Gli spiriti non dimenticano

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Gli spiriti non dimenticano
LIBRO
IN ASSAGGIO
GLI SPIRITI NON
DIMENTICANO
DI VITTORIO ZUCCONI
Gli spiriti non dimenticano – Il mistero di Cavallo Pazzo e la tragedia dei
Sioux
DI VITTORIO ZUCCONI
A MINO, MIO PADRE
INTRODUZIONE
Nel 1804, quando la spedizione guidata dagli esploratori Lewis e Clark attraversò per la
prima volta l’intero continente nordamericano dall’oceano Atlantico al Pacifico, sul territorio
che oggi chiamiamo Stati Uniti viveva un milione di indigeni e galoppavano liberi almeno 50
milioni di bisonti.
Alla fine del secolo, quando il West fu vinto dagli emigrati europei, erano rimasti 1000
bisonti e 237.000 indiani. In 90 anni erano morti, in guerra o di malattia, il 75% degli indiani e
il 100% dei bisonti, che erano alla base della loro civiltà e della loro esistenza.
Fra le parentesi di questo doppio genocidio umano e animale sta la storia di una guerra,
di un popolo e di un uomo: la storia della invasione europea del Nordamerica, dello sterminio
dei Sioux delle Grandi Praterie del Nord e del capo guerriero che sacrificò la vita per
difendere il diritto della sua gente a vivere come aveva sempre vissuto, sulla propria terra:
Tashunka Uitko, Cavallo Pazzo, o Crazy Horse, come lo chiamavano i bianchi.
Per noi figli del secolo successivo, del XX secolo, che abbiamo imparato a conoscere gli
indiani nell’oscurità di una sala cinematografica o sulle pagine di fumetti sfogliati fino alla
consunzione, l’immagine di quei popoli e dei loro capi è sempre stata violentemente distorta
dalla fantasia commerciale dei registi e dei produttori di Hollywood. Dipinti prima come
«ombre rosse», come primitivi urlanti e assetati del sangue dei pionieri, e poi, dopo gli anni
Settanta, come vittime innocenti e mansuete della crudeltà imperialista dei bianchi, gli indiani
sono intrappolati negli opposti stereotipi costruiti dalla cultura dei vincitori. Marionette,
comparse, figurine di cartapesta plasmate e riplasmate secondo gli umori e le ideologie
mutevoli del pubblico. Il Sioux buono di Balla coi lupi, o la principessina melensa di
Pocahontas possono rispondere meglio alla nuova sensibilità, e ai nuovi rimorsi, di noi
bianchi, ma sono in sostanza altrettanto falsi e distorti dei Sioux cattivi con le piume in testa e
il tomahawk spacca cranio in pugno, impersonati da comparse messicane e raccontati dal
cinema in bianco e nero di John Ford, Errol Flynn e John Wayne.
Nella nostra foga di demonizzare gli indiani prima, e di beatificarli poi per espiare le
nostre colpe al modico prezzo di un biglietto di cinema, ci siamo dimenticati sempre di una
verità tanto ovvia quanto fondamentale: che i Sioux, gli Cheyenne, i Corvi, gli Aràpaho, gli
Apache, i Comanche, i Seminole e tutte le 500 nazioni indigene che popolavano il
Nordamerica prima dell’arrivo di Colombo non erano né santi, né poeti, né scotennatori, né
ecologisti ante litteram, ma erano semplicemente uomini. Esseri umani capaci di violenza e di
tenerezza, di ingordigia e di generosità, di odio e di amore. Padri e madri, mogli e mariti,
artigiani e cacciatori, guerrieri implacabili e fidanzatini timidi, secondo le circostanze
conquistatori e conquistati, nell’implacabile ciclo della storia umana che non risparmia mai a
nessun popolo la corona del martire e la spada del persecutore. Esattamente come i romani
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di Giulio Cesare, come i russi di Pietro il Grande, come gli zulu di re Shaka, o i mongoli di
Gengis Khan.
Per arrivare a questa piccola, ma essenziale verità, occorre dunque spaccare con il
piccone dello scetticismo e del racconto la crosta di stereotipi, di luoghi comuni e di formule
ideologiche nelle quali l’«indiano» è stato sepolto e chiuso. Senza la certezza di arrivare a
una «Verità», ma con la speranza di avvicinarsi almeno alle molte e complesse verità
dell’essere un indiano, un Sioux, nella seconda metà dell’Ottocento, quando sulla Prateria del
Nord si abbatté come un tornado il vento della conquista e della dominazione europea.
E nessuna figura, nessun protagonista di quel periodo, contiene tanto mistero, e dunque
promette tante scoperte, quanto quella di Cavallo Pazzo, il capo guerriero degli Oglala, una
delle sette tribù dei Lakota Sioux, Tashunka Uitko, come si dice nella sua lingua (ma neppure
il suo nome è assolutamente certo), appunto il lakota. La sua fama di implacabile sanguinano,
di cacciatore di scalpi e di nemico irriducibile dei bianchi, unita a quell’aggettivo «Pazzo», ha
terrorizzato ed eccitato per generazioni la fantasia, arrivando a incarnare, con il celebre
massacro di Custer e del 7° Cavalleria al fiume Little Bighorn, la quintessenza della
inconciliabilità fra «visi pallidi» e «pellerossa».
