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IL DIRITTO CONTRATTUALE DÌ FONTE COMUNITARIA
La nozione di diritto contrattuale europeo acquista significati diversi secondo i contesti in
cui viene usato. Le sue varianti riguardano il diverso modo di intendere la dimensione o
qualificazione europea, i contenuti del diritto contrattuale, ma anche il metodo di
esposizione, cioè il modo nel quale si può procedere ad illustrarne i significati e modalità
operative. Tra le varie proposte di definizione:
Diritto rappresentativo dei principali modelli
• Diritto primigenio
• Diritto contrattuale comunitario
•
La dottrina si cimenta nel dare al corpus di regole di fonte comunitaria un’interpretazione
sistematica, procedendo per:
• Sintesi: enucleano i principi applicati in ambito nazionale e che talvolta trovano il
loro omologo in un altro ambito nazionale, sicché si tende a considerare questi
principi di livello “europeo”.
• Convergenza: è un tipo di ricerca che si focalizza su ciò che unisce gli ordinamenti e
i giuristi che li praticano.
• Contrapposizione tra modelli: (frutto della teoria della concorrenza) sono modelli di
illustrazione di una realtà che si vuole rappresentare frammentata in tanti modelli
ciascuno dei quali ha vita propria e ciascuno di essi sfida l’altro. La vittoria è data
dalla sua funzionalità e dalla sua convenienza dal punto di vista dell’operatore
economico.
• Classificazione: cerca di creare una base su cui edificare regole comuni ai Paesi
europei (è il metodo della Commissione europea)
• Codificazione: è il metodo proposto dal Parlamento europeo e dai gruppi di studio
che si dedicano a ricerche di diritto contrattuale: un d. contrattuale inteso come set
di regole comuni ai rapporti economici negoziali intrattenuti da operatori nell’ambito
dell’UE.
Acquis communitaire: Il diritto contrattuale comunitario si compone di regole, prassi,
sentenze cangianti nel tempo, provenienti da diversi modelli, inseriti nell’ambito delle fonti
del d. comunitario e in seguito trasposte nell’ambito degli ordinamenti nazionali, ma non
rivolte a disegnare una compiuta e organica disciplina contrattuale. Il diritto contrattuale
comunitario nasce in un settore che riguarda la circolazione dei beni di consumo e alcune
categorie di servizi e rivolto alla tutela dei consumatori. Ma poco a poco viene ampliato il
suo raggio investendo settori diversi che vanno dalle clausole abusive alla garanzie nella
vendita (ad es. ai contratti tra professionisti, e la subfornitura).
Principi cardine della disciplina dei contratti dei consumatori sono: efficacia della
protezione e principio di informazione dei consumatori.
Il settore del diritto comunitario della concorrenza ha influenzato molto il diritto
contrattuale, ad esempio nell’ambito della violazione di accordi e intese, abuso di posizione
dominante, moral suasion (diretta alla negoziazione tra privati e autorità di controllo),
espansione dei principi concorrenziali al di là dello specifico settore di appartenenza).
Armonizzazione: implica avvicinamento,coordinamento, ma non sovrapposizione né
identità. E’ realizzata tramite la giurisprudenza della Corte Europea di Giustizia (che ha
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sancito l’applicabilità diretta delle direttive che sono state formulate in modo dettagliato e
istituiscono d. in capo ai singoli, sono direttamente applicabili dal giudice nazionale e
prevalgono sulle norme interne in contrasto con esse. L’applicabilità diretta funziona solo
verticalmente, nei rapporti fra singoli e Stato. Altro scopo è il miglioramento dell’ acquis
comunitario per rendere le sue regole coerenti e di agevole applicazione nonché per
aggiornarle secondo le esigenze di volta in volta espresse dai programmi di tutela degli
interessi dei consumatori. Il miglioramento passa attraverso
l’uniformazione della
terminologia, l’elaborazione di principi generali, l’inserzione di regole in un quadro organico
e la creazione di un codice comune europeo di diritto privato.
Vari interventi della Commissione:
• Approccio verticale: consiste nel rivedere singole direttive
nell’approvazione di nuovi atti normativi in settori specifici;
• Approccio orizzontale: consiste nell’adozione di strumenti quadro.
esistenti
o
Interventi più rilevanti in ordine cronologico:
2001  questionario alle Istituzioni sul diritto contrattuale europeo; libro verde che
riassume gli interventi già effettuati (cioè l’acquis), e si interroga sulla necessità di fare
intervenire il legislatore comunitario o affidare la tutela del consumatore al mercato stesso.
2003 comunicazione della Commissione per creare un CFR (quadro comune di
riferimento)
2004  comunicazione su “di diritto contrattuale europeo e revisione dell’ acquis:
prospettive per il futuro” (colmare le lacune, creare una terminologia unitaria, attuare le
direttive).
La Commissione ha proposto di introdurre clausole standard; il Parlamento ha invece
proposto l’adozione di un Codice Europeo non limitando l’armonizzazione al solo diritto
contrattuale, e sostenendo che quest’ultima costituiva ostacolo alla protezione del
consumatore.
I Governi, dal canto loro, invocano la sussidiarietà.
La Commissione Lando, nell’ambito dell’adozione graduale del Codice ha varato i “PDEC”.
Autonomia contrattuale, libertà di impresa e Costituzione europea
La Carta dei d. di Nizza si presenta come il nucleo di una vera e propria costituzione
europea. La carta include i d. sociali e garantisce al consumatore nell’art.38 un elevato
livello di protezione del consumatore, e ripudia la concezione molecolare dei diritti
individuali. Dal punto di vista del d. privato, la Carta, incentrandosi sulla tutela della
persona <<è uno strumento per la ricerca dei valori unitivi e per ridefinire i rapporti fra
privati e fra questi e le Istituzioni in un ambito che supera i confini di ciascuno stato>>.
A seguito dell’approvazione della Carta di Nizza, in Italia si accese un aspro dibattito, dal
momento che la Carta dei diritti di Nizza, non conteneva una norma esplicita che sancisse
l’autonomia contrattuale, la quale era dunque deducibile soltanto dalla norma che
garantiva la libertà di impresa.
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Si è giunti alla conclusione che la carta incorpora valori e diritti che possono essere
considerati come limiti esterni all’autonomia privata; si tratta di norme precettive, tra le
quali vanno annoverate quelle che tutelano la dignità umana, la solidarietà, la buona fede,
la proporzionalità, la ragionevolezza.
Secondo alcuni questi valori e diritti avrebbero contenuto vago e sono stati espressi dubbi
sull’applicabilità della norma di chiusura sul divieto dell’abuso di diritto (art. 114, non
compiere attività che contrastino con i diritti della Carta).
L’art. 16, indica invece i limiti interni (dati dal mercato) all’autonomia contrattuale e alla
libertà di impresa:
• Diritto comunitario;
• Legislazioni nazionali;
• Prassi nazionali.
Tale articolo deve essere interpretato nel contesto della Carta, infatti la libertà di impresa
può confliggere con alcuni diritti quali la tutela dell’ambiente, i diritti dei lavoratori, la
protezione della vita privata e la dignità umana.
Le norme sulla formazione e sulla libertà di scelta non bastano a rendere paritetico il
rapporto tra professionista e consumatore.
Le norme di libera concorrenza non escludono comunque interventi pubblici allo scopo di
perseguire interessi generali, indispensabili per la tutela del consumatore.
Tra i limiti esterni (ossia i valori contenuti nel tessuto comunitario) inerenti ai rapporti
professionista-consumatore, e anche tra due professionisti, vi è la correttezza.
La disciplina generale del contratto del consumatore: a) la nozione del
consumatore
La categoria del contratto del consumatore si impernia sulla contrapposizione di due classi
di soggetti distinte per capacità di incidere sulla predisposizione del regolamento
contrattuale e sulla successiva esecuzione del rapporto: il professionista e il consumatore.
La nozione di professionista contenuta nell’art 3 lett. c) della dir. 93/13
comprende le persona fisica o giuridica, pubblica o privata, che agisce nell’esercizio della
propria attività imprenditoriale o professionale e nel singolo intermediario. Il gruppo di
imprese non può essere ricondotto alla nozione di professionista giacché si tratta di un
aggregato di imprese che conservano la loro autonomia giuridica.
La figura del consumatore risulta controversa l’art. 2 lett. b, direttiva 93/13
designa il consumatore come qualsiasi persona fisica che agisce per fini che non
rientrano nel quadro della sua attività professionale.
Il consumatore viene individuato in negativo e su di una negazione non si costruisce uno
status né si delinea una classe sociale. Di conseguenza il ripudio della concezione del
consumatore come appartenente ad una classe sociale specifica ha suggerito l’abbandono
ad una letture più soggettivistica per approdare ad una concezione orientata al sindacato
in concreto dello scopo finale perseguito dalla controparte del professionista.
Tutto ciò ha portato ad un rivisitazione della normativa sul contratto del consumatore
come disciplina dell’atto di consumo a prescindere dalla formale qualificazione soggettiva
dei contraenti.
Sono determinanti al tal fine:
• l’interesse in concreto in vista del quale il contratto è concluso
• la condizione di assenza di forza contrattuale nel singolo caso
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Sicché è legittimo considerare consumatore anche l’imprenditore individuale o il
professionista mosso nella stipulazione del contratto dall’esigenza di appagare un bisogno
di consumo.
La concezione oggettivistica incide sull’identificazione della finalità di consumo con la
finalità di godimento individuale o familiare e consente di considerare tale qualsiasi scopo
non strettamente collegato allo svolgimento della propria attività professionale o
addirittura rispetto ad essa marginale.
Infatti anche il professionista persona fisica che acquisti un distributore di bevande per
placare la sete dei propri dipendenti può essere considerato un consumatore.
Anche la Corte Europea di Giustizia di recente sembra essersi orientata in tal senso: << le
regole di competenza stabilite dalla convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968,
concernenti la tutela giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e
commerciale , devono essere interpretate nel modo seguente:
a)un soggetto che ha stipulato un contratto relativo ad un bene destinato ad uso in parte
professionale ed in parte estraneo alla sua attività professionale non ha diritto di
avvalersi del beneficio delle regole di competenza specifica previste in materia
di contratti conclusi dai consumatori, a meno che l’uso professionale sia
talmente marginale da avere un ruolo trascurabile nel contesto globale
dell’operazione di cui trattasi essendo rilevante il fatto che predomini l’aspetto
extraprofessionale. (USO PROMISCUO)
b)spetta al giudice stabilire se il contratto sia stato concluso per soddisfare esigenze
attinenti all’attività professionale del soggetto ovvero se l’attività professionale riveste solo
un ruolo marginale.
c)il giudice deve prendere in considerazione tutti gli elementi di fatto rilevanti mentre non
deve tenere in conto circostanze ed elementi di cui la controparte avrebbe potuto
prendere conoscenza al momento della conclusione del contratto a meno che il soggetto
che fa valere lo status di consumatore si sia comportato in modo tale da far sorgere
legittimamente l’impressione nella controparte contrattuale di agire con finalità
professionali.
L’estensione della categoria del consumatore agli enti risulta problematica a causa dello
stringente vincolo del testo dell’art 2 lett. b) dir. 93/13. Dalla definizione di consumatore
si delinea chiaramente la ratio di circoscrivere la figura alle sole persone fisiche. Lo ha
ribadito più volte la Corte Europea di Giustizia ( C-541/99 e C-542/99 ) secondo cui la
nozione di consumatore non può che riguardare una persona fisica. (in Inghilterra la
cassazione ha esteso la nozione di consumatore al piccolo imprenditore e ha esteso la
disciplina sul credito al consumo anche agli enti privi di personalità giuridica. Sono
considerati consumatori gli enti no-profit o i piccoli imprenditori in UK, Spagna, Grecia.
La Corte Costituzionale italiana ha inaugurato un orientamento contrario all’ampliamento
della nozione di consumatore al di là delle persone fisiche. ( Corte cost. 30 giugno 1999 n.
282; 22 novembre 2002 n.469).
Il consumatore esperto cioè un acquirente del bene o del servizio dotato di un grado di
preparazione tecnica pressappoco simile a quella del venditore/fornitore può essere
considerato consumatore e quindi meritevole di tutela? Infatti se i profili dell’interesse e
dell’assenza di forza contrattuale, concorrono all’identificazione della figura di
consumatore, se ne dovrebbe escludere la ricorrenza nell’ipotesi dell’acquirente esperto,
per assenza del divario di competenze e dello squilibrio nella detenzione delle informazioni
che connota la relazione fra il professionista e il consumatore. Tale soluzione appare
troppo rigorosa e sembrerebbe tradire la ratio della disciplina delle clausole vessatorie che
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consiste nella predisposizione di regole di riequilibrio del contratto ancorate ad una
presunzione astratta di disparità di potere contrattuale che si ricava dal fatto oggettivo del
compimento di un atto di consumo e prescinde dalle qualità soggettive dell’autore.
b) il contratto con asimmetrie di potere contrattuale
Il contratto tra consumatore e professionista costituirebbe il paradigma di un modello
generale definibile come contratto con asimmetrie di potere contrattuale, caratterizzato dal
peculiare potere del giudice di influire sull’equilibrio dell’accordo per porre rimedio alla
disparità economica e potere contrattuale fra le parti; strumentale a tale modello è la
tendenza ad ampliare la nozione di consumatore.
Tutto ciò spinge a proporre un nuovo paradigma generale di contratto definito come <<
contratto con asimmetria di potere contrattuale>>.
Il legislatore comunitario ha prescelto una tecnica normativa che, ha rinunziato al
carattere della generalità scegliendo come fattore di agglutinamento una particolare
categoria di atti negoziali: gli atti di consumo.
L’asimmetria del potere contrattuale è uno schema adottato dal nostro c.c., agli artt.
1447-1448 sulla rescissione, 1425 e ss. sui vizi della volontà e, per analogia legis, la
disciplina del contratto del consumo si può estendere ai rapporti tra imprese caratterizzati
da disparità contrattuale.
Valutare il significativo squilibrio di diritti e obblighi, frutto di una condotta contro buona
fede, è criterio assunto nella disciplina delle clausole abusive, dai PDEC e dai principi
Unidroit.
L’invocazione della buona fede nei PDEC e nei principi di Unidroit, secondo la dottrina
italiana, è eccessiva, ma sarebbe giustificata in quanto la buona fede avrebbe funzione di
riequilibrio in via di autointegrazione, operando con la volontà delle parti, come avviene
del diritto italiano per gli aspetti accessori del contratto. Per altra dottrina, invece, sarebbe
strumento di eterointegrazione operando con riferimento a standard mercantili, come il
prezzo e l’equilibrio ottenibile in un mercato comparabile, ma perfettamente
concorrenziale.
In tal modo si configurerebbe un contratto suscettibile di un eccessivo controllo giudiziale
e un’eccessiva limitazione dell’autonomia privata.
Le clausole abusive
Le clausole abusive di diritto comunitario sono distinguibili dalle clausole vessatorie
previste dal codice civile (art. 1341.2 e 1469 bis).
La disciplina sulle clausole abusive è contenuta nella direttiva n. 93/13, che presenta tre
caratteristiche fondamentali:
1. Si applica a tutti i contratti del consumatore;
2. Si occupa di regole esistenti negli ordinari c.c. e codice del commercio;
3. Presuppone molte nozioni di diritto contrattuale.
Oltre ai generici ambiti di applicazione (i contratti tra professionista e consumatore, e tra
professionisti), è applicabile ai contratti per adesione:
• Contratti predisposti da soggetti terzi che hanno messo in circolazione il formulario
contrattuale adottato dal professionista e sottoposto al consumatore;
• Contratti predisposti dal contraente più forte, formulato in modo da far assumere al
consumatore il ruolo di offerente;
• Contratti stipulati da un intermediario;
• Contratti predisposti in parte dal professionista e contenente clausole aggiunte
negoziate dal consumatore.
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La direttiva ricorre al parametro della buona fede ai fini di controllo del contratto, infatti
affida al giudice il compito di valutare la vessatorietà della singola clausola tramite il
ricorso alla buona fede, ossia alla correttezza e al leale comportamento delle parti
(s’intende la parte che ha predisposto il testo).
Il riferimento alla buona fede è stato mal tradotto dal legislatore italiano: “la vessatorietà
si misura sullo squilibrio contrattuale in danno del consumatore, malgrado il requisito della
buona fede”. Il legislatore italiano ha operato una torsione della buona fede da oggettiva a
soggettiva (ignoranza del professionista di ledere l’altrui diritto), rendendo inutile il
riferimento.
La direttiva introduce il criterio dell’equilbrio tra le posizioni giuridiche delle parti:
l’equilibrio deve essere inteso in senso normativo ossia equilibrio tra d. e obblighi , e non
in senso economico (opportunità dell’affare), tranne nel caso in cui il corrispettivo non sia
espresso in modo chiaro; in quest’ultimo caso, infatti, è in gioco la trasparenza del
rapporto, dal momento che il consumatore non può avvedersi dell’onere contrattuale. Lo
squilibrio tra diritti e obblighi deve essere significativo, e il giudice deve valutare che il
regolamento contrattuale, nel suo complesso, non pregiudichi il consumatore; nel far ciò
opera un raffronto del contratto in concreto esaminato con un modello astratto di
contratto equilibrato. La direttiva consente di individuare clausole indefettibilmente
vessatorie, e clausole presuntivamente tali (fatta salva la prova del professionista). Inoltre
specifica che non sono considerabili vessatorie quelle che hanno ad oggetto il ricorso ai
sistemi di composizione stragiudiziale delle controversie.
La combinazione dei due criteri di buona fede e squilibrio normativo, consente la
determinazione di un effetto che la buona fede in senso oggettivo da sola non
produrrebbe, ossia l’inefficacia relativa (o la nullità relativa, ex art. 36 del cod. del
consumo) della clausola. (NULLITA’ Di PROTEZIONE)
La direttiva insiste sulla trasparenza (criterio noto alla dottrina italiana e tedesca come
elemento accessorio) sotto il duplice profilo dell’intellegibilità della clausole e della
completezza delle informazioni dovute al consumatore prima della conclusione del
contratto (tali informazioni possono essere contenute anche in allegati al contratto). L’art.
4 estende la sanzione della vessatorietà anche all’oggetto del contratto se esso non è
indicato in modo chiaro.
L’art. 5 prevede la regola dell’ ”interpretatio contra proferentem” (in caso di dubbio sul
senso di una clausola prevale l’interpretazione più favorevole al consumatore), e l’art. 6
prevede il principio della conservazione del contratto (il contratto resta vincolante tra le
parti se può sussistere senza le clausole abusive).
L’art. 8, è una norma di chiusura, prevede che gli Stati possano mantenere o adottare
misure più severe, compatibili col Trattato, per garantire un livello di protezione più
elevato per il consumatore.
Il secondo comma dell’art. 6 impegna gli Stati membri, nel caso in cui il contratto presenti
un legame stretto con il territorio di uno Stato membro, a prendere le misure necessarie
affinché il consumatore non sia privato della protezione nel caso in cui scelga di applicare
al contratto la legislazione di un Paese terzo.
Ogni Stato detta dei congegni tecnici per rendere non vincolanti le clausole abusive. In
Italia, a tale scopo, è stato inserito nel c.c. l’art. 1469 quinquies, che ha introdotto la
figura della legittimazione relativa riservata al consumatore, la rilevabilità d’ufficio da parte
del giudice (nel solo interesse del consumatore), la parzialità in quanto “il contratto rimane
efficace per il resto”.
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Il c.c. invece di fare riferimento alla nullità parziale (che prevede all’art. 1419) ha
disciplinato il caso come un’ipotesi delle nullità di protezione consacrate dall’ acquis
communitaire (nuova figura di invalidità).
Vi sono stati tentativi di estensione della nullità di protezione all’ambito dei rapporti tra
imprese (per esempio nel caso di abuso di posizione dominante oggi è prevista la sanzione
del risarcimento del danno), ma ciò si scontra con la generale obiezione della tassatività e
non è una soluzione adeguata in quanto non garantisce sempre il ripristino delle condizioni
del corretto gioco concorrenziale.
La direttiva indica anche una tutela processuale e introduce un procedimento monitorio in
cui le associazioni dei consumatori, dei professionisti e altri enti individuati (dai legislatori
nazionali) possono proporre un azione inibitoria contro le clausole vessatorie. In Italia gli
artt. 139 e ss. del cod. cons. disciplinano la possibilità di proporre un
tentativo di
conciliazione volontaria dinanzi la Camera di Commercio, industria, artigianato e
agricoltura competente per territorio , può essere comunque proposto sia prima che dopo
l’azione inibotoria, e in quest’ultimo caso solo dal professionista convenuto.
L’attuazione della direttiva ha comportato il diffondersi di un controllo di MORAL SUASION,
infatti le associazioni dei consumatori hanno stipulato, con i singoli operatori (specialmente
con Banche e Assicurazioni) dei protocolli d’intesa volti a bonificare i moduli contrattuali, e
le Camere di Commercio hanno segnalato le clausole abusive.
b) Negoziazione porta a porta, a distanza, online
Per contratti “conclusi fuori dai locali commerciali” si intendono, ai sensi della direttiva
85/577, i contratti di vendita o fornitura di beni o servizi accumunati dalla circostanza che
il negozio si conclude, ad esempio, al domicilio del consumatore o sul posto di lavoro, o
ancora su “catalogo” (in tal caso il contratto è altresì “a distanza” e si applica la disciplina
più favorevole al consumatore).
Per contratti “a distanza” si intendono, ai sensi della direttiva 97/7 i contratti di vendita o
fornitura di beni di consumo o di servizi diversi da quelli finanziari, accumunati dalla
circostanza che durante le trattative, e per la conclusione del contratto, il professionista
utilizza una tecnica di comunicazione a distanza (telefono, fax).
La direttiva 00/31 disciplina “i contratti per via elettronica” (9/12)
Sono riconosciuti al consumatore vari diritti di informazione e il recesso di pentimento
entro 10 gg.; con le decorrenze che variano a seconda del tipo di contratto, e in
particolare la mancata informazione determina l’allungamento dei termini.
Art. 65. Decorrenze
1. Per i contratti o le proposte contrattuali negoziati fuori dei locali commerciali, il termine
per l'esercizio del diritto di recesso di cui all'articolo 64 decorre:
a) dalla data di sottoscrizione della nota d'ordine contenente l'informazione di cui
all'articolo 47 ovvero, nel caso in cui non sia predisposta una nota d'ordine, dalla data di
ricezione dell'informazione stessa, per i contratti riguardanti la prestazione di servizi
ovvero per i contratti riguardanti la fornitura di beni, qualora al consumatore sia stato
preventivamente mostrato o illustrato dal professionista il prodotto oggetto del contratto;
b) dalla data di ricevimento della merce, se successiva, per i contratti riguardanti la
fornitura di beni, qualora l'acquisto sia stato effettuato senza la presenza del
professionista ovvero sia stato mostrato o illustrato un prodotto di tipo diverso da quello
oggetto del contratto.
2. Per i contratti a distanza, il termine per l'esercizio del diritto di recesso di cui all'articolo
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64 decorre:
a) per i beni, dal giorno del loro ricevimento da parte del consumatore ove siano stati
soddisfatti gli obblighi di informazione di cui all'articolo 52 o dal giorno in cui questi ultimi
siano stati soddisfatti, qualora cio' avvenga dopo la conclusione del contratto purche' non
oltre il termine di tre mesi dalla conclusione stessa;
b) per i servizi, dal giorno della conclusione del contratto o dal giorno in cui siano stati
soddisfatti gli obblighi di informazione di cui all'articolo 52, qualora cio' avvenga dopo la
conclusione del contratto purche' non oltre il termine di tre mesi dalla conclusione stessa.
3. Nel caso in cui il professionista non abbia soddisfatto, per i contratti o le proposte
contrattuali negoziati fuori dei locali commerciali gli obblighi di informazione di cui
all'articolo 47, ovvero, per i contratti a distanza, gli obblighi di informazione di cui agli
articoli 52, comma 1, lettere f) e g), e 53, il termine per l'esercizio del diritto di recesso e',
rispettivamente, di sessanta o di novanta giorni e decorre, per i beni, dal giorno del loro
ricevimento da parte del consumatore, per i servizi, dal giorno della conclusione del
contratto.
4. Le disposizioni di cui al comma 3 si applicano anche nel caso in cui il professionista
fornisca una informazione incompleta o errata che non consenta il corretto esercizio del
diritto di recesso.
5. Le parti possono convenire garanzie piu' ampie nei confronti dei consumatori rispetto a
quanto previsto dal presente articolo.
Art. 64. Esercizio del diritto di recesso
1. Per i contratti e per le proposte contrattuali a distanza ovvero negoziati fuori dai locali
commerciali, il consumatore ha diritto di recedere senza alcuna penalità e senza
specificarne il motivo, entro il termine di dieci giorni lavorativi, salvo quanto stabilito
dall'articolo 65, commi 3, 4 e 5.
2. Il diritto di recesso si esercita con l'invio, entro i termini previsti dal comma 1, di una
comunicazione scritta alla sede del professionista mediante lettera raccomandata con
avviso di ricevimento. La comunicazione può essere inviata, entro lo stesso termine, anche
mediante telegramma, telex, posta elettronica e fax, a condizione che sia confermata
mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento entro le quarantotto ore
successive; la raccomandata si intende spedita in tempo utile se consegnata all'ufficio
postale accettante entro i termini previsti dal codice o dal contratto, ove diversi. L'avviso
di ricevimento non e', comunque, condizione essenziale per provare l'esercizio del diritto di
recesso.
3. Qualora espressamente previsto nell'offerta o nell'informazione concernente il diritto di
recesso, in luogo di una specifica comunicazione e' sufficiente la restituzione, entro il
termine di cui al comma 1, della merce ricevuta.
Art. 55. Esclusioni
1. Il diritto di recesso previsto agli articoli 64 e seguenti, nonché gli articoli 52 e 53 ed il
comma 1 dell'articolo 54 non si applicano:
a) ai contratti di fornitura di generi alimentari, di bevande o di altri beni per uso domestico
di consumo corrente forniti al domicilio del consumatore, al suo luogo di residenza o al
suo luogo di lavoro, da distributori che effettuano giri frequenti e regolari;
b) ai contratti di fornitura di servizi relativi all'alloggio, ai trasporti, alla ristorazione, al
tempo libero, quando all'atto della conclusione del contratto il professionista si impegna a
fornire tali prestazioni ad una data determinata o in un periodo prestabilito.
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2. Salvo diverso accordo tra le parti, il consumatore non può esercitare il diritto di recesso
previsto agli articoli 64 e seguenti nei casi:
a) di fornitura di servizi la cui esecuzione sia iniziata, con l'accordo del consumatore, prima
della scadenza del termine previsto dall'articolo 64, comma 1;
b) di fornitura di beni o servizi il cui prezzo e' legato a fluttuazioni dei tassi del mercato
finanziario che il professionista non e' in grado di controllare;
d) di fornitura di beni confezionati su misura o chiaramente personalizzati o che, per loro
natura, non possono essere rispediti o rischiano di deteriorarsi o alterarsi rapidamente;
d) di fornitura di prodotti audiovisivi o di software informatici sigillati, aperti dal
consumatore;
e) di fornitura di giornali, periodici e riviste;
f) di servizi di scommesse e lotterie.
La disciplina dei contratti conclusi fuori dai locali commerciali si dedica
prevalentemente all’informazione sul diritto di recesso:
Art. 47. Informazione sul diritto di recesso
1. Per i contratti e per le proposte contrattuali soggetti alle disposizioni della presente
sezione, il professionista deve informare il consumatore del diritto di cui agli articoli da 64
a 67.
L'informazione deve essere fornita per iscritto e deve contenere:
a) l'indicazione dei termini, delle modalità e delle eventuali condizioni per l'esercizio del
diritto di recesso;
b) l'indicazione del soggetto nei cui riguardi va esercitato il diritto di recesso ed il suo
indirizzo o, se si tratti di società o altra persona giuridica, la denominazione e la sede della
stessa, nonché l'indicazione del soggetto al quale deve essere restituito il prodotto
eventualmente già consegnato, se diverso.
2. Qualora il contratto preveda che l'esercizio del diritto di recesso non sia soggetto ad
alcun termine o modalità, l'informazione deve comunque contenere gli elementi indicati
nella lettera b) del comma 1.
3. Per i contratti di cui all'articolo 45, comma 1, lettere a), b)
e c), qualora sia sottoposta al consumatore, per la sottoscrizione, una nota d'ordine,
comunque denominata, l'informazione di cui al comma 1 deve essere riportata nella
suddetta nota d'ordine, separatamente dalle altre clausole contrattuali e con caratteri
tipografici uguali o superiori a quelli degli altri elementi indicati nel documento. Una copia
della nota d'ordine, recante l'indicazione del luogo e della data di sottoscrizione, deve
essere consegnata al consumatore.
4. Qualora non venga predisposta una nota d'ordine, l'informazione deve essere
comunque fornita al momento della stipulazione del contratto ovvero all'atto della
formulazione della proposta, nell'ipotesi prevista dall'articolo 45, comma 2, ed il relativo
documento deve contenere, in caratteri chiaramente leggibili, oltre agli elementi di cui al
comma 1, l'indicazione del luogo e della data in cui viene consegnato al consumatore,
nonche' gli elementi necessari per identificare il contratto. Di tale documento il
professionista puo' richiederne una copia sottoscritta dal consumatore.
5. Per i contratti di cui all'articolo 45, comma 1, lettera d), l'informazione sul diritto di
recesso deve essere riportata nel catalogo o altro documento illustrativo della merce o del
servizio oggetto del contratto, o nella relativa nota d'ordine, con caratteri tipografici uguali
o superiori a quelli delle altre informazioni concernenti la stipulazione del contratto,
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contenute nel documento.
Nella nota d'ordine, comunque, in luogo della indicazione completa degli elementi di cui al
comma 1, puo' essere riportato il solo riferimento al diritto di esercitare il recesso, con la
specificazione del relativo termine e con rinvio alle indicazioni contenute nel catalogo o
altro documento illustrativo della merce o del servizio per gli ulteriori elementi previsti
nell'informazione.
6. Il professionista non potra' accettare, a titolo di corrispettivo, effetti cambiari che
abbiano una scadenza inferiore a quindici giorni dalla stipulazione del contratto e non
potra' presentali allo sconto prima di tale termine.
Contratti a distanza Art. 50 Definizioni
1. Ai fini della presente sezione si intende per:
a) contratto a distanza: il contratto avente per oggetto beni o servizi stipulato tra un
professionista e un consumatore nell'ambito di un sistema di vendita o di prestazione di
servizi a distanza organizzato dal professionista che, per tale contratto, impiega
esclusivamente una o piu' tecniche di comunicazione a distanza fino alla conclusione del
contratto, compresa la conclusione del contratto stesso;
b) tecnica di comunicazione a distanza: qualunque mezzo che, senza la presenza fisica e
simultanea del professionista e del consumatore, possa impiegarsi per la conclusione del
contratto tra le dette parti;
c) operatore di tecnica di comunicazione: la persona fisica o giuridica, pubblica o privata,
la cui attivita' professionale consiste nel mettere a disposizione dei professionisti una o piu'
tecniche di comunicazione a distanza.
Art. 51. (1) Campo di applicazione
1. Le disposizioni della presente sezione si applicano ai contratti a distanza, esclusi i
contratti:
a) relativi ai servizi finanziari di cui agli articoli 67-bis e seguenti del presente Codice;
b) conclusi tramite distributori automatici o locali commerciali automatizzati;
c) conclusi con gli operatori delle telecomunicazioni impiegando telefoni pubblici;
d) relativi alla costruzione e alla vendita o ad altri diritti relativi a beni immobili, con
esclusione della locazione;
e) conclusi in occasione di una vendita all'asta.
(1) Articolo così modificato dal decreto legislativo 23 ottobre 2007, n. 221.
Art. 52.Informazioni per il consumatore
1. In tempo utile, prima della conclusione di qualsiasi contratto a distanza, il consumatore
deve ricevere le seguenti informazioni:
a) identita' del professionista e, in caso di contratti che prevedono il pagamento
anticipato, l'indirizzo del professionista;
b) caratteristiche essenziali del bene o del servizio;
c) prezzo del bene o del servizio, comprese tutte le tasse e le imposte;
d) spese di consegna;
e) modalita' del pagamento, della consegna del bene o della prestazione del servizio e di
ogni altra forma di esecuzione del contratto;
f) esistenza del diritto di recesso o di esclusione dello stesso, ai sensi dell'articolo 55,
comma 2;
g) modalita' e tempi di restituzione o di ritiro del bene in caso di esercizio del diritto di
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recesso;
h) costo dell'utilizzo della tecnica di comunicazione a distanza, quando e' calcolato su una
base diversa dalla tariffa di base;
i) durata della validita' dell'offerta e del prezzo;
l) durata minima del contratto in caso di contratti per la fornitura di prodotti o la
prestazione di servizi ad esecuzione continuata o periodica.
2. Le informazioni di cui al comma 1, il cui scopo commerciale deve essere inequivocabile,
devono essere fornite in modo chiaro e comprensibile, con ogni mezzo adeguato alla
tecnica di comunicazione a distanza impiegata, osservando in particolare i principi di
buona fede e di lealta' in materia di transazioni commerciali, valutati alla stregua delle
esigenze di protezione delle categorie di consumatori particolarmente vulnerabili.
3. In caso di comunicazioni telefoniche, l'identita' del professionista e lo scopo
commerciale della telefonata devono essere dichiarati in modo inequivocabile all'inizio
della conversazione con il consumatore, a pena di nullita' del contratto. In caso di utilizzo
della posta elettronica si applica la disciplina prevista dall'articolo 9 del decreto legislativo
9 aprile 2003, n. 70.
4. Nel caso di utilizzazione di tecniche che consentono una comunicazione individuale, le
informazioni di cui al comma 1 sono fornite, ove il consumatore lo richieda, in lingua
italiana. In tale caso, sono fornite nella stessa lingua anche la conferma e le ulteriori
informazioni di cui all'articolo 53.
5. In caso di commercio elettronico gli obblighi informativi dovuti dal professionista vanno
integrati con le informazioni previste dall'articolo 12 del decreto legislativo 9 aprile 2003,
n. 70.
Art. 53. Conferma scritta delle informazioni
1. Il consumatore deve ricevere conferma per iscritto o, a sua scelta, su altro supporto
duraturo a sua disposizione ed a lui accessibile, di tutte le informazioni previste
dall'articolo 52, comma 1, prima od al momento della esecuzione del contratto. Entro tale
momento e nelle stesse forme devono comunque essere fornite al consumatore anche le
seguenti informazioni:
a) un'informazione sulle condizioni e le modalita' di esercizio del diritto di recesso, ai sensi
della sezione IV del presente capo, inclusi i casi di cui all'articolo 65, comma 3;
b) l'indirizzo geografico della sede del professionista a cui il consumatore puo' presentare
reclami;
c) le informazioni sui servizi di assistenza e sulle garanzie commerciali esistenti;
d) le condizioni di recesso dal contratto in caso di durata indeterminata o superiore ad un
anno.
2. Le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano ai servizi la cui esecuzione e'
effettuata mediante una tecnica di comunicazione a distanza, qualora i detti servizi siano
forniti in un'unica soluzione e siano fatturati dall'operatore della tecnica di comunicazione.
Anche in tale caso il consumatore deve poter disporre dell'indirizzo geografico della sede
del professionista cui poter presentare reclami.
Art. 54. Esecuzione del contratto
1. Salvo diverso accordo tra le parti, il professionista deve eseguire l'ordinazione entro
trenta giorni a decorrere dal giorno successivo a quello in cui il consumatore ha trasmesso
l'ordinazione al professionista.
2. In caso di mancata esecuzione dell'ordinazione da parte del professionista, dovuta alla
indisponibilita', anche temporanea, del bene o del servizio richiesto, il professionista, entro
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il termine di cui al comma 1, informa il consumatore, secondo le modalita' di cui all'articolo
53, comma 1, e provvede al rimborso delle somme eventualmente gia' corrisposte per il
pagamento della fornitura.
Salvo consenso del consumatore, da esprimersi prima o al momento della conclusione del
contratto, il professionista non puo' adempiere eseguendo una fornitura diversa da quella
pattuita, anche se di valore e qualita' equivalenti o superiori.
