La riformulazione delle domande suggestive

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La riformulazione delle domande suggestive
Fondazione Guglielmo Gulotta
di Psicologia Forense e della Comunicazione
La riformulazione delle domande suggestive nell’esame
incrociato
Silvia La Spina
Tutor: Valentina De Michele
Docente di riferimento: Prof. Guglielmo Gulotta
2010
ABSTRACT
Le domande suggestive, vietate dal c.p.p. nell’esame diretto, possono essere riformulate?
Il presente lavoro indaga i meccanismi neuropsicologici che stanno alla base della comunicazione
nel processo penale, in cui la retorica costituisce il tramite attraverso il quale gli attori giungono alla
rappresentazione della realtà.
In un’ottica che considera l’emozione un elemento cardine della comunicazione, la ri-formulazione
delle domande suggestive mostra la propria natura di ponte tra la soggettività degli attori e la
ricostruzione della possibile verità.
1
INDICE
Introduzione
Domande suggestive e domande nocive
Suggerire domandando
La retorica
• Le origini e lo sviluppo
Convinzione e persuasione
Persuasione e processi decisionali
• Phineas Gage e i suoi moderni epigoni
La retorica nei processi decisionali
La lettera della norma e la giurisprudenza
Le posizioni in dottrina
Il mondo e la sua rappresentazione
Rimozione e analisi
La riformulazione della domanda suggestiva
Conclusione
2
INTRODUZIONE
“Concentrati ora!” – disse Tamerlano al prigioniero che aveva appena finito di interrogare. “Stai
bene attento: tu vedi in questa stanza due porte chiuse sorvegliate da due soldati che, come
dimostrano i loro abiti, appartengono a due diverse tribù. Una delle due porte dà direttamente sullo
stagno dei coccodrilli; dietro l’altra sono pronti un cavallo sellato, una borsa di denaro e un
salvacondotto. Per decidere da quale porta uscire, se verso la salvezza o verso la morte, puoi fare
un’unica domanda a uno di questi due uomini, e comportarti di conseguenza. Un ultimo
avvertimento: di questi due soldati, uno dice sempre la verità, l’altro sempre il falso.”
Il prigioniero, un mercante greco tutt’altro che stupido, dopo aver meditato per qualche secondo,
s’inchinò con deferenza di fronte al feroce conquistatore e, con un sorriso di malcelato
compiacimento, si avvicinò a uno dei due soldati scegliendolo a caso, e gli domandò: “Se io
chiedessi al tuo compagno qual è la porta verso la salvezza, quale delle due porte mi indicherebbe?”
Avuta la risposta, il mercante aprì la porta opposta a quella che gli era stata indicata, balzò in sella e
se ne andò.
Da bravo levantino aveva ragionato in fretta: se il soldato al quale si sarebbe rivolto fosse stato
quello veritiero, costui gli avrebbe mostrato la porta che si apriva sullo stagno dei coccodrilli,
perché è quella che gli avrebbe indicato il bugiardo; ma anche se la domanda fosse stata rivolta a
quest’ultimo, la porta indicata sarebbe stata la medesima, cioè quella contraria all’uscita che
avrebbe indicato il soldato veritiero.
Il rompicapo appena illustrato mostra come la domanda, in qualsiasi modo formulata, contenga in
nuce implicazioni, presupposti, insinuazioni, suggerimenti e, se posta per il raggiungimento di fini
non noti a tutti, può confondere, rendere dubbiosi, indurre erronei convincimenti e addirittura
spingere a dire il falso senza essere menzogneri e a dire una menzogna senza essere falsi.
Tant’è che nel citato enigma di Tamerlano la domanda sarebbe consentita, per quanto attiene al
nostro c.p.p., unicamente se rivolta ad un teste sincero; diversamente sarebbe vietata essendo diretta
ad ottenere una risposta mendace.
Il problema delle domande inammissibili è la loro intrinseca natura ad indirizzare se non anche
inquinare nel senso e nella direzione voluta la dichiarazione dell’esaminato; pertanto la loro
eventuale riformulazione deve tener conto che l’informazione inviata con la domanda posta
potrebbe aver già compromesso la genuinità della risposta.
3
DOMANDE SUGGESTIVE E DOMANDE NOCIVE
Prima di procedere a dare risposta al nostro quesito, è necessaria una distinzione preliminare tra
domande suggestive e domande nocive.
Sono suggestive le domande che suggeriscono le risposte, ovvero quelle che forniscono le
informazioni necessarie per rispondere secondo quanto desiderato dall’esaminatore, anche
attraverso una semplice conferma.
Sono nocive le domande che traggono in inganno il dichiarante, poiché gli forniscono informazioni
errate e falsi presupposti tali da minare la stessa sincerità della sua risposta.
Dalla lettura dell’art. 499 c.p.p. si evince che le prime sono vietate in sede di esame e di riesame,
mentre le seconde sono vietate in tutti e tre tipi di esame.
Ne discende, pertanto, che sono sempre ammesse, ai sensi dell’art. 500, III comma, c.p.p.,
nell’esame diretto, nel riesame e nel controesame, le domande:
-
con presupposto non controverso;
-
con presupposto non essenziale;
-
che guidano per rinfrescare la memoria di un teste o per indirizzare l’ambito della risposta;
-
che contengono inferenze deduttive;
-
che tendono a mettere in discussione la credibilità del teste.
