Costituzione e pareggio di bilancio. Gli effetti della riforma

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Costituzione e pareggio di bilancio. Gli effetti della riforma
Costituzione e pareggio di bilancio.
Gli effetti della riforma costituzionale del 2012
sulla decisione di bilancio
Chiara Goretti
Il cambiamento di una Costituzione testimonia il momento in
cui un certo tema acquisisce una prospettiva di lungo periodo. Non
è un caso che, per argomentare l’esigenza della recente modifica costituzionale di bilancio, è stata spesso richiamata l’equità intergenerazionale, cioè il sovrapporsi, nel definire criteri che guidano le
azioni di oggi, di interessi che riguardano generazioni diverse. Dinamiche ed elementi proiettati nel tempo, appunto. Ed è, nel complesso, irrilevante se la proiezione intertemporale viene invocata per
sostenere la necessità di ridurre un debito lasciato in eredità a figli e
nipoti, o – per le ragioni opposte – evidenziare l’opportunità che alcune voci del bilancio siano finanziate con debito, perché dirette a
costruire un capitale di cui fruiranno anche le generazioni future.
Queste considerazioni suggeriscono quanto sarebbe utile affrontare con un’ottica di medio periodo il dibattito sulle recenti modifiche della Costituzione in tema di bilancio. Purtroppo, però, sembra che, da numerosi mesi a questa parte, il medio periodo sia precipitato, si sia schiacciato sull’oggi. Le tensioni sui debiti sovrani e la
crisi dell’euro hanno configurato una situazione che appare sull’orlo
dell’ultimo gradino prima di un vuoto di cui non riusciamo a vedere
la dimensione. In un contesto così instabile, discutere del principio
del pareggio di bilancio in Costituzione, confrontarsi sui temi dell’attuazione della nuova regola costituzionale rischia di appiattirsi
sullo snodo perverso della spirale dei debiti sovrano e del rallentamento economico, non riuscendo a distinguere tra problematiche
connesse con la situazione emergenziale e aspetti legati alla visione a
regime del nuovo disegno istituzionale.
Se si legge la riforma costituzionale con gli occhi della normalità, si potrebbe sottovalutare il quadro entro il quale è maturato il
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Fiscal Compact, il Trattato nel quale viene chiesto agli stati membri di
inserire il principio del pareggio di bilancio al massimo livello possibile, preferibilmente nella Costituzione. Se, invece, si sposta la visuale sul quadro odierno di crisi, la più forte e minacciosa dalla nascita dell’Unione europea, si rischia di essere influenzati dall’urgenza
di un percorso di crescita, che appare l’unica condizione per poter
riacquisire la fiducia nel futuro. Si inquadrerebbe quindi la modifica
costituzionale in un disegno a connotazione rigorista, peraltro lontano da quello che ha guidato l’evoluzione delle regole europee, cui
è ispirata quella nazionale.
Gli occhi della normalità ci farebbero, infatti, vedere una
riforma costituzionale che si ispira a parametri e concetti introdotti
con il Patto di Stabilità e Crescita nel 2005, il cui obiettivo era quello
della sostenibilità, di disegnare una regola «non stupida», che consentisse di avere un pareggio over the cycle, cioè chiedesse di realizzare un saldo di bilancio che – in relazione al ciclo – oscillasse intorno allo zero, consentendo disavanzi nei periodi cattivi, ma richiedendo avanzi nei periodi buoni. Quindi un disegno istituzionale che
vorrebbe i paesi posti, nello svolgimento della propria politica fiscale, in una «fascia di sicurezza» (il pareggio strutturale), aspetto
che consentirebbe nei tempi cattivi di lasciar operare gli stabilizzatori automatici o anche fare politiche espansive, senza superare la fatidica soglia del 3 per cento del rapporto tra indebitamento netto e
prodotto interno lordo sin dall’inizio richiamato nel Trattato di Maastricht. E l’esempio di alcuni paesi, come la Svezia, è illuminante: arrivati alla crisi economico-finanziaria del 2009 in una posizione di
pareggio o di surplus, proprio per questo, sono stati in grado di
adottare (stessa cosa, un po’ più modesta, è prevista nel 2012) politiche decisamente espansive per fare fronte alla crisi economica; quegli stessi paesi hanno però mantenuto un disavanzo nominale ben al
di sotto della soglia del 3 per cento. Quindi regola di equilibrio strutturale che, applicata ad una situazione di normalità, ha l’obiettivo di
consentire ai paesi di superare, in un quadro di sostenibilità finanziaria, fasi di crisi e rallentamenti economici.