Commercio elettronico: disciplinato dal d.lgs. 70/03
Art. 12 (Informazioni dirette alla conclusione del contratto)
1. Oltre agli obblighi informativi previsti per specifici beni e servizi nonché a quelli stabiliti
dall'articolo 3 del decreto legislativo 22 maggio 1999, n. 185, il prestatore, salvo diverso
accordo tra parti che non siano consumatori, deve fornire in modo chiaro, comprensibile
ed inequivocabile, prima dell'inoltro dell'ordine da parte del destinatario del servizio, le
seguenti informazioni :
a. le varie fasi tecniche da seguire per la conclusione del contratto;
b. il modo in cui il contratto concluso sarà archiviato e le relative modalità di accesso;
c. i mezzi tecnici messi a disposizione del destinatario per individuare e correggere gli
errori di inserimento dei dati prima di inoltrare l'ordine al prestatore;
d. gli eventuali codici di condotta cui aderisce e come accedervi per via telematica;
e. le lingue a disposizione per concludere il contratto oltre all'italiano;
f. l'indicazione degli strumenti di composizione delle controversie.
2. Il comma 1, non è applicabile ai contratti conclusi esclusivamente mediante scambio di
messaggi di posta elettronica o comunicazioni individuali equivalenti.
3. Le clausole e le condizioni generali del contratto proposte al destinatario devono essere
messe a sua disposizione in modo che gli sia consentita la memorizzazione e la
riproduzione.
Art. 8 (Obblighi di informazione per la comunicazione commerciale)
1. In aggiunta agli obblighi informativi previsti per specifici beni e servizi, le comunicazioni
commerciali che costituiscono un servizio della società dell'informazione o ne sono parte
integrante, devono contenere, sin dal primo invio, in modo chiaro ed inequivocabile, una
specifica informativa, diretta ad evidenziare:
a. che si tratta di comunicazione commerciale;
b. la persona fisica o giuridica per conto della quale è effettuata la comunicazione
commerciale;
c. che si tratta di un'offerta promozionale come sconti, premi, o omaggi e le relative
condizioni di accesso;
d. che si tratta di concorsi o giochi promozionali, se consentiti, e le relative condizioni
di partecipazione.
Art. 9 (Comunicazione commerciale non sollecitata)
1. Fatti salvi gli obblighi previsti dal decreto legislativo 22 maggio 1999, n. 185 e dal
decreto legislativo 13 maggio 1998, n. 171, le comunicazioni commerciali non sollecitate
trasmesse da un prestatore per posta elettronica devono, in modo chiaro e inequivocabile,
essere identificate come tali fin dal momento in cui il destinatario le riceve e contenere
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l'indicazione che il destinatario del messaggio può opporsi al ricevimento in futuro di tali
comunicazioni.
2. La prova del carattere sollecitato delle comunicazioni commerciali spetta al prestatore.
Art. 13 (Inoltro dell'ordine)
1. Le norme sulla conclusione dei contratti si applicano anche nei casi in cui il destinatario
di un bene o di un servizio della società dell'informazione inoltri il proprio ordine per via
telematica.
2. Salvo differente accordo tra parti diverse dai consumatori, il prestatore deve, senza
ingiustificato ritardo e per via telematica, accusare ricevuta dell'ordine del destinatario
contenente un riepilogo delle condizioni generali e particolari applicabili al contratto, le
informazioni relative alle caratteristiche essenziali del bene o del servizio e l'indicazione
dettagliata del prezzo, dei mezzi di pagamento, del recesso, dei costi di consegna e dei
tributi applicabili.
3. L'ordine e la ricevuta si considerano pervenuti quando le parti alle quali sono indirizzati
hanno la possibilità di accedervi.
4. Le disposizioni di cui ai commi 2 e 3 non si applicano ai contratti conclusi
esclusivamente mediante scambio di messaggi di posta elettronica o comunicazioni
individuali equivalenti.
Una tale previsione induce a domandarsi se l’innovazione di una condotta ulteriore rispetto
alle consuete cadenze delle fasi immediatamente precedenti e immediatamente successive
alla formazione del consenso, valga a modificate il procedimento di conclusione del
contratto informatico, introducendo una peculiare modalità di perfezionamento
dell’accordo, destinata quindi a ridimensionare la fedeltà ai modelli codicistici, proclamata
al comma1, oppure imporre un primo ed inderogabile atto di esecuzione del contratto che
consiste nell’adempimento dell’obbligo legale di documentazione dell’accordo appena
concluso e dei suoi contenuti essenziali.
L’art. 16 del d.lgs. 190/05, applicabile ai contratti a distanza e a quelli conclusi fuori dai
locali commerciali, prevede che il contratto è nullo nel caso in cui il fornitore ostacola
l’esercizio del diritto di recesso da parte del contraente, ovvero non rimborsa le somme da
questi eventualmente pagate, ovvero viola gli obblighi di informativa precontrattuale in
modo da alterare in modo significativo la rappresentazione delle sue caratteristiche.
Si applicano le normali regole codicistiche circa il perfezionamento del contratto e l’obbligo
del professionista di accusare ricevuta dell’ordine di acquisto non costituisce una deroga.
Non esiste uno specifico modo di conclusione del contratto telematico: alcuni casi possono
ricollegarsi a schemi codicistici; si applicano invece regole più restrittive per i servizi
finanziari, ad esempio la nullità nel caso in cui si ostacoli il diritto di recesso.
Rimangono esclusi dall’applicazione della disciplina dei contratti stipulati fuori dai locali
commerciali i contratti relativi a beni immobili, contratti di fornitura di generi alimentari.
La Corte di giustizia ha fissato alcuni principi in tema di credito fondiario nella sent.
HEINIRGER, e nel caso SCHULTE ET SCHULTE (vedi FF).
Gli altri istituti desumibili dai contratti speciali
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Accanto alla disciplina sulle clausole vessatorie, il diritto privato di fonte comunitaria regola
specifiche figure contrattuali (ad es. il contratto di multiproprietà, il contratto di pacchetto
turistico e il contratto di credito al consumo), ha ampliato alcuni istituti già esistenti e ha
introdotto nuovi istituti inediti a prevalente vocazione rimediale (ad es. le garanzie nella
vendita di beni di consumo) ovvero procedimenti di formazione (la vendita a distanza).
Gli istituti a vocazione generale desumibili dalle normative di settore sono:
• I doveri di informazione: che investono sia la fase precontrattuale sia quella del
perfezionamento, sia quella dell’esecuzione. In caso di violazione non vi sono
sanzioni generali ma misure specifiche (es. allungamento del termine di recesso). Il
vuoto di disciplina nell’intervento comunitario e il silenzio del legislatore italiano ha
indotto la dottrina e la giurisprudenza ad interrogarsi sulle conseguenze della
violazione di tali doveri: secondo alcuni sono collocabili nella fase delle trattative,
per altri sono inderogabili (nullità relativa), per altri ancora si collocano nella fase
della formazione della volontà (annullamento per vizi del consenso, errore).
La tesi prevalente oggi ritiene che detta violazione sia configurabile come
inadempimento, quindi sia una vicenda propria del rapporto contrattuale, sicché la
reazione più adeguata è la risoluzione del contratto. Detta tesi lascia al
consumatore la scelta tra risoluzione del contratto e il risarcimento dei danni con
restituzione di quanto eventualmente ricevuto e il solo risarcimento del danno col
trattenimento delle prestazioni già eseguite. Per la Cassazione è più conveniente
chiedere il risarcimento del danno, ad es. per il consumatore risparmiatore.
•
Gli oneri formali: inizialmente riguardavano prevalentemente i contratti relativi ai
beni immobili, ora sono rivolti a tutelare il consumatore o l’investitore nei casi di
contratti di finanziamento o di assicurazioni. La nuova finalità si collega soprattutto
al connubio della forma con i doveri legali di informazione, e determina una
reviviscenza dei vincoli formali (il c.d. neoformalismo di protezione). E’ lecito
parlare di forma con finalità di informazione. Al riguardo è paradigmatica la
disciplina relativa ai contratti di multiproprietà, pacchetto turistico e vendita di beni
di consumo, che piegano i vincoli formali alle esigenze di trasparenza e
informazione.
La forma assurge ad un duplice ruolo: di documentazione e di informazione. La
forma informativa può concorrere con quella scritta, come un requisito essenziale
del contratto; e la cui violazione comporta nullità di protezione. Ciò è previsto per la
multiproprietà e il pacchetto turistico, mentre la forma informativa e la forma ab
sustantiam non convivono nella disciplina dei contratti stipulati fuori dai locali
commerciali e dei contratti a distanza, dov’è previsto il dovere di fornire per iscritto
le informazioni relative al diritto di recesso, anche se il contratto viene concluso
oralmente o per facta concludenda.
•
Il recesso di pentimento (entro 10 gg.): strumento di autotutela per ovviare
alla velocità degli scambi e valutare l’opportunità delle scelte effettuate. A
differenza del recesso convenzionale, ex art. 1373 c.c., è fonte legale attivabile
anche se è iniziata l’esecuzione, è ad nutum e non comporta costi al consumatore
(tranne il rimborso spese).
Per i contratti fuori dai locali commerciali i 10 gg. divengono 60 se il
professionista non ha dato le informazioni sul recesso; nel caso della
multiproprietà, divengono tre mesi.
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La disciplina del pacchetto turistico prevede il diritto di recesso in due ipotesi
specifiche: quando la revisione al rialzo del prezzo forfettario del pacchetto turistico
risulta superiore al 10% del costo originale; e quando prima della partenza
l’organizzatore propone la modifica di uno degli elementi del contratto e provvede a
comunicare la variazione del prezzo che il consumatore rifiuta.
In entrambi i casi il consumatore ha diritto (come nell’ipotesi di cancellazione del
pacchetto prima della partenza) di usufruire di un altro pacchetto equivalente o di
qualità superiore senza supplemento del prezzo, o di qualità inferiore ma con la
restituzione della differenza di prezzo; oppure ha diritto al rimborso entro 7gg.
lavorativi dal recesso o dalla cancellazione della somma di denaro già anticipata.
Il Testo Unico Bancario (TUB) assegna al consumatore il diritto di recedere
entro 15 gg. dai contratti di credito al consumo a seguito dell’esercizio del ius
variandi da parte del creditore o della modificazione unilaterale in peius dei prezzi,
dei tassi e delle altre condizioni contrattuali.
•
•
•
La nullità di protezione: è il rimedio posto a presidio del contenuto minimo ed
inderogabile del contratto del consumatore, ed è volta a reagire all’introduzione
delle clausole abusive non fatte oggetto di trattative individuali o appartenenti, nel
diritto italiano, alla c.d. black list.
E’ una forma di nullità relativa e parziale poiché azionabile solo dal consumatore e
rilevabile d’ufficio dal giudice ma solo nell’interesse di quest’ultimo, inoltre è
destinata ad investire solo la parte del regolamento contrattuale o le singole
clausole contra legem. ( es. art. 36 cod. cons. in materia di clausole abusive; l’art
78 cod. cons. In materia di multiproprietà).
La disciplina comunitaria della vendita dei beni di consume ha introdotto un nuovo
parametro ossia il criterio di conformità al contratto che è volto a verificare se vi
sia stata o meno la violazione del regolamento contrattuale e quindi della c.d. lex
contractus.(artt. 128 e ss. del cod. cons.)
C.d. garanzia di conformità che è preordinata al ripristino della conformità
tramite riparazione o sostituzione del bene viziato. È rivolta a verificare se vi è stata
violazione del contratto; è dunque inderogabile a tutela del consumatore, per cui le
clausole contrarie non sono vincolanti. Il parametro di conformità al contratto si
iscrive nella tendenza del diritto privato di fonte comunitaria a fissare il contenuto
minimo del contratto. Tale contenuto dell’accordo è rimesso all’autonomia delle
parti, e i parametri di conformità previsti dall’art. 129 cod. cons. hanno carattere
sussidiario ed intervengono in assenza di un’adeguata descrizione del bene.
La garanzia di conformità si sostanzia nel riconoscimento al consumatore della
facoltà di domandare al venditore in via stragiudiziale due diverse classi di rimedi
ordinate secondo un sistema gerarchico :
 Ripristino della conformità tramite riparazione o sostituzione, a scelta del
consumatore, sempre che il rimedio chiesto non sia oggettivamente
impossibile o eccessivamente oneroso;
 Riduzione del prezzo o risoluzione, se le prime non sono possibili o
eccessivamente onerose, o non sono state effettuate entro un termine
congruo, o ancora abbiano arrecato notevoli inconvenienti.
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L’AUTONOMIA CONTRATTUALE E LA LEGGE
Premessa. La dottrina italiana che le norme più recenti in materia di disciplina del
contratto di derivazione comunitaria sono finalizzate a perseguire obiettivi minimi di tutela
di specifiche categorie di contraenti, con il duplice corollario di: a) inderogabilità delle loro
prescrizioni; b) incremento quantitativo delle norme imperative all’interno dei singoli
ordinamenti nazionali. Il caso più palese di norme di derivazione comunitaria, che
introducono meccanismi di protezione di particolari categorie di contraenti è quello dei
contratti dei consumatori utilizzando tre particolari tecniche a tutela del consumatore: la
previsione della nullità,l diritto di recesso accordato al contraente da tutelare, e la
previsione di norme imperative.
Le norme di origine comunitaria sbilanciano l’equilibrio delle fonti di integrazione del
contratto in favore delle norme imperative.
Stiamo indagando sul rapporto tra autonomia contrattuale e legge all’interno di un
contesto privo di quel reticolo normativo che sarebbe ineludibile ai fini del discorso.
Possiamo fare riferimento ai PDEC e al Codice Europeo dei Contratti. I PDEC non ignorano
le norme imperative pur configurandole in termini diversi da quelli che si potrebbero
delineare all’interno di un sistema normativo. Il Codice Europeo dei Contratti, all’art. 2.1,
prevede che “le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto, entro
limiti imposti dalle norme imperative, dal buoncostume e dall’ordine pubblico, quali definiti
nel presente codice, nel diritto comunitario o nelle leggi nazionali degli Stati membri
dell’UE, purché non perseguano unicamente lo scopo di nuocere ad altri”.
I rapporti tra autonomia privata e Costituzione europea.
Si riscontra la crisi della teoria dei controlimiti: adesso i valori costituzionali e i limiti
all’autonomia privata sono sanciti dalla CEDU e richiamati dalle sentenze delle Corti
nazionali. La CEDU, si è erroneamente affermato, attribuirebbe rilevanza solo alle
manifestazioni dell’autonomia privata, che più si collegano allo sviluppo della personalità
umana e che dunque sono all’origine delle formazioni sociali (es. matrimoni, famiglie,
sindacati).
Invece il riconoscimento della libertà di impresa, art. 16 CEDU, e la tutela del
consumatore, art.38, dimostrano che anche se manca un esplicito riconoscimento
dell’autonomia privata, questa ha rilevanza costituzionale di per sé. Anche la Costituzione
italiana, con l’art. 41, effettua un riconoscimento diretto (“l’iniziativa economica privata è
libera”).
L’autonomia privata alla quale la Carta attribuisce rilevanza è quella non abusiva.
Il controllo di razionalità e buona fede è attuato dal giudice in luogo della legge. Si
riconosce autonomia privata non solo alla parte forte ma anche alla parte debole (è un
concetto bilaterale, infatti l’autonomia privata evoca la posizione di entrambe le parti in
quanto il contraente debole è tutelato con la compressione della posizione del contraente
forte), e in quest’ottica si rivela infondata la critica mossa alla Carta di non aver previsto la
priorità sulla libertà di impresa della tutela dell’ambiente e dei consumatori, perchè dalla
sua lettura complessiva si capisce che l’autonomia privata si legittima solo ove non
determini la sopraffazione dell’altra parte.
L’art. 54 CEDU (divieto di abuso del diritto) è stato oggetto di critiche imperniate sulla
considerazione che la stessa esprime il generale ed ovvio principio che i comportamenti
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lesivi degli altrui diritti sono illeciti. La previsione dell’abuso del diritto è in grado di inserire
una robusta iniezione di contenuti nel complesso dei principi contenuti nella Carta, in
quanto la regola in materia di abuso del d. insieme al principio di solidarietà è destinata ad
incrementare lo scenario in materia di buona fede e i modi d’uso di tale clausola generale.
Poiché l’inserimento di tali regole all’interno di una Carta dei d. fondamentali consente di
attribuire al divieto di abuso del diritto il valore di coordinata fondamentale di cui
l’interprete dovrà avvalersi in sede di interpretazione della legge.
E’ possibile sostenere che il disegno dei rapporti tra carta dei diritti ed autonomia privata
evoca un modello di autonomia privata costituzionalmente corretta, realizza l’imposizione
su ciascuna parte dei costi che consentono all’altra parte di esercitare in maniera
consapevole e piena la propria autonomia.
Le tecniche di intervento legale: leggi, usi ed equità sono le fonti di integrazione sia
del nostro diritto (art. 1374 c.c.), sia del diritto europeo. Il diritto comunitario prevede
anche, tra le tecniche di intervento legale, le nullità e il diritto di recesso, che non sono
tecniche integrative.
L’ordinamento comunitario ridefinendo il sistema delineato dall’art. 1374 costituisce una
fonte di integrazione dell’autonomia privata superiore alla legge ordinaria ed inferiore ai
principi costituzionali e ai diritti inviolabili della persona, anche se esso stesso non è
qualificabile come parametro di costituzionalità, in quanto si tratta di ordinamenti distinti.
Nell’ambito delle norme comunitarie diverse incidenze hanno le norme del Trattato (che si
rivolgono agli Stati), i regolamenti (il contratto conforme ad essi ma contrario alle
legislazioni nazionali rimane comunque valido), le direttive (efficacia diretta solo verticale,
ossia invocabili se sufficientemente precise e incondizionate e se lo Stato è inadempiente.
In questa ultima ipotesi lo Stato sopporterà l’obbligo risarcitorio se la direttiva non è
attuata, e non è in alcun modo inciso l’atto di autonomia privata). Il giudice nazionale, a
prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla direttiva, deve
interpretare il diritto nazionale quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo
della direttiva.
Le ipotesi di inderogabilità assoluta a tale proposito è importante ricordare il dibattito
svoltosi in Italia sull’attuazione delle dir. 99/44 in materia di tutela dell’acquirente dei beni
di consumo. Il problema specifico circa la portata degli attuali artt. 134 e 135 del cod.
cons. e ai rapporti fra la previsione normativa di imperatività della disciplina, corredata da
una previsione di NULLITA’ di PROTEZIONE , e la regola che fa salvi i diritti attribuiti al
consumatore da altre norme dell’ordinamento giuridico. Il tema dei rapporti fra legge ed
autonomia privata deve essere visto dal punto di vista del diritto europeo e anche alla luce
delle relazioni fra singolo atto di autonomia privata ed il mercato. Contratto e mercato
sono due categorie che esprimono punti di vista diversi rispettivamente quello atomistico e
globale della medesima realtà. La disciplina del diritto europeo si configura secondo moduli
di inderogabilità che fanno comunque salva la possibilità di un intervento dei contraenti al
fine di individuare una disciplina che introducendo una regolamentazione di maggior
favore per la parte beneficiaria della protezione di legge innalzi gli obiettivi di tutela avuti
di mira dalla norma. Il valore della forza di legge del contratto si pone come recessivo
rispetto a quello della tutela del consumatore. Da questo punto di vista il dlgs. 190/2005 in
attuazione della dir. 02/65 sulla commercializzazione a distanza di servizi finanziari dove
l’attribuzione al consumatore del diritto di recesso è rafforzata dalla previsione di
irrinunciabilità dei diritti attribuiti al consumatore ed è anche sanzionata dalla nullità del
contratto nel caso in cui il fornitore ostacola l’esercizio del diritto di recesso da parte del
contraente.
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Le norme imperative sono più numerose nel diritto UE di quelle dispositive e suppletive: si
tratta però in molti casi di una inderogabilità relativa, perché il legislatore e le parti
possono individuare una disciplina che alzi i livelli di tutela previsti dalla norma (sia la
legge nazionale che il singolo contratto, collettivo o individuale che sia), come avviene
nell’ambito della direttiva 99/44.
Rare sono le ipotesi di integrazione del contratto con norme derogabili suppletive, quali
quelle in materia di GEIE (gruppo europeo di interesse economico).
La fisionomia del contratto di diritto europeo è sempre più costellata da ipotesi di
attribuzioni di poteri di recesso e di pentimento: le norme in passato servivano ad evitare
vincoli perpetui, oggi invece sono poste a tutela dei contraenti deboli (maggior tutela è
prevista nel caso di contratti di servizi finanziari, infatti se ostacolato l’esercizio del diritto
di recesso, è prevista la sanzione della nullità).
Le fonti in formazione del diritto privato europeo rapportate all’autonomia
privata
Le fonti in formazione sono i PDEC e il Codice Europeo dei contratti.
Per l’applicazione del Codice non è necessaria una previsione esplicita; i PDEC sono
applicati quando le parti convengono di inserirli nel contenuto contrattuale oppure quando
convengono che il contratto sia disciplinato dai principi generali di diritto, dalla lex
mercatoria o hanno usato espressione analoga, oppure quando non hanno scelto altro
sistema di regole o altre norme per disciplinare il contratto e possono fornire una soluzione
alla controversia.
Dette fonti costituiscono un utile riferimento ermeneutico, e non sono vincolanti in assenza
di un’esplicita scelta delle parti. In esse numerose sono le norme imperative: nel Codice
attengono più che altro alla forma e alla struttura del contratto, oltre che ai limiti di
validità dell’obbligo di non alienare e alla prescrizione.
Nei PDEC sono imperative le norme attinenti a buona fede e correttezza. La clausola
generale di buona fede ha sia una funzione integratrice che correttiva; si può derogare
solo nelle sue singole applicazioni concrete.
Inoltre imperative sono:
• le regole sull’efficacia e sull’interpretazione delle clausole che non abbiano costituito
oggetto di trattativa individuale, in particolare della clausola di omnicomprensività
(che sancisce l’inefficacia di clausole e promesse antecedenti e non menzionate nel
contratto). La ratio che sembra emergere è quella di proteggere l’affidamento della
parte meno avveduta;
• le regole relative al prezzo equo e la clausola alternativa in sostituzione di prezzi
manifestamente iniqui, determinati da una parte;
• principi che rendono impossibile escludere o limitare tutele previste in caso di dolo,
violenza, ingiusto profitto, vantaggio iniquo e clausola abusiva non oggetto di
trattativa individuale. Nel caso di errore e di informazioni inesatte, l’inderogabilità
non è assoluta ma circoscritta alle ipotesi di esclusioni e limitazioni che siano
contrarie a buona fede e correttezza.
• le norme che prevedono la riduzione della somma penale se manifestamente
eccessiva rispetto alla perdita per inadempimento o per altre circostanze.
Anche per PDEC (principi di diritto europeo contrattuale) valgono le stesse conclusioni
sull’autonomia privata traibili dalla Carta dei diritti: autonomia privata e valore
costituzionale purché non sia abusiva.
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LA RESPONSABILITA’ PRECONTRATTUALE
Il primo apparire della responsabilità contrattuale: la culpa in contraendo.
Figura disegnata da Jhering nel XIX secolo. Nel nostro c.c. è disciplinata dagli artt. 13371338. Art. 1338 c.c. “la parte che, conoscendo o dovendo conoscere l’esistenza di una
causa di invalidità del contratto, non ha dato notizia all’altra parte è tenuta a risarcire il
danno da questa risentito per avere confidato , senza sua colpa nella validità del
contratto”. Art. 1337 c.c. “le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del
contratto, devono comportarsi secondo buona fede”.
La responsabilità precontrattuale è stata introdotta per dare forma giuridica alle situazioni
di danno che possono verificarsi nella fase preparatoria al contratto, in primo luogo alle
situazioni di danno patrimoniale.
Il fondamento di tale responsabilità non fu visto la buona fede ma la colpa, come la
denominazione data da Jhering alla figura nuova da lui scoperta: culpa in contraendo.
Per Jhering tutta la responsabilità, di qualsiasi specie non poteva avere altro fondamento
che la colpa. La novità di J. stava nell’ipotesi dannosa estranea al novero della
responsabilità o forse non ancora messa in evidenza. Infatti essa risulta estranea alla
responsabilità extracontrattuale per la natura meramente patrimoniale del danno e alla
responsabilità contrattuale perché a causa della stessa invalidità il contratto non fornisce
fondamento ad azione alcuna.
J. richiama le fonti romane ( actio empti) per sostenere che anche da un contratto nullo
derivano alcuni effetti: l’obbligazione è un rapporto complesso che può produrre effetti
secondari (obbligo di risarcimento del danno), a prescindere dall’obbligo principale della
prestazione.
Dalla contraddizione Jheringhiana di un obbligo contrattuale nascente da un contratto
nullo, si sviluppa la teoria del rapporto precontrattuale come rapporto obbligatorio che
nasce ex lege all’instaurarsi delle trattative ed è volto a tutelare in chiave obbligatoria la
sfera giuridica dell’altro contraente.
Un ampio dibattito è sorto in ordine alla natura di tale responsabilità: per J. è una
responsabilità contrattuale.
A detta tesi sono state mosse alcune critiche:
• il contratto è invalido e quindi incapace di produrre effetti. J. risponde che
l’invalidità comporta solo assenza dell’obbligo di prestazione, ma gli ulteriori effetti
permangono;
• se il contratto non viene concluso, manca la responsabilità.
Si sviluppa così la teoria della natura ex lege obbligatoria del rapporto precontrattuale; J.
parlava di una culpa in abstracto come fondamento di tale responsabilità, si tratta di una
colpa “in non faciendo”, ossia una responsabilità che nasce dal non fare il dovuto. In
questo modo diventano oggetto di diligenza non soltanto le situazioni soggettive esistenti,
ma pure quelle che con il nuovo contratto si intendono creare.
La teoria della responsabilità precontrattuale nasce nel 1911 in seguito alla lesione subita
da un cliente per la caduta accidentale di un rotolo durante la visione di una merce in un
negozio; in particolare si è operata l’estensione della resp. precontrattuale come resp. di
natura contrattuale, al danno riguardante la salute e la proprietà dell’altra parte. Il
rapporto in questione non nasce dal contratto ma dall’affidamento nel quale il principio di
19
buona fede lo radica; di conseguenza il rapporto precontrattuale viene ampliato e
riorientato.
La teoria del rapporto precontrattuale nasce come rapporto quasi contrattuale fondato
sull’affidamento o direttamente sulla legge (come in Germania) e non sulla colpa. È
presente in re ipsa il vincolo di buona fede (e nessun altro criterio di imputazione) che se
rotto comporta resp. e risarcimento; solo nella resp. extracontrattuale vi è riferimento alla
colpa in quanto non vi è un vincolo o una relazione tra le parti.
La culpa in contrahendo, nell’originaria versione di J., trova oggi il suo luogo di maggior
significato nei contratti con i consumatori (settore più sensibile al problema
dell’informazione orientata e alla conclusione onesta).
La rottura scorretta delle trattative.
Nei primi del ‘900, Faggella, scopre un secondo filone della resp. precontrattuale: la
rottura scorretta delle trattative.
La correttezza delle trattative investe prevalentemente i contratti commerciali e quelli tra
parti di pari capacità contrattuale, nei quali tipicamente la stipulazione del contratto è
preceduta da una fase più o meno elaborata di trattative, le quali tipicamente mancano nei
contratti con i consumatori.
Faggellaesclude che il fondamento della responsabilità per il ritiro intempestivo dalle
trattative sia la colpa , ma nella sua tesi emerge il dogma della volontà: si passa dalla
colpa come fondamento unico della responsabilità alla volontà come radice del negozio
giuridico. Faggella sostiene che alla base della responsabilità per recesso
scorretto delle trattative sta l’accordo a trattare, consenso che << contiene
nella sua essenza l’obbligazione tacita di risarcire il trattante delle spese
effetteve e del costo del lavorio preparatorio precontrattuale>> .
Il merito di questa tesi consista nell’avere ampliato l’ambito della responsabilità
precontrattuale anticipando sino al momento delle trattative una responsabilità che prima
coincideva con la formulazione della proposta dove le trattative hanno già trovato un
punto ben individuabile di coagulo.
Relativamente al recesso scorretto dalle trattative, due sono le prospettive fondamentali:
• prospettiva soggettiva: viola la buona fede e risponde del danno causato colui che
inizia le trattative inizia e le prosegue senza l’intenzione di concludere il contratto
• prospettiva oggettiva: viene rimesso al giudice il compito di accertare se la condotta
del recedente era costitutiva di un affidamento nella futura conclusione del
contratto, poi smentito.
La tesi soggettiva sembra aver trovato conferma nei PDEC art. 2:301 << in
particolare, è contrario all buona fede e alla correttezza iniziare le trattative o
continuarle in assenza di una effettiva volontà di raggiungere un accordo con l’altra
parte>> ; ma ben vedere i Principi trasformano questa che sarebbe la prospettiva
soggettiva in quella che è chiamata oggettiva, dato che nel commento all’art.
parlano di falsa rappresentazione della realtà e induzione dell’altra parte a credere
che la prima intenda concludere il contratto. Si può concludere che è la violazione
dell’affidamento che, stante il principio di buona fede, contrasta con esso e genera
responsabilità. Contraddittoriamente, i PDEC, sembravano contenere argomenti a
favore di entrambe le tesi.
La resp. precontrattuale, in relazione al principio di buona fede è ammessa negli USA, ma
è ancora esclusa nel Common law europeo, che non l’ha recepita espressamente, ma
chiaramente non può essere negata la buona fede soprattutto se richiamata in una
20
clausola. Il problema è fino a che punto la libertà delle parti può essere considerata causa
di giustificazione relativamente al danno arrecato all’altro contraente durante le trattative.
L ‘atteggiamento dominante nel Common law ingleseè che la libertà di contrarre trova un
limite nella resp. aquiliana e dunque nel divieto di cagionare agli altri un danno ingiusto
con dolo o colpa; anche un’informazione erronea o incompleta non è fonte di resp. fino a
quando l’informazione stessa non si innesti in una cornice di affidamento. I PDEC parlano
di “tradimento della confidenza” quando una delle parti profitta delle informazioni
confidenziali ricevute dall’altra nel corso delle trattative e prevedono l’obbligo di risarcire la
perdita e restituire il vantaggio indebitamente conseguito (restituzione del profitto). In
questa ipotesi si tratta di affidamento violato: è la condotta di colui che ha fatto tesoro
dell’affidamento dell’altra parte fino al punto di approfittarne, infatti oltre al risarcimento è
prevista la restituzione del profitto.
La natura contrattuale della responsabilità precontrattuale e le incomprensioni
della Corte europea di giustizia nel caso Sacconi c. Wagner.
Tutti coloro che hanno approfondito l’aspetto teorico della responsabilità precontrattuale
ne hanno affermato al natura contrattuale.La natura contrattuale della responsabilità
precontrattuale è affermata da alcuni studiosi (J. e Mengoni) mentre, altri sostengono si
tratti di responsabilità extracontrattuale.
Nel caso SACCONI vs. WAGNER (2002), erroneamente, la Corte di Giustizia, ritenendo che
non vi sia contratto finché non sia stato concluso, ha qualificato la responsabilità
precontrattuale come extracontrattuale, non ritenendo possibile individuare un contratto
nella fase delle trattative, in realtà la contrattualità non va riferita all’atto, ma al rapporto.
Il punto di partenza è che entrare nelle trattative significa per ciascuna delle parti
accettare il rischio dei costi necessari a giungere alla conclusione del contratto. Di
conseguenza ciascuna parte sa che intraprendere una trattativa può comportare una
perdita patrimoniale che essa deve imputare a se stessa come costo derivante
dall’esercizio della libertà contrattuale di ambedue. Considerando pure la condotta di una
parte come esercizio della libertà di contrarre o non contrarre il danno che ne sia derivato
all’altra parte diventa rilevante quando la condotta risulti difforme da quella dovuta in
funzione di evitare il danno. L’obbligo di contrarre in buona fede non oblitera la
libertà di contrarre ma il semplice esercizio del diritto non ne giustifica la
violazione e il danno arrecato in violazione dell’obbligo va risarcito.
Tale concezione è anche alla base del nostro artt. 1328 c.c. (revoca della proposta e
accettazione) <<la proposta può essere revocata finché il contratto non sia concluso, ma
se l’accettante ha intrapreso in buona fede l’esecuzione prima di avere notizia della revoca
il proponente è tenuto ad indennizzarlo delle spese e delle perdite subite per l’iniziata
esecuzione del contratto>>.
Qualificando come contrattuale la responsabilità da scorrettezza nelle trattative l’idea è ch
una responsabilità possa esserci per un danno cagionato durante le trattative e tale
responsabilità non può che essere contrattuale. Quindi l’alternativa non è tra responsabilità
contrattuale ed extracontrattuale, ma tra responsabilità e non responsabilità.
Quest’ultima è predicabile solo ove non vi siano limitazioni al principio della libertà di
contrarre (common law), e non in ordinamenti come il nostro dove invece alla libertà di
contrarre si aggiunge quella di farlo in buona fede.
Invece il regolamento 07/864 afferma la natura extracontrattuale, però poi applica la
legge che si sarebbe applicata al contratto se questo fosse stato concluso, e detto esito è
paradossale, perché il collegamento è un contratto non concluso.
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Risarcimento del danno
La responsabilità precontrattuale riferita al contratto invalido o, come accade nelle
trattative scorrettamente interrotte, mai concluso, ha una portata diversa da quella da
inadempimento, benché ne condivida la natura in quanto responsabilità fondata sulla
violazione di obblighi.
In quanto contrattuale, la responsabilità precontrattuale rende risarcibile un danno che
consiste nella pura perdita patrimoniale (ossia non qualificato da ingiustizia). Si tratta di
tutti i costi strumentali alla stipulazione dei quali si rileva un’ingiustificata inutilità che una
condotta secondo buona fede avrebbe consentito all’altra parte di evitare. Inoltre dato
chela trattativa genera un affidamento e quindi una situazione relazionale anche il danno
derivante dalle offese che costituirebbero ingiustizia e darebbero adito a responsabilità
extracontrattuale è altresì risarcibile a titolo di responsabilità precontrattuale . Quest’ultimo
consiste nell’interesse a non entrare in trattative inutili e alla protezione e non invasione
della propria sfera giuridica (che presiede la responsabilità extracontrattuale). L’interesse
positivo consiste nell’aspettativa all’adempimento e nasce dall’inattuazione del rapporto
obbligatorio.
Obblighi di informazione
L’informazione costituisce la materia prima della buona fede precontrattuale. Oggetto
dell’obbligo di informazione sono: i dati di fatto importanti per la decisione contrattuale
dell’altra parte, cause di invalidità del contratto, contenuto del contratto (se
professionista), diritti attribuiti dalla legge al contraente debole (ad es. il diritto di
recesso).
L’informazione diviene vera e propria prestazione accessoria, non più frutto dell’osservanza
di un obbligo di protezione. Talora in caso di difformità è prevista la sanzione della nullità.
L’informazione diventa una forma (o modalità di stipulazione). Ad esempio in materia di
circolazione dei prodotti finanziari nel caso di obbligazioni di soggetti italiani emesse
all’estero la negoziazione ad opera di investitori professionali deve avvenire a pena di
nullità mediante consegna di un prospetto informativo, inoltre rispondono della solvenza
dell’emittente per la durata di un anno dall’emissione (a meno che l’intermediario non
consegni un foglio con le informazioni previste dalla CONSOB).
La nullità del contratto può essere chiesta anche in caso di offerta al pubblico di prodotti
finanziari senza prospetto. Si registra uno spostamento del terreno della responsabilità a
quello della nullità. La corte di Cassazione nel 2005 ha sentenziato che la contrarietà a
norme imperative ex 1418 c.c. quale causa di nullità del contratto prevede che essa
attenga elementi intrinseci della fattispecie negoziale, mentre i comportamenti tenuti dalle
parti nel corso delle trattative o durante l’esecuzione del contratto rimangono estranei alla
fattispecie negoziale e in detto caso il rimedio è costituito dal risarcimento. La nullità è di
stretta competenza legislativa e può essere ricavata da una norma imperativa solo per
integrare una lacuna quando non è testualmente prevista dal legislatore ( nullità virtuale).