Sono ammesse, unicamente in sede di controesame, ai sensi dell’art. 499, III comma, c.p.p., le
domande che:
-
presuppongono fatti controversi;
-
implicano fatti controversi attraverso congetture o abduzioni.
Sono infine vietate, nell’esame diretto, nel controesame e nel riesame, le domande:
-
che nuocciono alla sincerità delle risposte (art. 499, II comma, c.p.p.);
-
con presupposto che l’esaminatore sa o ritiene falso (art. 499 c.p.p.);
-
generiche (art. 499, I comma, art. 194, I e III comma, c.p.p.);
-
ininfluenti, irrilevanti o non pertinenti (art. 499, VI comma, art. 187, I comma c.p.p.);
-
che danno per scontati fatti essenziali non emersi nell’esame diretto e neanche negli atti
processuali (art. 468 e art.493 c.p.p.);
-
vertenti sulle voci correnti nel pubblico, salvo che non siano inscindibili dalla deposizione
sui fatti (art. 194, III comma c.p.p.);
-
comportanti opinioni o apprezzamenti tecnici, salvo che non siano inscindibili dalla
deposizione sui fatti o il teste sia un esperto o un consulente tecnico (art. 194, I e III comma,
art. 499, I comma, c.p.p.);
4
-
concernenti argomenti coperti dal diritto di riservatezza (art. 200, 201, 205, 195, VI comma,
c.p.p.);
-
concernenti la moralità dell’imputato, salvo si tratti di fatti specifici idonei a qualificarne la
personalità in relazione al reato e alla pericolosità sociale (art. 194, I comma, c.p.p.);
-
concernenti la persona offesa dal reato salvo che il fatto debba essere valutato in relazione al
suo comportamento (art. 194, II comma c.p.p.);
-
che ledono il diritto dell’interrogato alla riservatezza e al rispetto (art. 499, IV comma,
c.p.p.):
-
poste a persona fisicamente incapace di testimoniare sui fatti e sulle circostanze indicate
nella domanda (art. 196, II comma, c.p.p.).
5
SUGGERIRE DOMANDANDO
Una volta formulata, la domanda suggestiva modifica la genuinità della risposta: pertanto la
decisione in ordine alla possibilità o meno di riformularla dovrebbe avere come scopo precipuo la
tutela di tale genuinità.
Per chiarire in che modo la domanda formulata possa “suggerire” la risposta, è necessario esporre i
meccanismi comunicativi che ruotano intorno alle dinamiche processuali, e che coinvolgono in
particolar modo interroganti e interrogati.
La comunicazione condiziona attivamente e intrinsecamente la struttura dei fatti: per dirlo con le
parole di un celebre studioso, “la comunicazione crea quella che noi chiamiamo realtà”1.
Il numero di soggetti e di conseguenza degli angoli visuali incide direttamente sulla
rappresentazione, sulla narrazione e sulla creazione stessa della realtà, con particolare riferimento
all’ambito qui analizzato, ovvero il contesto giuridico.
Il dichiarante in particolar modo si trova in una condizione di soggezione, in quanto parte di un
ambito del tutto nuovo, afferente al conteso della legge, del diritto, dei tribunali; un contesto
generatore di stress e di emotività.
Specialmente il controesame, è un fenomeno caratterizzato da “un’elevata instabilità molecolare"2,
sia per avvocato e pubblico ministero che controinterrogano, sia per l’interrogato.
Se i primi, per quanto possano aver pianificato una strategia, non sono immuni da sorprese e
improvvisazioni, il secondo è letteralmente angosciato, e questo indipendentemente dal fatto che sia
più o meno sincero, intenzionato a collaborare o preparato, in quanto consapevole del fatto che il
soggetto che si accinge a controinterrogarlo cercherà di contraddirlo.
È evidente che le componenti stressanti sono vissute dai vari protagonisti del soggetto in misura
diversa rispetto non solo al carattere individuale degli stessi, ma anche al ruolo che rivestono.
Ovvero maggiore è il grado di coinvolgimento nel processo, maggiore sarà il livello di ansia
percepito.
Quanto affermato trova conferma in un duplice ordine di considerazioni.
La prima è che, tra colui che interroga e colui che viene interrogato, il soggetto avvantaggiato sarà
quello in grado di controllare lo stress.
La seconda è l’uso strumentale che è possibile fare dello stesso stress: una elevata ed incontrollata
reazione emozionale comporta una maggiore vulnerabilità, che un acuto osservatore è in grado di
percepire e utilizzare per porre domande che colgano in contraddizione l’esaminato.
1
2
P. Watzlawick, La realtà della realtà: comunicazione, disinformazione, confusione, Roma, 1976, pag. 7.
Carponi Schittar, Modi dell’esame e del controesame, Giuffré, 1991, pag. 296.
6
Nello specifico, le aspettative che un soggetto nutre nei riguardi di una persona tendono ad indurre
l’altra persona a comportarsi secondo le modalità attese, generando il cosiddetto “effetto
Pigmalione”.
Il mito racconta che Pigmalione (re di Cipro) scolpì una statua talmente bella da innamorarsene e
renderla viva.
Il significato è il seguente: le aspettative positive del primo soggetto (Pigmalione) influenzano il
secondo soggetto (la statua) al punto che quest’ultimo adegua il proprio comportamento alle
suddette aspettative.
