò
premesso, il programma qui proposto in ossequio al fatidico doppio bicentenario Wagner/Verdi (da
me in anglofono acronimo ribattezzato WaVe, in quanto evento che sta sommergendo la vita
musicale come uno tsunami, ma al quale auspico di riuscire a sopravvivere surfandone
musicalmente l’onda) vorrebbe saper conciliare le esigenze celebrative, con la presenza di alcune
indiscusse greatest hits verdiane e wagneriane; e quelle della ricerca e della curiosità, con brani la
cui bellezza contrasta con la rarità di ascolto e una novità in prima esecuzione assoluta.
La Sonate für das Album von Frau M.W. (1853), sinteticamente racchiusa in un unico movimento, è
musica di intensa espressività la cui calda, avvolgente eloquenza ci conquista anche a dispetto di
una veste strumentale a tratti ingenua (soprattutto se paragonata alle coeve conquiste della tecnica
pianistica: dello stesso anno è la Sonata in si minore di Liszt). La forma-sonata si articola in un
elegante disegno ad arco, ovvero con una riesposizione che inverte l’ordine di apparizione dei temi.
La sigla M.W. celebra ben più di quanto non nasconda il nome di Mathilde Wesendonck, moglie di
quell’Otto Wesendonck che ospitò Wagner a Zurigo quando vi giunse esule sotto minaccia di
condanna a morte in seguito ai moti di Dresda del 1849. Mathilde, come è noto, fu anche autrice
delle cinque poesie musicate da Wagner nei Wesendonck-Lieder nonchè, con la seduzione della sua
fresca e intrigante femminilità, musa ispiratrice del Tristano, così che il tono di colloquio sentimentale
di questa Album-Sonate ha anche il sentore di un amoroso segreto.
Ingresso libero fino
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Che Verdi non fosse un virtuoso della tastiera è risaputo, non fosse altro che per il fin troppo citato
episodio della bocciatura all’esame d’ammissione (come pianista) al Conservatorio di Milano.
I professori dell’allora imperial-regio Conservatorio forse esagerarono in severità, ma che in quel
giudizio ci fosse comunque qualcosa di plausibile ce lo illustrano le uniche due composizioni per
pianoforte solo del bussetano, entrambe presenti in questo programma: una Romanza senza parole
dedicata alla principessa Torlonia e datata 1844, la cui dolce, garbata cantabilità non è
adeguatamente sostenuta da una strumentazione elementare ai limiti della naïveté; e il Valzer in fa
maggiore (1858), pagina che, pur con la sua gradevole spigliatezza, sarebbe rimasta una curiosità
per pochi addetti ai lavori se non avesse trovato un insperato Pigmalione in Nino Rota, che nel 1963
la scelse come accompagnamento per i felpati passi di danza di Claudia Cardinale e Burt Lancaster
nel Gattopardo di Luchino Visconti.
Che ci fa Rossini in un programma dedicato a Wagner e a Verdi? L’apparente incongruenza trova le
sue ragioni nella versione per orchestra che del Duetto Li Marinari, ultimo numero delle 12 Soirées
musicales rossiniane (1835), approntò Richard Wagner nel 1838, evidentemente attratto dalla
romantica scena di tempesta descritta dal testo e animata dalla musica. La trascrizione lisztiana
(1837), tutta intessuta di ruggenti marosi di semicrome in rapidissime scale e arpeggi, pare più affine
alla vibrante riscrittura sinfonica del tedesco che non al più composto originale del pesarese.
Certo è difficile immaginare due prospettive estetiche più irrimediabilmente in antitesi di quelle di
Rossini e di Wagner. «Wagner ha buoni momenti, ma cattivi quarti d’ora», sentenziò Rossini con il
consueto, caustico umorismo; e Wagner a sua volta, pur più rispettoso, non manifestò mai verso
l’autore del Barbiere di Siviglia altro che un formale ossequio a una celebrità del passato.
Ciononostante, è innegabile il debito delle opere romantiche di Wagner, al pari di quelle di tutti i
compositori a lui coevi, Verdi in primis, verso l’arte di strumentatore e l’infallibile senso teatrale di
Rossini. Il Cigno di Pesaro, dunque, antenato in comune del Bussetano e del Lipsiense? Temo che i
musicologi non me la passerebbero, ma a me, rossiniano convinto, l’idea piace molto.
Le trascrizioni lisztiane da Wagner e da Verdi, pur manifestando in egual misura l’amore e la stima
per gli autori trascritti, denotano atteggiamenti diversi nelle concrete soluzioni adottate per
trasformare le partiture originali in brani pianistici: la musica di Wagner, densa di intrecci polifonici e
di armonie estremamente mobili e cangianti, si prestò a trasposizioni più letterali, ove eventuali
modifiche eran dettate dalla necessità di trovare una sintesi delle tante linee sovrapposte onde
renderle eseguibili dalle dieci dita di un pianista; laddove spesso la elementare struttura armonica e
la essenziale strumentazione verdiana posero a Liszt il problema opposto, ovvero quello di arricchire
e smussare sonorità altrimenti eccessivamente ruvide, per non dir brutali, sulle corde percosse del
pianoforte. Vero alchimista del suono, Franz Liszt seppe sempre assecondare entrambe queste
esigenze nel modo più efficace, restituendoci in ogni trascrizione l’essenza degli originali.