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LA FORMAZIONE DEL CONTRATTO
Consenso esterno e consenso interno
Gli schemi formativi crescono di numero e si adattano alle nuove possibilità tecnologiche,
ma soprattutto tendono ad essere valorizzati in una logica funzionale nella quale la tecnica
prescelta è orientata ad attribuire una specifica e differenziata rilevanza agli interessi delle
parti nella fase che precede la conclusione del contratto .
Si distingue tra:
- consenso interno: concetto giuridico che attiene ai presupposti conoscitivi e alla libera e
consapevole determinazione volitiva delle parti. Richiede di apprezzare come il singolo
contraente ha potuto fare uso concretamente delle tecniche procedimentali. Si impongono
un gran numero di prescrizione formali fornendo alle parti quelle informazioni che rendano
possibili scelte ponderate. Inoltre è importante citare anche il diritto di recesso diverso da
quello comune che caratterizza il nostro ordinamento. Quindi le parti sono tutelate prima e
dopo la conclusione del contratto, affinché si formi legittimamente il consenso interno.
- consenso esterno: la pluralità dei procedimenti formativi assicura la realizzazione di
aspetti funzionale molti diversi, anche in relazione alle qualità soggettive dei contraenti.
Bisogna contrapporre agli atti del procedimento (dimensione dinamica della formazione del
contratto) quelli della fattispecie (dimensione statica, validità ed efficacia). Gli atti del
procedimento sono strumentali e hanno breve durata.
Tre fasi dell’approccio dei sistemi giuridici europei continentali ai procedimenti formativi:
1) libertà procedimentale come componente dell’autonomia privata (nei codici francesi);
2) ricca emersione di regole positive sui procedimenti formativi per assicurare certezza nei
commerci (posizione del codice di commercio del 1882);
3) i procedimenti formativi di matrice comunitaria consentono di assicurare la conformità
delle regole negoziali ai principi dell’ordinamento costituzionale.
Diritto europeo in senso formale: recesso e formazione del contratto. Il dir
europeo in senso formale di matrice comunitaria preoccupandosi maggiormente degli
aspetti relativi al consenso interno ha adottato misure imperative che solo
apparentemente limitano l’autonomia privata ma che in realtà sono volte a realizzare i
presupposti perché questa sia esercitata in maniera consapevole. In tal senso vanno lette
le ipotesi di nullità relativa e parziale a tutela del consumatore e la disciplina del
recesso europeo (prolungamento dello spazio deliberandi), che a differenza di quello
convenzionale previsto dall’ordinamento italiano non presenta il limite dell’inizio
dell’esecuzione. Infatti nel nostro sistema il recesso è possibile, salvi i casi previsti dalla
legge per i contratti ad esecuzione continuata, soltanto in via convenzionale; anche in tal
caso il potere non può essere esercitato ove il contratto abbia avuto un inizio di
esecuzione( art. 1373 c. c.); il recesso del consumatore viceversa oltre che essere legale e
unilaterale è legato ad eventi che per un verso sono intervenuti prima della stipulazione
del contratto (adempimento dei doveri di informazione) mentre per l’altro si verificano
dopo che il contratto è stato definitivamente eseguito ( consegna del bene). Il recesso
europeo serve a garantire consapevolezza e libertà decisionale al consumatore e perciò
finché ne è ammesso l’esercizio la manifestazione volitiva del consumatore è privata di
serietà e concludenza impegnativa.
Il cod. cons. al fine di garantire una consapevole e libera decisione prevede all’art.64, che
per tali contratti il consumatore ha diritto di recedere senza alcuna penalità e senza
23
doverne specificare il motivo, con una comunicazione scritta da inviarsi alla sede del
professionista entro 10 gg lavorativi salvo quanto stabilito dall’art. 65 commi 3,4,5.
L’art. 65 cod. cons. prevede la disciplina del momento a partire dal quale il dir. di recesso
deve essere esercitato:
(vedi sopra)
L’art.66 disciplina gli effetti del diritto di recesso.
1. Con la ricezione da parte del professionista della comunicazione di cui all'articolo 64, le
parti sono sciolte dalle rispettive obbligazioni derivanti dal contratto o dalla proposta
contrattuale, fatte salve, nell'ipotesi in cui le obbligazioni stesse siano state nel frattempo
in tutto o in parte eseguite, le ulteriori obbligazioni di cui all'articolo 67.
Nella prospettiva del diritto europeo in senso formale il consenso interno ed esterno si
compenetrano. Non basta più la congruenza degli atti procedimentali, perché il consenso
esterno è condizionato al recesso e al suo esercizio che assume ora natura
procedimentale. Il procedimento si conclude infatti solo con lo spirare dei termini per il suo
esercizio (rilevanza di un contegno meramente omissivo).
Precisazioni sul contratto telematico: si è molto discusso riguardo alla previsione di un vero
e proprio procedimento formativo europeo incidente direttamente sul consenso esterno:
ciò era vero nel progetto originario il quale prevedeva che il contratto fosse concluso
attraverso l’offerta l’accettazione la ricevuta di ritorno e infine la conferma.
Ciò tuttavia non è più vero dato che l’art.13 d. lgs. 70/03 si è limitato a stabilire
l’applicazione delle “norme sulla conclusione dei contratti” all’ipotesi che il destinatario
inoltri il proprio ordine per via telematica. La ricevuta di ritorno prima necessaria ha valore
meramente informativo e la conferma non è più essenziale. L’ordine e la ricevuta di ritorno
si considerano pervenuti quando le parti a cui sono indirizzati hanno la possibilità di
accedervi: è la regola della recettizietà, in base alla quale non basta il mero invio
dell’ordine secondo la mail box rule. A oggi il principio di ricezione è la regola generale dei
contratti on-line in ogni paese europeo.
L’impatto del diritto uniforme sui sistemi nazionali.
Lo scenario della disciplina sulla formazione del contratto si arricchisce notevolmente se,
oltre ad analizzare le direttive europee, si tiene conto della CISG (convenzione di Vienna
sulla vendita internazionale di cose mobili del 1980). La CISG detta una disciplina della
formazione del contratto agli artt. 14-24, tale disciplina è stata arricchita dai principi
UNIDROIT che hanno attinto dalla prassi del commercio internazionale e dai PDEC che
hanno stemperato l’impronta essenzialmente commercialistica. Questa circolazione di
regole con diversa valenza positiva e contenuti comuni ha fatto emergere l’idea di soft low.
La CISG è in vigore in Italia e le sue regole sono applicabili in via analogica anche ad altri
contratti. La Cassazione con la sent. 6323/2000 ribaltando il suo orientamento in tema di
revocabilità della proposta ha compiuto un passo avanti verso un pieno allineamento con
le soluzioni condivise in Europa ammettendo la recettizietà sia pure con argomenti
criticabili perché anziché far leva sull’esigenza di coerenza sistematica e di
un’interpretazione evolutiva del c.c. (muovendo dall’art.16 CISG), ma si fonda solo sui dati
del c.c.
La convenzione di Vienna e i <<principi comuni>> dell’art. 288 tr.
La quasi totalità degli stati ha adottato la convenzione quindi è difficile negare che questa
rappresenti ben più che una base comune di natura culturale dell’Europa continentale. I
24
principi comuni ai diritti degli stati membri in materia di formazione del contratto sono
contenuti nella CISG dotata di positiva vigenza in quasi tutti i Paesi europei.
Le tecniche procedimentali
Lo schema dialogico proposta-accettazione (contegni commissivi dichiarativi) costituiSCE il
modello procedimentale conosciuto in tutte le esperienze giuridiche rappresentando l’idea
stessa di accordo. Nella CISG vi è un’antinomia tra art.14.1 per cui gli elementi essenziali
del contratto devono essere determinati o determinabili nella proposta e l’art.55 secondo
cui è possibile trarre dal mercato i parametri idonei al completamento del contenuto del
contratto. Ciò si spiega contestualizzando l’antinomia storicamente: il mondo diviso in due
blocchi, per i paesi socialisti la migliore soluzione era la prima e per i paesi industrializzati
la seconda ( tesi accolta da UNIDROIT e PDEC).
Unidroit e PDEC oggi hanno risolto molte questioni problematiche, ad esempio è
esplicitamente ammessa la revocabilità della proposta e il momento della conclusione del
contratto si determina sulla base della recezione dell’accettazione.
Contegni meramente omissivi (non silenzio o inerzia di per sé) :
Il codice italiano regola la formazione del contratto attraverso una pluralità di congegni
procedimentali variamente articolati, nei quali assumono autonomo rilievo contegni
commissivi dichiarativi, contegni commissivi non dichiarativi. Il procedimento di formazione
del contratto sfuma sfuma gradualmente da tecniche basate sul dialogo dei contraenti a
tecniche nelle quali l’accordo si perfezione senza perfezione di dialogo.
Il diritto europeo della formazione del contratto ha pienamente utilizzato la molteplicità
procedimentale e ha ulteriormente arricchito la pluralità degli schemi dando vita ad
ulteriori varianti.
a. Accettazione non conforme. Nella Cisg, Unidroit e PDEC si è superato il principio
della specularità esatta tra proposta e accettazione per cui anche nel caso in cui le
modifiche apportate dall’accettazione non sono essenziali e nel contempo vi è un contegno
omissivo del proponente (che non si oppone senza indugio), il contratto si considera
concluso. L’art.19 Cisg fissa alcune modifiche ritenute essenziali, ad esempio modifica del
prezzo, modalità di pagamento, quantità, termine e consegna.
b. Analoga regola vale nel caso di accettazione tardiva per ragioni non imputabili
all’accettante. Anche qui, infatti, ha valore negoziale il contegno omissivo del proponente
(entro ristretti limiti una parte può dichiarare di rifiutare gli effetti prodotti nella sua sfera
giuridica).
È inutile il dibattito riguardo il fatto se il contratto debba considerarsi concluso solo dopo
che sia decorso il termine per la recezione del proponente o prima già al momento
dell’accettazione tardiva, salvo possibilità di eliminare gli effetti.
I principi Unidroit e Pdec completano il sistema disciplinato dalla Cisg definendo
esplicitamente il valore della mancata risposta del proponente ad una lettera di conferma
contenente clausole aggiuntive o difforme non essenziali (onere di reazione). Tali clausole
diventano parti del contratto. La ratio consiste nell’economia dei mezzi giuridici.
Il contratto che si perfeziona con l’inizio di esecuzione: due statuti
procedimentali.
L’art. 18.1 della CISG indica l’equivalenza dei comportamenti dichiarativi e non dichiarativi
quali atti idonei a portare a conclusione il procedimento (<< Una dichiarazione od altro
comportamento tenuto dal destinatario indicante il suo consenso ad una proposta
costituisce accettazione. Il silenzio e l’inerzia non equivalgono ad accettazione>>) . Per gli
25
atti non dichiarativi la disciplina deroga alla regola della ricettività, in quanto hanno
immediata capacità perfezionativa anche se il proponente non ne viene a conoscenza. L’art
1327 c.c. prevede che il contratto possa considerarsi concluso anche se su richiesta del
proponente per la natura dell’affare o secondo gli usi si da esecuzione prima
dell’accettazione.
Anche i PDEC prevedono tale possibilità, e anche quando il procedimento di conclusione
del contratto non si struttura in proposta e accettazione, si applicano le norme previste per
i contratti conclusi con lo schema “proposta-accettazione” con gli opportuni adattamenti.
Quanto detto è importante perché i PDEC non indicano dei procedimenti alternativi
nominati, ma lasciano aperta la tipologia di atti che possono condurre all’accordo; rimane
all’autonomia privata creare procedimenti.
Il problema dell’interesse strumentale dell’urgenza e dell’effettività e il
principio di parità
Secondo lo schema del nostro codice (art. 1327), alla proposta non segue la risposta, che
è una dichiarazione, ma l’inizio di esecuzione, che è atto reale, che non è assolutamente
revocabile.
Al comma 2 dello stesso articolo è disciplinato il c.d. “pronto avviso dell’iniziata
esecuzione” all’altra parte (che non è un atto che costituisce parte del procedimento di
formazione dei contratti, tant’è che la sua mancanza induce il solo risarcimento del
danno). E’ un atto che ha natura rappresentativa di un fatto già verificato (cioè l’inizio
dell’esecuzione). L’avviso è un mero atto-notizia che la legge impone alla parte, la quale,
dando inizio all’esecuzione, ha perfezionato il contratto, all’insaputa del proponente.
Il dialogo qui è escluso perché sopraffatto da interessi procedimentali quali l’urgenza e
l’effettività dell’esecuzione.
Nei PDEC invece sono previste due sottospecie di contratti che si perfezionano mediante
l’esecuzione:
a) con comunicazione art. 2:205 (2) prevede contratti che si perfezionano
con la comunicazione dell’esecuzione al proponente.
A differenza di quanto previsto dal c.c. e dalla CISG la comunicazione fa parte del
procedimento di formazione, anzi lo perfeziona. La comunicazione è un atto che
ha natura dichiarativa: non è un atto conclusivo e non è un atto di adesione alla
proposta con effetto retroattivo al momento della dichiarazione perché l’art. 2:205
dei PDEC precisa non solo l’an , ma anche il quando della conclusione del contratto,
ossia il momento in cui la comunicazione perviene al proponente. Tale specie si
articola in tre momenti: proposta, esecuzione, comunicazione. Essa appare
fortemente sbilanciata a svantaggio di chi esegue il contratto, che, dopo
l’esecuzione, si troverebbe esposto tuttavia alla revoca dell’altra parte.
Non meno importante altro rilievo secondo cui l’esecuzione non risponde ad
esigenze di effettività e rapidità (come invece accade nell’art. 1327), poiché, stante
la lettera della norma, non si tratta dell’unico modo con cui l’oblato può concludere
il contratto.
b) Senza comunicazione art. 2:205 (3), come nel nostro c.c., stabilisce che il
contratto è concluso quando ha inizio esecuzione, di cui non deve essere
data comunicazione.
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IL CONTRATTO INFORMATICO
Cosa deve intendersi per contratto informatico?
È il contratto concluso mediante computer, senza il contestuale intervento dell’operatore
umano.
Tale definizione è utilizzata secondo due accezioni: indica la forma elettronica che
caratterizza il contratto, e anche la modalità di formazione della volontà negoziale.
La dichiarazione di volontà è elaborata dal software sulla base di istruzioni previamente
inserite e il cui risultato costituirà la dichiarazione imputabile alla parte.
Tempo e spazio nell’ambiente di internet sono indeterminati, e apparentemente mancano
controlli esterni. Da ciò nascono dei problemi giuridici specifici:
• Valore giuridico della forma elettronica;
• Criterio di imputazione della dichiarazione negoziale;
• Momento e luogo di conclusione del contratto;
• Invalidità e interpretazione.
Fonti
Nell’ordinamento italiano si fa riferimento al d.lgs. 70/03, al Codice di Amministrazione
digitale del 2005, alla disciplina generale del c.c., alla disciplina dei contratti a distanza,
alla disciplina dei contratti dei consumatori.
Al livello dell’UE si fa riferimento alla direttiva 00/31; al livello internazionale alle varie
iniziative dei principali organismi del commercio (OCSE, WTO).
La forma elettronica, le firme elettroniche e il documento informatico
E’ necessario individuare quali debbano essere i requisiti che il documento elettronico deve
possedere per avere rilevanza giuridica. Il legislatore speciale italiano indica la firma
elettronica quale criterio di imputazione della volontà negoziale (la sottoscrizione del
contratto è chiaramente elemento essenziale).
La disciplina della firma elettronica è contenuta nel Codice di Amministrazione digitale del
2005;
• per firma elettronica si intende l’insieme dei dati in forma elettronica, allegati
oppure connessi tramite associazione logica ad altri dati elettronici utilizzati come
metodo di autenticazione informatica.
• La firma elettronica avanzata è quella che garantisce la connessione univoca al
firmatario e la sua univoca identificazione creata con mezzi sui quali il firmatario
può conservare un controllo esclusivo e collegata ai dati ai quali si riferisce, in modo
da consentire di rilevare se i dati siano stati successivamente modificati.
• La firma elettronica qualificata è basata su un certificato qualificato e creata
mediante un dispositivo sicuro per la creazione della firma.
• La firma digitale è una firma elettronica qualificata basata su un sistema di forme
asimmetriche a coppia, una pubblica e una privata. Consente al titolare, tramite una
chiave privata, e ai destinatari, tramite una chiave pubblica, di rendere manifesta e
di verificare la provenienza e l’integrità di un documento informatico.
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•
•
•
•
•
La firma digitale autenticata è quella in cui l’intervento del notaio garantisce la
riferibilità della firma al titolare, e la validità del documento.
La varietà di documenti informatici a seconda delle firme elettroniche.
Rilevanza sostanziale e probatoria.
il documento informatico non sottoscritto non ha effetti costitutivi perché è
impossibile la sua imputazione all’autore; e come per le registrazioni meccaniche fa
piena prova dei fatti rappresentati se colui contro cui sono prodotti non ne
disconosce la conformità. (art. 2712 c.c.)
Il documento informatico con firma elettronica semplice , se si risolve in atto
unilaterale recettizio o in un contratto per il quale non è richiesta la forma scritta ab
substantiam, ha la stessa validità della scrittura privata, su indicazione del
legislatore comunitario. Per quanto riguarda la sua rilevanza probatoria, il
legislatore comunitario impone di non considerare inefficace e irrilevante il
documento informatico con firma elettronica semplice; il legislatore nazionale
statuisce la libera valutazione del giudice “tenuto conto delle sue caratteristiche
oggettive di qualità e sicurezza”.
Il contratto con firma elettronica qualificata è valido e rilevante a tutti gli
effetti di legge, ed è equiparato alla scrittura privata. Per quanto riguarda la sua
rilevanza probatoria, come le scritture private, fa piena prova della provenienza
della dichiarazione fino a querela di falso.
L’equiparazione alla scrittura privata appare però incongrua, perché il
disconoscimento da parte del titolare non può avvenire perché comporterebbe la
probatio diabolica del non abuso; al massimo si può opporre l’abuso da parte di
terzi invito domino. Inoltre deve escludersi il disconoscimento perché la piena prova
fino a querela di falso implica una scrittura privata riconosciuta ex art. 2702 c.c.,
dunque tale documento deve esser considerato riconosciuto ex lege.
Il documento informatico con firma digitale autenticata ha la stessa
rilevanza sostanziale del documento elettronico con firma digitale qualificata, ma ha
un’efficacia probatoria più ampia, dato che vi è l’intervento del notaio. Nonostante
ciò, nell’assenza di una specifica previsione normativa, è difficilmente considerabile
come atto pubblico.
Infine, si deve dare risalto al considerando n.16 della direttiva 99/93, il quale prevede che
le parti siano libere di accordarsi sulle condizioni di accettazione dei dati firmati in modo
elettronico, nella misura in cui ciò è consentito dal diritto nazionale. Ad es. vale il limite
dell’ordine pubblico, per cui le parti non possono incidere sul regime legislativo riguardante
i requisiti di validità dei negozi informatici.
La forma del contratto informatico e la imputabilità della dichiarazione
negoziale informatica. L’accordo delle parti. La direttiva 00/31.
Si tratta di un tema connesso a quello della firma. Solo se la legge richiede sotto pena di
nullità la forma scritta ab substantiam per il contratto informatico deve rispettare i
requisiti per la creazione del documento con firma qualificata autenticata, altrimenti
bastano comportamenti concludenti (quali la cliccata sulla specifica icona, la digitazione
del proprio numero di carta di credito).
La dottrina ha denunciato la figura di contratti senza accordo perché concepiti senza
libertà di trattare, ma con l’unica possibilità di aderire o meno, seguendo l’iter indicato;
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mentre per altri il dialogo non è presupposto essenziale del perfezionamento del contratto
nemmeno nel c.c.; per altri ancora, su internet non vi può essere una trattativa, ma tale
orientamento non è condivisibile perché sotto tale profilo il contratto informatico non
sembra introdurre alcuna novità rispetto al contratto tradizionale. Il contratto informatico
si perfeziona a seguito di un iter formativo più o meno complesso.La direttiva 00/31 sul
commercio elettronico, all’art. 10 si occupa dei ‘’contratti per via elettronica’’ ed elenca le
informazioni da fornire al destinatario della proposta in modo chiaro, comprensibile ed
inequivocabile; l’art. 11 prevede che il prestatore deve accusare ricevuta dell’ordine del
destinatario del servizio senza ingiustificato ritardo e per via elettronica, inoltre l’ordine e
la ricevuta si considerano pervenuti quando le parti hanno possibilità di accedervi.
Nell’ordinamento italiano la disciplina è frutto della combinazione dei contratti a distanza,
dei contratti negoziati fuori dai locali commerciali ( artt.45 e ss. cod. cons.) e del
commercio elettronico ( d. lgs. 70/03).
Problema del momento e del luogo della conclusione del contratto e della legge
applicabile
La circostanza che la contrattazione telematica collega soggetti ubicati in Stati diversi pone
il problema del luogo di conclusione del contratto e della normativa applicabile. La
soluzione va rintracciata nella l. 218/95 e nella Convenzione di Roma del 1980.
La formazione e l’espressione della volontà negoziale nel contratto informatico.
La trasmissione della volontà avviene automaticamente in via informatica, ma la
dichiarazione della volontà contrattuale è già definita quando viene trasmessa all’altra
parte. Il sistema informatico o telematico nella fase di dichiarazione della volontà è solo un
mezzo di trasmissione. L’utilizzo del programma ne comporta in qualche modo
accettazione e assunzione di responsabilità quanto alla dichiarazione fatta nei riguardi
della controparte. Si ritiene che la dichiarazione della volontà contrattuale trasmessa dal
sistema informatico sia da imputare al soggetto che del sistema informatico si è avvalso.
In conclusione il risultato del processo di elaborazione che si svolge a mezzo del
programma negoziale imputabile all’utente che ne assume la piena responsabilità nei
confronti della controparte secondo i principi di auto- responsabilità e affidamento.
Errore, violenza e dolo nella formazione della volontà.
Per quanto riguarda la fase della programmazione ossia della formazione della volontà
prima che venga dichiarata all’esterno si applicano le ordinarie norme disciplinanti questi
profili contrattuali nazionali.
Innanzitutto si potrà incorrere in errore: l’errore motivo potrà rilevare sotto due
profili
a)il contraente può essersi rappresentato fatti e circostanze determinanti per il
suo consenso in modo erroneo.
Il contraente ha trasfuso tale volontà in un programma informatico corretto e rispondente
alla volontà da lui espressa, ma viziato in quanto era viziata la volontà all’origine.
b)il contraente può essersi rappresentato fatti e circostanze determinanti per il
suo consenso in modo corretto e la sua volontà contrattuale, di conseguenza
può essersi formata correttamente, ma tale volontà può essere stata trasfusa in
modo erroneo nel programma e quindi quest’ultimo può essere viziato per un
errore del programmatore o dello stesso contraente.
29
In ambedue i casi troverà applicazione la disciplina codicistica dettata dagli artt. 1428 e ss.
del c.c., quindi ai fini della invalidità della dichiarazione devono ricorrere i caratteri della
essenzialità e riconoscibilità dell’errore.
La violenza viene risolta nella disciplina dell’errore e del dolo presentandosi i caratteri sia
nella fase di formazione che di trasmissione della volontà negoziale.
Con riguardo al dolo trova applicazione la disciplina del c.c. sia quando il comportamento
doloso viene posto in essere dalla parte direttamente sia quando ci si avvalga di un
operatore o altro incaricato sia quando quest’ultimo sia raggirato dal terzo. La l. 547/93
contempla due ipotesi:
1)un soggetto al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di arrecare ad altri un
danno, formi falsamente ovvero alteri o sopprima, in tutto o in parte il contenuto anche
occasionalmente intercettato di talune delle comunicazioni relative ad un sistema
informatico o telematico o intercorrenti tra più sistemi.
2)l’alterazione del funzionamento di un sistema informatico o telematico modificando dati,
informazioni o programmi contenuti in un sistema informatico o ad esso pertinenti,
procurando a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno.
In entrambi i casi oltre all’azione di annullamento per dolo sarà esercitabile
anche l’azione penale.
L’interpretazione del contratto informatico: si applica la normativa codicistica
italiana sul contratto (tenendo conto della peculiarità del contratto informatico) e del
comportamento antecedente e successivo delle parti; fondamentale è il criterio
dell’interpretazione secondo buona fede. Le soluzioni in materia sono comunque precarie e
destinate ad adattarsi all’evoluzione della tecnica.
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I DOVERI DI INFORMAZIONE
Rilevanza costituzionale
Il diritto all’informazione può vantare nell’ordinamento comunitario rilievo costituzionale,
poiché l’art. 153 TCE assegna alla Comunità il compito di promuovere a beneficio dei
consumatori, “il diritto all’informazione, all’educazione e all’organizzazione per la
salvaguardia dei propri interessi”. La Corte europea di giustizia ha sottolineato lo stretto
nesso tra la protezione e l’informazione dei consumatori, sicché una normativa nazionali
che neghi l’accesso dei consumatori a talune informazioni, non potrebbe essere giustificata
da esigenze imperative attinenti alla loro produzione. Nel diritto italiano il riconoscimento
al consumatore di un “diritto fondamentale ad un’adeguata informazione” (art.2 co.2
cod.cons.) non vale di per sè a porre l’informazione sullo stesso piano dei diritti
fondamentali costituzionalmente garantiti, non potendo la legge ordinaria integrare
l’elenco dei diritti riconosciuti in costituzione; siffatto diritto “fondamentale” rimane tra
l’altro disarmato tutte le volte in cui la legge non appresta tutele direttamente azionabili
dal consumatore. Sarà compito dell’UE contribuire al conseguimento dell’obiettivo
mediante lo strumento di “ravvicinamento delle legislazioni”. L’informazione identifica in
generale una delle caratteristiche più importanti del diritto contrattuale dell’UE ( duty to
disclosure).
Informazione e trasparenza delle relazioni di mercato.
Seppure il rispetto dei doveri di informazione, posti a carico degli operatori del mercato è
comunque funzionale ad assicurare trasparenza e correttezza dell’attività negoziale, non
per questo tali doveri possono solo collocarsi all’interno della singola vicenda negoziale.
Trasparenza (disclosure): consiste nella penetrabilità agevole di dati o situazioni da
parte di chi ne abbia interesse, e per questo varia a seconda del tipo di relazione del
modello di contrattazione. All’operatore del mercato obbligato a darsi un’organizzazione
che esclude ogni opacità di relazioni e di interessi, può dirsi, ingenerale, che facciano capo
doveri di informazione:
1) alcune informazioni vanno messe sul mercato a beneficio di tutti i possibili attori (ad es.
inmateria di servizi finanziari e assicurativi). Tali obblighi concorrono a determinare lo
statuto dell’attività del professionista, e sono presidiati da un sistema di autorizzazioni,
controlli, sanzioni di natura amministrativa.
2) i doveri abbondano quando si tratti di scambi in cui una parte sia il consumatore; in tali
casi i doveri vivono nella singola relazione contrattuale e le regole possono essere volte a
tutelare sia attuali che potenziali contraenti; talora però la tutela nei loro confronti è scarsa
dato che a livello comunitario è prevista solo l’azione inbitoria collettiva (attraverso cui si
valutano i testi contrattuali unilateralmente formulati contenenti clausole non trasparenti o
mancanti dei contenuti imposti dalla legge ai fini dell’informazione).
Doveri di disclosure e disciplina del contratto.
La trasparenza è un obiettivo che il legislatore comunitario persegue sia attraverso regole
che impongono forme o modalità di espressione e /o redazione delle clausole contrattuali,
sia attraverso doveri di informazione generalmente collocati nella fase che precede o
accompagna la formazione dell’accordo. Si guarderà allora soprattutto al tempo,
all’oggetto e alle finalità dell’informazione per qualificare la c.d. trasparenza contrattuale.
31
E’ dubbio per l’interprete se i doveri di informazione vadano collocati nella fase delle
trattative o se invece influiscano sulla valida formazione dell’accordo.
Varie sono le classificazioni dei doveri di informazione nelle fonti comunitarie:
- modalità di trasmissione;
- luogo, tempo;
- modo dell’adempimento;
- rimedi all’inadempimento.
Contenuto dell’informazione e prossimità al contratto: l’inadeguatezza del
criterio in un approccio di tipo rimediale.
Stante una certa instabilità del regime assegnato ai doveri di informazione dalla loro
violazione (dato che la vicenda contrattuale può essere interessata in modo eterogeneo,
esercitando il diritto di recesso, nullità, inefficacia, sanzioni amministrative dirette a colpire
il professionista nella sua inattività, ma non quale partner contrattuale), la questione dei
rimedi può essere oggi considerata quale principale criterio di lettura della disciplina
comunitaria. Vari tentativi di classificazione hanno tentato di distinguere tra doveri di
sistemazione contrattuali e precontrattuali, ma ciò non sempre è decisivo; bisogna semmai
valutare caso per caso la loro posizione e funzione, partendo dai dati positivi.
L’inadeguatezza della distinzione tradizionale tra generici doveri di trasparenza e obblighi
contrattuali di informazione è dimostrata anche dal fenomeno della contrattualizzazione
dell’informazione: nel senso che flussi fi informazione forniti ad incertam personam, se
ed in quanto suscettibili di raggiungere il pubblico dei “consumatori medi” e di influenzarne
le determinazioni contrattuali, non rimangono sempre esterni alle sorti del singolo futuro
ed eventuale contratto. Parimenti inadeguato è il criterio della prossimità al contratto in
quanto è difficile distinguere tra informazione non propedeutica al contratto e
informazione in vista del contratto, e ancora informazione da fornirsi prima e/o
contestualmente al contratto, poiché tale sequenza rischia di avere una valenza
meramente descrittiva dando risalto alla più alla prossimità dell’informazione che alla
stipula del contratto.
Il principio di efficacia ed effettività della tutela e dei doveri d’informazione
nella giurisprudenza della Corte europea di giustizia.
La scelta all’approccio rimediale appare obbligata. L’informazione si propone essa stessa
come parte del contenuto del contratto o come oggetto di obbligazione e in tale ratio di
protezione del contraente destinatario dell’informazione apparirà meritevole di tutela in
ambito contrattuale anche l’affidamento ingenerato dalle notizie e dai dati diffusi in
ottemperanza a pur generici doveri di trasparenza.
L’informazione sul recesso e la sentenza Heininger.
Alla luce della giurisprudenza della CEG, non mancano rimedi in caso di violazione dei
doveri di informazione: è addirittura possibile che in futuro vi siano obblighi di
informazione contrattuale.
Sentenza Heininger. La CEG giudica non conforme al diritto comunitario la legge tedesca
sul credito a consumo, che nel caso di contratti di credito fissava il termine massimo per il
recesso ad un anno dalla conclusione del contratto. La norma comunitaria invece (dir.
85/577 in materia di contratti negoziati fuori dai locali commerciali), prevede che il termine
entro cui esercitare il recesso di pentimento debba decorrere da quando il consumatore ha
ricevuto l’informazione sul diritto di recesso, per cui la corte ritiene che il legislatore
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nazionale non possa applicare il termine di un anno dalla stipulazione del contratto per
l’esercizio del diritto di recesso, qualora il consumatore non abbia beneficio
dell’informazione prevista. La CEG ha inoltre stabilito che il difetto di informazione sul
recesso comporta la possibilità per il consumatore di potere esercitare tale diritto sine die,
o almeno sino all’integrale attuazione del programma contrattuale il termine di 7 gg per
esercitare il diritto di recesso comincia a decorrere dal momento in cui il consumatore ha
ricevuto l’informazione sul diritto di recesso. I vari legislatori nazionale hanno recepito la
dir.: in Inghilterra e Spagna è stato previsto come rimedio l’invalidità di protezione, mentre
in Italia l’allungamento dei termini.
La stessa Ceg nel noto caso Schulte e Schulte vs Deutsche Bausparkasse Badenia AG ha
ritenuto inadeguato il solo rimedio del recesso a presidio dei doveri di informazione,
dovendo in questo caso prevedersi negli ordinamenti nazionali anche misure idonee a
sollevare il consumatore dalle conseguenze dannose subite e a farle ricadere in capo al
contraente che ha omesso l’informazione.
Informativa e disciplina del contratto ( di consumo) nelle direttive. Obblighi
legali di informazione ed obbligazioni da informazioni.
Nelle direttive settoriali, aventi ad oggetto singole tipologie di contrattazioni con i
consumatori fanno la loro comparsa i doveri legali di informazione e le regole a presidio
della correttezza e impegnatività dell’informazione, sia essa fornita in adempimento di un
obbligo legale sia essa spontanea.
Informazione e determinazione legale degli “elementi minimi” del contratto: le
direttive sull’acquisto di diritti di godimento a tempo parziale di beni immobili e
sui viaggi, vacanze e circuiti
La direttiva 122/2008 dell’acquisto del diritto di godimento a tempo parziale di beni
immobili (multiproprietà) stabilisce l’obbligatorietà della consegna, da parte del
venditore ad ogni persona che richiede informazioni sul bene immobile, di un documento
informativo, contenente informazioni precise sul bene. Il venditore deve consegnare ad
ogni persona che richiede informazioni un documento informativo contenente la
descrizione generale del bene ed almeno informazioni precise e succinte su identità e
domicilio delle parti, natura esatta e oggetto del contratto, servizi e strutture comuni,
informazione sul recesso.
Tutte le informazioni fornite nel documento dovranno fare parte integrante del contratto, e
non potranno essere modificate senza esplicito accordo delle parti, salvo circostanze
indipendenti dalla volontà del venditore, e comunque dovranno essere comunicate prima
della conclusione del contratto, e ivi espressamente indicate.
Il diritto di recesso potrà essere esercitato entro 14 gg. dal recepimento di tutte le
informazioni: in caso di loro mancanza, a tale tutela si aggiunge quella della sanzione
pecuniaria.
In ragione della sostanziale corrispondenza tra contenuto dell’informazione e contenuto
minimo del contratto, come prescritto (all’art. 4 dir. 94/47), l’ingiustificata modifica da
parte del professionista di quanto scritto nel documento consegnato prima della
conclusione del contratto rileverà se ed in quanto si traduca in una divergenza tra
informazione e contratto.
Decisiva sarà allora la verifica di quanto versato nel contratto che, ai sensi dell’art. 4 co.1
da farsi obbligatoriamente in forma scritta. La violazione della forma, in tutti gli Stati
membri, è risolta ricorrendo ai rimedi “in materia di inefficacia dei contratti”.
33
Inoltre, trattandosi di contratto predisposto dal professionista, il principio di
interpretazione contra proferentem ribadito dalla disciplina delle clausole abusive nei
contratti dei consumatori e quello, più generale, di inefficacia delle clausole “a sorpresa”,
dovrebbero suggerire di subordinare l’efficacia della clausola del contratto difforme da
quella del documento informativo ad un’accettazione espressa, secondo la scelta adottata
dai Principi Unidroit.
Nel caso in cui il contratto non contenga qualcuno degli elementi del documento
informativo, al consumatore che non abbia voluto o potuto esercitare validamente il diritto
di recesso non potrà negarsi il diritto a pretendere l’adempimento del contratto in
conformità a quanto enunciato nel documento informativo, ancorché non riprodotto:
emerge un rimedio conservativo in base al quale il venditore ha l’obbligo di non modificare
il documento in quanto questo fa parte integrante del contratto.
Il documento consegnato prima della conclusione del contratto contiene informazioni
vincolanti, perché si tratta di informazioni concernenti elementi essenziali ai fini
dell’identificazione economico e normativo del contratto, ed è già esso stesso espressione
della volontà negoziale del professionista.
Nell’ipotesi di violazione dell’obbligo di consegna del documento informativo
preliminarmente alla stipula del contratto, essendo legalmente previsto che il contenuto
del documento medesimo sia praticamente identico al contenuto legale del contratto
accadrà che:
• se tra il documento informativo e il contrato non vi è difformità, appare di poca
rilevanza la violazione dell’obbligo di preventiva informazione, dato che il
consumatore è comunque stato edotto di tutti gli elementi richiesti. In questo caso,
l’omissione imputabile al professionista viene neutralizzata dall’esistenza di un
accordo scritto che accompagna la ponderazione;
• se tra il documento informativo e il contratto vi è difformità, allora il rimedio andrà
cercato con riguardo alla stessa sorte del contratto contrario a norme inderogabili,
vale a dire la nullità evocata dall’art. 5 dir. 94/47.
