«Media» e narrazione - Dipartimento di Filosofia

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«Media» e narrazione - Dipartimento di Filosofia
Media e narrazione
Igino Domanin
La formazione della tradizione letteraria occidentale è strettamente correlata
alle pratiche di scrittura alfabetica. La storia delle tecnologie comunicative non è
neutrale nei confronti delle istituzioni letterarie. Il passaggio, ad esempio, dalla
cultura dell’oralità primaria (ovvero le culture dell’oralità sviluppatesi senza l’influsso della scrittura) alla nascita della civiltà alfabetica trasforma profondamente
la funzione della pratica di scrittura. Come ha messo in rilievo Walter J. Ong, sulla
scorta degli studi di M. Parry, i poemi omerici si collocano nel “passaggio” che
separa le tradizioni orali dall’“occidentalizzazione” della scrittura, cioè dall’affermazione del logo-fono-centrismo della scrittura alfabetica, e testimoniano ancora
dell’influenza dello stile formulaico tipico del discorso mimetico e situazionale1 .
L’uso omerico degli epiteti, ad esempio, non è una mera scelta stilistica, bensì un
cliché appartenente alla performance del racconto orale. Nel contesto performativo dell’oralità primaria la narrazione si chiarisce non in rapporto alla distanza
temporale e allo scioglimento di un intrigo, ma all’ostensione dei gesti e alla valenza mimica delle immagini corporee e verbali. Il narratore ricorre a espressioni
sapienziali, a dei calchi che raffigurano icasticamente la referenza della narrazione. Gli effetti di senso non dipendono, come nel caso del racconto letterario, dall’estendersi e dilatarsi del piano temporale, ma dalla performatività dell’evento,
dall’insorgenza del gesto che, dal culmine della voce fino alle profondità viscerali
della corporeità, costituisce originariamente la trama della narrazione2 .
La forma letteraria della narrazione si colloca nella rottura con questo orizzonte
d’esperienza e si determina in rapporto a un medium differente rispetto all’oralità.
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Cfr. W.J. Ong, Oralità e scrittura, tr. it. di A. Calanchi rivista da R. Loretelli, Il Mulino,
Bologna 1982.
2 Su questo punto vedi C. Bologna, Flatus vocis: metafisica e antropologia della voce, Il Mulino,
Bologna 1991.
c 2004 ITINERA (http://www.filosofia.unimi.it/itinera/)
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
La precedente tecnologia della parola viene catturata nel nuovo dispositivo
alfabetico.
La parola diventa contenuto della rappresentazione scritta. Essa viene “tradotta” nel medium successivo, ma questa operazione non è neutrale né lineare. Il modo in cui il medium della scrittura modula la parola implica una trasformazione
radicale. La parola assume il valore di documento, perciò viene sottratta all’aleatorietà della performance e “stabilizzata” all’interno dell’archivio alfabetico. Viene,
perciò, privilegiato il carattere definito e, possibilmente, univoco del significato rispetto alla potenza simbolica appartenente al gesto vocale. Una diversa economia
dei beni simbolici governa la civiltà alfabetica. L’istituzione letteraria dipende da
questo diversa griglia.
Nell’alfabeto diventa ineludibile il riferimento alla lettera. Alla volatilità del
flatus vocis si sostituisce la permanenza della lettera. Mentre il gesto vocale poggia
le proprie condizioni espressive sull’appartenenza al contesto spazio-temporale, al
contrario la forza dell’enunciazione letterale risiede nella capacità di comunicare
universalmente, ovvero di trasmettere significato al di là delle contingenze locali.
La circostanza empirica della pratica di scrittura si solleva, quindi, a funzione costitutiva di un orizzonte di comunicazione universale. Lo spessore materiale della
lettera diventa fondamento di una cultura che privilegia l’astrazione.