Tale effetto ha inoltre due corollari comportamentali:
-
la conferma comportamentale: il soggetto tende a confermare le aspettative che gli altri
soggetti hanno su di lui;
-
l’autoverifica: il soggetto tende a calibrare l’idea che ha della propria identità con le
aspettative dell’altro.
In sintesi, l’effetto Pigmalione consiste in una reazione peculiare della quale tenere conto, già al
momento della preparazione dell’esame incrociato: la modalità di strutturare domande non
suggestive o minimamente suggestive da porre durante l’esame diretto, la sequenza da strutturare in
sede di controesame, che sia tale da evitare contestazioni, lo sviluppo tematico che coinvolge
esame, controesame e riesame, l’agire “retorico” di tutti gli attori del processo.
Detto altrimenti, il processo penale può essere considerato come un’unica struttura argomentativa
complessa ma unitaria; come un apparato in cui, fornendo informazioni ed evocando conoscenze, le
parti procedono in un percorso persuasivo che culmina nella fase esplicitamente argomentativa della
discussione finale.
Il processo penale ha in definitiva una generale dimensione retorica.
7
LA RETORICA
“C’è retorica là dove il fine è la persuasione, ovvero il raggiungimento di un consenso ottenuto per
vie pacifiche, graduali, facendo leva sulle facoltà della controparte: intelletto, volontà e sensibilità.
A essa si contrappone la convinzione, che è un risultato più duro e perentorio, come risulta da quel
connotato di vittoria (cum victus) implicito nel termine. Essa è applicabile proprio a quei settori di
competenza settoriale in cui la persuasione retorica non ha ragion d’essere.” (C. Perelman)
Le origini e lo sviluppo
V sec. a.C., Magna Grecia, Siracusa.
Il primo contributo risale ai Sofisti: Protagora “di tutte le cose la misura è l’uomo” e Platone nel
Cratilo “in quanto come le cose appaiono a me, tali sono per me, come a te, tali sono per te”.
Dichiarazioni di totale fenomenismo nelle quali il vero coincide con il verosimile, il più probabile.
Corollario di tali affermazioni è l’assenza di una verità sicura, che lascia il posto solo ad argomenti
più o meno probanti: pertanto è diritto-dovere di chi è persuaso della bontà dei propri renderli
migliori, più competitivi.
Accantonata da Platone a favore della dialettica, è solo con Aristotele (384-322) che retorica e
dialettica trovano un punto di incontro, attraverso la conciliazione del vero con il verosimile, anche
se bisognerà attendere il ciceroniano De Oratore (56 a.c.) per assistere al trionfo della retorica.
Di nuovo ritenuta superflua nel Medioevo con l’avvento del Cristianesimo e delle Sacre Scritture, la
retorica acquista una dimensione del tutto nuova grazie a Dante.
L’autore della Divina Commedia unisce universalismo e particolarismo (Analitica : arte teorica =
retorica : persuasione), creando tuttavia una gerarchia sfavorevole all’eloquenza, considerata il
“velamento attraverso cui si dimostra la luce interiore di sapienza”.
Gerarchia che dovrà attendere la teoria dell’argomentazione di Perelman per essere ribaltata e per
permettere alla retorica di riscattarsi.
La retorica, il cui nome completo è rhetorica techné o arte, è la disciplina che si occupa
dell’argomentazione dal punto di vista sia della riflessione teorica che dell’applicazione pratica.
Oggetto dello studio sono i mezzi di prova non dimostrativi, ovvero appartenenti a scienze quali
l’etica, il diritto e la filosofia.
Storicamente contrapposta alla dialettica, che si avvale della dimostrazione come strumento per
l’affermazione delle verità formali, tipiche delle discipline matematiche e logiche, la retorica
8
utilizza l’argomentazione, come mezzo per pervenire alla verità, popperianamente intesa come
approssimazione della stessa, di scienze umane e storiche e soprattutto della verità processuale.
In sintesi, la dimostrazione permette di partire da premesse postulate per arrivare ad affermazioni
inconfutabili; l’argomentazione da premesse empiriche conduce a conclusioni persuasive.
Ne discende che mentre il discorso analitico dimostrativo vale indipendentemente dal pubblico cui
si rivolge, il ragionamento retorico vale solo in rapporto ad un determinato uditorio, posto che gli
argomenti variano in funzione dei destinatari.
La dimostrazione postula un uditorio universale, “convinto” di alcuni assiomi concordemente
accettati, un uditorio fuori dal tempo, un sistema chiuso, fatto di pure capacità mentali, con cui non
interferiscono gli altri aspetti delle persone fisiche.
L’uditorio di un discorso argomentativo è invece collocato nel tempo e nello spazio, possiede
opinioni non formalizzabili, non rigide ma plastiche, il cui accertamento è uno dei compiti del buon
oratore.
In tale contesto si colloca la riflessione sulla pratica dell’argomentazione in ambito processuale, sia
nella fase dell’arringa conclusiva sia nelle fasi che la precedono.
9
CONVINZIONE E PERSUASIONE
Entrando nel dettaglio linguistico e comunicativo di quanto avviene in ambito dibattimentale,
dobbiamo innanzitutto distinguere i due approcci alla “verità” cui abbiamo fatto cenno sopra.
Da una parte troviamo il modello analitico della verità, la quale, liberata dall’oscurità della caverna
non può che risplendere nella propria evidenza logico-deduttiva. Si tratta di una verità convincente,
che l’interlocutore non può fare altro che vedere.