Pacchetti turistici dir. 90/314
Sempre all’interno della disciplina comunitaria è possibile ricostruire una sequenza
informazione-contratto non dissimile in materia di vendita di pacchetti turistici, materia
disciplinata dalla dir. 90/314 concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti “tutto compreso”,
pur essendo qui i doveri di informazione a beneficio dell’acquirente dislocati in momenti
differenti.
Prima dell’inizio del viaggio, ovvero ove il contratto sia stipulato nell’imminenza di una
partenza, contestualmente alla stipula, l’organizzatore dovrà fornire al consumatore le
informazioni di carattere generale (passaporti, visti, formalità sanitarie) sia le informazioni
specifiche del “pacchetto” offerto (orari, località di sosta intermedia, coincidenze, posto
assegnato al viaggiatore).
Simile è il flusso di informazioni che deve essere contenuto nell’opuscolo informativo ove
questo sia messo a disposizione del consumatore: destinazione, mezzi di trasporto, tipo di
sistemazione, itinerario, passaporti, visti, formalità sanitarie, eventuali acconti e scadenze
di versamento, data limite di informazione del consumatore in caso di annullamento del
viaggio. La disciplina dell’opuscolo ricalca quella dettata a proposito del documento
informativo in tema di multiproprietà (ma in quel caso la consegna è un preciso obbligo
del professionista).
34
In caso di vendita di pacchetti turistici, il contenuto dell’opuscolo informativo può essere
modificato prima della conclusione del contratto solo se nell’opuscolo stesso era prevista
tale possibilità e previa comunicazione scritta al consumatore, salve le modifiche
concordate tra le parti dopo la stipula.
Il contenuto dell’opuscolo consegnato prima del contratto e dunque le informazioni
unilateralmente e spontaneamente rese in vista della conclusione del contratto
costituiscono anch’essi parte integrante del contenuto contrattuale, in quanto elementi
essenziali ai fini dell’identificazione del contenuto economico e normativo del contratto.
In caso di informazione ingannevole (cioè nel caso di difformità tra servizio descritto e
servizio dovuto) sorge il diritto del consumatore ad un adempimento conforme
all’informazione . Il contenuto dell’opuscolo spontaneamente fornito è prescritto dalla
legge e ricalca il contenuto minimo del contratto.
I doveri di informazione come prescrizioni di forma e di contenuto minimo
dell’offerta nel procedimento di formazione dell’accordo
professionistaconsumatore.
La ratio dei doveri legali di informazione nelle fonti comunitarie è consentire il controllo
legale degli elementi da inserire nel contratto. E’ ritenuta vincolante l’informazione anche
se spontaneamente fornita, così da sopperire ad un’assenza di trattative (contrattazione
veloce) e da preservare la formazione di un consenso del consumatore pieno (informato e
ponderato).
La disciplina dei contenuti minimi conforma il modo in cui il professionista opera sul
mercato.
Le regole in tema di informazione intercettano così le comunicazioni in vari modo
provenienti dal professionista, che in questo inedito procedimento di formazione
dell’accordo sono destinati a svolgere la funzione di elementi minimi necessari dell’offerta
proveniente dal professionista, ne prescrivono forma ed elementi e ne preservano la
funzione attraverso un regime di irrevocabilità o di limitata revocabilità, allo scopo di
prevenire ostacoli alla formazione di un valido accordo.
L’assenza di informazione comporta nullità del vincolo contrattuale per violazione di norme
imperative in tema di offerta contrattuale. La rat io delle norme comunitarie è dunque di
tramutare l’oggetto dell’informazione in promesse.
Informazione e contratto nella commercializzazione a distanza
La direttiva 97/7 disciplina i contratti a distanza.
Le informazioni preliminari che il consumatore deve ricevere prima della conclusione di
qualsiasi contratto a distanza ai sensi dell’art. 4 rappresentano anch’esse il contenuto
minimo dell’offerta.
Anche in questo caso pare che gli effetti della mancata informazione vadano riferiti alla
proposta contrattuale, e dunque ne determinano l’inefficacia: ai sensi dell’art. 9 deve
ritenersi che il contratto potrà dirsi validamente concluso solo ove risulti che il
consumatore abbia dato il suo consenso ad un’offerta conforme al dettato dell’art. 4;
grava sul fornitore la prova anche della prestazione del consenso del consumatore alla
conclusione del contratto, ed è abusiva ex lege ogni clausola contrattuale inverte l’onere
della prova.
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La violazione degli obblighi di informazione si risolve in un pregiudizio dell’efficacia del
contratto: sulla scia dell’indirizzo formulato dalla direttiva 02/65 che invitava gli Stati
membri a prevedere sanzioni adeguate (effettive, proporzionate e dissuasive) in caso di
mancato rispetto degli obblighi di legge da parte del fornitore, il legislatore italiano ha
tramutato in causa di nullità del contratto la violazione di tali obblighi.
Rimedio veloce ed efficace previsto dalla direttiva è il diritto di recesso libero entro 3 mesi
dal ricevimento del bene, o nel caso di prestazione di servizi dal momento della
conclusione del contratto. Nei contratti a distanza la mancanza dell’informazione
preliminare minima non può essere colmata al momento della conclusione del contratto,
data la peculiarità della forma di contrattazione (il mezzo di comunicazione e la forma
orale non consentirebbe un recupero successivo della mancanza di tempo utile di
ponderazione, che non può colmarsi neanche con la conferma scritta dell’informazione).
Il legislatore comunitario, al fine di preservare per il consumatore uno spatium deliberandi
preventivo richiama i principi di lealtà in materia di transazioni commerciali, ma
mantengono la propria vigenza le regole in tema di resp. precontrattuale.
La conferma scritta delle informazioni fornite prima del contratto prevista dall’art. 5 si
configura come adempimento di un obbligo contrattuale a carico del fornitore. Nel caso in
cui essa differisca in peggio dall’offerta, come rimedio è sufficiente il diritto di recesso; nel
caso in cui siano stati adempiuti i doveri di informazione preliminari, ma non l’obbligo di
informazione scritta è previsto il risarcimento del danno. Oltre a ciò è previsto per il
consumatore in buona fede che abbia atteso invano il completamento delle informazioni la
possiblità di ricorrere al rimedio della risoluzione per inadempimento entro gli stessi tempi
previsti per l’esercizio del diritto di recesso.
Crediti al consumo e contratti bancari
La direttiva 87/102 prevede gli elementi essenziali del contratto a forma scritta vincolata.
L’informazione si realizza direttamente mediante il testo contrattuale: è necessario che le
possibili modifiche successive volte a contenere il costo del contratto siano effettuate
secondo criteri predeterminati e di cui il consumatore sia già a conoscenza (es. disciplina
dell’informazione sul TAEG).
Nei contratti bancari è pressante la necessità di coniugare la disciplina dei doveri di
informazione alle esigenze di personalizzazione e al rispetto della parità di trattamento. La
disciplina italiana è contenuta negli artt. 116 e 117 del TUB, i quali prevedono un obbligo
di pubblicizzazione del tasso d’interesse, delle spese, dei prezzi e di ogni altra condizione
economica, formando in pratica una vera e propria offerta contrattuale sottratta però alla
disciplina dell’offerta al pubblico.
Il contratto potrà discostarsi dall’informazione resa solo in melius, pena la nullità delle
clausole più sfavorevoli, e l’automatica integrazione con le clausole pubblicizzate; inoltre,
in caso di difetto di informazione, l’intera operazione diventa gratuita.
La pubblicità commerciale e gli effetti diretti sul contratto: la vendita di beni di
consumo
La direttiva 99/44 sulla vendita di beni di consumo disciplina la garanzia di conformità, per
cui il venditore è responsabile se il bene di consumo non corrisponde a quanto il
consumatore poteva ragionevolmente aspettarsi per ciò che riguarda la qualità e la
prestazione abituale di uno stesso tipo di bene, anche in considerazione di quanto
pubblicamente dichiarato dal venditore, o dal produttore, o da un suo rappresentante, in
particolare nella pubblicità o nella etichettatura.
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Ciò vale anche quando la dichiarazione non sia stata corretta e portata a conoscenza del
consumatore prima della conclusione del contratto, e salvo che il venditore non dimostri di
non esserne a conoscenza e di non averla potuta conoscere con l’ordinaria diligenza.
Siamo davanti ad un fenomeno di contrattualizzazione dell’informazione, perché
l’informazione è considerata come componente dell’offerta.
Messaggi promozionali e responsabilità precontrattuale
Numerose prescrizioni sono volte ad assicurare una pubblicità veritiera e corretta, ma
rimangono fuori dall’ambito dei doveri di informazione contrattuale perché tale pubblicità è
destinata ad un pubblico indistinto e lontano dalla vicenda contrattuale.
La pubblicità viene considerata ingannevole prevalentemente con riferimento agli effetti e
non tanto al contenuto, anche se quest’ultimo influisce sugli effetti. L’operatore
pubblicitario deve dimostrare l’esattezza dei dati di fatto contenuti nella pubblicità. Si tratta
di una species della disciplina dell’informazione.
Le sanzioni esulano dalla vicenda contrattuale; una parziale correzione si ha in materia di
pratiche commerciali sleali (cioè quando l’informazione, anche corretta, risulta ingannevole
per il modo in cui è fornita, e quando viene omessa un’informazione rilevante), in quanto
la direttiva 05/29, oltre ad invitare i legislatori nazionali ad adottare sanzioni
amministrative e rimedi a carattere collettivo inibitori, stabilisce che non potrà non
influenzare lo sviluppo di rimedi risarcitori. Non a caso gli elementi presi in considerazione
al fine di giudicare il carattere veritiero o ingannevole delle informazioni attengono
all’oggetto e alle condizioni del contratto.
Il prospetto informativo
È un documento destinato per legge ad accompagnare il collocamento dei titoli sul
mercato, fornendo al pubblico dati economici riferiti alla società.
Già prima dell’esistenza del diritto comunitario era già contemplato negli ordinamenti
interni.
Il dibattito sulla resp. da prospetto è molto acceso: la direttiva 03/71 è l’espressione più
compiuta del processo di ampliamento della resp. da prospetto, in quanto la estende alle
varie forme di sollecitazione al pubblico risparmio, e fissa il contenuto del prospetto stesso.
Secondo tale direttiva l’obbligo di pubblicare il prospetto vale per tutte le offerte al
pubblico o di strumenti finanziari non rivolte esclusivamente ad investitori qualificati. Ai fini
della direttiva si intende per offerta al pubblico ogni comunicazione rivolta a persone in
qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo che presenti sufficienti informazioni sulle condizioni
dell’offerta e degli strumenti finanziari offerti.
Mentre strumenti finanziari sono i titoli negoziabili elencati all’art. 14 della direttiva 93/22,
salvo gli strumenti del mercato monetario definiti nell’art. 1 punto 5 e aventi una scadenza
inferiore ai 12 mesi.
Il prospetto è valido 12 mesi; è obbligatorio in ogni offerta al pubblico di strumenti
finanziari ed è messo a disposizione del pubblico. Contiene informazioni sull’emittente e
sugli strumenti finanziari.
Scopo della disciplina è coniugare la flessibilità con la protezione dell’investitore non
qualificato. Le informazioni devono essere complete, sufficienti, più obiettive possibili e
continuamente aggiornate con supplementi, a seguito dei quali è ammessa la revoca
dell’adesione dell’investitore. Questi è così tutelato contro prospetti infedeli o ingannevoli.
Il prospetto va sottoscritto dal predisponente come elemento essenziale del negozio: se
manca o è irregolare, il negozio è nullo; se è incompleto, è annullabile o risolvibile.
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Indubbio è il legame funzionale con il contratto dato che il prospetto costituisce parte
dell’offerta; è alla base della valutazione sulla sua convenienza e avvia la negoziazione. In
ogni caso la clausola di buona fede conduce a qualificare la resp. da prospetto come resp.
precontrattuale.
In Italia la prevalente dottrina la ritiene come resp. contrattuale per inadempimento di un
contratto qualificato con i potenziali investitori e ritiene applicabile dunque il regime
probatorio ex art. 1218 c.c.
L’informazione come servizio nei contratti di negoziazione di prodotti finanziari.
In alternativa alla sollecitazione al pubblico è possibile una negoziazione individuale di
strumenti finanziari con investitori professionali tramite collocamento privato o
sollecitazione all’investimento. L’obiettivo della disciplina in materia non è più solo la tutela
degli investitori, ma anche la stabilità del mercato finanziario, e la creazione di un mercato
finanziario integrato. Si ha così il rafforzamento delle misure di regolamentazione
dell’attività di intermediazione mobiliare finalizza ad armonizzarne i requisiti e le norme di
comportamento in ambito comunitario. Qui l’informazione diviene un servizio, perché non
si tratta più solo di prescrizioni in tema di offerta contenuto o oggetto del contratto, ma
l’informazione va riferita anche a circostanze estrinseche che attengono all’emittente.
La disciplina dei doveri di informazione poggia non sul loro contenuto, ma sul risultato che
devono conseguire, che in questo caso è un flusso di informazioni a doppio senso (anche
l’intermediario deve acquisire informazioni dal cliente circa le sue esperienze in materia di
investimenti).
Nel collocamento individuale l’informazione si inserisce nel rapporto discendente dal
contratto-quadro; mentre nella sollecitazione all’investimento si inserisce in un documento.
La violazione dei dovere di informazione non potrà non rilevare quale inadempimento alla
prestazione del servizio e al parametro di diligenza professionale richiesto dalla legge;
rileva altresì se tradotto in un cattivo o infedele o inadeguato consiglio di investimento
(investimento sbagliato) rientrando nell’area dei danni risarcibili, sempre che non si voglia
sperimentare il terreno dei rimedi al vizio del consenso, sotto forma di dolo, errore,
reticenza. Nei noti casi di default di Cirio, Parmalat il legislatore italiano ha iniziato
un‘affannosa ricerca alle risposte adeguate da dare alle vittime e riprendendo il
suggerimento di qualche giudice di merito, ha esteso alla negoziazione individuale l’obbligo
a carico dell’intermediario di consegnare il prospetto informativo, e ha previsto la sanzione
della nullità nel caso di obbligazioni emesse all’estero. I giudici di merito hanno avanzato
due tesi:
1) la nullità del contratto di acquisto degli strumenti finanziari per violazione degli obblighi
di informazione da parte degli intermediari;
2) risoluzione per inadempimento del prestatore di servizio più risarcimento del danno.
Quest’ultima tesi è appoggiato dalla Cassazione
E’ stata prospettata un’ulteriore tesi più isolata dalle altre che avanzava la annullabilità per
dolo, ma non è facile provare ciò.
I doveri di informazione entro la (falsa) alternativa tra regole di validità e
regole di responsabilità
Si deve ammettere che la commistione tra regole di validità e regole di responsabilità non
è nelle fonti, interne o comunitarie, ma nella scelta dei giudici. Meritevole di
apprezzamento risulta dunque essere la prima pronuncia della S.C. che ha cercato di
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mettere ordine nel caotico panorama giurisprudenziale. La sentenza censura non il ricorso
in sè alla figura della nullità virtuale, bensì la rintracciabilità tout court, nel caso di
violazione dei doveri di informazione, di una causa di nullità ex art. 1418 co.1 c.c. e ciò
perché la nullità deve comunque avere attinenza ad elementi intrinseci della fattispecie
negoziale, e che riguardino cioè la struttura o il contenuto del contratto; laddove i
comportamenti tenuti dalle parti nel corso delle trattative o durante l’esecuzione del
contratto rimangono estranei alla fattispecie negoziale e si intende, allora, che la loro
eventuale illegittimità, quale che sia la natura delle norme violate, non può dar luogo a
nullità del contratto.
La S.C. ribadisce che la nullità dell’atto negoziale, non discende da qualsivoglia violazione
di una norma imperativa, e mai può intervenire a presidio della violazione di regole di
condotta.
Al contempo la S.C. non sembra escludere in principio che la violazione di regole
imperative di informazione, ostacolando la formazione di un consenso libero e informato,
trovi sanzione nella nullità del contratto in quanto tali informazioni non riguardano
direttamente la natura e l’oggetto del contratto, ma concernono soltanto elementi utili per
valutare la convenienza dell’operazione. Ne risulta una regola fortemente eversiva in base
alla quale un accordo non “informato” sarebbe insufficiente ad integrare il requisito
dell’art.1325 c.c..
Ove l’offerta non sia conforme alle prescrizioni normative il contratto non potrà dirsi
validamente concluso. Il giurista italiano potrà sorprendersi dal fatto che tale assunto
condurrebbe a fare assurgere l’accordo informato a requisito essenziale con gli effetti di
cui agli art. 1325 e 1418; ma dalla prospettiva europea rimane indiscusso che le regole sui
doveri di informazione si configurano comunque quali regole che attengono alla
composizione strutturale della fattispecie la cui violazione reclama il rimedio della nullità.
Quella che è stata denominata “informazione-consulenza” che si connota proprio per un
contenuto non rigidamente predeterminabile è innanzitutto una modalità di adempimento
della prestazione, per la cui violazione è possibile ricorrere ai rimedi dell’inadempimento
contrattuale (risarcimento del danno e risoluzione).
Nell’ordinamento italiano c’è la tendenza ad ampliare l’area di obbligatorietà della
consegna del prospetto informativo, estendendola anche alla negoziazione individuale e
dando così più spazio alla sanzione della nullità: tale rimedio è però inefficace perché pur
tutelando l’acquirente consumatore riduce i doveri di informazione attiva dell’intermediario
limitandoli alla mera consegna del prospetto.
L’informazione nel corso del contratto e il ius variandi
Quanto a funzione e rimedi in materia di doveri d’informazione, poco cambia se questi
sono collocati in fase postcontrattuale. Invece appartengono alla fase di esecuzione del
contratto:
1) gli obblighi di informazione funzionali all’adempimento della prestazione;
2) gli obblighi di informazione che concernono modifiche delle condizioni contrattuali e che
debbono precederle.
Nel primo caso l’obbligo legale delinea una prestazione accesorea e strumentale
all’adempimento di quella principale. Nel secondo caso si controbilancia uno ius variandi
unilateralmente riconosciuto.
In materia di assicurazione per la vita e contratti di prestazione di servizi finanziari il ius
variandi unilaterale è ritenuto strumento irrinunciabile di efficiente funzionamento del
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mercato creditizio dato il regime di rischio in cui operano le banche, ma confligge con il
principio generale dell’immodificabilità unilaterale delle prescrizioni contrattuale da parte di
una delle parti. Nel diritto interno derivato è riconosciuta piena cittadinanza al ius variandi
unilaterale, purché preannunciato in seno al contratto con clausola specificamente
approvata dalla controparte, e ne subordina l’esercizio ad un obbligo di informazionecomunicazione anche ai fini del recesso consentito all’altra parte (il recesso dunque
rappresenta il vero contrappeso dello ius variandi).
Duty to disclose come principio generale nell’acquis comunitario? Le scelte dei
PDEC
I doveri di informazione nei PDEC comprendono informazioni preliminari come fonte di
obbligazioni contrattuali salvo la prova che l’altra parte sapeva o non poteva non sapere
che l’informazione era inesatta (contrattualizzazione della informazione-dichiarazione). Il
destinatario della dichiarazione può scegliere tra vari rimedi: nel caso di informazioni e
consulenze inesatte è possibile solo il risarcimento del danno. Oltre agli obblighi legali da e
di informazione si può ritenere che esistano doveri di informazione che facciano parte
dell’acquis comunitario? Pare di no. Infatti inserito hanno: a) inserito la reticenza tra i vizi
del consenso; b) espressamente sanzionato un generale dovere di informazione (clausola
di buona fede) che però ancora rileva solo se vi è dolo.
Può comunque affermarsi che grazie all’influenza del diritto comunitario negli stati membri
il principio generale di buona fede e correttezza, in luogo del consueto dovere di “non
nascondere” impone il più pregnante dovere di non volgere in danno della controparte il
proprio vantaggio informativo a prescindere dal dolo, anche se solo omissivo.
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L’ACCORDO SUFFICIENTE E LA FUNZIONE DEL CONTRATTO
I requisiti del contratto nei PDEC
Nei PDEC all’art.1:102 si definisce l’autonomia contrattuale come la libertà delle parti di
stipulare contratti e determinarne il contenuto nel rispetto di buona fede, correttezza e
norme imperative contenute nei principi e sanciscono la possibilità delle parti di escludere
l’applicazione delle norme o derogarvi salvo sia diversamente stabilito.
Art.2:101 sancisce che i requisiti del’accordo delle parti sono: la manifestazione di volontà
di vincolarsi giuridicamente e la sussistenza di un accordo sufficiente.
Non sono necessari i requisiti di forma, e la prova del contratto può essere data con
qualsiasi mezzo, compresa la testimonianza.
Art. 2:102 In tema di volontà si afferma ch essa si ricava dalle dichiarazioni e dalla
condotta della parte così come compresa dall’altra parte.
Art.2:103 si considera accordo sufficiente quello in cui le clausole sono sufficientemente
determinate dalle parti possono essere determinate applicando i principi (l’accordo
insufficiente sarà ineseguibile, frattura funzionale).
L’idea di sufficienza evoca una relazione tra contenuto contrattuale e finalità che esse si
promettono di realizzare.
Se però una parte rifiuta di concludere un contratto fino al raggiungimento dell’accordo su
un punto specifico prima di ciò il contratto non viene ad esistenza. Da notare dunque che
in materia di accordo sufficiente non si fa riferimento né all’oggetto né alla causa né alla
forma del contratto, e un’analoga impostazione hanno i principi UNIDROIT. Non costituisce
una grave lacuna il mancato riferimento all’oggetto dato che i caratteri che la tradizione
riferisce ad esso (art.1346 c.c. liceità, possibilità, determinatezza, determinabilità) vengono
attribuiti dai PDEC e dal cod. europeo dei contratti al contenuto.
La causa del contratto e l’accordo sufficiente
Più delicato è il problema del mancato riferimento alla causa. Nella cultura civilistica
europea il dibattito sulla causa è sempre stato ampio essendo questo un elemento
presente nella tradizione legislativa sia italiana che francese. Il BGB distingue tra zweckt
(scopo) e grund (fondamento), mentre l’esperienza UK parla di consideration.
In Italia il c.c del 1865 considerava la causa “lecita per obbligarsi”, mentre l’odierno codice
la considera la funzione economico-sociale del contratto, cioè il fine intrinseco di un
contratto socialmente apprezzabile e come tale meritevole di tutela. Tale dimensione è
sancita dalla relazione che accompagna il c.c. del 1942, ma è anche intrinsecamente
contraddittoria perché da un lato si criticano le teorie che vedono nella causa lo scopo
pratico individuale e soggettivo, dall’altro involontariamente si avvallano, dato che la causa
così individuata risulta come scopo soggettivo e come strumento di controllo di tale scopo
(funzione economico-sociale e funzione economico-individuale).
La causa si fonda sulla dialettica tra un’idea di negozio espressione di autonomia privata,
e l’idea di uno Stato che detiene il monopolio della dimensione giuridica della socialità
(unica fonte di valutazione in termini di meritevolezza di tutela giuridica). Cioè oltre ad
effetti pratici si vogliono produrre effetti giuridici e ciò è possibile solo se i valori privati
sono compatibili con quelli proprio dell’ordinamento dello stato (contratto come
ordinamento originario).
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Viene confermata l’idea della extrastatualità del diritto civile, tanto che sono previste forme
di salvataggio di situazioni nate in contrasto con la legge.
La causa può essere intesa ancora come funzione economico-indiviudale, senza però
confonderla con la funzione sociale cui la stessa relazione al c.c. faceva riferimento in linea
con l’ideologia fascista. Infatti definire la causa come funz. Eco-ind significa attribuirle la
natura ibrida di espressione oggettivata delle finalità soggettive. Si da dunque alla regola
contrattuale una dimensione razionale. Trace della causa così intesa possono rinvenirsi
anche nei PDEC: in vari parlano di “nature and purpose”, anche se stranamente, nella
versione italiana, piuttosto che scopo, il termine “purpose” è stato tradotto con “oggetto”.
Se ne parla a proposito di: giudizio di ragionevolezza; circostanze rilevanti; clausole
implicite; interpretazione.
Il principio per cui i comportamenti devono essere coerenti con le finalità che la regola
contrattuale vuole perseguire sembra espresso anche dai frequenti richiami a
ragionevolezza, buona fede, correttezza, accordo sufficiente già citati agli artt. 1:102,
2:102, 2:103. La causa rimane quindi un elemento intrinseco alla stessa idea di economia
privata, di cui si attesta sempre una “invisibile presenza”, anche in quei testi normativi che
hanno frettolosamente rimosso il riferimento ad essa.
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INVALIDITA’ ED INEFFICACIA
Nel linguaggio del diritto europeo dei contratti di fonte comunitaria, non è quasi mai
menzionata la figura dell’invalidità, se non in eccezioni quasi uniche: la nullità delle intese
vietate, alcuni riferimenti a nullità, annullabilità ed inefficacia contenuti nella dir. 02/47 sui
contratti di garanzia finanziaria, nell’ambito della disciplina sulle concentrazioni tra
imprese.
Le formule invece ricorrenti sono quelle: dell’irrinunziabilità di determinati diritti, del
carattere imperativo o cogente di disposizioni appositamente indicate, della non
vincolatività o non azionabilità di particolari accordi o clausole contrattuali.
È il legislatore nazionale che in sede di trasposizione del diritto di fonte comunitaria in
corrispondenti regole di diritto interno, traduce quelle formule in altrettante categorie
rimediali, scegliendo tra quelle reputate più idonee a garantire adeguata protezione
all’ordine degli interessi, così come enunciati e valutati dal legislatore comunitario.
Il legislatore italiano, in particolare, ha preferito adottare il rimedio della “nullità di
protezione”, un’espressione ormai recepita a pieno nel linguaggio legislativo in tema di
clausole vessatorio, all’art. 36 cod. cons.
Quello della nullità è un rimedio generalmente adottato dalla quasi totalità delle
legislazioni nazionali, anche se permangono significative differenziazioni, frutto di diverse
identità e tradizioni culturali, ma che rappresentano esse stesse fattori propulsivi e di
crescita del processo di integrazioni giuridica europea (le clausole vessatorie in UK sono
soltanto “non vincolanti”, nel BGB sono “inefficaci”, in Francia “non scritte per contrarietà
all’ordine pubblico”).
L’invalidità come negazione di dover essere
Invalido è quel contratto che non è come dovrebbe o avrebbe dovuto essere.
L’invalidità denuncia dunque lo scarto tra l’essere e il dover essere del contratto.
Ma l’essere, per il diritto, non significa neanche idoneità agli effetti né tanto meno efficacia
nel diritto (tant’è che neppure il contratto valido è necessariamente efficace), ma fissa solo
la sua rilevanza.
L’invalidità dunque non è un’inqualificazione, ma una qualificazione negativa del contratto
conseguente alla negazione di dover essere.
Nel nostro codice civile manca uno statuto normativo unitario dell’invalidità, ma è presente
la disciplina della nullità e dell’annullabilità le quali, secondo una consolidata dottrina,
costituiscono le due più rilevanti species del più ampio genus dell’invalidità. Criticabile è la
tesi secondo cui nullità ed annullabilità sarebbero irriducibili ad un unico e medesimo
schema di interessi: in realtà c’è sempre un calcolo che l’ordine giuridico compie con
riferimento alla mancanza dei requisiti del contratto invalido, e dipende da tale calcolo la
possibilità di differenti e diversificati gradi e stadi di invalidità, e di riflesso la configurabilità
di differenti modalità di atteggiarsi dell’efficacia/inefficacia che ne consegue. È quindi il
criterio del calcolo differenziale ad operare, da cui nasce la diversità degli statuti di nullità
ed annullabilità.
Il grado e la natura delle invalidità vengono fatte dipendere da una valutazione ponderata
di entità e qualità dell’anomalia, ma il tutto in un’ottica che considera sia il momento
formativo dell’accorso sia quello regolamentare degli interessi programmati in modo
astratto, indifferenziato e neutrale, rimanendo del tutto estranea ogni strategia di
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costruzione e conformazione del regolamento contrattuale per scopi di tutela di particolari
esigenze delle parti o di terzi.
Nella normativa post-codice si abbandona la vecchia concezione atomistica e neutrale del
contratto, per fare spazio ad una nuova concezione di esso che valorizza il punto di vista
esterno, cioè lo connette alla situazione complessiva di cui è espressione o sulla quale
dovrà incidere (si toglie dunque rilievo al punto di vista interno, quindi al contenuto del
contratto). È il compimento di quello che si può chiamare il lento ed inesorabile declino del
contratto come “regola” di privati interessi patrimoniali, e il suo definitivo trapasso a mera
“tecnica” organizzativa di determinati interessi negoziali; una vera e propria rottura del
nesso biunivoco tra il contratto e il regolamento.
Al termine di un siffatto processo l’invalidità appare ormai staccata dai tradizionali schemi,
e non più relegata al campo dei rimedi di fattispecie, viene a proporsi quale vero e proprio
rimedio di regolamento, cioè mezzo tecnico di gestione e controllo del regolamento
contrattuale.
Le invalidità nell’esame comparatistico e nelle fonti scientifiche
In questo ambito si assiste ad un’evidente divaricazione tra formante normativo e
formante dottrinale.
Il diritto europeo dei contratti non presenta l’invalidità in versione di annullabilità (ad es. la
Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di beni mobili, espressamente dispone
che il proprio contenuto non riguarda la validità del contratto o di singole sue clausole o
degli usi).
Sono invece i principi elaborati dal formante dottrinale a riportare in auge la
invalidità/annullabilità, e di particolare rilievo è la riscrittura da parte dei Principi Unidroit e
dei PDEC della tradizionale disciplina dei vizi del consenso, con particolare attenzione al
nuovo trattamento dell’errore, per il ruolo eminentemente assegnato alla buona fede, al
principio di responsabilità e al requisito della scusabilità.
All’art. 3.10 i Principi Unidroit introducono una nuova causa di annullabilità: il “gross
disparity”, vale a dire l’eccessivo squilibrio derivante da attribuzione ingiustificata di
vantaggio eccessivo; sulla stessa linea i PDEC disciplinano, all’art. 4:109, l’ “excessive
benefit or unfair advantage”, cioè l’annullabilità del regolamento contrattuale affetto da
ingiusto profitto o vantaggio iniquo; mentre all’art. 4:110 sanciscono l’annullabilità anche
delle clausole abusive non oggetto di trattativa individuale. Quello che tuttavia lascia
perplessi è l’inquadramento nell’ambito dell’annullabilità perché appare in controtendenza
con il formante legislativo europeo, il quale indica in modo chiaro ed univoco che la
tecnica più appropriata al rimedio dell’inosservanza di un preciso dover essere normativo è
la nullità c.d. di protezione, laddove invece l’annullabilità risponde quasi sempre e soltanto
ad un’esigenza di tutela della libertà decisionale dei contraenti. Più coerente con le
indicazioni provenienti dalla normativa europea è indubbiamente l’ Avant-project francese,
il quale ordina le invalidità esclusivamente attorno alla nullità di protezione, distinguendola
in assoluta e relativa, a seconda del carattere generale o particolare dell’interesse tutelato.
Una valutazione a parte merita il Codice europeo dei Contratti il quale, oltre a prevedere la
c.d. “inesistenza”, contiene una norma che disciplina la “privazione di effetti” in materia di
condizioni di contratto e clausole vessatorie, e una norma che prevede la nullità anche in
tutti i casi previsti dalle leggi dell’UE, oltre a quelle degli Stati membri (ciò che sorprende,
però, è che nel conflitto viene data prevalenza alle norme degli Stati membri, sia pure alle
condizioni precisate nella disposizione).
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Perdita di unità del contratto, pluralizzazione della nullità e discesa in campo
delle c.d. nullità di protezione
Nel diritto europeo di fonte legale, alla tradizionale concezione bipolare dell’invalidità, si è
sostituita una diversa e opposta configurazione solitaria e monistica, incentrata sulla
nullità.
E tale nullità è divenuta, in prospettiva europea, un rimedio sempre più conformato,
quanto a struttura e funzione, dal tipo di operazione contrattuale posta in essere, valutata
sia dal punto di vista dello specifico assetto di interessi in gioco, che sotto il profilo della
particolare posizione delle parti coinvolte e della natura dei beni e servizi edotti.
Il diritto europeo dei contratti mostra invece un atteggiamento di rigetto verso ogni forma
di trattamento rigidamente monistico, riproponendo una dicotomia di modelli e una
corrispondente notevole diversità di regimi giuridici che il diritto interno aveva da tempo
cancellato (ad es. tra contratti di impresa e contratti del consumatore).
Sicché si è passati dalla tradizionale disciplina generale ed indifferenziata, che faceva leva
soltanto sull’esistenza di determinate cause e predefiniti caratteri, ad un regime giuridico
diversificato e complesso, variamente articolato e graduato a seconda della specifica
tipologia inficiante l’atto, e come tale irriducibile ad un concetto unico.
Il modo attraverso il quale il diritto europeo dei contratti ha realizzato un siffatto processo
di profondo mutamento è rappresentato dalla messa in campo di una nuova figura di
nullità, la c.d. nullità di protezione, quale categoria non più monistica, bensì plurale,
irriducibile ad uno schema unitario e compatto, in quanto avente fondamento in patologie
di varia natura del regolamento contrattuale.
La svolta muove dal radicale “oltrepassamento” della teoria della fattispecie, e qualora
siano previste ancora ipotesi di nullità strutturali, queste devono avere essenzialmente un
ruolo funzionale (nullità strutturali a necessario rilievo funzionale), in quanto volte a
garantire efficienza e razionalità al regolamento contrattuale; il salto di qualità si coglie ad
esempio nel momento in cui si è fatta della forma un autonomo requisito di validità e di
circolazione dell’operazione contrattuale.
Nullità funzionali con finalità conformativa del regolamento contrattuale
Nella maggior parte delle ipotesi, a prendere decisamente il sopravvento è invece una
nullità di tipo completamente nuovo, che possiamo dire essere “funzionale”, commisurata
e in stretto rapporto con il concreto assetto degli interessi perseguito dalle parti, ed avente
finalità essenzialmente conformativa di rimodellamento del regolamento contrattuale. Se
ne possono distinguere vari tipi:
• regolamenti imposti: il diritto europeo dei contratti, a volte, predetermina in tutto o
in parte, ad opera della stessa norma o di autorità indipendenti, il regolamento
contrattuale. In questo caso si tratta di regolamenti sottoposti ad un elevato grado
di protezione giuridica. In questi casi si ha nullità se il regolamento contrattuale è
privo del profilo precettivo imperativamente prefissato o normativamente delegato:
di regola all’effetto eliminativo totale o parziale si accompagna la contestuale ad
automatica integrazione o sostituzione delle parti caducate con regole dettate dalla
stessa previsione normativa o dalle stesse autorità indipendenti. È di norma
azionabile d’ufficio, con legittimazione relativa, e a volte estesa anche ad ogni
interessato.
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Regolamenti contrattuali ambiti: altre volte la norma si limita a dettare dei contenuti
minimi necessari da salvaguardare e perseguire ad ogni costo. Si tratta di
regolamenti favoriti dall’ordine giuridico e suscettibili di deroghe solo in melius. La
nullità in questi casi consegue al fatto che il regolamento contrattuale viene
riscontrato privo del contenuto minimo necessario normativamente predeterminata;
è di regola a parzialità necessaria e l’azionabilità, oltre che ad istanza di parte e di
ufficio, può avvenire anche ad opera di terzi qualificati da connessi interessi
meritevoli.
• Regolamenti contrattuali preferiti: si tratta di assetti pattizi alternativi, connotati da
una particolare conformazione regolamentare. La nullità si ha se il regolamento
contrattuale non corrisponde alla determinazione pattizia preferita dall’ordine
giuridico: azionabile d’ufficio e da chiunque vi abbia interesse, colpisce di pieno
diritto, in tutto o in parte, il regolamento pattizio con contenuto infrattivo
(esemplare in tal senso è la disciplina delle intese, o il caso del contratto che
risultasse espressione di abuso di posizione dominante).