Tra gli aspetti salienti di questo passaggio decisivo nel costituire l’orizzonte
“occidentale” della scrittura (intendendo con ciò che si tratta di un evento storico ed empirico necessario per definire il carattere universale e globalizzante della
cultura occidentale e del suo peculiare apparato tecnologico-mediatico) vogliamo
soffermarci qui sulla trasformazione del “sensorio”. In effetti, la caduta della cultura dell’oralità primaria determina il declino dei valori simbolici dell’esperienza
acustica. La ripetitività della lettera, la potenza connessa alla sua infinita replica,
si fonda su un dispositivo ottico. Il carattere tipografico della scrittura alfabetica,
che si afferma con l’invenzione della stampa, sgancia il processo di lettura dalla
dipendenza della voce. Si leggerà in silenzio e assai più velocemente. Si legge e
comprende il testo guardandolo.
La tecnologia alfabetica, attraverso la diffusione e la proliferazione del libro, si
lega al primato della visione e alla rimozione dello spessore gestuale della voce.
La genesi delle istituzioni letterarie europee, che avviene nel quadro delle trasformazioni storico-politiche del tardo medioevo, si comprende in relazione al rapporto che si determina tra l’oralità della cultura trobadorica e la funzione normativa
della pratica di scrittura che si collega alla professionalizzazione dello “scrittore”.
Da questo punto di vista è utile far riferimento al modo in cui viene progressivamente regolata l’espressione vocale attraverso la rigidità dell’interpunzione. L’intrusione massiccia dei segni d’interpunzione serve a normalizzare l’espressione vocale che si accompagna al testo e a fissarne l’uso. Il timbro vocale viene codificato
e neutralizzato. La voce svolge una funzione ancillare rispetto alla determinazione
“scritta” della letteratura.
La narrazione, dunque, diventa appannaggio dello scrittore. Diventa autonoma
rispetto agli esercizi rituali della performance orale. La scrittura alfabetica diventa
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il medium della narrazione. In effetti, si tratta di un processo che si svolge entro
una “lunga durata”, e che trova la sua definitiva applicazione soltanto nel contesto
della produzione dei libri. Lo spazio del libro consentirà alla narrazione di trovare
il supporto necessario per sperimentare progressivamente il legame costitutivo tra
la referenzialità del racconto e la durata temporale. Nella modernità il legame tra
la figura antropologica dello scrittore e l’esperienza umana del racconto si salderà
nel successo del genere letterario del romanzo.
Il romanzo è un racconto da leggere sfogliando il libro. In questo ambito risulta
marginale, se non del tutto esclusa, la funzione performativa del processo di lettura.
La voce è ridotta la silenzio. Si assiste al trionfo della rappresentazione visiva dei
segni.
All’interno del domino di questa forma epistemica della narrazione viene codificata la tradizione letteraria moderna. Nel corso della lenta evoluzione dei generi
che appartengono alle istituzioni della letteratura vige sempre il dispositivo del
libro. La prassi del racconto viene implementata nella tecnologia della stampa.
La narrativa letteraria diventa così la traduzione mediatica di una esperienza primariamente condotta nell’istante spazio temporale della parola vivente. La tecnica
ancestrale della voce viene rimossa, anzi diventa una funzione inscritta all’interno di una configurazione che la tratta non più come forma, bensì come contenuto.
Il supporto della stampa regge la forma del messaggio narrativo, stabilisce le regole della comprensione e fissa le istruzioni di una lettura per mezzo della voce.
L’interpretazione del testo mediante la voce diventa una prestazione rara e per lo
più destinata al ruolo dell’attore. La tradizione letteraria invade anche lo spazio
teatrale, lo codifica mediante l’affermazione del primato del testo e determinando,
infine, l’agire performativo del palcoscenico come rappresentazione.
Il ventesimo secolo, da un punto di vista estetico, si caratterizza per una messa
in discussione radicale dei presupposti della rappresentazione classica. Intendiamo
mettere in correlazione la trasformazione storico-effettuale dell’esperienza sensibile e l’innovazione tecnologica, cercando di mostrare come l’esperienza estetica
sia implicata costitutivamente nella prassi tecnica. In altri termini la rivoluzione
mediatica otto-novecentesca indica la necessità di ripensare radicalmente l’arte come techne, intendendo con questo un’estetica degli artefatti e della reificazione in
contrasto con la teoria dell’alienazione, per un verso, e, per l’altro, con le posizioni
neo-mitologiche ed estetizzanti che contrappongono il destino dell’arte alla civiltà
tecnologica.