Il suo nome è diventato un famosissimo night club di Parigi, una marca di birra
particolarmente alcolica, ed è servito in più di un secolo a etichettare tutto quel che nel mondo
bianco sembrava essere bizzarro, stravagante, eccessivo. Un nome dai connotati sempre
sinistri, sempre inquietanti. Un nome che è una minaccia.
E stato dunque con enorme sorpresa di Uomo Bianco ignorante e accecato dalle bende
di questi luoghi comuni, che ho scoperto per caso, grazie a un improvviso attacco di mal di
schiena che mi ha costretto a letto per settimane e mi ha permesso di leggere libri che si
erano accumulati intonsi sul mio comodino, che questo guerriero morto giovanissimo non
soltanto era completamente diverso dalla immagine che il tempo e la cultura popolare mi
avevano trasmesso. Ma che egli era addirittura una figura di dimensioni sovrumane tra la sua
gente, un guerriero mistico, un leader spirituale che i Sioux tutti, e i suoi Oglala in particolare,
venerano oggi come un messia segreto, come un profeta, come uno spirito che ancora vive e
vola sulla Prateria del Nord e sulla desolata miseria degli indiani di oggi.
Dice uno storico americano, Stephen Ambrose, che non è mai l’autore a scegliere il
soggetto di una biografia, ma è il protagonista a scegliere il biografo. Non oso pensare che lo
spirito di Cavallo Pazzo abbia scelto me, dopo avermi colpito con un duro mal di schiena per
costringermi a leggere la sua storia. Ma una cosa posso dire, e mia moglie può confermare.
Dal giorno in cui ho aperto il primo libro su di lui, Tashunka Uitko è diventato per me una
fissazione, un pensiero costante, un incubo. Una presenza palpabile che mi ha spinto a
scrivere con una furia e una passione quali non avevo mai provate in tanti anni di lavoro
come scrittore.
Ho letto tutto quel che sono riuscito a trovare su di lui. Ho viaggiato nei luoghi della sua
vita, dove egli combatté e predicò e morì, fra le Colline Nere, i monti Bighorn, il territorio del
fiume della Polvere, i monti a forma di pan di zucchero del lontano West sui quali si ritirava
per meditare e cercare il dialogo con gli spiriti. Ho sentito il sibilo del suo fischietto di guerra,
ho cavalcato con lui nelle spedizioni contro i Corvi e gli Shoshoni, i nemici storici dei Sioux, e
ho affrontato il 7° Cavalleria che scendeva dalle sponde del Littie Bighorn verso il suo destino.
E ho capito perché le Chiese cristiane che mandano missionari cattolici e protestanti nelle
riserve indiane devono spesso, con rapidità e discrezione, richiamarli, per evitare che la
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intensa, travolgente spiritualità di quella gente converta loro, prima che loro riescano a
convertire gli «infedeli».
Ho «dovuto» scrivere la vita di Cavallo Pazzo. Ho dovuto scriverla come l’avevo capita,
come me l’avevano raccontata gli Oglala, e come credo sia davvero avvenuta, sfidando il
timore di sbagliare, di offendere la sua gente e il suo spirito.
Ora che l’ho finita, non so se sono riuscito a rendergli giustizia, se un poco di verità
umana sia uscita dalla crosta dei luoghi comuni, delle leggende e dalle pieghe di una storia
confusa, misteriosa, una sorta di Iliade sioux scritta con le parole e i ricordi di chi lo aveva
conosciuto. La documentazione e le testimonianze sudi lui sono insieme ricchissime e
incerte, come tutto quel che riguarda le nazioni indiane che non avevano storici né scrivani,
ma soltanto cantori, aedi, vecchi narratori. Testimoni oculari della sua vita sono morti da non
molti anni, come scopre con sorpresa chi per la prima volta affronti le guerre indiane
credendo di affrontare vicende lontane, quasi preistoriche. Invece l’ultimo superstite bianco
della battaglia del Littie Bighorn, un soldato tedesco del 7° Cavalleria, morì nel 1950, quando
in Italia stava per partire «Lascia o raddoppia?» e l’esercito americano doveva combattere in
Corea.
Moltissimo resta da scrivere e da capire su Cavallo Pazzo, sulle donne, gli uomini, la vita
dei Sioux sterminati dai bianchi e oggi costretti a vivere nella miseria e nell’elemosina da
quegli stessi bianchi che fanno i soldi su di loro, ma minacciano continuamente di negare
anche quel poco che danno: la riserva di Pine Ridge, dove vivono i discendenti del profeta
guerriero indiano, è, secondo le statistiche del governo americano, la zona più povera degli
interi Stati Uniti.
Molte altre verità rimangono da scoprire, su quest’uomo che soltanto ora emerge dalla
segretezza entro la quale gli stessi Sioux hanno sempre avvolto gelosamente il loro culto per
Tashunka Uitko, e io non ho la pretesa di avere scritto un libro di storia. A me basterebbe
sapere di avere dimostrato che lui non era né un «Cavallo», né un «Pazzo».
Aggiornata il giovedì 17 aprile 2008
Edizione Mondolibri S.p.A., Milano
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