il grande fiume della vita

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il grande fiume della vita
Giuliano Plodari
IL GRANDE FIUME
DELLA VITA
Prefazione di
Cristiana Vettori
Edizioni
Helicon
Angilì
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Angilì (Angelino) per guadagnarsi da vivere faceva il cardatore e lo faceva da quando aveva dodici anni.
Conseguita la licenza elementare senza bocciature, suo padre lo costrinse a ripetere la quinta perché, sebbene a quei
tempi l’ingresso nel mondo del lavoro, seppur pochissimo
remunerato, per i ragazzi era precocissimo, ma dodici anni
erano davvero troppo pochi.
Fu il trenta il suo primo anno di apprendistato al seguito
del padre.
Incrociavano la campagna col carretto costituito da due
ruote di bicicletta grossolanamente connesse da quattro
tubi di ferro e un timone ricurvo agganciato alla Bianchi
nera e cromata che, insieme al cardatore di legno e una
scatola di latta contenente un lungo ago ricurvo e un gomitolo di corda da salame, costituiva tutta la loro attrezzatura.
Suo padre era un vero melomane e conosceva a memoria
tutte le più belle opere, ma solo le parti di tenori e baritoni
perché, non sapendo leggere e non capendo quasi mai gli
strilli dei soprani, per lui i libretti erano del tutto inutili.
Lui se ne stava comodamente seduto rivolto all’indietro sul
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carretto mentre suo padre pedalava per strade polverose e
sconnesse, quando non minate da pozzanghere e pantani,
cantando, con voce sorprendentemente possente in quell’ometto scarno e dal pomo d’Adamo prominente quanto il
naso aquilino, le sue romanze alzando o abbassando il volume a seconda che si fosse in aperta campagna
o nei pressi di abitati.
Per non lasciare incomplete le esecuzioni gli interventi del
soprano li fischiava o li scandiva ripetendo la stessa sillaba
in falsetto. Quando il canto si faceva meno fluido balzava
dal suo posto, privilegiato quanto quello di un principe,
e spingeva il carretto sprofondando gli stivali alti fino al
ginocchio nel fango che impegnava suo padre fino a comprometterne l’ammirevole intonazione.
Adempiuta la sua competenza, balzava sul convoglio in movimento e riprendeva il suo posto a guardare con meno
apprensione ciò che s’erano lasciati alle spalle.
La loro tournée era sempre la stessa da quando suo padre
aveva ereditato “l’azienda” dal suo.
Raggiungevano cascine nascoste tra platani e robinie e ravvivate da orde di bambini scalzi di ogni età.
Lavoro per loro ce n’era ogni anno.
Scucivano e svuotavano materassi a strisce diseguali e imbottiti di lane vecchie quanto l’umanità.
Mentre le rotonde e indaffarate massaie lavavano le federe
che portavano le tracce di urine di bambini...e vecchi, Angilì, col sussiego di un decoratore, “sgarzava” (cardava) grumi di peli ingialliti e maleodoranti con la sua “macchina”,
antica ma assolutamente attuale in quel contesto.
Suo padre se ne stava seduto su sgabelli a tre piedi alti quan-
to un secchio rovesciato a conversare, spesso con voce sommessa, con le povere donne stiracchiate a destra e manca,
come una scrofa durante la poppata, da bambini impazienti
e piagnucolosi.
Ad Angilì risultava incomprensibile come spesso le risate
delle poverine si tramutassero in pianti faticosamente contenuti.
Suo padre non parlava molto, raramente le interrompeva
con osservazioni a lui incomprensibili, ma quasi sempre il
pianto era prologo al sorriso.
La ricomposizione dei materassi era esclusivo compito del
genitore che, ridistribuita la lana all’interno del saccone risorto a nuova dignità dopo l’energico lavaggio, ne cuciva l’imboccatura e riprofilava i perimetri accentuandone
i contorni con una robusta imbastitura di corda da salame
servendosi dello spillone ricurvo.
Piccoli batuffoli di lana contrapposti e connessi da un filo
doppio ridavano ai materassi la sagoma originale.
La notte dormivano su mucchi di fieno o paglia per non
creare alle povere donne ulteriori disturbi che una scodella
di minestra e un piatto di pietanza, spesso più generosa di
quanto le loro condizioni suggerissero.
Al sopraggiungere della brutta stagione tornavano a casa fiduciosi che Diego, il primogenito ormai stabilmente occupato e virilmente autoritario, avesse assicurato alla madre e
alla sorella minore la stessa serenità che aveva loro procurato
l’organizzato randagismo.
L’intero inverno era addirittura superfluo per soddisfare le
richieste dei paesani e finiva per appesantire i loro cuori di
una inconfessabile nostalgia.