• Regolamenti contrattuali tollerati: si tratta di assetti di interessi programmati e
decisi dagli operatori (soprattutto in materia di contratti bancari e finanziari). Il
diritto europeo dei contratti mostra di tollerarli a patto che rispettino determinate
condizioni, e cioè che non risultino compromessi o messi in gioco interessi costitutivi
di sistema, e fino a quanto il soggetto cui è conferita la legittimazione ad agire non
intenda far valere la nullità, o questa non venga rilevata d’ufficio.
• Ipotesi di violazione del principio di buona fede: si tratta di un’ulteriore tipologia di
nullità funzionali al rimodellamento del regolamento contrattuale costituita da
ipotesi di violazione del principio di buona fede (cioè quando il contegno contrario a
buona fede di una delle due parti, avuto riguardo al concreto e reale assetto di
interessi in campo, abbia esplicato un effettivo condizionamento sulla
conformazione del contratto).
•
Nullità preordinate all’equità e alla giustizia del regolamento contrattuale
L’esigenza di regolamenti contrattuali equi (cioè improntati a ragioni di giustizia
sostanziale), è molto avvertita nel diritto europeo dei contratti.
In tutti questi casi la nullità scaturisce dal fatto che il regolamento contrattuale viene
scoperto affetto da significativo squilibrio economico o soltanto giuridico, da sproporzione
tra prestazioni, da abuso di posizione dominante o di dipendenza economica, da abuso
tout court, contrarietà a buona fede, grave iniquità o sostanziale ingiustiza; presenta i
caratteri della parzialità necessaria e dell’azionabilità, oltre che ad istanza del contraente
lese, anche di ufficio e a volte pure ad opera di terzi qualificati. Ad es. ai sensi dell’art. 2.2
cod. cons. l’equità nei rapporti contrattuali è diritto fondamentale di consumatori ed utenti,
a pari della correttezza e della trasparenza; nella più recente normativa comunitaria
emerge un vero e proprio principio di equa negoziazione, avente portata generale e il più
delle volte accompagnato anche dalla previsione di diretti poteri giudiziali con finalità
integrativa e/o correttiva del regolamento contrattuale.
Il problema è però che l’equità è un concetto giuridico indeterminato, come lo sono anche
proporzionalità ed equilibrio, e pertanto è necessario individuare dei parametri generali. Le
diverse formule normativamente utilizzate risultano poco utili perché rimandano ad
ulteriori unità di misura (ad es. “significativa, o non congrua, o eccessiva, o ingiustificata
alterazione dell’equilibrio contrattuale); più appropriato sembra essere il quadro di
riferimento delineato dalla normativa sui ritardi di pagamento nelle transazioni
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commerciali, perché elenca un contesto di circostanze da cui partire per cercare i criteri
determinativi del valore dell’equa negoziazione.
Scopo e finalità della nullità europea quale tecnica rimediale di graduazione
dell’efficacia con funzione di protezione
Costituisce primario obiettivo del diritto europeo dei contratti la sostanziale conformazione
del regolamento contrattuale. Si iscrive in questa logica l’adozione della c.d. nullitàfunzione, cioè la nullità che sta in diretto e immediato rapporto di corrispondenza con un
determinato assetto di interessi, in ragione della natura degli stessi, della specifica
posizione delle parti, dei beni e servizi negoziati.
Alla tradizionale indole nagativa e demolitoria propria di ogni nullità, la nullità europea
sostituisce una particolare tecnica costruttiva di graduazione dell’efficacia del contratto (la
nullità nel diritto europeo ha carattere plurale).
Fondamento della nullità non è più necessariamente la tutela di un interesse solo pubblico
o sociale, astratto e spesso contrapposto a quello particolare delle parti contraenti, ma
direttamente ed immediatamente anche soltanto in questo; da sanzione quale era, la
nullità diventa protezione, qualificandosi appunto come nullità di protezione di ben
individuate categorie di interessi.
Il superamento dei tradizionali caratteri e il nuovo volto della nullità europea di
protezione
Caratteri diversi connotano la nullità europea di protezione rispetto alla nullità codicistica.
Quest’ultima, quando c’è, non conosce compromessi o patteggiamenti, e si costruisce
secondo schemi e moduli uniformi e insuscettibili di variazioni e adattamenti: se l’atto non
è conforme allo schema, l’inefficacia non può che essere radicale, assoluta; l’azione sarà
imprescrittibile; rilevabilità d’ufficio.
La parzialità non è configurabile se non come eventuale e residuale soltanto; in forse
risultano persino collaudati caratteri quali:
a) L’indisponibilità, in quanto limitata alle sole pattuizioni sfavorevoli, ed eslcusa per le
pattuizioni a vantaggio o più favorevoli al contraente debole;
b) L’insanabilità, sia pure nei limiti del principio di una disponibilità successiva
all’azione nelle forme della esecuzione o anche di una rinunzia;
c) L’imprescrittivibilità, dovendo la permanenza in vita della relativa azione ritenersi
strettamente subordinata alla vigenza delle pretese nascenti dai rapporti regolati;
d) La retroattività erga omnes e quella inter partes
e) L’esito di un’espressa comminatoria, dato che spesso le nullità si atteggiano come
virtuali soltanto (ad es. nel divieto di abuso di posizione dominante, art 82 tr.) o
come testuali.
La nullità europea di protezione quale categoria plurale a rilevanza costante ma
ad efficacia variabile
Importante è evitare un inquadramento della nullità europea nel tradizionale schema delle
nullità relative, perché ciò sarebbe insufficiente e riduttivo nonché smentito dalla stessa
natura dell’istituto in commento. In molte ipotesi di nullità europea, infatti, l’azionabilità in
giudizio è aperta anche a terzi estranei al contratto (accordi gravemente iniqui in danno
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del creditore; abuso di dipendenza economica) e addirittura a chiunque possa vantare un
interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico (intese anticoncorrenziali
vietate; abuso di posizione dominante), mentre com’è noto, nelle nullità c.d. relative la
legittimazione all’azione è riservata ad una sola delle parti contraenti.
Deve ritenersi escluso anche ogni ricorso allo schema logico del rapporto regola-eccezione:
il modello europeo di nullità, infatti, non ha natura eccezionale, e come tale non si sottrae
all’estensione analogica (e non sarebbe il caso nemmeno di degradare al rango di
eccezione il modello codicistico).
Neppure infine può condividersi la sempre più diffusa qualificazione delle diverse nullità di
diritto europeo come speciali, perché la specialità implica il riferimento ad un regola di cui
si vuole specificare la portata, mentre la nullità europea è essa stessa regola di sistema.
La nullità europea è quindi, in ultima analisi, da definire quale la tecnica rimediale di
protezione e categoria plurale a rilevanza costante ma ad efficacia variabile.
L’inefficacia nel diritto europeo dei contratti: a) da nullità di clausole
vessatorie; b) da validità sospesa per atteso esercizio di ius poenitendi; c) da
incompatibilità di concentrazioni anticoncorrenziali
Se l’efficacia può derivare anche da un atto nullo, l’inefficacia presuppone invece un
negozio necessariamente valido.
È fondamentale al riguardo considerare che anche l’effetto giuridico ha un suo ciclo vitale
e pertanto anch’esso, nonostante l’idoneità del regolamento a produrlo, può venirsi a
trovare, per vicende interferenti con il suo normale decorso, nell’impossibilità provvisoria o
definitiva, assoluta o relativa, originaria o successiva, di operare pienamente.
L’inefficacia si presenta dunque come vicenda negativa perfettamente speculare
all’efficacia, consistendo propriamente nella mancata trasformazione, in correlativi effetti,
dei previsti e programmati modelli di comportamento prescelti dalle parti per la
realizzazione dell’assetto contrattuale di interessi avuto di mira.
Le cause cui ascrivere la negazione all’atto consistono a volte in carenze intrinseche agli
stessi effetti contrattuali (indeterminatezza dei soggetti e dell’oggetto: un effetto non
imputabile ad un soggetto né riferibile ad un oggetto sarebbe impossibile); più spesso
però sono carenze estrinseche, ragioni di sistema, ad impedire agli effetti contrattuali di
prodursi pienamente.
L’inefficacia viene quindi a designare una condizione di soccombenza interna dell’interesse
interno al contratto che, pur essendo rilevante e valido, interferisce con altri interessi
esterni al contratto e con esso incompatibili. L’inefficacia presenta una naturale vocazione
alla composizione di interessi conflittuali, e per questo potrebbe essere utilizzata quale
strumento di controllo della c.d. giustizia delle operazioni di scambio (anche se il diritto
europeo dei contratti non mostra particolare propensione per l’impiego di questa
categoria).
Una rilevante applicazione era rappresentata invece dall’ inefficacia delle clausole
vessatorie, secondo alcuni da qualificare come inefficacia vera e propria, secondo altri da
ricondurre alla categoria della nullità.
Ad inefficacia pendente sembrerebbe invece darl luogo la disposizione di cui all’art. 11.4
d.lgs. 190/05 secondo cui l’efficacia dei contratti di commercializzazione a distanza relativi
ai servizi finanziari di investimento è sospesa durante la decorrenza del termine previsto
per l’esercizio del diritto di recesso.
Quella degli accordi di concentrazione incompatibili è invece un’inefficacia vera e propria:
gli accordi di concentrazione manifestano un assetto di interessi interno potenzialmente
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confliggente con il sistema degli interessi esterno di un mercato aperto e concorrenziale, e
per questo l’efficacia di tali accordi è sottoposta alla condicio juris di una dichiarazione di
compatibilità da parte della Commissione, con valore medio tempore sospensivo della sua
realizzazione. Essa è destinata a evolvere in definitiva inefficacia in caso di mancato
avveramento di detta condizione, e cioè di accertata incompatibilità degli accordi medesimi
con il principio della libertà di concorrenza. Ciò giustifica, in ipotesi di operazioni di
concentrazioni illegittimamente già realizzate, il ripristino con efficacia retroattiva della
situazione quo ante.
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IL PRINCIPIO GENERALE DI BUONA FEDE
Il principio di buona fede nel contratto, nel senso di regola generale circa il
comportamento e l’esercizio del diritto, a carico di ogni contraente, è presente oggi come
principio pervasivo in tutti gli ordinamenti privatistici dell’Europa continentale; si potrebbe
addirittura aggiungere che si tratta di un principio essenziale e fondatore dello stesso
diritto privato europeo.
Esso trova le sue radici nella bona fides del diritto contrattuale romano, e in particolare nel
sistema contrattuale emergente dai bonae fidei iudicia, così come dall’ exceptio doli nel
processo formulare.
Nel corso dei secoli sono state così create, sulla base della regola della buona fede,
imponenti complessi normativi extralegali, che hanno avuto un massiccio seguito nella
prassi di numerosi ordinamenti europei, anche se con qualche differenza. Un’analisi storico
comparativa metterà in luce come ad esempio sia in Francia che negli altri ordinamenti
latini, è rimasta ignota una portata normativa autonoma del canone di buona fede, inteso
come punto di riferimento legislativo a cui il giudice possa ricorrere per correggere gli
effetti iniqui di una norma legale o contrattuale.
Nel common law inglese la bona fides è sconosciuta, non essendo possibile ricondurla alla
nozione di “good faith”; invece analizzando alcune giurisprudenze tedesche si possono
ritrovare alcune soluzioni equitative che i giudici hanno legittimato con l’idea del principio
generale di buona fede.
Il principio generale di buona fede nel diritto tedesco dalla pandettistica alla
prassi giudiziale attuale
Ben diverso è appunto il ruolo del principio generale di buona fede nel diritto privato
tedesco.
In continuità con l’usus modernus pandectarum (cioè con il diritto romano, filtrato ed
epurato da tutte le sue imperfezioni), la figura dell’eccezione di dolo permane nel diritto e
nella prassi giudiziale della Germania del XIX sec.
Nel 1912 il filosofo Riezler inquadra la nozione di eccezione di dolo nel divieto del venire
contra factum proprium, riconducendola così al principio generale di buona fede codificato
nei $$ 242 e 157 del BGB, che concernono l’esecuzione e l’interpretazione del contratto
secondo buona fede.
Soltanto nel secondo e terzo decennio del XX secolo inizia a trovare applicazione, nella
giurisprudenza tedesca, l’idea secondo la quale l’esercizio di un diritto in maniera maliziosa
e contraria all’affidamento suscitato nella controparte può essere paralizzato col ricorso
alla figura dell’exceptio o della replicatio doli. Esemplare al riguardo è lo sviluppo
dell’istituto giurisprudenziale della Verwikung (decadenza/prescrizione), secondo cui chi
tarda ad esercitare un suo diritto contrattuale o legale, e suscita così nella controparte il
giustificato affidamento che non ne farà più uso, è da considerarsi decaduto da
quest’ultimo, anche se i termini di prescrizione non sono ancora decorsi.
Il richiamo al principio generale di buona fede offre al giudice tedesco la legittimazione per
intervenire nel controllo e nell’integrazione del contenuto del contratto, facendo
riferimento ad una ipotetica volontà delle parti, per cui ad esempio il venditore di un
immobile sarà, in base a buona fede, obbligato a cedere all’acquirente le proprie eventuali
pretese al risarcimento dei danni per vizi occulti, che egli stesso abbia contro il proprio
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dante causa, malgrado la previsione a suo favore nel contratto di una clausola di
esclusione di responsabilità.
O ancora, dal principio di buona fede si dedurrà l’impossibilità di giovarsi dell’intervento di
una causa esterna per pretendere immediatamente lo scioglimento del rapporto; piuttosto
sorgerà un obbligo di rinegoziazione del contratto, altrimenti sarà il giudice legittimato ad
integrare e adattare le condizioni del rapporto contrattuale. Questo principio si trova oggi
accolto nel nuovo $$ 313 BGB e nell’art. 6:111 PDEC.
Il medesimo principio di buona fede del $ 242 ha offerto dopo il secondo conflitto
mondiale alla giurisprudenza tedesca anche la base per sviluppare un complesso sistema
giurisprudenziale di controllo del contenuto delle condizioni generali del contratto, per cui
ad es. è stata considerata invalida per contrarietà alla buona fede la clausola di un
contrato di deposito che escludeva la responsabilità dei magazzini frigoriferi del porto di
Amburgo nel momento in cui escludeva la responsabilità anche per l’ipotesi di non
funzionamento degli impianti.
In realtà il $ 242 BGB, nelle intenzioni dei compilatori del c.c. tedesco, non fu visto affatto
in maniera tanto diversa da come fu ad esempio valutato l’art. 1134.3 del Code Civil
francese: se si analizza la giurisprudenza si potrà constatare che i richiami iniziali al $ 242
BGB furono formulati solo in ipotesi in cui si trattava in realtà dell’esercizio di diritti
potestativi o di termini previsti in clausole contrattuali. È invece solo verso la fine degli
anni ’20 che il Reichsgericht cominciò a vedere nel $ 242 BGB un principio generalissimo,
consistente anche in un limite all’applicazione di norme legali.
I tribunali tedeschi, attraverso la regola generale della buona fede, hanno rivoluzionato la
disciplina legale della nullità per vizio di forma: sono giunti a disapplicare i termini legali
della prescrizione estintiva creando attraverso l’istituto pretorio della Verwirkung un
complesso di ipotesi preterlegali di perdita del diritto, che si pongono come un tertium
genus accanto agli istituti legali della prescrizione e della decadenza; hanno relativizzato la
disciplina dettata dal BGB sulla sospensione e sulla interruzione della prescrizione ed
hanno svuotato di senso il $ 225 (oggi abrogato) che sanciva la nullità di modifiche
convenzionali alla disciplina legale della prescrizione, tendendo a sostituire quindi al
sistema legale (ispirato all’idea della certezza del decorso dei termini) un sistema elastico
ispirato principalmente alla tutela delle aspettative della controparte).
Recentemente la dottrina tedesca ha formulato qualche dubbio circa l’opportunità di
ricorrere ancora oggi alla formula tralatizia della violazione del principio di buona fede,
sentendo la necessità di inquadrare le soluzioni raggiunge nel diritto applicato in una
precisa analisi degli interessi in conflitto. Nell’ultima edizione del classico commentario al
BGB ci si sposta dalla categoria del divieto di venire contra factum proprium ad una
interpretazione teleologica in cui si mantiene l’idea della funzione creatrice e correttiva
della bona fides.
Il dibattito sul principio generale di buona fede nella dottrina e nella prassi
italiane
I primi contributi sul tema provengono da quegli autori che all’inizio del secolo
cominciarono a guardare verso il modello della pandettistica e della civilistica tedesche del
tempo.
Del modello tedesco si recepì in particolar modo il rifiuto dell’ammissibilità di una
eccezione generale di dolo nel diritto vigente, e di ciò ne è prova sia per la dottrina sotto il
codice del 1865, sia per quella sotto il nuovo codice del 1942: si continuò a sostenere che
nel diritto vigente la repressione del comportamento doloso o sleale a danno degli
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affidamenti e delle attese creati nella controparte, trovava realizzazione solo nelle ipotesi
previste in specifiche norme del codice. In effetti il codice del 1942 prevede numerosi
articoli che sanzionando la condotta contraddittoria o l’intento malizioso di chi fa valere
una pretesa in giudizio, traendo vantaggio dal proprio comportamento sleale,
rappresentano in realtà una concretizzazione legale dell’idea sottostante al divieto di
venire contra factum proprium (si pensi ad es. all’art. 1260.2 che rende opponibile al
cessionario che ne era a conoscenza il patto con cui le parti hanno escluso la cedibilità del
credito; all’art. 1359 che considera avverata la condizione apposta al contratto quando
questa sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al suo
avveramento; all’art. 1426 che deroga all’annullabilità del contratto concluso dal minore,
se questi aveva con raggiri occultato la sua età. La dottrina rifiutò, tuttavia, di desumere
da queste norme un principio generale positivamente applicabile.
È negli ultimi decenni che si può osservare sul presente tema un deciso nuovo
orientamento della dottrina italiana: dalle numerose norme del codice civile del 1942, in
cui trovano richiamo le regole della buona fede e della correttezza (artt. 1175, 1366, 1375,
1337, 2598), si può fare derivare un generale principio di buona fede che sottende alle
relazioni giuridiche, alcuni addirittura iniziano ad affermare che il legislatore abbia
implicitamente introdotto nel sistema italiano una clausola generale di buona fede.
Si mette così in luce come il principio di buona fede sia presente non solo in ogni fase di
sviluppo della fattispecie contrattuale, ma anche nell’esercizio dei diritti in generale. Si fa
così appello alla nozione di buona fede in senso oggettivo, come criterio capace di
determinare il contenuto del rapporto giuridico ed il limite del diritto di credito.
Punto in comune di tutti i contributi dottrinali italiani è la critica verso la scarsa inclinazione
della giurisprudenza a servirsi del principio di buona fede, considerato anche come norma
generale, e quindi inidonea ad una diretta applicazione. Proprio sulla base di questo nuovo
indirizzo, la prevalente dottrina italiana ha iniziato ad ammettere, negli ultimi anni, la
vigenza nell’ordinamento italiano della figura dell’eccezione di dolo generale, di cui viene
visto il fondamento legale nelle norme codicistiche di buona fede: ad es. si è vista la
possibilità di sollevare una exceptio doli in materia di fideiussione bancaria, factoring e
contratto autonomo di garanzia.
Negli ultimi anni anche la massa dei dati giurisprudenziali è più fitta; un esempio fra tutti è
quello offerto dalla sent. 5639 Cass., in cui la Suprema Corte ebbe modo di stabilire che è
contraria a buona fede la sospensione dell’assicurazione per ritardo nel pagamento dei
premi, da parte dell’istituto che da tempo provvedeva a ritirare i premi tramite un proprio
incaricato, fuori dalle scadenze stabilite dal contratto.
La recezione del modello tedesco sembra tuttavia avvenuta in Italia in maniera non totale.
La bona fides come ratio decidenti implicita nel diritto applicato francese
Una valutazione realistica del diritto applicato in Francia permette di affermare che l’idea
del divieto di venire contra factum proprium, almeno come ratio decidendi implicita, non è
affatto ignota agli interpreti latini. Spesso la soluzione imposta dai canoni tradizionali della
buona fede e dell’equità è stata filtrata dagli interpreti attraverso il ricorso all’idea di un
tacito atto di volontà, che si risolve però di fatto in una finzione giurisprudenziale.
Anche sotto altri punti di vista si può constatare come nel diritto francese applicato abbia
avuto luogo una lenta erosione di alcuni aspetti del ius strictum codificato: esemplare al
riguardo è l’erosione del rigore della disciplina legale in materia di termini prescrizionali,
che la giurisprudenza francese ha compiuto col ricorso all’antica massima equitativa contra
non valentem agere non currit praescriptio (“contro chi non sia in grado di agire, non
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decorre la prescrizione”). Non si tratta di una sospensione della prescrizione (e così i
giudici evitano l’obiezione sulla tipicità legale delle cause di prelazione), ma di un beneficio
che i tribunali dispensano cognita causa in virtù della nozione di forza maggiore e della
considerazione che nessuno è tenuto all’impossibile; un’impossibilità d’agire connessa ad
un comportamento sleale o fraudolento dell’altra parte. Anche nella nostra vecchia
giurisprudenza sotto il codice del 1865 si rinvengono alcune sentenze con un orientamento
analogo a quello francese; l’art. 2941, n.8 c.c (“la prescrizione rimane sospesa tra il
debitore che ha dolosamente occultato l'esistenza del debito e il creditore, finché il dolo
non sia stato scoperto”) ha apparentemente risolto il problema, anche se una sua più
liberale interpretazione potrebbe offrire ai nostri interpreti maggiori spazi per
contemperare il rigore dei termini prescrizionali con le esigenze di tutela della buona fede
e dell’affidamento suscitati nel creditore.
I parallelismi col diritto tedesco non vanno tuttavia sopravvalutati: la giurisprudenza
francese rimane, nella sostanza, estremamente reticente ad un ampio ricorso alla bonne
foi di cui all’art. 1334.3 Code Civil, che non può coincidere, dunque, con la “Treu und
Glauben” tedesca. Un controllo del contenuto del contratto, sulla base del semplice
principio della buona fede contrattuale, rimane per i giudici francesi difficilmente
concepibile.
La buona fede nel diritto privato comunitario e l’impatto del common law
inglese
Alla domanda circa l’esistenza o meno di un principio di buona fede nel diritto comunitario
è arduo rispondere.
I regolamenti infatti parlano solo di buona fede in senso soggettivo; nelle direttive di
carattere privatistico, invece, esempi più significativi sono gli artt. 3 e 4 dir. 86/653 in cui
si prevede a carico dell’agente e dell’imprenditore un obbligo di agire con lealtà e buona
fede, o ancora il noto art. 3 dir. 93/13 secondo il quale una clausola contrattuale non
oggetto di trattativa individuale è da considerarsi abusiva quando, nonostante l’esigenza di
buona fede, provoca uno squilibrio significativo a carico del consumatore.
In particolare, l’applicazione di quest’ultima norma comunitaria mostra in forma esemplare
l’ambivalenza della nozione di buona fede contrattuale nel diritto privato comunitario:
ogni qual volta il legislatore comunitario inserisce in un testo normativo di natura
privatistica l’espressione “buona fede”, rimerge un conflitto fra civil law e common law. La
bona fides romana è infatti completamente estranee alla tradizione del diritto ingelse: qui
la “good faith” è intesa in senso soggettivo, come la situazione psicologica di chi non è a
conoscenza di determinate situazioni e fatti che possono essere rilevanti nella formazione
e nell’esecuzione di un contratto (una “fair and open dealing”, cioè un’equa ed aperta
trattativa). Per un giurista di common law è quindi inconcepibile che un giudice sia
autorizzato, in nome della buona fede e dell’equità, ad integrare il contenuto di un
contratto ed a precludere al creditore l’esercizio del suo diritto. Nel 1992 l’House of Lords
ha addirittura espressamente negato l’applicabilità, nel diritto inglese, della nozione di
buona fede oggettiva.
Comparando le diverse attuazioni nazionali dell’art. 3 dir. 93/13, viene esemplarmente ad
evidenza l’ambivalenza del diritto privato comunitario sul punto:
• Il legislatore tedesco ha utilizzato il termine Treu und Glauben, pensando senza
dubbio al principio generale del $ 242 BGB;
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• Il legislatore francese ha preferito evitare, nell’attuazione di tale articolo,
l’espressione “bonne foi”, malgrado questo termine ricorra nello stesso testo
francese della direttiva;
• Il legislatore italiano, nell’art. 33 cod. cons., ha ripreso esattamente il testo della
direttiva.
La Corte europea di giustizia ha finora evitato di prendere chiaramente posizione in
materia; recentemente si è dichiarata incompetente a chiarire se in una data ipotesi una
condizione generale di contratto sia o meno contraria di buona fede, in quanto ritiene che
una tale valutazione sia riservata al giudice nazionale.
Soluzioni giudiziali ex fide bona e soluzioni codicistiche
Si può constatare come l’idea della preclusione al creditore dell’esercizio di una posizione
giuridica formale quale sanzione per avere fatto valere il proprio diritto in maniera sleale e
contraria agli affidamenti fatti nascere dal proprio comportamento nella controparte, è
presente nella grande maggioranza dei sistemi giuridici continentali.
Ciò non vale per il common law inglese. Storicamente nella tradizione del diritto romano
comune si tratta di un principio che trovò la sua concretizzazione nella figura dell’exceptio
doli generalis. La continuità di questo istituto in Germania conferma come il diritto tedesco
sia il più vicino alla tradizione del diritto romano comune. Nel diritto francese e nei sistemi
a questo legati i giuristi sono più reticenti di fronte a questa idea. La funzione antica della
regola della bona fides permane travasata nelle rationes decidendi implicite di certe
soluzioni giurisprudenziali.
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MUTAMENTO DI CIRCOSTANZE E OBBLIGO DI RINEGOZIAZIONE
Il principio pacta sunt servanda e la distribuzione del rischio da circostanze non
regolate dal nuovo mercato globale.
Il principio “pacta servanda sunt” (sanctity of contract) è alla base di tutti gli ordinamenti
europei. Subisce però, in misura diversa nei diversi paesi membri, delle limitazioni in
ragione delle sopravvenienze contrattuali. Bisogna distinguere tra ordinamenti
tradizionalmente restii ad abbandonare il principio di sanctity of contract (Francia e
Inghilterra) e altri ordinamenti più propensi ad attribuire rilievo alle sopravvenienze
contrattuali, o in modo indistinto (Germania) o prevedendo discipline diverse a seconda
dei tipi di sopravvenienze e della rilevanza sul programma negoziale (ad es. in Italia si
distingue dagli altri casi l'eccessiva onerosità sopravvenuta).
Oggi è sempre più avvertita la necessità di attribuire rilevanza a taluni tipi di
sopravvenienze come ad es. le innovazioni tecnologiche [...]
I rimedi
I rimedi per le sopravvenienze contrattuali nei vari ordinamenti sono i più diversi e diverso
è il ruolo del giudice nell'attuazione di essi. Alcuni ordinamento sono contrari ad attribuire
al giudice il potere di determinare le condizioni di adeguamento del contratto (ad es. in
Italia l'art.1467 in caso di eccessiva onerosità prevede che la parte su cui questa grava
possa chiedere la risoluzione, che l'altra parte può evitare offrendo la rinegoziazione). Altri
ordinamenti sono orientati verso l'amministrazione giudiziale delle sopravvenienze (ad es.:
in Germania e Olanda il giudice ha il potere di adeguare il contratto, anche se tale rimedio
può rivelarsi inadeguato nei casi in cui la prestazione è assolutamente inidonea a
soddisfare lo scopo per cui era stata convenuta).
In alcuni casi sono le parti ad inserire nel contratto clausole di rinegoziazione, ma ampio è
il dibattito circa la possibilità di desumere in via interpretativa sulla base di clausole
generali (es. buona fede) un obbligo legale di rinegoziazione. In molti casi la dottrina
anche italiana ha sostenuto tale possibilità perché ha considerato i rapporti di lungo
periodo tra agenti del mercato come retti da contratti incompleti, posta l'impossibilità di
prevedere ex ante scenari futuri; ma altri hanno criticato tale tesi in quanto la
rinegoziazione potrebbe dare adito a a comportamenti opportunistici e si realizzerebbe
disparità tra i contraenti, evitabile solo con l'adeguamento giudiziale che però priverebbe
di significato la rinegoziazione.
Nei vari ordinamenti inoltre diverse sono le conseguenze che si collegano al rifiuto o al
fallimento della rinegoziazione. Si stanno ancora studiando procedure di rinegoziazione
atte a minimizzare il rischio che la rideterminazione di termini del contratto risulti avversa
a che ha realizzato investimenti specifici.
Manca nell'ordinamento comunitario un insieme di regole volte a disciplinare il problema
delle sopravvenienze contrattuali. Solo una dottrina minoritaria vede nel riferimento alla
forza maggiore contenuta nell'art. 79 CISG un riferimento ad eventi assimilabili
all'eccessiva onerosità.
I tentativi della Giurisprudenza degli Stati membri di attribuire rilevanza allo
squilibrio sopravvenuto.
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- In UK si è data rigorosa applicazione del principio pacta sunt servanda non dando rilievo
alle sopravvenienze contrattuali. Ad es. nel caso “Paradine vs Jane” anche nel caso di
impossibilità oggettiva ad adempiere, chi ha assunto un'obbligazione contrattuale si è
ritenuto che ne rimanga vincolato. I primi temperamenti si sono avuti a partire dal XIX
sec. con:
a) la doctrine of impossibilty (prima in riferimento solo all'impossibilità fisica e poi anche
agli altri casi di impossibilità);
b) la doctrine of frustration of purpose secondo cui non basta l'eccessiva onerosità per
dare rilevanza alle sopravvenienze, ma occorre anche che l'adempimento richiesto sia
divenuto qualcosa di radicalmente diverso rispetto a quanto pattuito dal contratto. In ogni
caso rimangono dubbi se siano coperti solo i rischi qualitativi o anche quelli quantitativi.
Queste dottrine sono state applicate nei famosi Coronation cases e Suez cases.
- In Francia il principio pacta sunt servanda ha avuto un'applicazione ancora più rigorosa.
La dottrina dell'imprevision trova spazio solo nei contratti con la P.A., tuttavia ciò non
comporta che il costo delle sopravvenienze gravi sempre sulla parte che la subisce.
- In Germania nonostante l'assenza di regole generali che attribuissero rilevanza alle
sopravvenienze, anche prima della riforma del BGB, i Giudici erano pervenuti a tale
conclusione, desumendo persino l'ammissibilità dell'adeguamento giudiziale dal par. 242
BGB sulla buona fede.
- In Olanda si è giunti alle stesse conclusioni.
- In Spagna la Giurisprudenza ha invocato la clausola rebus sic stantibus nel caso in cui vi
fossero: straordinaria divaricazione tra le condizioni al momento della stipulazione e quelle
sopravvenute; sproporzione straordinaria tra le prestazioni; imprevedibilità.
L'esperienza italiana:a) la distinzione fra eccessiva onerosità sopravvenuta e
altro tipo di frustrazione dell’interesse di uno dei contraenti.
Il cod. del 1942 ha per primo espressamente conferito rilevanza alle ipotesi di eccessiva
onerosità sopravvenuta all'art. 1467: “nei contratti a esecuzione continuata o periodica
ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta
eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la
parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti
stabiliti dall'Art. 1458. La risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta
onerosità rientra nell'alea normale del contratto. La parte contro la quale è domandata la
risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto”.
L'eccessività viene valutata secondo l'equo apprezzamento del giudice. L'evento si valuta
straordinario ed imprevedibile assumendo come parametro l'uomo medio, la natura del
negozio e le condizioni del mercato. Tale articolo accoglie il modello consensualistico di
gestione delle sopravvenienze perché viene preservata la volontà di entrambe le parti,
dato che anche il rimedio dell'adeguamento è l'esito dell'esercizio di un potere unilaterale.
c)dalla risoluzione all’obbligo di rinegoziazione.
L'art. 1467 disciplina tuttavia solo il rischio quantitativo; per risolvere il rischio qualitativo,
ossia l'inidoneità della prestazione a soddisfare gli interessi specifici che avevano condotto
il contraente a stipulare il contratto , dottrina e giurisprudenza hanno costruito la figura
della presupposizione che però è stata oggetto di numerose critiche per la sua scarsa
consistenza teorica. Le Corti non hanno fornito un unico rimedio, infatti hanno riconnesso
alla presupposizione talora la nullità, talaltra la annullabilità o la risoluzione, a volte il
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recesso e altre la rinegoziazione. Addirittura talvolta ne hanno individuato i fondamenti
nell'art. 1467 ma senza spiegarne il perché.
E' stato criticato il rigido assetto del nostro ordinamento in materia di sopravvenienza in
quanto l'art. 1467 si riferisce solo all'eccessiva onerosità e la presupposizione appresta
solo qualche filtro alla rilevanza delle sopravvenienze qualitative. La presupposizione viene
definita come una situazione di fatto o di diritto di carattere obiettivo, certa nella
rappresentazione delle parti che pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle
clausole contrattuali possa ritenersi tenuta presente dai contraenti nella formazione del
consenso, come presupposto comune avente valore determinante ai fini dell'esistenza e
del permanere del vincolo.
Inoltre la disciplina dell'eccessiva onerosità sopravvenuta e quella della presupposizione
esitano ad operare il rimedio drastico della caducazione del contratto.
Per parte della dottrina in casi di sopravvenienza esisterebbe un obbligo legale di
rinegoziazione (clausola implicita) quanto meno nei contratti di lunga durata, muovendo
da equità e buona fede si può giungere a tale conclusione adottando due diverse
prospettive:
1)tale clausola sarebbe effetto legale proveniente dall'integrazione del contratto secondo
equità ex art.1374 cc in quanto la ratio equitativa sarebbe insita anche nell'art.1467.
Tuttavia a tale prospettiva può opporsi il fatto che tra l'art. 1467 (che esplica il modello
consensualistico) e l'obbligo di rinegoziazione (che esplica il modello conservativo) vi è
soluzione di continuità.
2)poiché il co. 3 dell'art.1467 prevede il diritto della parte avvantaggiata alla prosecuzione
del rapporto, sarebbe configurabile un obbligo per la parte svantaggiata a trattare le
nuove condizioni nei contratti di lunga durata in cui poiché le parti hanno rinunciato ad
allocare il rischio, e la mancata regolazione comporta un dovere di collaborazione al fine
di ripristinare l'aderenza del contratto alla mutata situazione in forza dell'art.1375 cc.
Anche a tale prospettiva possono muoversi delle critiche: dal comma 3 dell'art.1467 non
può affatto desumersi un obbligo di rinegoziazione, non è poi vero che l'interpretazione
secondo la natura dell'affare fa supporre una rinuncia delle parti a regolare il rischio (ad.
Es. non è così per il rischio quantitativo).
Infine tale tesi non tiene conto del fatto che l'art.1375 parla di esecuzione e non di
rinegoziazione del contratto. Per altra dottrina bisognerebbe far riferimento non solo
all'art.1467 ma anche all'art.1664 in materia di appalto che prevede in conformità al
modello conformativo, l'adeguamento automatico del corrispettivo monetario. Si privilegia
non la volontà individuale in conformità con il modello consensualistico, di cui l'art. 1467 è
espressione, ma l'efficiente allocazione delle risorse.
Per l'impresa i due modelli divergono notevolmente in quanto mentre il modello
consensualistico la preserva in ordine alla congruità della scambio ma non in ordine alla
permanenza del contratto e dunque in ordine agli investimenti mostrandosi più
appropriato ai casi in cui si ha uno scambio puntuale (ossia la cui esecuzione non comporti
durature interferenza delle sfere patrimoniali dei contraenti), il modello conservativo la
garantisce sia in ordine alla congruità dello scambio che in ordine alla permanenza del
contratto.
Dunque è più adeguato al modello di scambio integrativo.
Il primo modello del cod. sarebbe prospettato come disciplina generale, il secondo per un
tipo nominato di contratto. Occorrerebbe un operazione interpretativa volta a: a)
particolarizzare l'art.1467, nel senso che il principio in esso contenuto non dovrebbe
essere inteso come disciplina generale delle sopravvenienze (quantitative) ma come
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disciplina particolare nell'ambito di scambi puntuali per il rischio quantitativo; b)
generalizzare l'art.1664 applicandolo come disciplina generale del rischio per gli scambi
integrativi.