Ma seguendo la linea della normalità, si rischia di non cogliere
pienamente il senso del cambiamento costituzionale, accelerato dagli
eventi che hanno caratterizzato l’evoluzione del quadro europeo negli ultimi anni. È verosimile che senza l’acuirsi della crisi dei debiti
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sovrani non si sarebbe discusso di riforme costituzionali; magari oggi
parleremmo di quelle stesse regole, il pareggio strutturale o le regole
sulla spesa, ma per inserirle nella legge di contabilità o realizzarle attraverso modifiche ai regolamenti parlamentari. Del resto, lo stesso
intreccio convulso degli strumenti europei che si sono susseguiti per
far fronte alle crescenti tensioni nell’area euro, vede il tema delle regole fiscali inizialmente contenuto in una direttiva (relativa ai quadri
di bilancio) facente parte del set di documenti che prese il nome del
six pack; indicatore del fatto che le procedure di bilancio e l’adattamento degli ordinamenti interni al sistema di regole europee erano
considerate – tra il maggio e l’autunno 2010, quando maturò appunto il six pack come risposta delle istituzioni comunitarie alla crisi
del 2008 e 2009 – materie da lasciare alla attuazione degli stati membri, nell’ambito di principi comuni europei.
Se la crisi economico-finanziaria del 2009 portò al six pack,
quasi simultaneamente, dal maggio 2010, la crisi di debiti sovrani rilanciò il tema su un piano diverso, ponendo sugli stati membri una
crescente pressione affinché modificassero i propri ordinamenti per
incorporare le regole europee, preferibilmente nel rango costituzionale, se possibile in fretta. Senza voler risolvere semplicisticamente il
senso della riforma in discussione, la sollecitazione a modificare le
Costituzioni sembrerebbe riflettere un appello agli stati membri a
rafforzare la credibilità del modello comune di responsabilità fiscale;
ricorrendo allo strumento più simbolico degli ordinamenti democratici, si ricercherebbe l’impegno solenne di ciascun paese, il più solenne possibile, di una rinnovata promessa del decisore politico a garantire un percorso di sostenibilità delle finanze pubbliche, condizione necessaria per la condivisione di una moneta comune.
Principio di sostenibilità che del resto non è una novità portata
della crisi, nè una invenzione di Maastricht. L’articolo 81 della Costituzione testimonia di una componente culturale del nostro paese che
aveva ben presente tale principio. Dal 1988, con l’introduzione del
Documento di programmazione economico-finanziario, la normativa
di attuazione dell’articolo 81 Cost. prevede che la decisione annuale
di bilancio si apra con il voto sul saldo di bilancio (deliberato nell’ambito del quadro di sostenibilità pluriennale) all’inizio dell’esame
del disegno di legge finanziaria. Una rivoluzione copernicana da cui
deriva il vincolo sulla decisione di spesa e di entrata successiva. Sofi-
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sticato sistema di procedure (potrebbe essere definito avveniristico)
che, nell’applicazione concreta, purtroppo non sembra aver prodotto un cambiamento di direzione tale da impedire l’accumulo del
debito in relazione al PIL.
Uno degli elementi che emerge nelle prime valutazioni sull’attuazione della riforma costituzionale è l’elemento di continuità, dal
punto di vista degli strumenti, con lo schema disegnato nel 1988 e
integrato successivamente nel 2009. Le modifiche all’articolo 97
Cost, con il rinvio ad un equilibrio per le amministrazioni pubbliche
definito in coerenza con l’ordinamento europeo, implicano un quadro procedurale in linea e coerente con quanto si è venuto definendo
nell’ordinamento interno con l’integrazione di Maastricht e del Patto
di stabilità e crescita. Guardando al vigente framework fiscale, la novità non sarebbe negli strumenti, quanto nel contenuto dei documenti, cioè nel fatto che gli obiettivi programmatici dovrebbero essere in linea con le regole europee, cioè tali da garantire il pareggio
strutturale del conto consolidato delle amministrazioni pubbliche. In
alcuni anni si avrà un surplus (se l’output gap e positivo), in altri un
disavanzo (se l’output gap è negativo), over the cycle vi sarà un equilibrio.
Le procedure di bilancio attualmente vigenti richiamano un
saldo obiettivo relativamente aperto, mentre vincolano in misura
maggiore – con il principio di copertura – le misure contenute nella
legge finanziaria e le leggi in corso d’anno, cioè le decisioni al margine. Il saldo obiettivo è potenzialmente aperto, anche il sistema di
regole interno è già sostanzialmente integrato con i limiti numerici
previsti dalle regole europee, sin dal 2005 individuati nel pareggio
strutturale del conto economico delle pubbliche amministrazioni. Il
nuovo quadro costituzionale supera definitivamente la visione di
margine e sposta il vincolo in modo deciso e più esplicito, sul saldo
complessivo. La regola di pareggio – al di la del numero che essa riflette – diventa un modo per condizionare la dinamica tendenziale
della finanza pubblica agli obiettivi di saldo.