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Ne aveva sedici di anni, Angilì, quando l’unica macchina
che avevano incrociato quel giorno sbucò da dietro la curva resa cieca dal granturco e li investì senza l’accenno di
una frenata, del resto inutile sul pietrisco polveroso, scaraventandoli nel ruscello che scorreva parallelo alla stradina.
Suo padre si schiantò, troncando il “nadir” più acuto della
sua intonata esistenza, con la testa protesa in avanti contro
il massiccio radiatore del veicolo e vi rimase rannicchiato
come il soldato del monumento in bronzo davanti al municipio.
Lui ne uscì con una storpiatura definitiva conseguente alla
frattura multipla di bacino e femore.
Per questo avrebbe pedalato per tutta la vita sulla Bianchi
nera e cromata con la staffa destra più corta di tre dita.
Fortunatamente dall’impatto “l’intera attrezzatura ne uscì
integra e perfettamente funzionante!”.
Il “giro” Angilì lo conosceva bene da anni ormai, come
pure la “professione”, ma non conosceva le alchimie con
le quali suo padre tramutava in allegria i pianti delle miserande madri confinate nei più sperduti tuguri, tali erano
spesso, della sconfinata pianura frequentata più dai fortunali che dai civili.
E allora, dov’era il dubbio?...non sapeva fare altro!, raddrizzatosi riprese il suo tour da dove s’era interrotto.
Inizialmente le massaie esitarono nel confessare; sì confessare perché per loro quel ciclico sfogo equivaleva ad una
confessione, che ti illude di sbarazzarti di tutte le colpe
sebbene ciò non sia vero perché anche se si azzera il con- 14 -
tachilometri parziale il totale non cala di un metro, i loro
crucci ad un ragazzino che avrebbe potuto esser loro figlio,
ma alfine gliene riconobbero la dignità come si fa con un
pretino.
Allo stesso modo lui stesso intuì che il suo ridar forma e
dignità a quei materassi che avevano partecipato, conservandone traccia, a nascite, amori, malattie e morti equivaleva ad una assoluzione benché, come prima accennato,
tale non sia.
“Risuolando l’unico paio di scarpe”, pensava lui, “non si
cancellano tutti i passi, in salita o in discesa, su tappeti o
in letamai, con esse percorsi...la vita è una come il “giroditalia”, non importano gli arrivi di tappa...i distacchi si
misurano alla fine”.
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Rosi aveva tre maschi e una femmina, la più piccola, di
sedici anni e un’avvenenza conturbante.
In realtà di figli Rosi ne aveva partoriti sei ma i primi
due le morirono ancora in fasce divorati dalla diarrea prima che un inaffidabile “striù” (letteralmente “stregone”)
le suggerisse, poiché lei di latte non ne aveva, di allevare i
neonati col latte mastitico, che non mancava mai nella loro
mandria.
Smentendone la fama di ciarlatano, la cura dello stregone
funzionò perfettamente e i quattro successivi parti produssero tre marcantoni e una ninfa che tutti le invidiavano.
Purtroppo la sua storia non si esauriva qui, e nemmeno le
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sue pene.
Il marito s’era infilzato un piede con un chiodo arrugginito
sporgente da un asse marcia e il tetano l’aveva fulminato
impedendogli di conoscere l’ultima nata.
Rimasta sola coi quattro figli, il più grande dei quali non
ne aveva che sei di anni, si prese in casa il primo “famèj”
(famiglio) che si presentò col fagotto appeso al bastone appoggiato sulla spalla a mo’ di basto, e da quel momento il
suo sentiero si inerpicò ulteriormente.
Quell’uomo era troppo giovane, mormorarono i paesani,
perché non rappresentasse un rischio per una vedova trentenne.
Infatti il rischio si materializzò ancor prima del previsto.
Bello e sfrontato, il famiglio si “impadronì”, senza incontrare resistenze, sia del podere che del cuore della frastornata
proprietaria nel breve volgere di una stagione.
Dall’esterno non si poteva vedere quanto Rosi si fosse ridotta succube di quel giovane altezzoso ed insolente, ma
non sfuggiva ai sospettosi osservatori le di lui evoluzioni
intorno a quasi tutte le più appariscenti ragazze del circondario.
Fu quando l’ennesima maternità della sventurata vedova si
fece evidente, che il ragazzo incominciò a mostrare il suo
vero animo.
Ne scoraggiava le attenzioni da innamorata irritandosi fino
a colpirla ed insultarla terrorizzando i piccoli, angosciati dal
clima di continua ostilità che aveva reso la loro casa un luogo di infelicità.
Una notte non lo si sentì rientrare, ubriaco e fracassone
come quasi sempre, ne mai più rientrò.