Le riforme olandese e tedesca e il nuovo progetto francese.
L'art. 6:258 c.c. Olandese diverge dal nostro art.1467 sotto il profilo dell'individuazione
della sopravvenienza rilevante, perché non fa riferimento espresso all'eccessiva onerosità e
dunque sembra coprire anche i rischi qualitativi, e sotto il profilo dei rimedi perché
riconosce ampio potere discrezionale al giudice il quale su domanda di una delle parti può
modificare il contratto o caducarlo anche parzialmente.
In Germania il par.313 BGB diverge dall'art.1467 cc sotto il profilo dell'individuazione delle
sopravvenienze rilevanti perché non fa riferimento all'eccessiva onerosità e addirittura da
rilievo alla falsa presupposizione, diverge anche sotto il profilo dei rimedi perché ammette
sia le modificazioni giudiziali del contratto, che il recesso o la disdetta e riconosce ancora
più ampia discrezionalità al giudice.
In entrambe le riforme (tedesca e olandese) non si fa differenza tra rischio quantitativo e
qualitativo ed è ammesso il possibile adeguamento giudiziale del contratto.
Alle stesse conclusioni è giunto anche l'”avant project de reforme des obligations...”
francese, che da al giudice la possibilità di ordinare la rinegoziazione e nel caso in cui
fallisca si avrà la risoluzione senza costi né risarcimento. Negli ultimi anni in conclusione
pare essersi mitigata la sanctity of contract.
La clausola di hardship nella prassi internazionale e nei Principi Unidroit
Le hardship clauses sono clausole elaborate dalla prassi del commercio internazionale
volte a fronteggiare le sopravvenienze. La prima parte di tali clausole indica quali
sopravvenienze devono essere prese in considerazione, la seconda determina le
conseguenze cui il loro verificarsi potrà dar luogo. Nel testo che la Camera di commercio
internazionale (ICC) suggerisce di usare, si considerano rilevanti le sopravvenienze
imprevedibili che alterano in modo fondamentale l'equilibrio del contratto, comportando un
onere eccessivo a carico della parte tenuta all'esecuzione. L'ICC indica i rimedi (da notare
la differenza con l'art.1467):
1) la possibilità per la parte svantaggiata di richiedere la rinegoziazione indicandone i
motivi, e le parti sarebbero tenute a consultarsi
2) nel caso di fallimento della rinegoziazione a) il contratto potrà comunque ritenersi
vincolante per volere delle parti; b) le parti potranno richiedere il parere di un terzo sulla
revisione del contratto;c) rivolgersi ad un arbitro intermediario o ad un giudice nazionale
per l'adeguamento; d) rivolgersi ad un terzo incaricandolo di adeguare il contratto.
L'ICC giudica inopportuno aprire indiscriminatamente strada alle sopravvenienze
qualitative cui però le parti possono attribuire rilevanza.
Una conferma di tale orientamento si trova nei principi Unidroit nei quali la rilevanza
dell'hardship è limitata alle ipotesi in cui viene alterato l'equilibrio del contratto o per
l'accrescimento dei costi dell'operazione o per la diminuzione del valore della
controprestazione.
I PDEC e il Codice Europeo dei contratti
L'art.6:111 dei PDEC come il nostro art. 1467 da rilievo solo alla eccessiva onerosità
sopravvenuta ed imprevedibile e non consente di dare rilievo alle circostanze sopravvenute
nei contratti aleatori. Come rimedi attribuisce un ruolo privilegiato alla negoziazione (in ciò
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diverge dalla disciplina italiana che adotta il modello consensualistico) e al potere del
giudice di modificare il contratto. Ammette tuttavia il risarcimento del danno in caso di
violazione dei parametri di buona fede e correttezza, ad es. nel caso in cui le trattativa non
abbiano una durata ragionevole.
Simile è la disciplina del cod. eur. Contr.. In entrambi i casi si ha una parificazione del
metodo risolutivo e conservativo, per cui sarà la giurisprudenza con il tempo ad eliminare il
rischio di rilevanti inconvergenze. In entrambi i casi è introdotto il dispositivo della
rinegoziazione, tale obbligo è figlio dell'idea di equità, ma in realtà non può essere efficace
se non ve ne sono le condizioni per rinegoziare, mentre se vi sono è inutile perché la
rinegoziazione si avrebbe rinegoziazione in ogni caso.
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LA RISOLUZIONE
Bisogna distinguere due tipi di sistemi:
a) quelli retrospettivi che ammettono la retroattività della risoluzione. negli ordinamenti di
civil law attraverso la retroattività si determina l'estinzione dell'obbligazione (es. il diritto
francese che riferisce la risoluzione e/o meglio l'inadempimento seguito dalla risoluzione al
meccanismo della condizione risolutiva tacita. Con riguardo agli effetti verso i terzi la
risoluzione ha effetti reali e pertanto sarà opponibile anche ai terzi; in Italia il codice
correda la risoluzione di retroattività, ma tale retroattività ha natura solo obbligatoria con
effetti inter partes);
b) quelli prospettivi che non ammettono la retroattività della risoluzione, ma solo la
liberazione delle parti e l'obbligo delle restituzioni (es. ordinamenti di common law e diritto
transnazionale).
Effetti della risoluzione:
1)esigenza di guardare alla situazione delle parti sia prima che dopo lo scioglimento del
contratto: dopo benché diversi siano i presupposti concettuali dei due sistemi il risultato è
lo stesso perché le parti non sono più tenuti ad eseguire ala loro obbligazione; prima se
nei sistemi retrospettivi è come se il contratto non fosse mai esistito si applicherà la
disciplina della ripetizione dell'indebito, nei sistemi prospettivi, ove non vi è tale finzione,
sorgeranno obbligazioni restitutorie per reintegrare le parti nello status quo ante. Anche
qui però di fatto la differenza è più apparente che reale, dato che un ombra di retroattività
è presente anche nei sistemi prospettivi.
2)Effetti verso i terzi: nei sistemi prospettivi è esclusa l'opponibilità ai terzi; in quelli
retrospettivi si verifica ciò solo nei sistemi con retroattività a carattere reale.
3)Risarcimento del danno: è ammesso in entrambi i tipi di sistemi, anche se in quelli
retrospettivi può considerarsi come una forzatura dei codici dato che il contratto è
cancellato ab initio. Nei sistemi retrospettivi, per quanto riguarda le restituzioni, vi sono
delle sensibili deviazioni dalla disciplina dell'indebito ex art. 2033 c.c. Sia rispetto ai principi
del contratto, perché non vale il principio di corrispettività giacché ciascun obbligo
restitutorio sarà per conto proprio (il venditore è tenuto a restituire il prezzo anche se non
potrà ricevere la restituzione della cosa perché è perita o gravemente danneggiata), sia
rispetto ai principi dell'obbligazione perché non si fa riferimento all'elemento soggettivo
della colpa, ma la responsabilità per la restituzione è governata dal principio di buona
fede. Perciò in materia di risoluzione del contratto per evitare contraddizioni non dovrebbe
applicarsi la disciplina della risoluzione ma quella delle azioni contrattuali. Due sono le
contraddizioni insite nell'applicazione della disciplina dell'indebito: a) la differenza con la
disciplina della risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta, dato che l'art.
1463 prevede la risoluzione di diritto ; b) non ha senso parlare di buona fede dove il
contratto sia in vigore e le parti devono eseguire le loro prestazioni.
Il regime delle restituzioni
Il quadro normativo delle restituzioni contrattuali è alquanto pasticciato nei diversi sistemi
perché frutto di diversi modelli teorici. Da un lato, il modelli franco-italiano si espone a
troppe contraddizioni e forzature ove applicato alle restituzioni contrattuali, mentre fa
bene il modello tedesco a considerare le obbligazioni restitutorie come contrattuali e come
60
tali da eseguirsi contemporaneamente (sebbene erroneamente in un primo momento,
trattandosi di un sistema retrospettivo, le riteneva incompatibili con il risarcimento).
I principi UNIDROIT sui contratti commerciali internazionali dedicano un apposito art. alle
restituzioni da scioglimento del contratto. Il principio di <<reciprocità>> è espressamente
formulato. Se la restituzione in natura non è possibile si corrisponde il valore <<quando
ragionevole>>. Si fa eccezione per i contratti la cui esecuzione può essere divisibile.
L’ottica è quella del rimedio con il quale si tende a riaffermare che non possono tenersi
ferme le prestazioni o attribuzioni che non abbiano a fronte un corrispettivo.
61
LE
CLAUSOLE PENALI
La disciplina uniforme delle clausole penali nei PDEC ed in una lontana
Résolution del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.
Le clausole penali costituiscono una importante misura <<compulso ria>>
dell’adempimento e/o del non ritardato adempimento di obbligazioni contrattuali e anche
di obbligazioni non contrattuali.
Una Risoluzione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 1978 aveva già fissato
i criteri per l’uniformazione della disciplina delle clausole penali nei vari Paesi per dare una
più sicura soluzione ai problemi di diritto internazionale privato che si ponevano.
I criteri tratti dalla Risoluzione del 1978:
a)l’oggetto della penale deve consistere in una prestazione pecuniaria
b)divieto di cumulo della penale con l’azione di esatto adempimento, salvo che
la penale sia convenuta per l’esecuzione tardiva
c)la stipulazione della penale deve essere compatibile con l’azione contrattuale
di specie; la clausola non deve escludere il ricorso del creditore all’esatto
adempimento.
d)l’efficacia della penale deve essere subordinata alla colpa del debitore
e)la penale manifestamente eccessiva può essere ridotta dal giudice, ma entro
il limite di quanto il debitore avrebbe ottenuto a seguito dell’applicazione delle
regole legali.
Verificando la corrispondenza di tali criteri con quelli esistenti nei principali ordinamenti
interni si traggono rilevanti differenze strutturali e funzionali di disciplina. Si mette in
evidenza la peculiarità del caso italiano, cioè di un ordinamento nel quale la centralità della
clausola penale <<contrattuale>> o <<convenzionale>> non ha consentito la
penetrazione di misure compulso rie a carattere legale e/o giudiziale (c.d. penali legali e/o
giudiziali) ed ha favorito una prevalente impostazione dell’autonomia contrattuale dei <<
patti sanzionatori>>. L’ordinamento italiano non ha conosciuto un adeguato sviluppo di
misure alternative ai rimedi strettamente risarcitori.
Inoltre la dir. 93/13, sulle clausole abusive, ha posto un complicato problema di raccordo
fra la semplice riducibilità della penale eccessiva e la nullità della penale vessatoria e/o
abusiva. La sovrapposizione della disciplina delle clausole abusive a quella codicistica delle
clausole penali ha determinato la coesistenza di penali eccessive ma riducibili e di in
talune fattispecie concrete riferibili alla convenzione di <<altri vantaggi usurari >>
(art.644 c.p.) le clausole penali si prestano alla consumazione del reato di usura ed in tal
senso si può parlare di <<penali usurarie>>.
In realtà si tratta di penali eccessive e <<illecite>> perché collegate ad un fatto di reato.
Quindi nell’ordinamento italiano vengo fuori tre differenti patologie delle
clausole penali:
1)penale eccessiva, ma valida e riducibile
2)penale abusiva, inefficace
3)penale usuraria, inevitabilmente nulla
I PDEC confermano la Risoluzione del 1978, ma sono talmente generici e generali da
provocare dubbi interpretativi, in seno ed in riferimento alle singole esperienze ordina
mentali. L’art. 9:509 che si riferisce alle clausole di liquidazione forfettaria del danno ,
stabilisce 2 norme generali:
62
• <<Quando il contratto prevede che la parte inadempiente paghi una
determinata somma di denaro al creditore per l’inadempimento , tale
somma è dovuta a prescindere dal verificarsi di una effettiva perdita>>
• <<tuttavia, nonostante qualsiasi accordo in contrario, la somma prevista
può essere ridotta ad un ammontare congruo quando risulti
manifestamente eccessiva rispetto alla perdita conseguente
all’inadempimento>>.
Tale quadro di riferimento crea problemi di adeguamento all’interno di ogni paese ed in
particolare in Italia.
Dalla Risoluzione del 1978 composta da otto artt. emerge :
• l’intento di assegnare a tali clausole una funzione meramente risarcitoria
• divieto di cumulo di tutele, mentre nei PDEC non compare un espresso divieto di
cumulo
• la clausola non deve escludere il ricorso del creditore all’esatto adempimento, tale
principio non compare espressamente nei PDEC, ma può essere ricavato
implicitamente
• l’efficacia della penale deve essere subordinata alla colpa del debitore , questa
regola non è posta in maniera chiara dai PDEC, a meno di volere ricavare tale
regola dai principi generali sul contratto alla materia delle clausole penali.
• la penale manifestamente eccessiva può essere ridotta equitativamente dal giudice
anche in caso di adempimento parziale, ma entro il limite di quanto il debitore
avrebbe ottenuto a seguito dell’applicazione delle regole legali. I PDEC non
precisano che la riducibilità della penale sia consentita anche in presenza di un
adempimento parziale.
Analoghe considerazioni possono farsi in relazione al Codice europeo dei contratti.
La penale negli ordinamenti europei.
Clause pènale. (Francia)
Il Code civil disciplina la clausola penale nell’art.1152, in materia di <<danno
contrattuale>>, e negli artt. 1226-1233, in materia di << obbligazioni con clausole
penali>>.
Gli artt. 1152 e 1231, rispettivamente sull’ammontare della penale e sulla riducibilità
per adempimento parziale dell’obbligazione principale, sono stati riformati sia dalla
l. 597/75, sulla modificabilità giudiziale, in diminuzione o in aumento,
dell’ammontare dovuto dal debitore, sia dalla l. 1097/85, limitatamente alla
possibilità che il giudice intervanga anche d’ufficio.
In Francia non si distinguono le clausole di liquidazione convenzionale dei danni
delle clausole penali e prevale un modello di disciplina unitario e flessibile: unitario
perché applicabile ai contratti individuali, ai contratti di massa e ai contratti tra
imprenditori; flessibile perché pur privilegiando la finalità di forfetizzazione del
danno non esclude impieghi diversi di tipo compulsorio -afflittivo. La legge di
riforma ha incrementato i poteri del giudice consentendogli di diminuire la penale
manifestamente eccessiva e di aumentare la penale manifestamente irrisoria.
La clausola penale nei Paesi del Benelux e la Convenzione dell’Aja del
1973.
( Belgio, Olanda e Lussemburgo).
63
Nei codici civili di Belgio , Olanda e Lussemburgo la disciplina della clausola penale
è influenzata dal Code Napolèon, ma l’evoluzione dell’elaborazione dottrinale sia in
Francia che in altri Paesi e l’applicazione giurisprudenziale dell’istituto ha reso
opportuna la Convenzione dell’Aja del 1973. In tale Convenzione può cogliersi la
natura tanto risarcitoria quanto afflittiva che connota la clausola nella
determinazione oggettiva e legale del tipo e/o nella determinazione soggettiva e
convenzionale delle parti.
È possibile cogliere in negativo la reiterazione di un modello che preservando un
contenuto << anche non pecuniario>> della prestazione penale, si presta ad
inconvenienti applicativi sia sul versante della liceità che su quello dell’illiceità della
clausola, nonché la rielezione di penali << pure>>.
Vertragsstrafe. (Germania).
Nel diritto tedesco la disciplina della clausola penale muove dal BGB sulle condizioni
generali del contratto che accoglie l’esperienza dottrinale e giurisprudenziale sulla
c.d. contrattazione standardizzata e che va raccordata alla legge tedesca del 1996
di adeguamento alla normativa comunitaria sulle clausole abusive.
La penalità convenuta può consistere in una somma di denaro o in una diversa
prestazione, nell’ordinamento tedesco ci sono dubbi sulla configurabilità di penali
non pecuniarie.
La normativa codicistica sulla clausola penale riposa sulla distinzione fra penale per
l’inadempimento e penale per l’inesatto adempimento, la cui fattispecie più
significativa è rappresentata dal ritardo.
Le due fattispecie della penale per l’inadempimento e per l’inesatto adempimento
differiscono per quel che concerne il rapporto con le pretesa dell’obbligazione
principale.
In caso di inadempimento tale rapporto è di esclusione e la penale totale
non può cumularsi con la richiesta
In caso di inesatto adempimento il rapporto fra penale per l’inesatto
adempimento e domanda dell’obbligazione principale è di perfetta
compatibilità.
Circa i rapporti fra penale e risarcimento del danno il BGB fa salva la risarcibilità del
maggior danno sia quando si tratti di inadempimento che inesatto adempimento. La
risarcibilità del maggior danno è esclusa quando la penale abbia ad oggetto una
prestazione non pecuniaria.
Il § 343 BGB consente al giudice di ridurre ma non anche di aumentare la pena
stipulata. La riduzione della penale può essere pronunciata su domanda del
debitore, ma a condizione che essa sia manifestamente eccessiva. Inoltre nel
ridurre la penale il giudice deve valutare il puro interesse patrimoniale del creditore
e ogni suo interesse giustificato; il che rende la clausola penale funzionale sia
alle ragioni risarcitorie del creditore sia alle ragioni compulsorie all’esatta
osservanza del comportamento dovuto, che si esprimono in una misura afflittiva
della pena convenuta.
Il § 344 BGB stabilisce la nullità della clausola penale prevista per l’inadempimento
dell’obbligazione principale allorché tale obbligazione sia nulla .
La disciplina contenuta nel BGB esprime una concezione bifunzionale della clausola
penale, poiché essa è allo stesso tempo strumento di coazione indiretta
all’inadempimento e tecnica di liquidazione anticipata dei danni.
64
Liquidated damages e penalty.( common law inglese).
Nel common law si distinguono due specie di clausole penali, i liquidated damages
e le penalties, delle quali la prima è consentita e la seconda è vietata.
I liquidated damages sono clausole di liquidazione preventiva del danno, in
particolare sono clausole di <<anticipata valutazione del danno conseguente
all’inadempimento della particolare obbligazione considerata>> che le parti
inseriscono nel regolamento contrattuale attenendosi ad una misura prevedibile
dello stesso danno.
La penalty è pattuita in terrorem per garantire il credito ed evitare l’inadempimento.
In presenza di una clausola di liquidazione preventiva del danno il creditore ha
diritto a ricevere la somma pattuita senza dovere provare l’esistenza e l’entità dei
danni sofferti, ma non può pretendere il risarcimento dell’eventuale maggior danno.
Lo scopo principale della clausola è di esonerare le parti dalla difficoltà e dalle spese
di una prova del <<danno effettivo>>, ma la preclusione del <<maggior danno>>
consente alla clausola di liquidazione preventiva del danno di attuare anche una
limitazione della responsabilità del debitore.
Le clausole qualificate come penalties esibiscono una finalità prettamente compulso
ria e solo apparentemente afflittiva, poiché l’esperienza giuridica inglese ritiene
inammissibile che le parti facciano una punizione <<l’oggetto di un accordo>>.
La penalty copre ma non determina il danno: oltre la penalty non si può andare ed
entro il suo ammontare l’attore riceverà soltanto il risarcimento dei danni che
proverà di avere effettivamente subìto.
La penalty pattuita in vista del rafforzamento di un vincolo contrattuale ed a
garanzia del diritto del creditore, esaurisce il suo unico effetto in quello della
predeterminazione di una <<misura massima>> del risarcimento.
A tale inconveniente il credito può ovviare agendo direttamente for breach of
contract , tale rimedio non è precluso dalle corti e gli consente di chiedere l’intero
risarcimento dei danni effettivamente subiti.
La disciplina della penalty rispecchia il principio della <<giusta ricompensazione>>,
accolto dalla dottrina e dalla giurisprudenza inglesi.
È importante accennare ai criteri ai quali le corti inglesi devono ricorrere nel
qualificare le singole clausole come <<clausole di liquidazione preventiva del
danno>> o come <<penalties>>. A tale proposito non è decisiva la formulazione
letterale adottata dalle parti, ma bisogna interpretare sia la volontà delle parti sia i
termini oggettivi e le intrinseche circostanze di ciascun contratto, peraltro avendo
riguardo al momento della conclusione dello stesso.
Oltre alla disciplina generale anche nell’esperienza inglese si profilano interventi
legislativi volti a tutelare il <<contraente debole>> nella moderna contrattazione di
massa.
L’esperienza inglese sembra orientarsi verso una configurazione delle clausole
penali strettamente monofunzionale ed in chiave risarcitoria.
La penale nel diritto italiano. Tutela convenzionale del credito e modelli
sanzionatori.
La duttilità delle clausole penali offre all’ars stipulatoria dei privati un elemento
accidentale del contratto in grado d sostenere obblighi, patrimoniali o meno, sia
65
nell’adozione tipica, o diretta, dello schema racchiuso negoziale esprime una
funzione rimediale ugualmente riconducibile a quella propriamente penale.
L’indicazione di un diverso nomen iuris o l’omissione di alcun riferimento stipulativo
alla clausola penale, impegna la dottrina e la giurisprudenza nella qualificazione
giuridica di <<patti sanzionatori>>, di <<pene private>>, di <<pene
contrattuali>>, di misure convenzionali a carattere <<afflittivo-risarcitorio>>, che
reclamano concrete soluzioni di specie compatibili con i principi generali degli
artt.1383-1384 c.c.
Ben oltre tali casi di specie l’assetto costitutivo della clausola e l’effetto obbligatorio
che ne deriva portano a considerare le diverse configurabilità negoziali della prima
e le differenti obbligazioni penali del secondo.
Struttura pattizia della penale e limiti dell’autonomia contrattuale.
Nella previsione del codice si distinguono due specie di clausole penali ex contractu
quella che si collega all’inadempimento e l’altra che si collega al ritardo
nall’adempimento, ma si fanno salve due variabili di entrambe le specie
fondamentali, a seconda che la penale abbai <<l’effetto di limitare il risarcimento
alla prestazione promessa>> o faccia salva <<la risarcibilità del danno ulteriore>>
(art. 1382 c.c.).
Tali distinzioni positive trovano riscontro nella specificazione delle discipline. Così
accade:
a)per l’incidenza che l’onere probatorio ha sulla pretesa della sola clausola penale o
sulla richiesta dell’ulteriore risarcimento (art. 1382 c.c.);
b)per il diverso riferimento del cumulo con la prestazione principale (art. 1383 c.c.);
c)per il diverso modo di rapportare alla penale di specie i criteri della riduzione
(art.1384 c.c.).
nell’esperienza giurisprudenziale e dottrinale si registrano articolazione della
clausola penale che non sono riscontrabili nelle previsioni del codice: a volte si
tratta di adeguamenti interpretativi di una disciplina appena essenziale; altre volte
si tratta di vere e proprie dilatazioni dello schema negoziale posto tipicamente dalla
legge. Nell’ideazione di una << c.d. penale pura>> dovuta cioè in aggiunta al
risarcimento del danno, si supera l’effetto naturale di limitare il risarcimento dovuto;
si incrina il divieto logico del cumulo e si esalta una funzione meramente afflittiva
riservata all’autonomia dei soggetti. Mentre la pattuizione di clausole consistenti
nella <<c.d. liquidazione convenzionale dei danni>> da quanti care
forfettariamente, ma per accordo delle parti rimane attratta ad una ratio risarcitoria.
Le << multe >> prescindono da una ragione immediata o prevalente di
risarcimento dei danni patrimoniali ed orientano la penale all’osservanza compulso
ria di un comportamento debitorio che riguarda soltanto l’esatta esecuzione di
semplici
<< modalità contrattuali >>. Quel particolare patto in virtù del quale la penale
viene riferita anche all’inadempimento derivante da causa non imputabile al
debitore ripropone una <<pena privata>> non prevista dall’ordinamento e resa
ancora più anomala dall’adozione di una pura responsabilità oggettiva, o senza
colpa, del debitore. Il rapporto meramente accessorio che intercorre fra
l’obbligazione penale e l’inosservanza del comportamento principale non sembra
impedire la ricostruzione della penale in chiave di << clausola-negozio>>, ma
lascia dubitare che la stessa possa anche assumersi come un vero e proprio negozio
66
autonomo. L’individuazione della funzione penale trascende dalla questione della
natura risarcitoria e/o afflittiva della clausola codicistica ed apre alla questione più
generale della tipicità sanzionatoria della
<<obbligazione penale>>. La determinazione dei soggetti, attivo e passivo,
dell’obbligazione riguarda sia l’identità degli autori del contratto e della clausola, sia
la determinabilità successiva dell’una o dell’altra parte, la riferibilità <<a favore del
terzo>> del contratto e della clausola e la stessa eventuale rilevanza intuitus
personae. Il riferimento generico ad <<una determinata prestazione >>, con il
quale l’art. 1382 c.c. indica l’oggetto della penale, fa dubitare che tale prestazione
possa consistere solo in una somma di denaro e possa compendiarsi nel classico
modulo di classificazione di ogni possibile << dare, fare e non fare>>. Ciò
comporta un’attività interpretativa volta a delimitare la possibilità che le parti
conseguano risultati illeciti o fraudolenti. Il patto di risarcibilità si inserisce nelle
clausole penali come eventuale.
Inoltre la ricognizione dei possibili contenuti eventuali della clausola penale
comporta altre implicazioni sia sula piano strutturale che sul piano effettuale. Sul
piano strutturale implica una diversificazione della clausola penale dai contenuti
propri di altri patti accessori, come la condizione e la clausola risolutiva. Sul piano
effettuale implica un raffronto più ravvicinato fra l’obbligazione penale ed altre
obbligazioni apparentemente simili, come quella alternativa e quella facoltativa.
Obbligazione penale e obbligazione risarcitoria.
Nell’esperienza giuridica italiana, l’elaborazione della clausola penale che si
registrano nell’autonomia privata, le c.d. penali contrattuali, e le trasposizioni legali
dello schema obbligatorio-penale, le c.d. penali legali o penali giudiziali, asseverano
la centralità della disciplina codicistica contenuta nella artt.1382-1384 c.c.: sia le
une sia le altre sembrano potersi riferire ad una medesima funzione penale,
assumibile come funzione sanzionatoria, alternativa a quella risarcitoria; né le une
né le altre sembrano potersi ricondurre ad un assetto uniforme di strutture, di
effetti e di risultati << pratici >> o funzioni << concrete >>.
Particolarmente in materia di penali contrattuali, le << funzioni concrete >> di
volta in volta realizzabili dalla clausola di specie, sono affidate ad un’ampia
autonomia delle parti, ma contenute entro un sistema di norme che ne segna i limiti
in ragione di due preoccupazioni ordina mentali. La prima è quella di stabilire le
relazioni della penale con le possibili altre sanzioni concorrenti, come il risarcimento
dei danni ( art.1382 c.c.) e con gli altri rimedi ordinari a tutela del creditore, come
la domanda di esatto adempimento (art.1383 c.c.).
La seconda preoccupazione è quella di preordinare i criteri per il ridimensionamento
giudiziale del contenuto e del risultato che la sanzione esprime di fatto: in tal senso
la riducibilità della penale opera una ricomposizione dell’obbligazione sanzionatoria,
entro la quale la valutazione equitativa del giudice è vincolata << all’interesse che il
creditore aveva all’adempimento >> e può essere azionata sia nel caso che la
penale sia manifestamente eccessiva sia nel caso che la prestazione principale sia
stata semplicemente eseguita in parte ( art.1384 c.c.). All’interno della struttura
pattizia della penale, il fenomeno espansivo della clausola esprime l’adeguamento
dell’assetto negoziale e dell’effetto obbligatorio alla misura più ampia possibile
dell’autonomia privata in materia sanzionatoria. Mentre all’interni delle strutture
assumibili come penali legali o come penali giudiziali, la trasmigrazione del modello
67
obbligatorio-penale dal piano contrattuale a a quello legislativo esprime la
tipizzazione normativa di rimedi alternativi alla sanzione risarcitoria e posti a tutela
di qualificate ragioni creditorie che si impongono nel rapporto principale esibendo
una struttura obbligatoria e una funzione sanzionatoria che prescinde sia dalla
prova che dall’incidenza reale dei danni.
La funzione penale.
La teoria risarcitoria riconduce la tipizzazione della clausola ad una riparazione <<
patrimoniale >> che presuppone l’inadempimento o il ritardo come produttivi
comunque di << danni >> evocandone una qualificazione di <<danni-evento>> e
non di <<danni-conseguenza>>.
La teoria afflittiva tipizza la causa o la giustificazione normativa della volontà
negoziale volta a <<punire>> la pura e semplice inosservanza dell’obbligo a
prescindere dal carattere necessariamente patrimoniale della prestazione principale
sia dall’interesse economico del creditore il che allontana la penale dall’incidenza di
<<danni-evento>> e di <<danni-conseguenza>> malgrado l’eventuale produzione
effettiva di <<danni-risarcibili>>. Le teorie principali colgono attraverso le loro
analisi qualificate componenti, reali e/o verosimili, della funzione penale. In tal
senso la funzione penale può considerarsi come <<dualistica>> ovvero come una
funzione sanzionatoria nella quale l’esito forfettariamente-risarcitorio e quello
meramente-afflittivo sono “mutualmente esclusivi” e “congiuntamente esaustivi”.
Tale formulazione consegue ad una analisi strutturale e ad una valutazione di
qualificate casistiche, dalle quali emerge anche la prevalente, quando non esclusiva
rilevanza <<sanzionatoria>> della penale rispetto all’impraticabilità dell’esatto
adempimento e rispetto all’esatto quantificazione del risarcimento. La funzione
risarcitoria colma l’incidenza effettiva dei danni, infatti il risarcimento è orientato a
compensare una sofferenza economica del soggetto danneggiato.
La sanzione afflittiva, o la pena privata, colpisce l’inosservanza di un
comportamento dovuto mediante la privazione di un diritto o l’attribuzione di un
obbligo che si pongono in modo del tutto sfavorevole al soggetto responsabile e
che trascendono una ragione patrimoniale di ristoro del soggetto offeso. Di
conseguenza la sanzione dell’obbligazione penale partecipa sia della funzione
risarcitoria sia di quella punitiva, senza riuscire ad identificarsi né con l’una né con
l’altra. Dal codice si ricavano due ragioni principali di contemperamento della
sanzione privata: a)quella indirizzata a correlare gli effetti della penale con le altre
sanzioni e con gli altri rimedi convergenti sul medesimo fatto lesivo; b)e quella
orientata a controllare l’incidenza reale della penale, mediante la riconducibilità
giudiziale della prestazione convenuta. La richiesta della penale esclude sia il
risarcimento, sia l’adempimento ma non esclude né la risarcibilità dei danni ulteriori
né la cumulabilità dell’adempimento con la penale, se questa è pattuita per il
ritardo. La riduzione consegue sia all’eccessività della penale dovuta per il totale
adempimento sia all’eccessività della penale dovuta per il parziale adempimento. La
riducibilità consente di correggere gli effetti di una penale che, <<dovuta
indipendentemente dalla prova del danno>> sia eccessiva al raffronto con
l’inadempimento totale o col parziale adempimento dell’obbligazione principale, ma
va determinata in ragione dell’<<interesse che il creditore aveva
all’adempimento>>. La manifesta eccessività della penale, o il parziale
adempimento dell’obbligazione principale consentono l’abbattimento della
68
<<eccedenza afflittiva>> , ma l’ineliminabilità della penale e l’interesse anche non
patrimoniale del creditore all’adempimento dell’obbligazione principale giustificano
comunque una giusta <<misura di afflittività>>.
La penale quindi può realizzare anche una funzione afflittiva.
L’obbligazione penale ha una precipua <<funzione dualistica>> che
realizza un esito sanzionatorio o forfettariamente risarcitorio o
meramente afflittivo, secondo una <<tipica>> combinazione
<<binaria>> nella quale la legge compone in astratto e consente in
concerto che la funzione risarcitoria e quella afflittiva siano mutuamente
esclusive e congiuntamente esaustive.
La funzione penale offre un modello sanzionatorio che esibisce una duttilità
compulsorio-coercitiva in grado di corrispondere a diverse ragioni creditorie dei
privati , ma in grado, de iure condendo, di introdurre anche future, qualificate,
tutele dualistiche. Inoltre la penale è suscettibile di adeguarsi alle vicende del
rapporto principale sia per previsione delle parti sia per intervento correttivo del
giudice.
69
IL CONTROLLO DEL CONTRATTO DA PARTE DEL GIUDICE
Premessa
Recentemente si è assistito ad un forte avviamento della funzione del giudice in ogni fase
della disciplina del contratto. Per alcuni ciò è negativo perché il diritto risulterebbe meno
autonomo da etica e politica ed anche perchè il giudice non è legittimato
democraticamente; per altri perché solo il potere giudiziario può avere funzioni di garanzia
ed anche perché a fronte della discontinuità legislativa e della complessità delle fonti la
iurisdictio ha una posizione preminente rispetto alla legislatio. La giustizia ha fondamento
nel contraddittorio processuale e nel valore del precedente e, nel nostro mondo globale, il
contratto sempre più si sostituisce alla legge.
Invalidità
Se all'inizio del 900 l'invalidità si aveva quando veniva violato un interesse sociale, mentre
la violazione di un interesse individuale si considerava un vizio più lieve, oggi la tendenza è
diversa. La nullità è un rimedio che oltrepassa la fattispecie e conforma il regolamento in
funzione di un fine preciso. Non trova spazio nel diritto privato comunitario la dicotomia
tra annullabilità e nullità essendo prevista solo la figura della nullità. Nel diritto privato
uniforme (PDEC e Unidroit) l'invalidità raggruppa fondamentali ipotesi di annullabilità.
Numerose sono le differenze nei vari ordinamenti nazionali, tutte le esperienze convergono
però su alcuni aspetti, tra cui la previsione della nullità di protezione che supera
l'alternativa tra interesse pubblico e l'interesse individuale.
La causa.
Nell'800 si dava alla causa un significato soggettivo (e lo scopo che induce ciascuno ad
assumere il vincolo), mentre all'inizio del 900 pur tutelando la libertà di iniziativa privata si
sentì la necessità di ancorare la liceità dell'agire privato alla conformità alle finalità fissate
dallo Stato per il tipo negoziale predisposto, e dunque la causa diviene la funzione
essenziale e caratterizzante del contratto in relazione al risultato immediatamente
perseguito dalle parti. In Italia dalla seconda metà del 900, una volta recepiti con la
Costituzione i valori di libertà e di iniziativa economica e di uguaglianza formale e
sostanziale, si attribuisce indirettamente un ruolo primario all'autonomia privata
attenuandosi così il ruolo che in passato era stato attribuito al giudizio causale. La causa
comincia ad essere intesa come elemento concreto del singolo negozio necessario al
raggiungimento dello scopo concreto voluto dalle parti. D'altro canto considerare la causa
come elemento immutabile dalla volontà, significa non poter compiere nei contratti tipici
un controllo tramite l'art. 1343 c.c. (es. una vendita non potrebbe mai avere causa
illecita). Ciò perché la nozione astratta di causa, come funzione, porta a trascurare
interessi reali che il contratto è di volta in volta diretto a realizzare.
I PDEC e Unidroit non menzionano la causa come elemento essenziale sopratutto perché:
a) il common law non l'ammette; b) la buona fede ha un ruolo centrale; c) si attenua il
requisito della bilateralità del contratto, dato che sempre più spesso si hanno promesse
vincolanti senza l'accettazione. Nel diritto Tedesco si dà molto spazio ai negozi astratti,
mentre nel diritto Inglese la consideration rileva solo nei contratti onerosi. In Italia ed in
Francia tradizionalmente si è dato molto spazio alla causa in concreto, che abbraccia
anche rapporti di tipo gratuito. Le tendenze più recenti (nuovo codice Olandese) tendono
a non considerare più la causa come elemento essenziale.
70
La buona fede e correttezza: a)l’ordinamento italiano
a) Nell'ordinamento italiano sempre più rilievo viene dato alla buona fede. Due sono le tesi
fondamentali circa la sua funzione: funzione autointegrativa del regolamento contrattuale
nei limiti della volontà espressa nel testo; funzione di controllo ed eterointegrazione ossia
di riequilibrio delle posizioni delle parti financo redistributiva. E' difficile conciliare la buona
frode con il modello tradizionale della fattispecie, ciò perché la buona fede non si colloca
tra gli effetti della fattispecie, ma amplia gli obblighi delle parti. Nel 94 la Cassazione la
definita come “limite interno di ogni situazione soggettiva” e ne ha trovato fondamento
nell'art. 2 della Cost. Ove si parla di solidarietà. Applicato ai contratti il dovere di
solidarietà comporta l'obbligo di esecuzione ed interpretazione secondo buona fede (artt.