Il mantenimento del pareggio di bilancio over the cycle, senza ricorso a nuovo debito se non in casi particolari, consente anche di affrontare, in una prospettiva di lungo (forse lunghissimo) termine, la
questione italiana del debito pubblico, il cui rapporto sul PIL è uno
dei più alti al mondo e il secondo nell’UE dopo la Grecia. Il rispetto
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della regola del pareggio di bilancio evidenzierebbe una progressiva
discesa del rapporto debito su PIL, avvicinandosi lentamente alla fatidica soglia del 60 per cento. I tempi effettivi dipenderebbero da
elementi noti all’analisi economica e, in particolare, dalla crescita
dell’economia e dal costo del debito. In linea generale, i commentatori sottolineano che in condizioni normali, la regola del pareggio è
«dominante» rispetto alla regola sul debito introdotta dal six pack,
ovvero in condizioni normali di crescita e di rendimenti, il mantenimento del pareggio consentirebbe anche di realizzare la riduzione di
un ventesimo dell’eccedenza media del debito di un paese rispetto
alla soglia-limite dei trattati europei.
La lentezza del percorso di riduzione riflette la natura non
emergenziale della regola del pareggio quale strumento per l’abbattimento del rapporto debito/Pil, una condizione necessaria in un percorso di consolidamento, ma forse non sufficiente; accompagnare
tale regola con quei piani di valorizzazione dell’attivo che in più occasioni sono stati invocati, consentirebbe di liberare immediatamente
risorse oggi impegnate nel servizio del debito per riqualificare le politiche pubbliche nella direzione dello sviluppo.
Percorso di discesa del rapporto debito/Pil la cui continuità dimostra anche che il vincolo di pareggio rappresenta – in una prospettiva molto lunga – una transizione verso un qualche cosa che
oggi non vediamo (o forse iniziamo a intravedere), che potrebbe essere chiamato integrazione europea o gli Stati Uniti di Europa. Ancora una volta, nel commentare la modifica costituzionale, la normalità di un disegno di lungo periodo si mescola con l’emergenzialità
della situazione, il quadro interno si sovrappone alla evoluzione europea, rendendo lo scenario molto complesso da decifrare. Il vincolo
del pareggio strutturale implicherebbe, infatti, una lenta discesa del
rapporto del debito sul PIL verso la soglia del 60 per cento e, verosimilmente, anche al di sotto, prefigurandone un progressivo abbattimento. Ma se ciò avvenisse per tutti i paesi europei, vi sarebbe un
volume sempre più limitato di titoli pubblici in circolazione e i mercati finanziari perderebbero un benchmark importante. Alcuni analisti hanno evidenziato le difficoltà che si manifestano nel funzionamento di un sistema finanziario (sia per i mercati finanziari, sia per il
sistema bancario) in caso di assenza di un significativo volume di debito pubblico i cui rendimenti sono considerati dagli operatori come
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privi di rischio. Potrebbe quindi esserci un momento – sia pure in un
futuro molto lontano – nel quale i mercati stessi chiederanno altro
«debito»; ma forse non più quello degli stati nazionali, che ha mostrato di essere potenzialmente [più] rischioso, quanto quello emesso
da un’altra entità sovrana credibile. Si inizierebbe a vedere la prospettiva dell’utilità di emissioni coordinate a livello europeo, un
primo passo appunto verso gli Stati Uniti d’Europa.
La riforma della Costituzione, con la modifica degli articoli 81 e
119, poi affronta gli aspetti più propriamente interni di come il principio del pareggio debba essere articolato per il bilancio dello Stato
e per le autonomie territoriali.
Per il primo, il nuovo articolo 81 stabilisce che il principio dell’equilibrio tenga conto degli effetti del ciclo. La componente ciclica
calcolata per il complesso della PA influisce sui valori programmatici
del bilancio dello Stato, il quale, in linea con la teoria di Musgrave
(secondo cui la stabilizzazione economica è una funzione del livello
centrale), provvederà a compensare, mediante trasferimenti, la parte
della componente ciclica che si manifesta sugli altri enti. Lo schema
non è molto diverso da quello già vigente in alcune relazioni finanziarie tra livello centrale e autonomie, ad esempio per la spesa sanitaria per la quale la variabilità dell’IRAP viene compensata da maggiore compartecipazione dell’IVA al fine di garantire i livelli essenziali delle prestazioni.