Ci ritroviamo dunque nel campo metaforico della luce, la logica analitica è fondata infatti
sull’acutezza degli occhi: è “evidente” ciò che è messo davanti agli occhi e dagli occhi è “visto”.
Ci troviamo di fronte all’evidenza “chiara e distinta”, cartesianamente intesa, di quelle idee su cui si
fonda un ragionamento logico deduttivo il cui esito è la dimostrazione.
Ma dimostrare altro non significa che mostrare il risultato conseguito alla vista dell’interlocutore il
quale non potrà fare altro che prendere atto della verità e convincersene.
Dall’altra parte abbiamo il modello argomentativo della verità, la quale emerge come risultato
conclusivo di un incontro-scontro tra ragioni e argomenti distinti e opposti, che hanno nel “peso” il
proprio attributo essenziale.
L’interlocutore si ritroverà così a “soppesare” le differenti ragioni e a propendere verso quella più
corposa e pesante.
È la metafora della bilancia (non a caso simbolo della giustizia) che si sposta in direzione di quegli
argomenti che si fanno sentire maggiormente. Siamo in quel campo semantico in cui si collocano il
deliberare (da libra, bilancia), ma anche il pensare/pesare, dal latino pendere, in cui il pensare non è
che un soppesare gli argomenti prima di decidere.
La decisione dunque come frutto della persuasione del soggetto.
Esiste in tedesco, la lingua della Critica della Ragion Pura, il grande tentativo di Kant di conciliare
la conoscenza analitica e quella sintetica, una netta distinzione tra überzeugen (convincere) da
zeugen, ovvero mostrare all’evidenza e überreden (persuadere), parlare sopra, gettare parole
sull’avversario fino a persuaderlo con il peso dei propri argomenti.
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PERSUASIONE E PROCESSI DECISIONALI
È un concetto noto a tutti quello secondo il quale l’emozione, in determinate circostanze, distrugga
il ragionamento.
Meno noto forse ai più è invece che “una riduzione dell’emozione può costituire una fonte
ugualmente significativa di comportamento irrazionale.”3
Molti studi condotti su pazienti neurologici colpiti da deficit nell’attività decisionale associati a
disturbi dell’emozione avanzano l’ipotesi che l’emozione faccia parte del circuito della ragione e
che fornisca un contributo essenziale nei processi decisionali e nelle scelte.
Tale contributo può risultare naturalmente vantaggioso o dannoso in relazione alle circostanze in
cui viene presa una decisione, ma rimane il fatto che l’emozione ne sia un elemento costitutivo
portante.
In un recente saggio4 Malcom Gladwell illustra con attenzione e arguzia la questione delle
circostanze.
L’episodio è il seguente: I curatori del Getty Museum desideravano aggiungere una statua greca alla
loro collezione e quando fu presentato loro un pezzo di dubbia provenienza conclusero che esso
fosse autentico. Molti esperti esterni, tuttavia, provando un rifiuto viscerale nel vedere per la prima
volta la statua, l’avevano considerata un falso.
Per entrambi, prima ancora di entrare nel merito di un’analisi tecnico-scientifica dell’oggetto, i
giudizi erano fondati su processi decisionali (=scelte) sui quali avevano inciso le emozioni
(desiderio di autenticare la scultura da una parte, rifiuto viscerale dall’altra).
La ragione operò per gli uni come per gli altri con l’ausilio dell’emotività.
Si tratta di quella che in neuroscienze si chiama “ipotesi del marcatore somatico”5: essa postula che
le emozioni, fin dall’inizio, marchino determinati aspetti di una situazione o determinati esiti delle
possibili azioni di un soggetto.
Questa marcatura può avvenire sia in modo manifesto che nascosto, viscerale, corporeo.
Mentre in specie animali dal cervello meno complesso di quello dell’uomo, e comunque anche
nell’uomo stesso in determinate circostanze, un’emozione è più che sufficiente a consentire un agire
vantaggioso per l’individuo e/o per la specie (si pensi ad esempio al binomio paura-fuga e
conseguente sopravvivenza), in un’ottica evolutiva, un sistema di ragionamento efficace diviene
un’estensione di tale sistema emozionale automatico.
3
A. R. Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi 1995, pag. 96.
M. Gladwell, Blink: The Power of Thinking without Tinking, Little Brown & Co., New York, 2005.
5
A. R. Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi 1995.
4
11
Così l’emozione, in un ragionamento volto a prendere una decisione, può dare maggiore peso a una
premessa e determinare pregiudizialmente una conclusione.
Poniamo, ad esempio, il caso di un paziente cui venga proposto un determinato metodo di cura. Egli
sarà più orientato a sottoporvisi se gli si dice che il 90 per cento dei soggetti che lo hanno esperito a
cinque anni sono ancora in vita, piuttosto che se lo si informa che il 10 per cento è deceduto.6
Pur essendo l’esito della cura il medesimo, i sentimenti suscitati dall’idea della morte porteranno
alcuni degli intervistati a rifiutare una possibilità che sarebbe stata scelta se presentata nell’altra
forma.
Lo stesso studio documenta peraltro che i pazienti medici rispondono in modo non difforme dai
pazienti non medici, confermando dunque che l’irrazionalità di questo comportamento non deriva
da mancanza di conoscenze.
Phineas Gage e i suoi moderni epigoni
Mr Phineas Gage era il giovane caposquadra di un’impresa edile che nel 1848 operava nel Vermont,
una sorta di ingegnere ante-litteram con il compito di supervisionare lavori di grande importanza.