1375 e 1366). In materia di pratiche commerciali sleali e ampiamente fonte di diritti e
obblighi, e consente di valutare contegni e reprimere abusi;
b) nella prospettiva delle fonti scientifiche (PDEC e Unidroit) la regola di buona fede
consente sia di valutare contegni sia di integrare, modificare o sciogliere il contratto;
c) nella prospettiva dell'acquis communitaire bisogna eseguire il confronto con estrema
cautela perché si tratta di provvedimenti eterogenei, che non hanno mai disciplinato il
contratto in generale, e formulati con ambiguità terminologiche oltreché attuati in maniera
diversa nei vari ordinamenti. Precisato ciò è possibile individuare modalità di intervento
tramite numerose direttive che impongono un contenuto minimo essenziale, limitano il
potere di modificare il contratto ed introducono requisiti formali in funzione di protezione.
In alcune direttive (es. Dir. 93/13 sulle clausole abusive) la buona fede e citata come
criterio di valutazione di contegni;
d) Nella prospettiva della Corte di Giustizia emblematica è la sentenza Courage del 2001 in
cui rispondendo al quesito di una Corte Inglese circa la possibilità per un contraente di una
intesa vietata (perché restrittiva della concorrenza) di chiedere tutela nei confronti
dell'altra parte che aveva imposto una clausola abusiva (ingiustamente vantaggiosa), la
CEG ha risposto che tale tutela non può essere esclusa a priori, attribuendo rilevanza ai
fini della responsabilità alla condizione di supremazia economica nelle trattative. Secondo
alcuni si tratterebbe di responsabilità precontrattuale concepita però non come illecito
aquiliano ma come violazione di un rapporto obbligatorio (obbligo di buona fede durante le
trattative);
e) In una prospettiva di sintesi la buona fede è criterio integrativo dei diritti e degli
obblighi che sorge indipendentemente dalla loro volontà, che è inderogabile e che
preesiste alla formazione del contratto, imponendo specifici obblighi di comportamento. E'
uno strumento per valutare contegno e circostanze soggettive delle parti che va
confrontato con le regole di responsabilità e validità. Il concetto di buona fede pare possa
essere recepito anche nel Common Law sulla base della rilevanza che questo attribuisce
alla ragionevoli aspettative delle parti ed alle scorrettezze procedurali. Secondo alcuni la
buona fede sarebbe la strumento prioritario per garantire la giustizia del contratto in
quanto se violata ne comporterebbe la nullità. Tale orientamento trae erroneamente
spunto da alcuni precedenti giudiziari in cui però il richiamo alla buona fede integra le
norme sulla validità ma non basta da solo a determinare la nullità. La violazione
dell'obbligo di buona fede di per sé comporta solo il risarcimento del danno come si evince
dall'art. 1338 cc in materia di conoscenze delle clausole di invalidità e da una sentenza
della Cassazione del2006 secondo cui la nullità virtuale ex art. 1418 attiene solo ad
elementi intrinseci alla fattispecie negoziale (struttura e contenuto).
Il giudice può correggere o integrare, su domanda della parte legittimata all'annullabilità, il
contratto in modo da renderlo conforme a buona fede e correttezza? I PDEC
71
espressamente lo consentono e oggi anche la dottrina tende ad ammettere che si possono
imporre atti e modalità esecutive conformi alla prassi consolidata degli affari e dunque
all'intrinseca razionalità dell'operazione voluta.
Sulla base della buona fede nelle fattispecie in cui vi è disparità di potere delle parti, si ha
un inversione dell'onere della prova. Sono possibili vari esempi tra cui l'art. 34 cod. cons.
Circa clausole di contratti di massa di cui il professionista deve provare che siano state
oggetto di trattative individuali, o in materia di obbligazioni di mezzi, la Cassazione ha più
volte ribadito che grava sul professionista l'onere di provare che ha agito con diligenza.
La risoluzione del contratto: l'inadempimento e il ruolo della colpa
Nel diritto comune, nel code civil e nel codice 1865 e nel cod. austriaco l'inadempimento
aveva fondamento nella colpa.
Nel c.c. del 1942, nelle fonti europee, nel BGB, nel common law e nella dottrina italiana e
francese si ha invece una connotazione oggettiva dell'inadempimento, la colpa deve avere
un ruolo diverso nella responsabilità contrattuale (rispetto alla extracontrattuale) perché
essa non è il fondamento della responsabilità, ma è espressione del rapporto preesistente,
non si atteggia in astratto come negligenza o imperizia, ma come inosservanza del
comportamento dovuto in forza del contratto.
Ecco perché la Cassazione S.U. Mel 2001 ha sancito che chi agisce per ottenere
l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento deve solo provare la fonte del suo diritto e
allegare l'inadempimento della controparte. Ciò in base a tre motivazioni: si presume che il
diritto persista; la vicinanza della prova al soggetto nella cui sfera si è prodotto
l'inadempimento; l'omogeneità del regime probatorio in caso di totale o inesatto
adempimento.
Successivamente la corte ha precisato che le azioni (di adempimento, risoluzione e
risarcimento) sorgono insieme all'obbligazione e non scaturiscono dalla sua violazione per
cui deve essere il debitore a provare l'adempimento in quanto fatto estintivo di tali diritti
già sorti. Tali conclusioni sono comuni in tutta Europa.
Le sopravvenienze
Disciplinate dall'art. 1467 cc, nel BGB, nei PDEC, nei p.pi Unidroit, nella prassi negoziale
(clausole di hardship) la rinegoziazione consente la realizzazione della volontà delle parti,
non ne comporta l'alterazione. La giurisprudenza italiana è eccessivamente circospetta nel
sancire l'obbligo di rinegoziazione. La dottrina italiana ricostruisce in modo diverso
l'intervento correttivo del giudice: a) è ammissibile solo se dal contratto emerge come la
parti vogliano ripartire il rischio; b) per riequilibrare e reprimere abusi; c) connesso
all'obbligo di rinegoziazione.
72
INTRODUZIONE SUI TIPI CONTRATTUALI
Disciplina per i tipi contrattuali e disciplina per << gruppi di contratti>>.
Il codice del 1942 e il c.d. Diritto comunitario dei contratti disciplinano i vari tipi contrattali
perciò la disciplina generale dei contratti si applica solo in via residuale.
– Il diritto europeo dei contratti c.d. “comune” (quello dei PDEC) invece disciplina solo la
parte generale del contratto: i tipi contrattuali continuerebbero ad essere disciplinati dai
diritti nazionali.
– Nel diritto europeo dei contratti e in quello comunitario delle direttive, a differenza che
nella normativa domestica, è prevalente il ricorso a norme imperative che disciplinano o il
contratto in generale o gruppi di contratto come ad es. in materia di vendita di beni mobili
di consumo, la direttiva in materia infatti non si occupa solo della vendita, ma si applica a
tutti i contratti finalizzati alla fornitura o produzione di beni di consumo.
Non possono dimenticarsi diversi tipi interni, ad es. nella parte in cui la disciplina europea
sulla vendita di beni di consumo tace, va applicata la disciplina interna sul contratto di
vendita e non la disciplina generale.
Non si può dimenticare il contesto europeo da cui promana il segmento normativo ad es.
nel caso della vendita di beni di consumo il contesto è costituito dal problema della
circolazione e della titolarità delle situazioni giuridiche.
La <<perdita della fattispecie>> : diritto <<comunitario>> per gruppi di
contratti e tipi contrattuali dei diritti interni.
Si assiste nel diritto comunitario al fenomeno della c.d. “perdita della fattispecie” in quanto
sempre più numerosi sono i tipi previsti e sempre più sono le norme imperative. Secondo
alcuni ciò potrebbe portare ad una rilevante compressione dell'autonomia privata, ma in
realtà non è così perché la tecnica delle norme imperative paradossalmente esalta
l'autonomia privata della parte debole del rapporto contrattuale. Il legislatore comunitario
è attento più che ai singoli tipi di contratto ai tipi di contratto perché in questi può
annidarsi un momento distorsivo della concorrenza. Paradigma descrittivo di questo
fenomeno sono i contratti con asimmetrie di potere contrattuale.
Analoghe considerazioni possono farsi con riferimento ai contratti funzionali alla
circolazione di beni e servizi in settori delicati (assicurazioni sulla vita, bancario, servizi di
pubblica utilità) in cui l'autonomia privata potrebbe ulteriormente essere compressa dal
potere regolamentare della autorità amministrativa indipendente (ISVAP, Consob, Banca
d'Italia) che agiscono secondo i macro obiettivi definiti a livello UE (eteroregolamentazione
secondaria). Anche in tal caso l'autonomia privata risulta rafforzata, è strumento per la sua
salvaguardia.
Il diritto dei contratti è essenziale alla creazione del mercato unico, obiettivo primario
dell'UE. Ecco perché si tende a comprimere e a conformare l'autonomia privata. Per
eliminare le barriere distorsive della concorrenza è necessaria la creazione di un codice che
uniformi le norme nazionali sia imperative che dispositive.
Due sono i limiti di intervento del legislatore europeo dei contratti dei consumatori:
1) orizzontali: si verificano nel momento in cui si sceglie di adottare una
disciplina transtipica relativa a contratti conclusi con il consumatore secondo
particolari modalità (es. negozi fuori dai locali commerciali a distanza …);
73
2)
verticali: sono meno frequenti e si hanno nel momento in cui si adotta una
disciplina relativa a singoli tipi contrattuali (multiproprietà, vendita di
pacchetti turistici, …)
In entrambi i casi si adotta la tecnica della norma imperativa che non pregiudica, ma anzi
esalta l'autonomia privata.
Generalmente in ambito europeo si sono avuti interventi speciali o settoriali (rari casi di
discipline generali, come ad es. in materia di clausole abusive), comunque l'interprete
anche negli interventi speciali può individuare segmenti di disciplina comune che
costituiscono un nucleo del contratto del consumatore.
I rapporti contrattuali BUISNESS TO BUISNESS sono quei rapporti giuridici in cui entrambi
i contraenti agiscono per un fine che non può dirsi estraneo all'attività professionale svolta
(es. contratti di agenzia e subfornitura). Questo tipo di disciplina ha una scarsa
propensione tipologica perché è più rivolta a gruppi di contratti che a singoli tipi. Ad es. la
disciplina della subfornitura è relativa per lo più a contratti di durata; e anche qui il ricorso
costante alla tecnica della norma imperativa ha lo scopo di recuperare la libertà
dell'autonomia contrattuale dei privati.
I rapporti di durata. La costruzione teorica più accreditata in dottrina tedesca vede in essi
figure autonome di obbligazione, tuttavia tale tesi è criticabile perché la peculiarità dei
rapporti di durata sta unicamente nel fatto che l'interesse del creditore va soddisfatto
nell'arco di un periodo di tempo può o meno lungo e che l'adempimento può essere o
periodico o continuativo (es. contratto di locazione o di lavoro).
Il rapporto di durata può avere una molteplicità genetica nel senso che può scaturire oltre
che da contratti, dall'autonomia testamentaria e da disposizioni di legge.
Forte incidenza ha la componente fiduciaria, alla quale per il protrarsi nel tempo del
rapporto obbligatorio, si impronta la relazione tra le parti. E' necessario distinguere questi
rapporti da quelli in cui anche se l'esecuzione può protrarsi nel tempo (o essere differita o
in cui le obbligazioni accessorie possono essere adempiute successivamente),
l'adempimento è sostanzialmente unitario (es. vendita a rate).
E' possibile poi dare due soluzioni al problema dell'incidenza della dissoluzione del
rapporto:
1) se la causa è ascrivibile ad un vizio genetico la maggior parte degli ordinamenti
tende a garantire il ritorno allo status quo ante, e dunque ad ammettere la
restituzione di quanto eseguito.
2) Se la causa risiede in una causa sopravvenuta, ci sono vari orientamenti. Nella
maggior parte dei paesi (Italia con l'art.1458, Olanda, Germania, Svizzera e
Portogallo) prevale il principio dell'irretroattività. In altri paesi si applica ancora il
principio della retroattività. In Francia e Spagna si può registrare una recente
tendenza ad abbandonare la rettrospettività, e si ha uno spostamento verso l'area
dell'irretroattività. In Francia la dottrina ritiene che la retroattività della risoluzione
sia una scelta di politica del diritto contingente, una finzione giuridica dunque non
insuperabile.
Nonostante la indubbia diversità di base nelle soluzioni normativa, nei paesi UE si delinea
un diritto europeo uniforme in senso sostanziale per almeno due ulteriori profili del
contratto di durata:
a) ammissibilità del recesso a seguito di inadempimento solo quando si verifica l'esistenza
di una giusta causa. Indicazioni in tal senso oltre che nelle legislazioni di quasi tutti i paesi
74
possono individuarsi anche: nella Convenzione di Vienna del 1980 (sulla vendita
internazionale di beni mobili) che all'art.47 riconosce il diritto dell'acquirente di concedere
al venditore inadempiente un termine supplementare ragionevole; o se si tratta di
inadempimento essenziale, di dichiarare la risoluzione integrale del contratto; - Nei PDEC e
nei p.pi Unidroit viene considerata mancata esecuzione anche l'esecuzione difettosa e
tardiva, e si stabilisce che in tal caso salvo dipenda da un atto o da una omissione del
creditore o questo se ne sia assunto il rischio, il debitore possa a sue spese e
comunicandolo al creditore, assumere tutte le misure idonee a correggere la propria
esecuzione. Il creditore può concedere un termine supplementare, e se la prestazione
consiste in una dazione di somme di danaro, può chiedere l'esecuzione salvo questa sia
impossibile o comporti spese o uno sforzo irragionevole per il debitore, o il creditore può
ottenere in altro modo l'esecuzione o ancora l'esecuzione presenti un carattere
strettamente personale.
In ogni caso il creditore non può pretendere l'esecuzione in un termine irragionevole. Solo
nei casi in cui l'inesecuzione è essenziale, il creditore ha diritto alla risoluzione. Nei PDEC
si ha inoltre la distinzione tra inadempimento imputabile (che legittima il creditore a
chiedere sia la prestazione che il risarcimento) e non imputabile. In entrambi i casi la parte
non inadempiente può rifiutare di adempiere, chiedere la risoluzione, concedere un
termine supplementare alla parte inadempiente, accettare un inesatto adempimento a
fronte di una riduzione del prezzo.
b) nel caso di mutamento delle circostanze originarie tale da rendere più oneroso
l'adempimento, si potrà ottenere l'integrazione e la conservazione del contratto nella fase
di esecuzione ricorrendo ai principi di buona fede, equità.
In Francia ad es. la giurisprudenza ha ammesso l'intervento correttivo del giudice sulla
base della clausola rebus sic stantibus. Ad analoghe conclusioni si è arrivati in Germania
dove si è registrata una vera e propria svolta con la riforma del BGB che ha introdotto
esplicite norme esclusorie dell'obbligo di prestazione (eccessiva onerosità, buona fede,
ragionevolezza). Parimenti si rinvengono riferimenti all'equità in Grecia, Portogallo,
Spagna, Olanda, Austria (in cui si fa riferimento anche all'imprevedibilità) e Italia (art.
1467, 1374 c.c.). In Irlanda e Scozia rilevano solo i mutamenti di circostanze che rendono
la prestazione impossibile (anche in UK si parla di “frustation of the venture”). Nel nord
Europa la giurisprudenza favorevole alla modificabilità, fa leva su una clausola iniqua nel
contratto.
75
LA VENDITA
DEI BENI DI CONSUMO
La vendita dei beni di consumo e le tecniche di attuazione della direttiva 99/44.
La vendita dei beni di consumo appare riconducibile allo schema della vendita di prodotti
realizzati in serie ad opera di un venditore professionista inserito in una catena distributiva
organizzata ed integrata in senso verticale. È altresì riconducibile allo schema giuridico
della vendita di cose di genere o fungibili. Al contrario non persuade la teoria secondo cui
sono beni di consumo quelli acquistati dal consumatore, giacché il concetto di
consumatore è legato alla debolezza sociale e non a una categoria ontologica come quella
riconducibile allo status di imprenditore o professionista.
La direttiva 99/44 ne detta la disciplina e ha suscitato ampio dibattito circa la
qualificazione giuridica della posizione contrattuale del venditore in termini di obbligazione
o garanzia.
Propria di tale disciplina è una prospettiva rimediale in luogo di quella caratterizzata
dall’attribuzione di diritti soggettivi. Detta caratteristica è evidenziata dal fatto che non vi è
una regolamentazione organica della materia, bensì una regolamentazione unitaria della
materia dei vizi occulti e dell’assenza di qualità del bene venduto e, in particolare, dei
mezzi di tutela a disposizione del consumatore. Nulla vi è circa altri profili dello schema
contrattuale. Vi sono solo schemi che disciplinano la fase di esecuzione in vista della
manutenzione del vincolo contrattuale. È compito dei Paesi membri occuparsi della
ricostruzione della disciplina complessiva attingendo, nei limiti della compatibilità con le
norme speciali di origine comunitaria, al diritto comune della vendita per tutti gli aspetti
non regolati dalla dir. 99/44. La norma di chiusura della direttiva (art.8) fa salvi gli altri
diritti riconosciuti al consumatore dalle norme nazionali in tema di responsabilità
contrattuale o extracontrattuale (c.d. doppio binario di tutela); ciò comporta un
rafforzamento della tutela del consumatore mediante il c.d. cumulo dei rimedi.
La disciplina della vendita dei beni di consumo ha sollecitato un ampio ripensamento
dell’intera normativa sul contratto di vendita in vista dell’estensione delle soluzioni adottate
dalla dir.99/44 al di là del loro campo di applicazione originario, costituito dai rapporti tra
professionisti e consumatori. In Francia e in Germania si è discusso sull’opportunità di
esportare il sistema gerarchico di rimedi nel campo dei rapporti tra parti in posizione di
parità di potere contrattuale, in particolare ai rapporti tra imprese.
In Italia all’indomani dell’emanazione della direttiva si accese un ampio dibattito circa le
modalità più opportune di recepimento. Alla fine è stato deciso di lasciare inalterata la
disciplina generale della vendita e di introdurre l’art. 1519 bis alla Sezione II del Capo I
dedicata alla vendita di cose mobili (disciplina oggi trasposta nel codice del consumo). Il
che denunzia l’intento di relegare la vendita di beni di consumo a sottotipo della species
vendita di cose mobili, col risultato di una disciplina incongrua e frammentaria. Si è cercato
di superare detto problema coordinando i diversi segmenti di disciplina attraverso
inizialmente la novellazione del codice civile (clausole abusive e vendita dei beni di
consumo) e l’approvazione di leggi speciali (es. contratti a distanza, commercio
elettronico..). L’esigenza di razionalizzare le disposizioni di origine comunitaria è stata
soddisfatta infine con l’approvazione del il d.lgs. 206/05 recante il codice del consumo).
Il campo di applicazione e le definizioni
76
L’art.1 dir.99/44 delinea il campo di applicazione della direttiva tramite un duplice criterio:
a. criterio soggettivo: rappresentato dalla limitazione ai soli rapporti contrattuali tra
consumatore e professionisti (per consumatore si intende qualsiasi persona fisica che,
nello stipulare il contratto di vendita di beni di consumo, agisca per fini estranei alla
propria attività commerciale o imprenditoriale; mentre è professionista qualsiasi persona
fisica o giuridica che venda beni mobili di consumo nell’ambito della propria attività
commerciale o professionale).
b. criterio oggettivo: si articola in una duplicità di parametri. Il primo rappresentato
dall’individuazione di uno spettro eterogeneo di tipi contrattuali cui le norme sono
applicabili (non solo la vendita, ma anche i contratti di fornitura di beni di consumo da
fabbricare o produrre); il secondo è volto a circoscrivere ulteriormente il novero dei
rapporti contrattuali considerando solo quei contratti il cui oggetto mediato consiste in un
bene mobile materiale con esclusione dei beni oggetto di vendita forzata, dell’energia
elettrica e dell’acqua o del gas, a meno che non siano confezionati per la vendita in
volume delimitato o in quantità determinata.
La direttiva qualifica il bene di consumo in funzione del suo valore d’uso (cioè soddisfare
l’interesse dell’acquirente al godimento del bene). Detta qualificazione è legata al dato
oggettivo, cioè è tale il bene la cui causa sia di consumo, evidenziandone la destinazione.
Siamo di fronte a un’ipotesi di causa con funzione economico-individuale piuttosto che
economico-sociale. Bisogna evidenziare il distacco dalla tradizionale causa di scambio,
tipica della vendita. Ad incidere sulla configurazione della causa del contratto di vendita di
beni di consumo più del referente economico, è la nuova disciplina delle tutele, in particola
l’introduzione dei rimedi satisfattivi della riparazione e della sostituzione (imposizione a
carico del venditore non più circoscritta al dare-trasferire, ma estesa alla messa a
disposizione di un bene conforme).
Non è possibile una lettura unitaria della disciplina in quanto si tratta di una disciplina a
carattere settoriale, dal momento che regola solo un aspetto specifico, ossia la garanzia di
conformità.
La disciplina della vendita dei beni di consumo non si applica ai contratti aventi ad
oggetto:
• Beni immobili (soprattutto a causa del loro particolare regime di pubblicità).
• Servizi (per non irrigidire le regole di responsabilità professionale a causa
dell’innesto delle particolari norme sulla garanzia di conformità).
• Beni immateriali (anche se in realtà tale esclusione è in generale rimessa
all’apprezzamento degli interpreti. In Italia è una categoria completamente
esclusa).
• Beni usati se acquistati ad un’asta alla quale il consumatore abbia la possibilità di
assistere personalmente (anche in questo caso l’esclusione è a discrezionalità dello
stato membro. La Spagna li ha esclusi; l’Italia ha incluso tra i beni di consumo i
prodotti usati, tenuto conto del tempo del pregresso utilizzo e dei difetti non
derivanti dall’uso normale della cosa).
L’incertezza regna a proposito dei beni mobili registrati, categoria ammessa
espressamente solo dal legislatore olandese e rimessa all’apprezzamento degli interpreti
negli altri ordinamenti.
La nozione di conformità del bene del contratto.
La nozione di conformità ha il pregio di ridurre ad unum le varie figure di violazione. Detta
nozione, già adottata dalla Convenzione di Vienna, è volutamente generica e ampia per
77
sfuggire alla rigidità di una nozione analitica. Per ovviare all’inconveniente dell’assenza di
contorni precisi, si fa riferimento ad alcuni indici, definiti in maniera puntuale dalla direttiva
e all’art. 2 qualificati come presunzioni di conformità. La conformità è una nozione
relazionale perché postula un rapporto di identità tra il contenuto del contratto e il bene
trasferito. Gli indici di riferimento non hanno carattere tassativo e sono:
• Conformità alla descrizione fatta dal venditore (tanto più la descrizione della cosa è
accurata, tanto più si amplia il contenuto e si riduce la discrezionalità in sede di
esecuzione).
• Possesso delle qualità del bene presentato dal venditore come campione o modello.
• Idoneità all’uso voluto dal consumatore e portato a conoscenza del venditore al
momento della conclusione del contratto e da questi accettato.
• Idoneità al’uso abituale di beni dello stesso tipo.
• Possesso delle qualità del bene che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi
(tenuto conto della natura del bene e delle eventuali dichiarazioni pubbliche sulle
sue caratteristiche, effettuate in particolare mediante pubblicità e etichettatura;
sotto quest’ultimo profilo la dir. si pone in linea con quanto sperimentato nella
dir.90/314 sui viaggi, vacanze e circuiti tutto compreso).
Inoltre è equiparata al difetto di conformità l’imperfetta installazione, ove tale attività è
compresa nel contratto e venga effettuata dal venditore o sotto la sua responsabilità
ovvero dal consumatore sulla base di istruzioni di istallazione non corrette o carenti.
La direttiva configura tali criteri come presunzioni di conformità e ciò ha indotto la dottrina
a ravvisarvi una regola di onere della prova. In realtà tali indici sono dei criteri di
integrazione del regolamento contrattuale ed assolvono alla funzione di delineare una
nozione minima di conformità. Appare preferibile considerare le presunzioni di conformità
un’elencazione esemplificativa delle principali ipotesi di difetti di conformità e attribuire al
termine presunzione il valore di formula evocativa del carattere non tassativo, che lascia
intatto il potere discrezionale del giudice di ricorre ad altri parametri per accertare la non
conformità del bene al contratto. Tali indici funzionano come elementi di integrazione del
contratto nel senso che il termine di riferimento principale per l’accertamento della
conformità è l’accordo concreto raggiunto dalle parti, rispetto al quale gli indici si
innestano in modo da fissare una soglia minima di qualità e di requisiti del bene.
La categoria della conformità al contratto pone al centro della vicenda relativa alle qualità
e alle proprietà del bene il regolamento contrattuale quale punto di riferimento diretto
dell’impegno del venditore e del risultato atteso dal compratore, che non è più identificato
con la sola aspettativa del trasferimento della proprietà del bene, bensì con l’aspettativa
del trasferimento della proprietà di un bene conforme al contratto. I rimedi sono
ricollegabili direttamente al contenuto del contratto: un difetto di conformità del bene
alienato è violazione contrattuale.
Inoltre, la conformità al contratto si pone come punto di congiunzione tra il contenuto e
l’oggetto del contratto e consente di distinguere tra i due: il primo è costituito da “tutto ciò
che nel contratto è detto e scritto” (parte dispositiva, ossia il complesso di regole poste
dalle parti per disciplinare i rapporti specifici) e il secondo è costituito dalla prestazione
delle parti (comportamenti e risultati dovuti); il bene materiale coinvolto nel trasferimento
rappresenta l’oggetto della prestazione e dunque è solo mediatamente l’oggetto del
contratto. In realtà questa ricostruzione è parzialmente smentita da recenti interventi
normativi di origine comunitaria, però è utile in quanto permette di distinguere tra:
78
• Fase programmatica (con riguardo alla parte del contenuto di natura descrittiva
volto a delineare le caratteristiche del bene). Su di essa la direttiva 99/44 opera
mediante l’integrazione degli indici di conformità.
• Fase esecutiva. Fase in cui si annidano maggiormente abusi e scorrettezze. Rispetto
ad essa la direttiva introduce un sistema di rimedi di natura specifica volto a
soddisfare l’interesse dell’acquirente.
La categoria della conformità ha il pregio di sostituire le diverse figure di violazione
contrattuale elaborate nella prassia applicativa del precedente sistema di tutela del
compratore, affidato negli ordinamenti di matrice romanistica alle azioni edilizie (i
presupposti di efficacia delle garanzie edilizie sono individuati nel: vizio materiale occulto,
mancanza delle qualità promesse, assenza delle qualità essenziali, vizio giuridico, vendita
aliud pro alio e cattivo funzionamento). La Convenzione di Vienna e poi la dir. 99/44
hanno completato il percorso di semplificazione e unificazione del regime dei vizi occulti e
mancanza di qualità, grazie al ricorso ad una categoria unitaria (il difetto di conformità) e
alla predisposizione di un unico sistema rimediale, imperniato su mezzi di tutela in forma
specifica tradizionalmente banditi dal regime edilizio e solo a fatica riconosciuti dalla
giurisprudenza come forme di reazione alle difformità del bene più eclatanti.
Il carattere elastico della figura presenta l’inconveniente di non fornire all’interprete
indicazioni sui contorni precisi della conformità e ciò ha determinato nel dibattito europeo
contrasti sulla collocazione di alcune figure, quali l’ aliud pro alio e i vizi giuridici (si segnala
la soluzione adottata dal BGB, che ha equiparato la vendita di aliud pro alio al vizio
materiale e ha previsto uniformità di trattamento per vizi materiali e vizi giuridici).
Per una nozione positiva di conformità al contratto bisogna guardare sia all’art. 35 CISG
(che individua dei criteri integrativi), sia all’art. 25 CISG (che è incentrato sul fondamentale
breach of contrac, ossia sulla violazione che causa all’altra parte un pregiudizio tale da
privarla sostanzialmente di ciò che essa aveva diritto di aspettarsi dal contratto, a meno
che la parte inadempiente non abbia previsto tale risultato e che neanche una persona
ragionevole della stessa qualità nelle stesse circostanze avrebbe potuto prevederlo; si
rivolge non solo alle prestazioni del venditore, ma anche a quelle del compratore).
Di conseguenza detto concetto di conformità del contratto scardina l’idea della
compravendita come contratto volto essenzialmente al trasferimento della ricchezza e
attribuisce rilievo giuridico oltre alla logica dello scambio, anche all’interesse individuale del
compratore; ciò trae conferma da due elementi:
• Non configurabilità della violazione qualora il difetto di conformità si traduca in fatti
noti al compratore o fatti che non poteva ignorare.
• Rilievo dato all’affidamento del compratore,evocato agli artt. 25 e 35 CISG.
Quanto detto, sebbene riguardi articoli della CISG, è comunque attuale in quanto il
contenuto è transitato nella dir. 99/44 e alle disposizioni nazionali.
In linea con la CISG, la dir.99/44 ha escluso la sussistenza del difetto di conformità:
a. Qualora il compratore, al momento della conclusione del contratto, conosca o non
possa ragionevolmente ignorare il difetto del bene;
b. Qualora il difetto di conformità si origini nei materiali forniti dall’acquirente
medesimo.
Inoltre, a differenza della disciplina della vendita internazionale di beni mobili, la direttiva
include nel suo ambito di applicazione i contratti di fornitura di beni nei quali il
committente si impegni a fornire una parte sostanziale dei materiali necessari per la
fabbricazione o la produzione.
79
Il sistema gerarchico di tutela
Il difetto di conformità costituisce violazione (“breach of contract”) e in particolare
un’inesatta esecuzione dell’impegno del venditore di trasferire la proprietà al compratore e
di immetterlo nel possesso di beni dotati di specifiche qualità e di determinate
caratteristiche.
La reazione predisposta dalla disciplina della vendita dei beni di consumo consiste nella
messa a disposizione del compratore di un meccanismo rimediale articolato su due piani:
• il primo occupato dai rimedi in forma specifica, volti al conseguimento del ripristino
della conformità del bene e consistenti nella riparazione o nella sostituzione del
bene difforme (rimedi ripristinatori: riparazione o sostituzione);
• il secondo occupato dalle tradizionali azioni di risoluzione e riduzione del prezzo,
nucleo essenziale delle classiche azioni edilizie (actio redibitoria e quanti minoris).
Tra le due coppie di rimedi corre un rapporto gerarchico in quanto il consumatore è
tenuto a domandare prima la riparazione o sostituzione del bene e, in via subordinata,
la risoluzione o riduzione del prezzo. I criteri di gerarchizzazione idonei a consentire il
passaggio dai rimedi ripristinatori ai mezzi di tutela edilizi sono molteplici:
• impossibilità del ripristino (per vis maior o casus) o la sua sproporzione rispetto ai
rimedi sussidiari (eccessiva onerosità, diverso dal concetto di difficultas praestandi,
cioè l’impossibilità soggettiva del tutto irrilevante ai fini dell’estinzione
dell’obbligazione ripristinatoria).
• Decorso infruttuoso di un periodo di tempo ragionevole tra la richiesta di ripristino e
l’esecuzione della sostituzione o della riparazione.
La violazione del dovere di esecuzione in tempi ragionevoli (tempestività delle operazioni)
e senza notevoli inconvenienti rappresenta un inadempimento ulteriore.
La ratio della scansione gerarchica dei rimedi risiede nella predisposizione di un sistema di
tutela che privilegi la salvaguardia dell’interesse specifico del compratore al conseguimento
della proprietà e del possesso di un bene dotato delle caratteristiche e delle qualità
legittimamente attese mediante l’imposizione di un’obbligazione di ripristino della
conformità del bene idonea a realizzare il conseguimento del valore d’uso della cosa
venduta. Pertanto l’obiettivo è la manutenzione del contratto. Anche la mancata o
l’inesatta eliminazione del difetto attivano i rimedi sussidiari. Tutto ciò conferma che la
direttiva è volta ad assegnare rilievo sotto il profilo casuale all’interesse specifico del
compratore.
Risulta particolarmente problematico stabilire se i rimedi primari a carattere ripristinatorio,
qualora inattuati o inesattamente attuati, siano suscettibili a loro volta di tutela in natura,
eventualmente eseguibile in forma specifica. La norma comunitaria non disciplina il punto
in questione, ma non esclude una soluzione positiva. Il riconoscimento della tutela in
natura equivale a negare che tra rimedi primari e secondari intercorra un automatismo che
determina, in caso di fallimento dei primi, il necessario passaggio ai secondi. In questo
senso si pone la lettera dell’art. 3 della direttiva alla luce della sua formulazione in termini
di discrezionalità piuttosto che in termini di doverosità; infatti prevede che una volta
vericatesi le condizione previste dai criteri di gerarchizzazione “il consumatore può
chiedere una congrua riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto”. Di conseguenza
l’obbligazione di ripristino è qualificabile come un ordinario vincolo obbligatorio, la cui
precettività è affidata al mezzo di tutela in forma specifica ed al rimedio risarcitorio. Inoltre
i rimedi della garanzia di conformità sono del tutto gratuiti (art. 3.2 “il consumatore ha
80
diritto al ripristino senza spese”, in particolare le spese di spedizione e per la mano d’opera
e i materiali).
La dir. 99/44 presenta delle carenze:
• Mancata previsione di una procedura di autotutela volta ad ottenere in via coercitiva
il ripristino della conformità del bene.
• Mancata introduzione di istituti di esecuzione indiretta tanto di natura indennitaria
quanto penalistica.
La natura dei rimedi tra responsabilità e garanzia
I maggiori contrasti interpretativi sono sorti in ordine agli artt.2 e 3 della direttiva: l’art.2
dispone che “ il venditore deve consegnare al consumatore beni conformi al contratto di
vendita”; l’art.3 prevede che “il venditore risponde di qualsiasi difetto di conformità
esistente al momento della consegna del bene”. Le due norme presentano una
formulazione generica.
Le due linee di pensiero che i sono contrapposte in materia possono definirsi teoria della
responsabilità e teoria della garanzia.
1. La prima teoria ritiene che tale disciplina sia un ampliamento dell’area della
responsabilità da inadempimento del venditore (sono sanzionabili, quindi, anche i
vizi materiali, difetti di qualità essenziali e mancanza di qualità promesse, che la
disciplina generale della vendita inserisce nell’ambito della garanzia). In capo al
venditore vengono configurate, a seconda delle letture, ora un’obbligazione di
consegna di beni conformi al contratto (prevalente in Italia), ora un’obbligazione di
conformità del bene del contratto.
2. La seconda teoria riconduce i rimedi della riparazione e della sostituzione allo
schema della garanzia e sostiene che la disciplina della vendita dei beni di consumo
rappresenti un’evoluzione dell’antico concetto ancorato alle azioni edilizie e
destinato a esplicare i suoi effetti sul piano della mera rilevanza economica
dell’affare ed ora, invece, ricalibrato al fine di consentire il soddisfacimento
dell’interesse perseguito dal compratore con il contratto di vendita (il c.d. fine
specifico di consumo).
Tra le due posizione contrapposte si collocano due opinioni di compromesso:
a. La prima ravvisa nei rimedi della riparazione e sostituzione strumenti di tutela
satisfattiva da valutare, se non come azione di esatto adempimento di
un’obbligazione, almeno come tecniche di tutela specifica volta al conseguimento di
un risultato (la conformità del bene al contratto) promesso al compratore senza
farne oggetto di un rapporto obbligatorio. La scelta legislativa è di individuare nella
consegna il termine di rilevanza dei difetti di conformità e ciò permette che prima
della consegna non si produca una situazione di irreversibilità nella determinazione
dell’oggetto della prestazione attributiva. Invece, secondo il principio
consensualistico franco-italiano il perfezionamento della fattispecie traslativa di
norma si compie con la prestazione del consenso o con l’attività di individuazione.