Con riferimento alle autonomie, la Costituzione declina l’equilibrio dei bilanci in due direzioni: una si potrebbe definire orizzontale,
l’altra verticale. La prima prevede che un ente possa indebitarsi solo
per effettuare spesa in conto capitale (come anche nella Costituzione
previgente), a condizione che sia previsto un corrispondente piano di
ammortamento, quindi a condizione che negli anni successivi sia in
grado di ripagare il debito. Si tratta di un principio già previsto nella
contabilità degli enti territoriali, ora declinato in modo decisamente
più esplicito. La seconda direzione, quella verticale, è un leitmotiv
del dibattito recente sulla finanza locale, richiamando concetti alla
base delle misure di regionalizzazione del patto di stabilità interno.
Ci sarà bisogno di disegnare meccanismi di compensazione e coordinamento tra gli enti del territorio di una stessa regione, ma, almeno
ad un primo esame, dal punto di vista delle procedure e degli strumenti, si tratta di aspetti limitatamente innovativi.
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La descrizione fatta, forse un po’ provocatoriamente, derubrica
le modifiche costituzionali ad una sistematizzazione di regole vigenti,
riducendo l’innovatività della legge costituzionale appena votata. Ma
se le nuove regole sono così in linea con gli attuali strumenti, occorre
domandarsi dove e come l’approvazione della legge costituzionale
solleciti il ripensamento delle procedure di decisione di finanza pubblica. Nel riflettere su questo punto, la sfida viene dalla attenzione
che l’apparato di regole (che viene dalla UE e che è stato inserito
nella nostra Costituzione) ha sui risultati. Le regole di equilibrio si
applicano anche ai consuntivi, non solo ai valori programmatici presentati nel DEF o ai provvedimenti adottati in corso d’anno. Questo
aspetto – che si tende a sottovalutare – sarà quella che produrrà un
reale cambiamento. Quali implicazioni emergeranno nella gestione
di un ente locale, se non potrà più stimare in modo ottimistico gli
oneri concessori per chiudere il bilancio con il quadro delle proprie
politiche pubbliche. Cosa cambierà nel funzionamento di un ministero che non ha ancora internalizzato il vincolo di bilancio ed è
aduso a procedure di riconoscimento di debito o accumula ritardi di
pagamento.
Il cambiamento dovrebbe essere riflesso da una diversa prospettiva su una serie di punti. Primo, privilegiare una visione aggregata del bilancio e della sua gestione, ma svolgere un monitoraggio
attento sui singoli settori e programmi di spesa. In fase di gestione
un disallineamento positivo può essere compensato da uno negativo;
gli errori di previsione devono però essere capiti e corretti. Un coerente visione di disciplina fiscale deve saper integrare l’analisi aggregata e quella di margine. Secondo: gli strumenti di monitoraggio in
corso d’anno devono essere resi incisivi: le banche dati, il siope, il
monitoraggio del patto di stabilità interno, sono strumenti ancora
non pienamente operativi. Non si può fare monitoraggio tempestivo
se non si hanno basi informative qualitativamente adeguate. Terzo:
l’analisi di consuntivo dovrebbe diventare la base del nuovo processo
di previsione, con un apprendimento evolutivo che consenta di disegnare migliori politiche sulla base dell’evidenza di quelle attuate in
precedenza. Quarto: è necessaria una più rigorosa organizzazione
delle priorità, di fronte ad un quadro completo delle esigenze finanziarie degli esercizi successivi; l’adozione quindi di strumenti quali
ad esempio le previsioni a politiche invariate che consentano di avere
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un quadro chiaro delle esigenze degli esercizi successivi; un quadro
esaustivo di obiettivi, risorse e risultati sulla base del quale il decisore
indica il quadro delle priorità. Quinto: il superamento dell’attuale
frammentazione decisionale; forse è l’occasione per andare verso
modelli decisionali sul bilancio più simili a quelli degli altri paesi, un
quadro finanziario deliberato nella sessione di bilancio, al di fuori
della quale si attuano le politiche, ma tendenzialmente non si modifica (se non in situazioni eccezionali) l’allocazione decisa inizialmente.
Sulla capacità di attuare alcuni di questi punti influiranno gli
strumenti che devono essere disegnati nell’attuazione della riforma
costituzionale. L’organismo indipendente, o fiscal council, dovrebbe
essere destinato a rafforzare il quadro previsivo e di conoscenza ex
ante, attraverso il monitoraggio del rispetto dell’applicazione delle
regole fiscali. Gli strumenti di compensazione – il meccanismo automatico di correzione e il conto di controllo – dovrebbero incentivare
una gestione del bilancio in linea con i target predefiniti. I modelli
sanzionatori dovrebbero ricercare la convergenza tra il principio di
giustiziabilità dell’analisi giuridica e il principio disincentivante proprio dell’analisi economica. Sull’attuazione saggia di questi dettagli si
gioca la credibilità dell’impegno alla responsabilità fiscale preso dal
Paese con la modifica costituzionale.