Conduceva un’esistenza felice e piena di aspettative verso il futuro. Fino al giorno della tragedia:
un’esplosione mal controllata in cantiere dalle conseguenze imprevedibili. Una barra metallica
trapassa la scatola cranica di Phineas Gage senza ucciderlo.
Miracolosamente salvo, fu trasferito in ospedale dove la sbarra gli fu rimossa e, successivamente
dimesso senza aver riportato, apparentemente, danni significativi né alla sfera motoria né a quella
cognitiva.
Eppure col tempo divenne a tutti chiaro che Gage non era più lui. Il suo comportamento era
radicalmente mutato, acquisendo caratteristiche che mai gli erano appartenute. Era diventato
bizzarro, insolente, spesso osceno, volubile, insofferente a qualsiasi consiglio, desideroso solo di
seguire programmi e progetti che repentinamente abbandonava senza più curarsene.
Perse il lavoro e non fu più in grado di ricoprire alcun ruolo sociale.
Simile a caso Gage fu quello del paziente soprannominato Elliot.
Lavorava in uno studio legale, era sposato, era ben integrato nel tessuto sociale e godeva di stima e
ammirazione di parenti, colleghi ecc.
Visitato in seguito a frequenti e dolorosi mal di testa, gli era stato diagnosticato un tumore cerebrale
di natura benigna. La massa fu asportata, ma con essa dovette essere rimossa anche una parte del
6
McNeil, et al., On the elicitation of preferences for alternative therapies, in New England Journal of Medicine, pp.
1259-69, 1982.
12
cervello che era stata danneggiata: alcune aree dei lobi pre-frontali. Le stesse che, verosimilmente
erano andate perdute oltre un secolo prima in Gage.
Anche Elliot dopo l’intervento mutò completamente il proprio carattere. Senza entrare in questa
sede nel dettaglio medico della sua condizione, è importante chiarire due punti fondamentali della
sua situazione.
Elliot sembrava non mostrare alcun tipo di menomazione, il suo Q.I. era sempre medio-alto,
rispondeva in maniera adeguata a molti test d’intelligenza, psicologici e neuro-psicologici, di
memoria e altri.
Tuttavia il suo comportamento era cambiato. Era diventato incapace di prendere decisioni
appropriate in questioni personali e sociali reali, al punto che presto portò se stesso e la propria
famiglia alla rovina con delle azioni economiche del tutto dissennate.
Un individuo apparentemente normale, sulla carta.
Un individuo totalmente incapace di decidere nella vita.
Ciò che scaturì dall’analisi di questo paziente e di altri a lui affini fu il paradossale solco che in essi
era stato scavato tra il ragionare (in astratto) e il decidere (in concreto).
A ragionamenti che filavano corrispondevano immancabilmente scelte decisionali totalmente
dissennate.
I numerosi studi condotti negli anni7 su questo genere di pazienti arrivarono così a ipotizzare che la
semplice conoscenza di ciò che è giusto e corretto fare, per questi pazienti non costituiva ragione
sufficiente per spingerli a prendere decisioni in quella direzione.
Essi erano in balia di una casualità figlia di una menomazione che nulla ha a che fare con
l’intelletto: Phineas Gage, Elliot e i loro “fratelli” soffrivano di un’alterazione delle emozioni, di un
deficit di emozione e di sentimento che causava la loro inadeguatezza decisionale e,
conseguentemente, sociale.
I loro freddi e precisi ragionamenti erano sprovvisti di valori di riferimento, di marcatori somatici
da attribuire alle differenti opzioni, rendendo il paesaggio del loro processo decisionale
irrimediabilmente piatto.
7
Fuster, J.M. The Prefrontal Cortex, Ravan Press New York; Brothers, L. Neurophysiology of social interactions, The
Mit Press, Boston, 1997; Damasio, H. e Damasio, A.R., Lesion Analysis in Neuropsychology, Oxford University Press,
New York, 1989.
13
LA RETORICA NEI PROCESSI DECISIONALI
Il precedente excursus nel mondo delle neuroscienze torna a questo punto d’attualità nel nostro
lavoro.
Abbiamo visto come i processi decisionali, riassumendo in maniera semplificata, ma certamente
non scorretta, poggino su basi squisitamente corporeo-emozionali, piuttosto che sulla razionalità
pura.
Ora, un teste che si trovi a dover rispondere in tribunale dovrà inevitabilmente prendere delle
decisioni al fine di aderire a un’opinione o a un’altra, piuttosto che a quello di chiarire circostanze
sulle quali è interrogato.
Chi fa domande e pone quesiti può interferire andando a intaccare la sfera emotiva che sta alla base
di questi processi decisionali in maniera da indirizzarne le risposte secondo i propri scopi.
Ci ritroviamo dunque nell’ambito della retorica della persuasione, dove chi domanda potrà fare in
modo che nell’ottenimento di una risposta un argomento emotivamente marcato possa pesare più di
altri rimasti neutri.
Nuovamente, l’emozione che sta alla base di una decisione può dare maggiore importanza o peso,
come detto sopra, a una premessa così da “anticipare” la conclusione.
In questo contesto va collocata, a nostro giudizio, la domanda suggestiva, la quale utilizza la
retorica della persuasione in maniera strumentale e non al fine di far emergere la verità dei fatti.