Se le istituzioni letterarie sono anche una forma di implementazione tecnologica che esteriorizza l’interiorità della voce narrante, allora la destabilizzazione del
primato esclusivo della scrittura alfabetica, avvenuta per via della proliferazione di
nuovi media (come il giornalismo illustrato, la fotografia, la discografia, la cinematografia e via proseguendo fino alla televisione e a Internet) determina sul piano
della storia degli effetti una trasformazione radicale del nostro modo d’intendere la
tradizione e la prassi letteraria che ne è scaturita. Si tratta di un processo composito
e per nulla lineare. Derrida aveva sostenuto già in Della grammatologia la necessità di una filosofia della scrittura che fosse in grado di differenziare il concetto
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generale della traccia grafica dalla sua identificazione metafisica con la tecnologia
comunicativa di tipo alfabetico3 .
Dobbiamo notare come l’argomentazione di Derrida fosse fondata sul riscontro
di un insieme di eventi storici determinati, fosse giustificata sulla scorta di ragioni
storico-effettuali. L’evoluzione delle tecnologie comunicative così come appariva
sul finire degli anni Sessanta appare come l’orizzonte pre-teorico e, congiuntamente, la condizione di possibilità di interrogare filosoficamente la scrittura. In quella fase storica, segnata dalla diffusione massiccia dei mezzi di comunicazione di
massa, in particolare dalla televisione, ma anche dallo sviluppo planetario delle
telecomunicazioni satellitari, dalla cibernetica e dalla genetica, si apre, soprattutto,
la crisi del libro. Ovvero, per dirla nei termini di McLuhan, si verifica la fine della
galassia Gutenberg e la scomparsa dell’uomo tipografico, di quel particolare paradigma antropologico ed esistenziale che affondava le proprie radici culturali nella
diffusione del sapere e della conoscenza tramite la stampa.
L’epoca del libro a stampa, cioè di un peculiare tipo di istituzione culturale,
volgeva al declino. Non nel senso che non ci sarebbero stati più libri (tuttora il
libro è il mezzo di comunicazione privilegiato della cultura scientifica), bensì che
la pratica di lettura del libro cominciava a svolgersi in un contesto che stava lentamente modificando i nostri gesti e le nostre disposizioni antropologiche soggiacenti
alla comprensione e all’interpretazione del mondo. Il contesto, l’ambiente, il frame
del nostro modo di leggere si stava trasformando. Lo sfondo delle considerazioni filosofiche di Derrida, al di là delle strategie specifiche del decostruzionismo,
suggerisce un collegamento decisivo tra scrittura, tecnica e pensiero.
La convergenza tra rivoluzione tecnologica e mediatica e le pratiche teoriche
della traduzione umanistica, però, si è estesa a tutto il campo letterario. George
Landow suggerì negli anni Novanta la necessità di considerare un nuovo piano
di edizione e pubblicazione, un nuovo ambiente di scrittura basato sul supporto
elettronico: l’ipertesto4 . Per spiegarne i concetti-chiave e il paradigma teorico
che s’imponeva in questo nuovo passaggio Landow si riferì al decostruzionismo
derridiano o al rizoma deleuziano. In tutti questi esperimenti teorici si faceva riferimento a un nuovo modo di scrivere la teoria che si collegava al dispositivo di
produzione di senso e alla creazione di concetti. L’ipertesto imponeva una configurazione del senso di tipo non lineare e una struttura dei concetti di tipo reticolare.
Per questo motivo la comprensione del senso da parte dell’interprete doveva basarsi su presupposti ermeneutici completamente diversi rispetto al tipico rapporto
tra testo e lettore istituito nell’ambito della tradizione letteraria del libro a stampa.
In particolare, mentre la pubblicazione del libro ha carattere di fissa oggettività e
di intrinseca stabilità, l’ipertesto ha invece caratteristiche di mutevolezza e di apertura, cioè di perpetua modificabilità della sua configurazione tramite l’intervento
dell’interprete. Il lettore, cioè, accede alle funzioni di scrittura e di produzione del
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Cfr. J. Derrida, Della grammatologia, Jaca Book, Milano 1969.