Rosi si ritrovò di nuovo sola e con un altro figlio in grembo.
Fu la generosa e numerosa famiglia dei vicini a riportarla a
riva scampandola ad un tragico naufragio, perché a turno i
cinque giovanotti si occuparono della stalla e tutti insieme
falciarono i fieni e zapparono il granturco.
La femminuccia nacque e morì di dissenteria, nemmeno la
madre era certa di non averne rimorso, come i due primi
nati.
Adesso la ormai quasi cinquantenne vedova, oltre all’assoluzione, elemosinava da Angilì una parola di conforto e
speranza per il suo secondogenito che da troppi mesi non
mandava notizie dal fronte russo: “Manteniamoci ottimisti...fino ad ora le cose si sono sempre sistemate in qualche
modo...la speranza è l’ultima a morire”, se l’era cavata con
una frase fatta, l’inesperto confessore, e lanciando un’occhiata pregna del suddetto universale balsamo alla confondente giovanetta sua figlia.
“Birbante”, sbottò, avendone notato il turbamento, Rosi,
“sei troppo giovane per queste cose tu”, e proruppe in una
sussultante risata.
“La confessione ha funzionato”, pensò Angilì mentre la
mortificazione per la sua menomazione gli estirpava dal
cuore, come un sudore freddo, la sua di speranza.
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La “sciura” Adelaide di peccati non ne aveva da confessare,
per lo meno non di gravi, a suo dire.
In poche parole si lamentava di non avere di che lamen-
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tarsi.
Suo marito possedeva una ben avviata fabbrica di attrezzi
per l’agricoltura; la sua unica figlia, laureatasi in farmacia,
era maritata ad un suo collega che, acquisita la laurea, aveva prontamente affiancato il padre nell’avviata farmacia in
pieno centro del capoluogo.
Da sei mesi le aveva annunciato di essere in stato interessante e il parto era ormai imminente:“Purché non si illuda
di sbolognarlo a me, lei lo fa e lei se lo tiene...come m’è
toccato a me!”, sbottò, agitando il dito ad una spanna dal
naso di Angilì, due settimane prima che nascesse.
“Parole sante”, la chetò lui, “mia madre ci ha allevati tutti
e tre senza nemmeno la presenza di mio padre...chi li fa se
li tiene...parole sante”, rincarò la dose provocando sul bel
viso della “sciura” una ruga di fierezza che prontamente si
sciolse in un grugnito di soddisfazione.
Ovviamente il puntuale rifacimento dei quattro materassi era solo un pretesto perché l’unico letto regolarmente
usato, in quella palazzina sfarzosa era, quello matrimoniale
della loro camera, che oltretutto era dotato di più moderni
materassi a molle.
La seconda camera per i figli e quella degli ospiti, dalle
quali venivano quei quattro cuscinoni gonfi come sofà,
non avevano mai ospitato alcuno.
Comunque il lavoro andava eseguito con la stessa scrupolosità e il lecito compenso perché l’assoluzione pretendeva
una penitenza per essere tale.
La penitenza sarebbe stata irrisoria se adeguata alla venialità delle mancanze confidate in prima istanza ma, allorché
Angilì si accinse a ricucire uno a uno i quattro “pretesti”,
l’Adelaide, un po’ meno signorilmente, si abbandonò ad
una confidenza accessoria nella quale raccontò di una passione giovanile mai del tutto sopita, “Né spiritualmente
né materialmente”, si lasciò sfuggire cercando negli occhi
del confessore uno scintillio di compassione, se non complicità.
“Siamo fatti di carne, ahi noi”, l’assolse constatando quanto sia malleabile l’umano spirito.
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Ancilla, trentenne e belloccia, coi lunghi capelli rossicci
immancabilmente e impeccabilmente raccolti in uno chignon che la rendeva più alta dello stipite dell’ufficio postale, in quanto unica impiegata del suddetto ufficio era,
col prevosto, il segretario comunale, il medico condotto
e il farmacista, una delle cinque persone più eminenti del
paese.
Ci sarebbe di che bearsi ma, “a volte il destino!”, non ti
si era innamorata di Palmiro? Un ottimo lavoratore che
sapeva far di tutto ed a tutto si adattava, fin dall’età della
cresima.
Parrebbe un’ulteriore fortuna ma purtroppo quando, a
guerra finita, per tutte le ragazze col corredo pronto da
anni e tutte le altre smaniose di metter su famiglia, ogni
sabato era giorno di matrimoni: “Non ti era diventato comunista sto cristo?!”, lamentava la poverina: “sì!...comunista!...peggio!...marsista!”. Lei avrebbe voluto che il velo
nero e traforato che aveva in testa al vespro fosse il “cap-