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LA LETTERA DELLA NORMA E LA GIURISPRUDENZA
Il Legislatore italiano, consapevole della possibilità che la formulazione della domanda influenzi la
risposta, ha dettato alcune regole per lo svolgimento dell’esame incrociato.
La lettera dell’art. 498 c.p.p. (Esame diretto e controesame dei testimoni) prescrive, ai primi due
commi, che “le domande sono rivolte direttamente al pubblico ministero o dal difensore che ha
chiesto l’esame del testimone.
Successivamente altre domande possono essere rivolte dalle parti che non hanno chiesto l’esame,
secondo l’ordine indicato dall’art. 496 c.p.p.”
Il primo atto dell’esame spetta quindi alla parte che lo ha chiesto, cui sono inibite le domande
suggestive, oltre a quelle nocive, vietate a tutti, secondo la distinzione di cui sopra.
Dalla lettura dell’art. 499 c.p.p. si evince in particolare che sono vietate le domande in grado di
nuocere alla sincerità delle risposte (in tutti e tre le fasi dell’esame incrociato), e le domande che
suggeriscono le risposte (vietate nell’esame diretto e nel riesame, possibili, invece, nel
controesame).
Non essendo previsto alcun divieto esplicito, se ne dovrebbe dedurre che sia consentito al Giudice
formulare domande suggestive.
Tuttavia in questo caso una considerazione è d’obbligo, basti pensare al maggior condizionamento
della persona esaminata, qualora la domanda suggestiva venga formulata dal Giudice, in ragione del
ruolo istituzionale rivestito dallo stesso.
In ogni caso una precisazione sembra opportuna. Le domande suggestive, anche in sede di esame
sono non solo molto frequenti ma in molti casi anche giustificate, ovvero quando vengono utilizzate
per portare a conoscenza del Giudice circostanze non controverse e dati oggettivi.
In tutti questi casi l’opposizione della parte che non sta effettuando l’esame sarebbe del tutto inutile,
in quanto priva di interesse.
Piuttosto, deve farsi una distinzione che concerne le “opposizioni suggestive”, categoria non
codificata che concerne le opposizioni attraverso le quali la contestazione dell’ammissibilità della
domanda maschera informazioni utili per neutralizzarla.
Si pensi a frasi del tipo “..la domanda non è ammissibile in quanto ingenera confusione nel teste.
Egli piuttosto si era limitato all’affermazione della circostanza secondo la quale…”
Se in questo caso sembra pacifico, alla luce dei principi generali dell’ordinamento giuridico e dalla
logica dell’istituto, non consentirne la riformulazione, un discorso controverso è quello che
concerne le domande suggestive, la cui discordanza in tema di riformulazione ha radici più
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profonde, rinvenibili, ancora una volta nell’impatto comunicativo e distorsivo di cui le stesse sono
provviste.
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LE POSIZIONI IN DOTTRINA
Alcuni autori ritengono infatti che la riformulazione sia incompatibile con l’inammissibilità della
domanda, poiché il teste ha ormai ricevuto quel “suggerimento” incancellabile dalla sua percezione.
Ricevuto l’input come inviato dall’esaminatore, il teste perde la propria neutralità percettiva,
fornendo una risposta che comunque si collocherà in sintonia con la formulazione dell’esaminatore.
Il problema fondamentale si rinviene nella mancanza di un’esplicita sanzione.
Secondo la lettera della norma, le violazioni normative dovrebbero incorrere nell’inutilizzabilità, ex
art. 191 c.p.p., secondo il quale “Le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non
possono essere utilizzate.
L’inutilizzabilità è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento.”
In tal modo si è espressa la Suprema Corte (sez. I, n. 3187 del 18.03.1992), secondo cui:
“l’art. 191 c.p.p. esclude, in via generale, di poter utilizzare, ai fini della deliberazione, prove che
siano state acquisite in violazione di uno specifico divieto e ciò anche se la norma violata non
prevede alcuna sanzione.”
Con la precisazione che:
“L’inutilizzabilità di atti acquisiti in violazione di specifici divieti si traduce in nullità del
provvedimento decisorio solo in quanto l'utilizzazione si sia effettivamente realizzata, onde non è
configurabile alcuna nullità, qualora, dal testo del medesimo provvedimento, risulti che tale
utilizzazione non v’è stata.” (Cass. pen., sez. I, n. 1708 del 23.11.1993).
Purtroppo, la stessa Corte di Cassazione ha, in altre occasioni, ritenuto che la violazione delle regole
proprie dell’esame incrociato (artt. 498 e 499 c.p.p.) non integri un’ipotesi di prova illegittimamente
acquisita. Non integrerebbe, dunque, né un’ipotesi di nullità, né di inutilizzabilità. Si tratterebbe,
semplicemente, di prove assunte con modalità diverse da quelle prescritte, quindi comunque
perfettamente utilizzabili.
Così si è espressa la Suprema Corte, sezione I, con la pronuncia n. 39996 del 14.07.2005:
“In tema di assunzione ed utilizzazione delle prove, non dà luogo alla sanzione di inutilizzabilità, ai
sensi dell’art. 191 c.p.p., la violazione delle regole per l’esame fissate dagli artt. 498, comma
primo, e 499 c.p.p., poiché non si tratta di prove assunte in violazione di divieti posti dalla legge,
bensì di prove assunte con modalità diverse da quelle prescritte. Deve essere, del pari, esclusa la
ricorrenza di nullità, atteso il principio di tassatività vigente in materia e posto che l’inosservanza
delle norme indicate non é riconducibile ad alcuna delle previsioni delineate dall’art. 178 c.p.p.”