Cfr. G. Landow, L’ipertesto. Tecnologie digitali e critica letteraria, tr. it. di V. Musumeci, a cura
di P. Ferri, Bruno Mondadori, Milano 1998.
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testo, per cui la frontiera che lo separa dall’autore viene varcata irrevocabilmente. La performance della lettura è costituiva del testo medesimo perché interviene
sulle condizione stesse della produzione di senso. Mentre la tradizione letteraria
esaltava la funzione dell’autore e l’unicità e irripetibilità della figura dello scrittore, nel contesto delle tecnologie digitali la performance dell’interprete acquisiva di
nuovo un posto centrale.
Esiste, quindi, una potente analogia, che va al di là delle tradizionali opposizioni di genere, che lega filosofia e letteratura, e riguarda l’appartenenza reciproca
al campo della pratica di scrittura. Intendendo con ciò l’appartenenza costituiva e
originaria all’ambito della prassi tecnologica e del medium.
Per quanto riguarda, ad esempio, la narrativa è facile concludere che essa rimane prevalentemente una forma di espressione artistica legata al libro. Per molti
non sarebbe cambiato nulla vista l’impossibilità di trasportare con successo la pagina stampata su un altro supporto. Anche digitalizzando un romanzo, in fondo si
tratterebbe di doverlo stampare per poterselo leggere.
Ma è un osservazione che si può facilmente contestare. In realtà l’ecologia dei
media realizza un nuovo frame per la nostra attività mentale. La comprensione
del testo viene mediata da processi molto più complessi dove l’unità del libro entra a far parte di una filiera produttiva del senso all’interno della quale si trovano
concatenate esperienze estetiche qualitativamente molto differenti ed eterogenee.
Il romanzo non ha più un posto privilegiato nell’elaborazione mitopoietica, spesso
finisce con l’essere un prodotto derivato di imprese comunicative assai più ampie
e variegate. In altri termini il romanzo non è più la forma della narrazione, bensì
un contenuto che appartiene a una più stratificata narrazione multimediale. Il carattere “derivato” del romanzo non deve però far pensare a un giudizio di valore.
Se facciamo riferimento ad esempio ai procedimenti narrativi utilizzati da scrittori
come Burroughs e Pynchon per giungere fino a DeLillo e Foster Wallace si comprende subito come il romanzo “ricicli” gerghi, trame, icone derivate ad esempio
dalla mitopoiesi televisiva o dei comics. Per comprendere il senso narrativo il lettore non deve più basarsi sull’unità del libro, bensì sul rinvio alle tradizioni plurali
e specifiche di altre forme mitopoietiche.
Nella cultura postmoderna si è assistito a una progressiva contaminazione della
classica distinzione tra “alto” e “basso” nella cultura. A una rappresentazione verticale e assiologica dell’esperienza estetica si è sostituita una concezione orizzontale
e reticolare. Ad esempio dal fenomeno Avantpop della letteratura nordamericana
degli anni Novanta (Foster Wallace, Vollmann, Lethem) fino alle esperienze italiane del gruppo dei Cannibali (soprattutto in autori come Ammaniti, Scarpa e Nove)
e alla saga fantasy e metafisica di Metallo Urlante (Valerio Evangelisti) testimoniano un uso mediatico della letteratura. L’“elaborazione del mito” avviene attraverso
il ricorso a un repertorio ampio di collegamenti a forme differenti di espressione e
di fruizione che si riferiscono simultaneamente a modelli raffinati e cerebrali così come alle manifestazioni trash e pulp. Per questo motivo, se pensiamo al caso
letterariamente più sconcertante degli ultimi trent’anni, ovvero ai romanzi enigmatici di Thomas Pynchon ci troviamo di fronte a un modo di costruire l’intrigo
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basato più su criteri curvilinei e statistici che sull’annodarsi di un intreccio teso allo
scioglimento finale5 . Pynchon parte da situazioni altamente improbabili che si susseguono e fanno riferimento le une alle altre. Spesso l’andamento della narrazione
è turbato da avvenimenti che deviano il racconto in direzioni spazio temporali incongrue ed eterogenee determinando nel lettore degli effetti di spaesamento e di
dislocazione mentale quasi di tipo psichedelico.