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Il Canto delle filatrici dall’Olandese volante (1843) è pagina di grande eleganza e leggiadria;
rientra nelle non poche rappresentazioni idealizzate, oleografiche del lavoro, soprattutto femminile,
sulla scena dell’opera, dove spesso i lavoratori, lungi dall’apparire affaticati e oppressi quali il più
delle volte sono, manifestano una sorta di garrula gioiosità nel compiere mansioni anche stancanti e
monotone. A parte la «scandalosa» eccezione della cortigiana Violetta, dovranno passare ancora
molti lustri prima che la sartina Mimì, o l’operaia Louise, o il soldato Wozzeck siano espressione non
solo di vicende individuali, ma anche dei rapporti di forza all’interno della società.
La trascrizione lisztiana (1860), nel conservare la festosa scorrevolezza dell’originale, vi aggiunge un
particolare brio toccatistico in virtù delle guizzanti terzine irte di note ribattute e di scarlatti ani incroci
delle mani.
Carl Tausig, talentuoso allievo di Liszt sottratto ai fasti di una luminosa carriera dalla prematura
scomparsa, aveva assimilato dal Maestro non solo il virtuosismo funambolico, bensì anche la
passione per la musica di Wagner, che manifestò in numerose, ben riuscite trascrizioni; quella dalla
Valchiria (1870) riguarda la celebre Cavalcata, brano il cui impeto ritmico e le cui magie di
strumentazione hanno di volta in volta suscitato gli entusiasmi del grande pubblico e le accuse di
caduta nel kitsch da parte di critici forse assai raffinati, forse semplicemente snob. Comunque la si
pensi, in un concerto dedicato a Wagner probabilmente questo esempio di pop ante-litteram non può
mancare.
L’ultima scena del Tristan und Isolde (1859/65, del 1867 la trascrizione lisztiana) è l’approdo di un
percorso armonico iniziato dalle ambigue armonie del Preludio (il cosiddetto Tristan-Akkord è una
sfinge anche per i più esperti teorici dell’armonia) e prolungatosi senza veri punti di riposo per tutta
l’opera, onde rimandare fino all’estremo l’appagamento di una vera cadenza conclusiva. Quando
questa finalmente giunge, la fusione tra simbolo musicale, immagine scenica e pensiero filosofico fa
sì che essa rappresenti una indissolubile unione tra estasi amorosa e dissoluzione dell’essere. Senza
nulla voler togliere alla musa Mathilde Wesendonck, capiamo qui come la fonte primaria di
ispirazione per questa vicenda di amore e morte sia stata per Wagner la filosofia di Schopenhauer.
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La Tetralogia wagneriana, si sa, è un universo mitologico dove è facile perdere l’orientamento, se
affrontato privi di un bagaglio di competenze storiche, estetiche, filosofiche, perfino antropologiche di
prim’ordine. Ma, al di là della ricchezza pressochè inesauribile di spunti extra-musicali (o forse
sarebbe meglio parlare di collegamenti con la musicalità profonda delle altre discipline; ma sarebbe
discorso troppo lungo, e impari alle mie forze), il Prologo e le tre giornate del Ring sono prima di tutto
una fucina di temi, motivi, colori, armonie che, come qualunque altro materiale musicale, si prestano
a essere osservati, catalogati e, perchè no, manipolati onde germinarne nuove composizioni. E
proprio questa è stata l’operazione compiuta, con la consueta perizia unita qui a una garbata ironia,
da Carlo Galante con le sue Walhalla postcards, una serie di brevi pezzi pianistici (ma ne esiste
anche una versione per violino e pianoforte) in cui alcuni Leit-Motive della Tetralogia vengono
utilizzati come punti di partenza per fantasiose elaborazioni, di volta in volta liriche, energiche,
sognanti.
Dei magniloquenti tableaux che compongono il Don Carlo (1867) Liszt sceglie il più grandioso e
terribile a un tempo, la scena dell'Auto-da-fè. Grandioso è il Coro di festa, che accompagna la pompa
del corteo regale; terribile il motivo di tanto giubilo, ovvero l’imminente rogo degli eretici condannati
dall’Inquisizione. La corona, la croce, il popolo acclamante: in un’unica scena Verdi ci mostra con
icastica veemenza come nessun potere, qualunque ne sia la legittimazione, abbia mai saputo
esercitarsi senza trascendere nella violenza. Liszt, fatta salva una Coda un po’ ridondante, trascrive
molto fedelmente la partitura verdiana, riuscendo a mantenerne la sontuosa veste sonora grazie a un
abbondante uso di raddoppi in ottave e accordi.
La trascrizione da Aida (l’opera è del 1871, del ’77 la trascrizione) si apre con le esotiche, suggestive
danze del I atto; poi, con un originalissimo «director’s cut», Liszt balza al Duetto finale del IV atto con
una tecnica di dissolvenza/assolvenza che (come acutamente osserva Rattalino riferendosi a
passaggi analoghi nella Sonatina super Carmen di Busoni) ha molta affinità con il montaggio
cinematografico. Dopo una prima, lineare esposizione, lo struggente commiato di Aida e Radames si
trasfigura in un ipnotico succedersi di fioriture finemente elaborate, la cui trasparenza anticipa il
liquido impressionismo debussiano.
Scritta nel 1859 e dedicata al pianista e direttore Hans von Bülow, in quell’anno ancora genero di
Liszt, la Parafrasi dal Rigoletto (1851) è tratta dal Quartetto del III atto, quello in cui il Duca di
Mantova intona il celeberrimo «Bella figlia dell’amore». La drammaticità della scena verdiana, i
contrasti di affetti tra chi sta dentro e chi fuori dalla taverna di Sparafucile, inevitabilmente si perdono
in questa brillante versione da concerto; ma, come sempre, Liszt riesce a supplire alla mancanza
della messa in scena con la teatralità di un virtuosismo fatto di repentini cambi di registro, eleganti
arabeschi di biscrome, arditi passaggi di terze, seste e ottave.
Luca Schieppati
Kawai in concerto
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