17
L’inosservanza delle formalità prescritte dalla legge ai fini della legittima acquisizione della prova
nel processo non è, di per sé, sufficiente a rendere quest'ultima inutilizzabile, per effetto di quanto
disposto dal primo comma dell'art. 191 c.p.p., residuando lo strumento della nullità.
La differenza tra nullità ed inutilizzabilità risiede nel tipo di violazione: si ha inutilizzabilità qualora
la violazione riguardi un divieto di acquisizione stabilito per legge, si incorre invece nella nullità se
la violazione concerne le formalità prescritte espressamente dalla norma.
La differenza, apparentemente semplice sulla carta, comporta, a livello applicativo, una grande
discrezionalità interpretativa, come si evince alla luce delle pronunce in tema di inutilizzabilità e di
nullità.
Indipendentemente dalla questione tecnica di nullità o inutilizzabilità, ci addentriamo ora nei
meccanismi neuropsicologici della domanda suggestiva, in relazione alla comunicazione nel
processo.
18
IL MONDO E LA SUA RAPPRESENTAZIONE
Esiste la realtà dei fatti?
La risposta del senso comune a questa domanda non può che essere: sì, esiste una realtà dei fatti,
unica e irripetibile.
D’altro canto, quando si celebra un processo l’intento che ci si pone è quello di giungere a una
ricostruzione dei fatti avvenuti nella loro obiettività.
Così se si vuol scoprire chi e perché ha ucciso Tizio, si porranno in essere indagini, si utilizzeranno
consulenti tecnici e scientifici che, partendo da tracce e resti che fungono da messaggi dal passato,
cercheranno di percorrere a ritroso la catena degli avvenimenti per portarli all’evidenza, ci si
avvarrà di legali e avvocati che discuteranno in dibattimento e interrogheranno testimoni.
Tutto per portare alla luce la realtà dei fatti.
Ma siamo sicuri che sia proprio questo ciò cui ci si propone di arrivare?
E soprattutto, siamo davvero sicuri che esista davvero questa “realtà dei fatti”?
È esperienza di ognuno quella che ci mostra come di fronte a un avvenimento, differenti testimoni,
se interrogati sull’accaduto, siano portatori di altrettante “versioni dei fatti”.
Ammesso che esista questo fatto esso sarebbe un po’ come la cosa in sé, il noumeno kantiano8,
conoscibile solo attraverso il fenomeno, ovvero la rappresentazione che di essa dà il soggetto.
Un esempio chiarirà quanto espresso.
A seguito di un tamponamento fra due auto, i testi presenti venivano interrogati su ciò che avevano
visto.
Coloro ai quali si chiedeva a che velocità l’automobile A avesse “strisciato”, “urtato” o “colpito”
l’automobile B, riferivano un valore nettamente inferiore rispetto ai testi cui si chiedeva a quale
velocità l’automobile A “ si fosse scontrata con” o “avesse fracassato” l’automobile B.
Lo stesso dicasi per i testi chiamati a raccontare i dettagli riguardanti la sottrazione della borsa di
una signora. Maggiore è l’uso di verbi usati per formulare la domanda quali “toccare”, “sfiorare”,
minore è la gravità riferita (furto), a fronte di verbi quali ad esempio “spingere” o “spintonare”
(rapina).
In questa ottica, un processo giudiziario muta completamente la propria natura.
Esso diviene il teatro dove vanno in scena diverse rappresentazioni della realtà: ricostruzioni fatte a
posteriori, con l’ausilio di indagini, ricerche, perizie e consulenze, ma che tuttavia mantengono una
caratteristica fondamentale: quella di essere raccontate. Attraverso il discorso e la retorica.
8
Kant, I. Critica della Ragion Pura, Laterza 1966.
19
Ed è proprio questo che conferisce loro quella carica emotiva che consente a queste
rappresentazioni di essere vive e possibili anche al di fuori del cervello di chi le ha prodotte.
Il linguaggio con tutte le sue coloriture emotive consente la comunicazione intesa in senso
etimologico (“comunicare” = mettere in comune) e compie in questo modo il miracolo della ricreazione della realtà nella testa dell’ascoltatore.
Qui si fa potente la retorica, l’abilità oratoria, la capacità di portare argomenti pesanti, che marchino
emotivamente nell’ascoltatore la versione dei fatti che si sta raccontando facendo in modo che nella
sua testa possa avere luogo la stessa rappresentazione che c’è in quella di chi parla.
Qui la domanda suggestiva, una volta formulata, diviene un evento non più modificabile nella
rappresentazione (emotivamente marcata) della realtà di chi vi è sottoposto.
In questo modo la domanda suggestiva si fa persuasione, seduzione, che può violare le regole
stabilite per un corretto iter dibattimentale.
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RIMOZIONE E ANALISI
Abbiamo già sottolineato come il Legislatore vieti, in forza dell’art. 499 c.p.p., le domande
suggestive.
Esse una volta fatte non possono essere verbalizzate. Come se la loro non trascrizione potesse in
qualche modo renderle inesistenti nella testa dell’interrogato.
Formalmente non c’è nulla da eccepire. Tuttavia si rendono necessarie alcune precisazioni.
Si tratta di un divieto che molto rassomiglia a quel meccanismo che Freud chiama “rimozione”9.