Oppure William Burroughs abdica in molti suoi testi a ogni possibilità di ricomposizione lineare delle tracce della sua narrazione6 . Si tratta di un insieme
caotico e frammentario, come in Naked Lunch o in The soft machine, dove si rilevano le ricorrenze dei nomi e delle situazioni, l’iterazione dei termini, fino ai
giochi linguistici di taglia e cuci (i celeberrimi cut-up) e alla frantumazione deliberata dell’unità di luogo (l’Interzona). Per rimanere a questi esempi così importanti
va sottolineato come i detriti della cultura di massa piovano di continuo tra le macerie incandescenti della scrittura creativa di Burroughs o di Pynchon. Spesso le
trame proseguono innestandosi su plot tratti da telefilm, da articoli di rotocalco,
da stralci di romanzi seriali di fantascienza, che si mescolano senza possibilità di
chiara ed evidente distinzione con riflessioni scientifiche provenienti dalla fisica o
di chimica, da esperimenti di psicologia sperimentale, da testi di teologia.
Il romanzo, perciò, non si fonda più sulla funzione risolutiva del finale, sul
“senso della fine”, sul legame essenziale tra tempo e racconto. Ma sul dispositivo
che combina insieme frammenti eterocliti e produce aleatoriamente delle esperienze di senso. Il pasto nudo di Burroughs non ha un ordine sequenziale preciso, ma è
il prodotto di una collazione momentanea e parziale di una serie di documenti sparsi. Ovvero, il perno, attorno a cui ruota la produzione letteraria di Burroughs, è la
dispersione irriducibile della traccia scritta. Una folla di testi che reagiscono gli
uni sugli altri e che compongono i molteplici strati di senso che formano l’universo
narrativo della sua scrittura.
Pynchon procede, invece, attraverso, l’uso costante della parentesi. Mentre il
racconto sembra procedere lungo un sentiero, in modo quasi insensibile, attraverso
l’inserzione di un sogno o di una voce che racconta a sua volta una storia, avviene
un détournement impressionante che scardina del tutto la continuità della storia.
Il romanzo viene costituito per proliferazione o per ammasso. Gravity’s rainbow
sembra, piuttosto che un libro, un monolite; l’enigmatica monumentalità della sua
stesura, che occupa più di ottocento pagine, sembra rivolgersi e, nello stesso tempo,
fondare una nuova esperienza di lettura. Una certa inintelligibilità di Pynchon
appare come un urto necessario per far crollare il sistema di attese convenzionali
che istruiscono e regolano il comportamento ermeneutico. Non si tratta più di
far fronte al compito di una ricomposizione unitaria del senso, ma al contrario
il lettore è spinto e sollecitato verso continue infrazioni, verso la vertigine e la
dispersione. Quest’operazione si rivolge contemporaneamente al lettore erudito
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La scrittura paradigmatica di Pynchon, per quanto andiamo sostenendo, può trovare riscontro
straordinario in L’arcobaleno della gravità, tr. it. di G. Natale, Rizzoli, Milano 1999.
6 W. Burroughs, Il pasto nudo, tr. it. di F. Cavagnoli, Adelphi, Milano 2001.
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e al pubblico standardizzato del mass market. Entrambi sono coinvolti su piani
differenti e non necessariamente comunicanti. Le teorie fisico-sperimentali della
materia e le astruserie di M.me Blavatsky, il cinema di propaganda e i ripieni della
caramelle dell’anteguerra sono intrecciati all’interno di un disegno improbabile,
eppure implacabile.
Nella narrativa contemporanea gli esempi di Burroughs e Pynchon operano di
frequente, mostrando così come operi in profondità (e non nell’unicità irripetibile del genio) la dinamica di contestazione interna dei processi e delle istituzioni
della letteratura. Una contestazione che non prende la forma dell’avanguardia tradizionale (che è già un pericoloso ossimoro!), cioè non prende le mosse da una
negazione dell’industria culturale e dei suoi prodotti. Ma, al contrario, mostra
come la separazione storica (tipica della teoria dell’arte moderna e, soprattutto, novecentesca) tra cultura di massa e sperimentazione artistica abbia esaurito le sue
ragioni. Entrambi gli atteggiamenti rimangono all’interno di una prima fase dell’evoluzione dell’ambiente culturale, cioè delle tecnologie cognitive ed emotive
che popolano il nostro contesto, nelle quali si continua a trasmettere e a progettare
processi comunicativi direzionati linearmente.