Quando il super-io, l’istanza censoria dell’individuo, riconosce un elemento, una pulsione
moralmente, socialmente inaccettabile, esso li rimuove, togliendoli all’attenzione dell’io e
spostandoli nella regione dell’inconscio.
Questo però non significa che tale pulsione non possa comunque continuare ad esistere e a farsi
sentire, seppure in maniera inconsapevole nei pensieri e nei comportamenti dell’individuo,
indirizzandoli in modi e luoghi inaspettati, se non addirittura procurando le cosiddette “nevrosi”.
La soluzione che la psicoanalisi propone è quella dell’analisi. Ovvero di un percorso di indagine
dell’inconscio dell’individuo volto in prima battuta a riscoprire quelle pulsioni che erano state
rimosse in modo da renderle consapevoli all’io e, successivamente, all’analisi (cioè alla
scomposizione) delle medesime pulsioni, a una loro de-costruzione finalizzata a una comprensione
emotiva che permetta al soggetto di maneggiarle senza più esserne sopraffatto.
Tornando al paragone con le nostre domande suggestive, riteniamo a questo punto che il loro
semplice divieto non sia sufficiente a de-potenziarle emotivamente, poiché esse continueranno ad
agire nella testa dell’interrogato.
Ciò che si potrà fare, invece, esattamente come per il rimosso, è analizzarle, ovvero scomporle nei
loro elementi costituenti e conseguentemente riproporle privandole di quegli elementi che
marcandole emotivamente le rendevano surrettiziamente suggestive.
9
Freud, S. Introduzione alla Psicoanalisi, Bollati Boringhieri,Torino, 1993.
21
LA RIFORMULAZIONE DELLA DOMANDA SUGGESTIVA
In che modo si può, anzi, a questo punto ci permettiamo di aggiungere, si deve riformulare la
domanda suggestiva?
Essa va scomposta nei suoi elementi costitutivi, va ricondotta dal punto cui essa vorrebbe
rapidamente approdare al punto dal quale origina e riproposta sotto forma di varie domande che
permettano di ricostruire tutti quei passaggi che essa aveva bypassato veleggiando sospinta dal
turbine della carica emotiva.
L’esempio sotto illustrato mostra proprio un caso di riformulazione di una domanda suggestiva,
formulata in sede di esame diretto da parte di un pubblico ministero.
Nel corso di una lezione mi è stato chiesto di riformulare la domanda suggestiva ed imprecisa che un
pubblico ministero, in un caso di corruzione, aveva formulato senza che vi fosse stata alcuna opposizione,
nonostante si trattasse di un teste da lui introdotto:
anziché:
Domande
Risposte
P.M.: Lei ha ricevuto la valigia dal signor X?
T.: Sì.
P.M.: Sapeva che dentro c’erano dei soldi, vero?
T.: No, non lo sapevo.
P.M.: E che cosa credeva che ci fosse dentro, generi
alimentari?
ho riformulato così:
Domande
P.M.: Lei si trovava in quel bar
quel giorno?
P.M.: Era solo?
Risposte
Logica della riformulazione
Prima si descrive la scena e poi
l’azione (MAUET, et. al., 1995)
T.: Sì.
L’azione viene ora scomposta in
tutte le sue parti.
T.: Sì.
P.M.: Quando è arrivato il signor
X?
T.: Dopo una decina di minuti.
P.M.: Era lui che le aveva dato
appuntamento?
T.: Sì.
P.M.: Come aveva fatto?
T.: Al telefono.
P.M.: Cosa le disse nel bar?
T.: Nulla.
P.M.: Cosa fece a proposito della
borsa?
T.: Me la consegnò dicendo di
portarla in ufficio.
P.M.: Lei non chiese che cosa
contenesse?
T.: No.
P.M.: Lei aveva già portato altre
borse in ufficio per conto di questo
22
signore?
T.: No.
P.M.: La borsa era pesante?
T.: No, un peso normale per la
sua grandezza.
P.M.: Sapeva se c’era bisogno di
portare dei documenti in ufficio?
T.: No, non lo sapevo.
P.M.: Esalava profumi particolari? T.: No.
P.M.: C’era un profumo di pane?
T.: No.
P.M.: Di formaggio?
T.: No.
Gulotta, G., L’investigazione e la cross-examination, Giuffrè, 2003.
23
Il risultato è sostanzialmente lo
stesso rispetto a quello proposto
con l’originaria domanda
suggestiva. L’ascoltatore ha la
sensazione che il testimone sia
reticente.
CONCLUSIONE
Riteniamo dunque, in conclusione di quanto fin qui esposto, che la riformulazione della domanda
suggestiva non sia solo legittima, ma che ai fini di un corretto svolgimento di un iter processuale
essa sia anche auspicabile per evitare che essa possa nella sua primigenia forma continuare ad
aleggiare nel silenzio della propria irripetibilità.
Ci piace concludere il lavoro citando, come esempio di ciò che si può “insinuare” attraverso la
parola, e perché no, dell’inserimento nella frase di una circostanza data per acquisita, ma che
acquisita non è, il Maestro della lingua italiana.
«O qual che se' che 'l di sù tien di sotto,
anima trista come pal commessa»,
comincia' io a dir, «se puoi, fa motto».
Io stava come 'l frate che confessa
lo perfido assessin, che, poi ch'è fitto,
richiama lui, per che la morte cessa.
Ed el gridò: «Se' tu già costì ritto,
se' tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto».
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