La televisione mediante il broadcasting così come il mercato dei best-seller
attraverso la grande distribuzione in realtà mirano a escludere il lettore o lo spettatore dalla possibilità di manipolare i modi di produzione del senso. Per certi
aspetti siamo di fronte all’apice della figura antropologica dell’uomo tipografico.
La moltiplicazione illimitata e la diffusione a basso costo dei libri a stampa sembra poter inverare l’universalizzazione della tradizione letteraria costituitasi nello
spazio storico ed esperienziale dell’umanesimo moderno. In realtà le trasformazioni dell’ambiente tecnologico, il rafforzamento dei tratti cognitivi degli artefatti
che svolgono operazioni mentali, conducano molto in fretta a un repentino cambiamento di scenario. Mentre l’avanguardia tenta di difendere i valori soggettivi e più
autentici dell’arte dall’assalto del mercato, in realtà si dissolve un intero orizzonte
culturale che accomuna tutta la produzione dei beni simbolici e immateriali.
Nella letteratura avantpop, se pensiamo soprattutto a un testo eminente come
Underworld di Don DeLillo o a Infinite Jest di David Foster Wallace7 , il rapporto
tra testo e lettore sembra trasformato. Il libro si offre sempre di più a essere smontato e rimontato secondo procedimenti deliberati dal lettore. In fondo Infinite Jest potrebbe anche non essere letto nella sua straordinaria interezza di millequattrocento
pagine.
I libri non hanno un significato nascosto da rivelare al lettore. La manipolazione della memoria storica, nei romanzi di DeLillo, giunge attraverso la fitta contaminazione tra fiction e reportage, ma soprattutto consente al lettore di “giocare”
con i personaggi della storia popolare americana recente e di trovarli trattati come
maschere e, perciò, sottratti alle identità fisse e necessitanti della rappresentazione
storiografica.
7 Cfr. D. DeLillo, Underworld, tr. it. di D. Vezzoli, Einaudi, Torino 1999; D. Foster Wallace,
Infinite Jest, tr. it. di E. Nesi con la collaborazione di A. Villoresi e G. Giuia, Fandango, Roma 2000.
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In tutti questi casi ci troviamo di fronte a una situazione performativa in cui il
lettore viene introdotto nella produzione della condizioni di possibilità del senso
e della sua comprensione. La fonte del significato non è più nell’unita psicologica dell’autore, nella totalità del libro, nella continuità della trama o nella funzione
del personaggio, ma nelle occorrenze di lettura che si installano dentro il testo,
nei dispositivi di funzionamento del suo senso. Il racconto non si dipana più nella
compattezza della scrittura alfabetica e nell’evidenza visibile della sua rappresentazione tipografica. Ma invade piuttosto lo spazio mentale del lettore, rompendo la
membrana che lo separa dall’opera e dalle sue condizioni di esistenza.
Il lettore legge in libro come frammento di un sistema comunicativo più complesso, come un codice in grado d’interagire con il nostro hardware circuitale interno (il cervello) e lo deve utilizzare per andare in direzione di un’esperienza estetica
che deve essere realizzata solo in virtù della combinazione con apparati mediali differenti dalla tecnologia alfabetica. Possiamo dire che così si modifica sostanzialmente la risposta ermeneutica della lettura e il suo pendant antropologico.
La lettura diventa un’elaborazione del mito e una sua continua riscrittura grazie
alla capacità performativa dell’interprete d’implementare il testo del racconto su
differenti supporti. Potremmo dire, per fare un esempio, che i testi di Burroughs
o di Pynchon ci sono e quindi funzionano come dispositivi di senso, non come un
oggetto carico d’evidenza tipografica, ma solo se, innervandosi nell’attività mentale dell’interprete, diventano veicoli di trasformazione ed elaborazione del senso a
venire.
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