Nella vendita di beni di consumo ciò che rileva è la recuperabilità sul piano giuridico
della conformità del bene affetto da vizi; l’autonomia tra l’acquisto del diritto e
l’ottenimento della disponibilità di un bene funzionalmente idoneo determina: a. che
l’allineamento tra il risultato traslativo e l’ottenimento di un bene conforme sia
sempre possibile sino al momento della consegna; b. che non vi siano ostacoli a
qualificare in termini di obbligazione l’impegno del venditore a dislocare sul piano
81
possessorio il risultato traslativo. Ciò implica che il diritto alla riparazione e alla
sostituzione costituiscono un’applicazione specifica della richiesta di adempimento.
b. La seconda opinione ruota attorno alla distinzione tra vizi e difetti di conformità
preesistenti al trasferimento della proprietà e quelli successivi. Nel primo caso non
vi è spazio per saldare la responsabilità del venditore alle presunte obbligazione di
conformità del bene al contrato e di consegna di beni conformi ( che risulta anche
logicamente inconcepibile); sicché tale responsabilità deve trovare fondamento
nell’istituto della garanzia (che si arricchisce degli strumenti di tutela della
riparazione e sostituzione, qualificabili come misure restitutorie che mirano alla
manutenzione del contratto e non come misure di adempimento). La garanzia è da
intendere come forma di responsabilità speciale del venditore per inesattezza del
risultato traslativo.
Secondo detta opinione la forma giuridica dell’obbligazione (in particolare l’obbligo
di consegna di beni conformi) appare idonea a rappresentare la posizione del
venditore nell’ipotesi in cui i vizi e i difetti di conformità del bene sorgano tra il
momento del trasferimento della proprietà e quello della consegna. L’art. 2
dir.99/44 ha modificato il contenuto della tradizionale obbligazione di consegna, il
cui oggetto non è più rappresentato dal bene alienato nello stato nel quale si
trovava al momento della vendita, bensì dal bene nello stato e con le caratteristiche
previste dal contratto e dalle determinazioni legali. L’obbligazione di consegna potrà
considerarsi inadempiuta sol che al momento della traditio manchi conformità e
sussista un qualche difetto, quindi anche i difetti sopravvenuti derivanti dal caso
fortuito o imputabili al venditore (l’art.3 deroga così al principio res perit domino e
sposta il momento del passaggio del rischio del perimento del bene al tempo della
consegna).
L’irrilevanza della condotta del venditore ai fini dell’imputazione del difetto di
conformità e l’estensione dell’area della responsabilità sino al caso fortuito
conferiscono a tale responsabilità natura oggettiva e assoluta .
Questa è una linea interpretativa che assume a modello la Convenzione di Vienna
che contiene, a differenza della dir. 99/44 una disciplina analitica del passaggio del
rischio e ne individua di regola il momento nella consegna dei beni.
Lo scontro tra le teorie della responsabilità e della garanzia può portare a un apparente
approdo comune solo nel senso che per entrambe è possibile individuarsi il momento
patologico nella violazione del contratto; i contrasti riemergono allorché si procede
all’inquadramento della garanzia nell’area della responsabilità in quanto un primo
orientamento ritiene che la violazione del contratto consiste nell’inadempimento di
un’obbligazione (di far acquistare la proprietà del bene e esatta esecuzione del contratto).
L’opinione opposta inserisce la garanzia tra gli effetti della vendita diversi dall’obbligazione
e ne subordina l’efficacia all’inadempimento del contratto, in particolare a quella parte
della lex contractus che non consiste nell’assunzione di obbligazioni, ma nella promessa di
un determinato risultato, con conseguente assunzione del rischio che tale risultato si rilevi
o diventi impossibile. Altra dottrina si attesta su di una posizione interlocutoria,
configurando la garanzia come reazione all’irregolarità dell’attribuzione patrimoniale
promessa e mantiene l’impostazione che inserisce la garanzia nell’area della responsabilità
per inadempimento considerando la garanzia come sanzione contro l’inadempimento.
Mengoni affermò che il concetto di inadempimento del contratto è stato irrigidito nei
termini di una correlazione essenziale col concetto di inadempimento di una specifica
obbligazione contrattuale. La dottrina invece fissa il punto di partenza della teoria dei vizi
82
redibitori nel distacco della garanzia dall’obbligazione. Il ricorso al’istituto della garanzia è
collegato all’impossibilità logica e giuridica di imputare il vizio o l’assenza di qualità del
bene alla condotta del venditore che non ha partecipato alla sua realizzazione o,
comunque, influito sul suo modo di essere. Il principio dell’ impossibilium nulla obligatio è
un limite logico posto all’obbligazione e non anche all’autonomia negoziale dei privati, che
hanno la piena disponibilità degli effetti del contratto. L’ordinamento giuridico consente
che un interesse posa essere assunto a contenuto del regolamento contrattuale, ma non
tanto nell’alveo dell’obbligazione, quanto in quello della garanzia. Non sembra quindi
condivisibile la conclusione di quanti hanno riconosciuto nei rimedi ripristinatori della
riparazione e della sostituzione l’azione di esatto adempimento e da ciò hanno tratto
conferma dell’introduzione ad opera della nuova disciplina di un’obbligazione di conformità
del bene al contratto o di consegna di beni conformi e poi hanno dedotto che il difetto di
conformità del bene costituisca inadempimento e sia imputabile al venditore a titolo di
responsabilità.
Per stabilire se la vendita dei beni di consumo abbia introdotto una forma di responsabilità
per inadempimento ovvero abbia arricchito il contenuto della garanzia edilizia, è
necessario guardare alla sostanza del fenomeno economico cui la disciplina comunitaria
appronta la regolamentazione.
I rimedi della riparazione e della sostituzione si possono ascrivere al novero degli
strumenti di reazione contro l’inadempimento solo qualora si riesca a configurare in capo
al venditore un obbligo di condotta che investa la verifica della conformità al contratto dei
beni finiti o da assemblare e la loro conseguente realizzazione. Se si accoglie questa
lettura può ritenersi che la disciplina della vendita di beni di consumo abbia imposto al
venditore un’ulteriore obbligazione avente ad oggetto il collaudo di ciascun bene
commerciato da effettuarsi dopo la conclusione del negozio, ma prima della consegna del
bene (a meno di contestualità).
Non può darsi per scontato che il legislatore comunitario volesse gravare i rivenditori di
beni di consumo dell’obbligo di attrezzarsi di strutture idonee al ripristino della conformità,
né che le strutture preposte alla riparazione e alla sostituzione provvedano anche
all’accertamento della conformità dei beni al contratto.
Inoltre l’attività di ripristino è solo eventuale in quanto è legata al manifestarsi entro il
termine di due anni dalla consegna di un difetto di conformità già sussistenti a quel
momento (art. 5,1); tale circostanza costituisce oggetto di prova dell’acquirente, il cui
onere è alleggerito dalla previsione dell’art. 5.3 di una presunzione iuris tantum di
esistenza al tempo della consegna dei difetti che si svelino entro sei mesi dalla traditio
(presunzione che non determina un’inversione dell’onere della prova: il compratore deve
comunque dimostrare che il difetto si è manifestato entro sei mesi dalla consegna).
L’obbligazione di verifica e di collaudo della conformità del bene implicherebbe un’azione di
controllo da parte del venditore; mentre l’obbligazione di riparazione e sostituzione non
impone al venditore di munirsi di un’organizzazione atta al ripristino, giacché questi
potrebbe appoggiarsi a una catena distributiva.
È quindi difficile trarre argomenti a favore dell’obbligazione di verifica e di controllo dalla
mera natura di rimedi in forma specifica della riparazione e della sostituzione, perché il
ricorso alla catena di distribuzione se praticabile quando si tratta di ripristinare l’eventuale
difetto di conformità, non lo è qualora ci si sposti sul terreno del collaudo (il bene
dovrebbe passare dal produttore al distributore intermedio per giungere al venditore finale
e poi risalirebbe la catena per sottoporsi al controllo di conformità prima del momento
della consegna).
83
La garanzia specifica
È superato il limite dell’impossibilità logica di un’obbligazione relativa al modo di essere
della cosa compravenduta in quanto è stata ammessa la possibilità di incidere sullo stato
del bene dovuta all’inserimento del venditore nella catena distributiva. La recuperabilità
della corrispondenza del bene al contratto implica soltanto l’astratta possibilità di dedurre
in obbligazione il conferimento al compratore di un bene conforme (non anche
l’inevitabilità di tal esito). La communis opinio giustifica il ricorso all’istituto della garanzia
solo a causa dell’impossibilità logica di concepire l’evento cui mira il contratto (assenza vizi
e presenza qualità promesse) come obbligo di prestazione, giacché tale evento rimane
sottratto alla sfera di controllo e di azione del venditore. In realtà è una petizione di
principio: la scelta del legislatore di assegnare agli effetti del contratto di vendita legati allo
stato del bene la forma della garanzia piuttosto che quella dell’obbligazione può anche
derivare da ragioni di opportunità e di ordine economico: ad esempio l’imposizione al
venditore dell’obbligazione di verificare ciascun bene commerciato e procedere
all’eventuale ripristino prima della consegna comporterebbe un aggravamento eccessivo ei
costi a suo carico. Perciò la garanzia si presenta come una forma più efficiente in quanto
permette il raggiungimento di un risultato utile senza la cooperazione della controparte,
sicché il mancato soddisfacimento dell’interesse protetto non determina una responsabilità
in capo alla parte tenuta alla garanzia, ma piuttosto costituisce il presupposto di efficacia
dei rimedi previsti dalla garanzia medesima.
La natura di rimedi in forma specifica della sostituzione e della riparazione costituisce un
elemento che lascia propendere per il loro inquadramento nello schema dell’azione di
adempimento, solo se non si contesta che l’istituto della garanzia sia sempre stato
finalizzato all’equilibrio delle posizioni contrattuali. In realtà non vi sono ragioni per non
riconoscere che la funzione di ripristino non appartenga a un concetto evoluto di garanzia
(prima intesa prevalentemente in senso economico). Nulla permette di affermare che
siano logicamente incompatibili in quanto il tipo di obblighi derivanti dalla garanzia non è
fissato a priori (e pertanto non si tratta necessariamente di obblighi restitutori); infatti la
garanzia è una fonte di obblighi che diversamente dalla responsabilità non presuppongono
la violazione di un’obbligazione. La garanzia in forma specifica è allora la forma giuridica
più adeguata a racchiudere i rimedi ripristinatori della riparazione e sostituzione.
Risarcimento del danno
Ci si è chiesti quale sia, nel caso in cui la conformità al contratto rimanga dedotta in
garanzia, il fondamento della misura risarcitoria, che la totalità degli autori ritiene
compatibile con la disciplina della vendita di beni di consumo, benché ivi non
espressamente prevista. La misura risarcitoria è uno strumento utilizzato per far valere la
responsabilità del debitore. È un rimedio collegato alla produzione del danno il cui costo
deve venire rimosso dalla sfera giuridica del danneggiato per trasferirlo nella sfera
giuridica del danneggiante. Quale effetto dell’inadempimento è strumento per fare valere
la responsabilità del debitore.
Il risarcimento non ha necessariamente come presupposto un’obbligazione violata, può
seguire anche l’attivazione della garanzia,in quanto, essendo la concezione della garanzia
edilizia (per vizi occulti) un surrogato della pretesa di adempimento, allora la garanzia
include il pieno risarcimento del danno, cioè l’interesse positivo del compratore (Mengoni).
Si è detto che se il venditore garantisce l’idoneità della cosa, non può non rispondere dei
danni che la inidoneità cagiona; tuttavia la previsione di garanzia in forma specifica non
84
sembra lasciare margini per il risarcimento del danno da interesse positivo. La riparazione
e la sostituzione coprono infatti il danno emergente e non il lucro cessante (escluso per
definizione dalla funzione di consumo che connota il contratto). La consegna di un bene
non conforme costituisce la causa di un pregiudizio che investe un bisogno personale del
consumatore e che non si può compensare sul piano economico ma solo prevenire
mediante una tutela in natura. L’opinione in esame ritiene applicabile l’art. 1494,2 c.c., che
impone al venditore di risarcire i danni che derivino dai vizi ella cosa come reazione
all’inadempimento di un obbligo di protezione. A ben vedere è l’idea stessa di garanzia a
precludere l’esistenza di un obbligo di protezione (da danni alla persona del compratore a
causa del difetto di conformità) a carico del venditore. Una volta sottratto il ben ala sfera
di controllo di quest’ultimo è inconcepibile ipotizzarne l’assoggettamento ad un obbligo di
cautela nei confronti del compratore.
L’art. 1419,2 c.c. (risarcimento danno in materia di vendita) può essere invocato solo
qualora il venditore agisca con dolo, nella piena consapevolezza della difformità e
pericolosità del bene (in relazione al disposto di cui all’art. 1225 c.c.).
Si può quindi concludere che per la non invocabilità del risarcimento del danno, in questa
prima fase, presidiata dai rimedi in forma specifica, la cui priorità, nel sistema delineato
dall’art. 130 cod. cons., implica l’attribuzione al risarcimento della sua funzione tipica in
ambito contrattuale di tutela puramente sussidiaria.
Inoltre nella prima fase
dell’esecuzione del contratto non vi sono margini per il risarcimento del danno da ritardo,
in quanto l’art. 3 dir. 99/44 fa riferimento alla mancata riparazione o sostituzione del bene
entro un periodo ragionevole quale presupposto per invocare l’azione redhibitoria e quanti
minoris.
La priorità data alle garanzie in forma specifica attribuisce all’esecuzione del contratto
natura procedimentale (una volta accertato e tempestivamente denunziato il difetto di
conformità, si apre una fase rimediale volta al ripristino del bene e del tutto eventuale):
a. Accertamento e denuncia tempestiva del difetto di conformità;
b. Fase rimediale, rispetto alla quale la garanzia si pone come fonte di un’obbligazione
ripristinatoria sempreché la prestazione dia oggettivamente possibile e non
eccessivamente onerosa. L’art. 3,3 attribuisce alla sproporzione il carattere di una
spesa irragionevole e fornisce tre criteri di valutazione dell’irragionevolezza dei
costi: valore che il bene avrebbe in assenza di difetto; entità del difetto di
conformità; possibilità di ripristino senza notevoli inconvenienti per il compratore.
Nozione di onerosità del tutto sganciata dall’abituale riferimento al solo ammontare
del danno.
A tal proposito si parla di “eccesiva onerosità dialettizzata” perché il frutto di
bilanciamento degli interessi del venditore e del compratore in un quadro destinato
a privilegiare l’appagamento del bisogno del consumatore; bilanciamento dovuto al
fatto che i tre criteri si prestano a letture di salvaguardia delle ragioni di entrambe
le parti: ad es. i primi due favoriscono, a tutela del venditore, un giudizio di
eccessiva onerosità rapportato al bene specifico il suo valore di quest’ultimo non sia
notevole.
Quanto detto non si concilia con l’idea che riparazione e sostituzione costituiscano azioni di
esatto adempimento; l’attivazione dei rimedi ripristinatori appartiene alla fase di
esecuzione del contratto (così come in precedenza si è sostenuto a proposito della tutela
in natura contro l’inadempimento o l’inesatto adempimento dell’obbligazione di
sostituzione e riparazione del bene non conforme.
85
Il regresso
Nel caso in cui venditore sia chiamato a rispondere del difetto di conformità riconducibile
all’azione o all’omissione del produttore, di un precedente venditore nella stessa catena
contrattuale o di un qualsiasi altro intermediario, la dir.99/44 attribuisce al medesimo
venditore finale il “diritto di agire nei confronti della persona o delle persone responsabili
nel rapporto contrattuale” (art.4).
Al riguardo sono necessarie delle osservazioni:
a. Prima osservazione: la lettera della norma non menziona il diritto di regresso, che
rimane confinato solo alla rubrica. La norma rimane neutra al riguardo e ciò è
confermato dalla chiusa “la legge nazionale individua il soggetto o i soggetti nei cui
confronti il venditore finale ha diritto di agire, nonché le relative azioni e modalità di
esercizio”. In realtà la scelta del soggetto passivo appare obbligata: colui che si sarà
reso effettivamente responsabile del difetto di conformità; ma gli ordinamenti
giocando sulla chiusa hanno adottato le soluzioni più disparate.
b. Seconda osservazione: la versione Italia della direttiva ha complicato il quadro
adoperando l’espressione “rapporto contrattuale” per indicare il contesto entro il
quale individuare il soggetto passivo dell’azione riconosciuta al venditore finale.
Formula molto astratta che genera il rischio di restringere la cerchia dei possibili
responsabili.
Il legislatore italiano per fortuna ha ignorato la trappola linguistica. L’art. 131
cod.cons. riconosce al venditore finale, che abbia ottemperato ai rimedi esperiti dal
consumatore, la facoltà di “agire, entro un anno dall’esecuzione della prestazione,
in regresso nei confronti del soggetto o dei soggetti responsabili, per ottenere la
reintegrazione di quanto prestato”. La disposizione in esame prevede, quindi, il
verificarsi di due presupposti: a. dal lato del venditore: l’aver soddisfatto le pretese
del consumatore; b. dal lato del legittimato passivo: l’avere dato causa con una
propria azione od omissione al difetto di conformità. Così facendo configura un
autentico diritto di regresso. Detta scelta normativa contribuisce a sfatare un luogo
comune, ossia che il regresso necessariamente presupponga un vincolo solidale tra
legittimato attivo e legittimato passivo e conferma l’idea che detto diritto costituisca
una forma giuridica più astratta e duttile del diritto di rivalersi sul sostituito.
Va ricordato inoltre che l’art. 130 non contempla tra i rimedi a favore del
consumatore la misura risarcitoria. L’eventuale risarcimento del danno esula, quindi,
dallo speciale diritto di regresso di cui all’art. 131 ed il venditore finale potrà
ottenerne ristoro, ma soltanto dal proprio dante causa e in virtù dell’ordinaria tutela
contrattuale.
Da segnalare che in Germania il regresso risulta ancorato al singolo rapporto contrattuale
e posto a corredo della disciplina generale della vendita (il venditore può rivolgersi solo al
dante causa, per il rimborso delle spese di riparazione e sostituzione, in virtù delle
ordinarie azioni contrattuali connesse alla garanzia per vizi o a titolo di risarcimento del
danno). In Austria è riconosciuto al venditore il diritto di rivolgersi soltanto al proprio dante
causa, ma può agire tramite le tutele riconosciute al consumatore.
Garanzia convenzionale
La garanzia convenzionale (o commerciale) ha titolo nel contratto di vendita e si traduce in
una manifestazione impegnativa di volontà da parte del venditore, che assume la forma
giuridica di un impegno contrattuale e ulteriore rispetto a quello, di fonte legale, relativo
alla conformità del bene al contratto. Il fondamento volontario dell’istituto emerge dalla
86
terminologia dell’art.6 dir. 99/44 ove di riferisce ad un vincolo giuridico relativo alla
“persona che offre”. Un connotato particolare di questo tipo di garanzia è costituito dal suo
collegamento a specifiche anomalie del bene: secondo il secondo comma della
disposizione in esame tale “garanzia deve indicare in modo chiaro e comprensibile
l’oggetto”, ove per oggetto si intende non solo il contenuto della garanzia, ossia i rimedi
attribuiti al compratore, la durata e l’estensione territoriale, ma anche i presupposti
oggettivi in presenza dei quali tale garanzia diviene efficace; presupposti oggettivi che si
identificano con le la difformità alle caratteristiche individuate non solo in base alla
descrizione contenuta nel contratto e alle dichiarazioni pubbliche, ma anche con specifico
riferimento alla dichiarazione di garanzia convenzionale e alla relativa pubblicità. La
garanzia convenzionale costituisce una forma di tutela complementare e ulteriore a favore
del consumare; proprio per ciò deve risultare chiaro che la garanzia lascia impregiudicati i
diritti legali del consumatore: al fine di scongiurare il rischi che il consumatore si concentri
sulla garanzia convenzionale e tralasci di avvalersi della garanzia legale potenzialmente più
favorevole, l’art. 6 dispone che “la garanzia deve indicare che il consumatore è titolare di
diritti secondo la legislazione nazionale applicabile disciplinante la vendita dei beni di
consumo e specificare che la garanzia lascia impregiudicati tali diritti”. Il quinto comma di
tale disposizione individua ulteriori requisiti formali e ne precisa l’irrilevanza ai fini della
validità di tale dichiarazione, cosicché il consumatore può continuare ad avvalersi della
garanzia stessa e esigerne l’applicazione.
Nel diritto italiano il carattere accessorio e volontaristico dell’istituto emerge dalla
definizione accolta dall’art. 128,2 lett. e) cod. cons. ove si parla di “garanzia convenzionale
ulteriore” e la si descrive come “un qualsiasi impegno di un venditore o di un produttore,
assunto nei confronti del consumatore senza costi supplementari, di rimborsare il prezzo
pagato, sostituire, riparare o intervenire altrimenti sul bene di consumo, qualora esso non
corrisponda alle condizioni enunciate nella dichiarazione di garanzia e nella relativa
pubblicità”. La disciplina specifica è contenuta nell’art. 133 cod. cons., il quale riproduce il
contenuto dell’art. 6 della direttiva.
I caratteri della volontarietà e specificità sono presenti anche nell’ordinamento francese ed
in quello olandese.
La Spagna ricalca il contenuto dell’art. 6 dir. 99/44.
87
LA VENDITA INTERNAZIONALE DI BENI MOBILI
La Convenzione di Vienna del 1980 (ratificata da oltre 50 stati, compresi diversi paesi
in via di sviluppo; tra essi non figura la Gran Bretagna) costituisce il diritto applicabile
alla vendita internazionale (cioè a quei contratti di vendita le cui parti hanno la sede
d’affari in paesi differenti), salvo le ipotesi in cui le parti prevedano esplicitamente il diritto
nazionale applicabile o richiamino con clausola compromissoria la lex mercatoria ( il diritto
spontaneo costituito essenzialmente da consuetudini e da statuti corporativi).
In particolare tale convenzione disciplina taluni aspetti problematici del commercio
internazione e in particolare: la conformità del bene, i rimedi a disposizione del
compratore, il passaggio del rischio (restano esclusi altri aspetti tra cui quelli inerenti alla
validità del contratto, dal momento che i diversi ordinamenti presentano discipline
totalmente difformi in materia e gli stati sono restii a limitazioni della propria sovranità di
tal sorta). La conseguenza di questa incompletezza (ad es. con riguardo al calcolo degli
interessi da applicare a somme dovute a titolo di risarcimento) della disciplina CISG è che
per le questioni non disciplinate dalla convenzione il giudice interno dovrà fare riferimento
al diritto applicabile secondo le comuni regole internazionalprivatistiche ovvero dovrà
utilizzare i <<principi generali>> della CISG.
L’applicabilità della CISG può addirittura condizionare il problema della giurisdizione; ad es.
in un caso in cui un venditore italiano di frigoriferi si era rivolto ad un giudice italiano per
ottenere il pagamento dall’acquirente francese, la Corte di Cassazione (sent. 7488/2004),
applicando l’art.5 della Convenzione di Bruxelles, in virtù della quale ai fini della
giurisdizione rileva il luogo di esecuzione dell’obbligazione, ha ritenuto che il prezzo
dovesse esser pagato presso il domicilio del venditore ex art.57 CISG, dichiarando la
giurisdizione del giudice italiano.
Il modello internazionale e quello europeo a confronto
La CISG ha assunto il ruolo di modello e paradigma di riferimento rispetto ad altre
normative, oltre che ai PDEC, in particolare ala disciplina della vendita di beni mobili in
Europa; analogamente alla direttiva europea della vendita di beni di consumo, prevede
l’obbligo di consegnare beni conformi al contratto e tra i rimedi la riparazione e la
sostituzione.
Ma nell’ambito della CISG riparazione e sostituzione sono congegnati in termini di facoltà
per il venditore (art. 48), dal momento che per la convenzione il compratore è anch’esso
un professionista. Al venditore è riconosciuto il diritto di rimediare all’inadempimento in
tempi ragionevoli, in ogni caso il compratore può chiedere la risoluzione se
l’inadempimento è essenziale (a differenza della disciplina europea, tale rimedio non è
subalterno ai rimedi conservativi, ma prevale sull’interesse del venditore di mantenere il
contratto). Inoltre la direttiva esclude un tale livello di gravità dell’inadempimento, ma al
contempo non offre il rimedio specifico se esso risulta sproporzionato o impossibile.
Sembrerebbe, quindi, che nella CISG tra rimedio correttivo e risolutivo non vi sia gerarchia
ma che siano rimedi alternativi. In realtà l’inadempimento si qualifica essenziale solo
laddove l’intervento correttivo non sia possibile o risulti eccessivamente gravoso. Sul punto
la giurisprudenza sulla CISG sembra costante tutte le volte in cui afferma che anche il più
grave dei vizi non dà luogo ad inadempimento essenziale se il vizio è oggettivamente
eliminabile e v’è una disponibilità soggettiva del venditore ad intervenire. Pertanto, come
nella vendita al consumo europea, ove la risoluzione non può chiedersi se il rimedio
88
specifico è possibile e meno costoso, anche qui alla risoluzione del contratto può ricorrersi
colo come ultima ratio. I due modelli prevedono, quindi, un sistema in cui il rimedio
conservativo è prevalente su quello risolutivo.
Il termine per la denuncia del difetto di conformità.
Ai sensi dell’art. 43 CISG il compratore è tenuto a dare notizia del difetto di conformità del
bene entro un termine ragionevole (decorso il quale non può più accedere ai rimedi di tipo
conservativo; ovviamente la ragionevolezza va valutata alla luce del rimedio di cui ci si
vuole avvalere). L’interpretazione giurisprudenziale appare piuttosto rigida, specie ove il
tribunale riconduce alla scadenza del termine non soltanto la preclusione del rimedio
risolutivo, ma anche l’impossibilità di accedere a rimedi di tipo conservativo, come la
riduzione del prezzo o il risarcimento danni. Deve segnalarsi una singolare decisione di un
giudice austriaco, secondo cui il compratore, che non abbia denunciato entro un termine
ragionevole il difetto di conformità, può comunque esercitare l’azione di riduzione del
prezzo addirittura ottenendo un abbattimento totale della somma dovuta.
I rimedi.
L’azione di adempimento e di esatto adempimento sono ammissibili solo se sussistano una
serie di condizioni esterne e interne al diritto convenzionale (per la sostituzione si tratta
dell’inadempimento essenziale ed una richiesta fatta entro un periodo di tempo
ragionevole; per la riparazione della ragionevolezza della richiesta). Se sussistono le
condizioni interne, il giudice non è, per ciò solo, tenuto ad ordinare l’esatto adempimento
“a meno che non lo farebbe in virtù della sua legge nazionale” (art.28). l’ammissibilità del
rimedio specifico è in tal modo condizionata dalla presenza di un consenso dello Stato.
89
IL
CREDITO AL CONSUMO
(DISCIPLINA
MODIFICATA DALLA NUOVA DIRETTIVA
2008)
LA NOZIONE
Il credito al consumo rappresenta un’importante canale di finanziamento per il
soddisfacimento della domanda di beni, in particolare durevoli (ad es. mezzi di trasporto,
elettrodomestici..), i cui costi superano il limite di reddito del consumatore, mediante il
differimento temporale di pagamento.
Per far fronte a tali esigenze lo strumento giuridico utilizzato, in un primo momento, è
rappresentato dalla vendita a rate con riserva di proprietà (caratterizzato dalla separazione
del godimento immediato del bene dall’acquisto della proprietà). Lo scenario è destinato a
mutare a seguito della crescita dei consumi e di una sempre maggiore propensione
all’indebitamento. Oggi, poiché il fornitore medio non è più in grado di anticipare le risorse
necessarie all’operazione di finanziamento, il meccanismo del finanziamento allora
fuoriesce dallo schema del rapporto bilaterale e assume strutture trilaterali (fornitore/
finanziatore imprenditore-terzo/ consumatore).
La scomposizione dei rapporti giuridici ha determinato una prassi contrattuale
caratterizzata da alcune costanti:
- il finanziatore si riserva la facoltà di decidere se accordare o meno il prestito all’esito di
un’indagine sulle condizioni economiche del richiedente;
- la somma viene corrisposta direttamente al venditore e non al consumatore;
- il finanziatore si cautela contro il rischio di insolvenza mediante una garanzia reale (di
norma, l’ipoteca);
- il rimborso è a rate mensili che comprendono la quota di capitale e gli interessi
normalmente a un tasso annuo normalmente soggetto a variazione nel corso del rapporto;
Ne sono derivate ricadute poco favorevoli al consumatore:
1. Inopponibilità al finanziatore delle eccezioni inerenti al contratto di compravendita;
Aggiramento della normativa sulla vendita con riserva di proprietà.
La disciplina comunitaria del credito al consumo è contenuta nella dir. n°87/102,
modificata dalle direttive n°90/88 e 98/7 e confluita in Italia nella legge n°142/92, in forte
ritardo rispetto agli altri Stati membri (l’adeguamento si deve con probabilità al passaggio
dell’attività bancaria dal regime pubblicistico al mercato); le norme italiane di attuazione
sono confluite negli artt. 121-128 bis TUB e negli artt. 40-44 cod. cons. In materia è
intervenuta la direttiva n°2008/48.
L’attuazione della dir. 87/102 nel panorama europeo.
La direttiva n°87/102 risulta oggi ampiamente recepita dai Paesi membri, tuttavia il
procedimento di armonizzazione è risultato imperfetto a causa della persistenza di
diversità nelle discipline nazionali, soprattutto sul versante dell’individuazione dell’ambito di
applicazione:
- Francia: legge madre risale al 1966 e estende la tutela anti-usura ai crediti concessi in
occasione di vendite a rate; solo nel 1978 maggiore effettività nella protezione offerta
al’utente di servizi finanziari al consumo (vennero introdotti i doveri d’informazione, il
recesso di pentimento entro sette giorni dall’accettazione dell’offerta preliminare e
modificato il contenuto minimo del contratto).
90
- Germania: il diritto tedesco vanta un primato, infatti la prima legge in materia è del
1894, poi l’AGBG del 1976 sulle condizioni generali del contratto. Ruolo di primo piano è
giocato dalla giurisprudenza di merito e legittimità in via di concretizzazione della clausola
generale di buona fere-correttezza.
La disciplina italiana: l’ambito di applicazione e i limiti.
In Italia: la disciplina di recepimento (l. 154/92) e quella sulla trasparenza bancaria (l.
142/92) sono coeve e ciò ha posto problemi di coordinamento sanati dal TUB (testo unico
bancario), che ha incluso le discipline nel Titolo IV sulla trasparenza delle condizioni
contrattuali.
L’art.121,1 TUB rispetto alla direttiva 87/102 ha accolto una nozione più ampia di credito
al consumo: Per credito al consumo si intende la concessione, nell'esercizio di un'attività
commerciale o professionale, di credito sotto forma di dilazione di pagamento, di
finanziamento o di altra analoga facilitazione finanziaria a
favore di una persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale o
professionale eventualmente svolta (consumatore)”. L’ampiezza della disposizione in
esame ha comportato la possibilità di ricondurre alla disciplina una pluralità di fattispecie
negoziali eterogenee. La norma non delinea uno schema contrattuale unitario, quanto una
causa di credito al consumo, lasciando ampi margini alla possibilità di tradurre tale
funzione economico-individuale in forme contrattuali diverse tra loro. Elementi identificativi
sono: la concessione di credito o la vendita a rate; il requisito soggettivo della qualifica di
consumatore dell’acquirente-finanziato; il profilo funzionale dello scopo estraneo all’attività
imprenditoriale eventualmente svolta.
Rientrano di certo nella nozione:
a. Vendita con riserva di proprietà, cui l’art.121 TUB fa riferimento con l’espressione
“credito sotto forma di dilazione di pagamento”;
b. Contratto di credito al consumo per acquisto di beni e prestazione di servizi: mutuo
di scopo, i contratti della prassi bancaria e finanziaria(tipici ed atipici, quali il credito
documentario e l’anticipazione bancaria garantita), il prestito personale, la cessione
del quinto dello stipendio;
c. Leasing traslativo al consumo (o impuro, contratto preordinato al trasferimento del
bene al termine del rapporto dietro pagamento del prezzo di opzione, il permanere
a tale scadenza di un apprezzabile valore residuo del bene superiore alla somma
pattuita per l’opzione fa sì che il canone di leasing assuma il valore di corrispettivo
del trasferimento della proprietà. Il contratto differisce dal leasing puro preordinato
al mero godimento del bene).
Inoltre mentre la direttiva contempla anche la “promessa” di credito, la disposizione TUB
presuppone l’avvenuta conclusione del contratto, ma non vi è alcuna ragione in un
ambiente regolato dall’atipicità di escludere il preliminare di credito al consumo.
Il creditore-finanziatore è colui che concede il credito “nell’esercizio di un’attività
commerciale o professionale”. Il secondo comma dell’art. 121 individua un elenco di
soggetti a cui è riservato l’esercizio del credito (banche, intermediari finanziari e i soggetti
autorizzati alla vendita di beni o di servizi nel territorio della Repubblica..). la disciplina
viene estesa anche a coloro che svolgono attività di intermediazione strumentale alla
concessione del credito da parte del finanziatore e, pertanto, gli obblighi di forma, di
informazione e di consegna di copia del documento contrattuale sono applicabili anche ai
rapporti tra consumatore e mediatore, il quale, in ossequio al collegamento negoziale,
vedrà esigibile il proprio credito al compenso soltanto ad erogazione del credito avvenuta.
91
La disposizione, inoltre, stabilisce che il destinatario finale del finanziamento (debitorefinanziato) deve essere un consumatore. Il giudizio di estraneità dello scopo all’esercizio
dell’attività imprenditoriale o professionale non presuppone l’espressa menzione nel
contratto della finalità al consumo del credito da part del debitore-finanziato e addirittura,
nel caso di silenzio del regolamento contrattuale, l’opinione pressoché unanime ritiene che
operi a favore del debitore una presunzione di “estraneità dello scopo”, tale da imporre al
creditore che voglia evitare l’applicazione delle norme sul credito al consumo l’onere della
prova contraria; in tal modo viene rafforzata la posizione del debitore e si ottiene il
vantaggio di costringere il creditore ad una più adeguata attività di informazione al fine di
indurre il debitore a rendere palese lo scopo dell’operazione di finanziamento. Alcune
critiche sono state mosse alla scelta del legislatore italiano di delimitare la figura del
consumatore alle sole persone fisiche, in quanto si ritiene che non vi sia ragione di non
considerare consumatore un ente non economico o un ente economico che agisca per fini
non istituzionali, ossia estranei all’attività imprenditoriale o professionale. Inoltre la
soluzione adottata dal legislatore può sollecitare condotte di interposizione simulatoria, con
le quali una persona fisica acquista formalmente a suo nome e per suo conto, ma in realtà
si rende tramite dell’acquisto dell’ente. L’esame dell’esperienza europea rivela sul punto
soluzioni divergenti: il diritto inglese estende la disciplina anche agli enti privi di
personalità giuridica; il diritto tedesco consente l’accesso al credito anche a imprenditori
per la nascita o l’avvio dell’attività professionale o commerciale, entro il limite dei 50.000€.
Le fattispecie escluse.
Ai sensi dell’art.121,4 restano sottratti alla disciplina del credito al consumo i:
1. Finanziamenti di importo inferiore e superiore ai limiti stabiliti dal comitato
interministeriale per il credito e il risparmio (CICR); detti contratti sollevano
perplessità per l’attitudine a favorire pratiche elusive della disciplina del credito al
consumo mediante la disgregazione di un’unica operazione di finanziamento in una
pluralità di contratti di credito di importo inferiore al limite minimo. Secondo parte
della dottrina questo rischio non esige una specifica disciplina anti-elusione, giacché
in via interpretativa è consentito valutare unitariamente una pluralità di contratti di
importo inferiore al limite legale intercorsi tra le medesime persone in un arco
temporale non troppo esteso.
2. Contratti di somministrazione . agli art. 1559 ss. c.c., purché in forma scritta e
consegnati in capo al consumatore. Rappresentano una delle ipotesi più
controverse a causa degli errori contenuti nel testo normativo; infatti, il legislatore
riconduce la categoria ai contratti disciplinati agli artt. 1559 e ss. del c.c., mentre la
disciplina comunitaria fa riferimento ai “contratti relativi alla prestazione continuata
di un servizio, pubblico o privato, in base ai quali il consumatore ha diritto di
versare il corrispettivo di tale servizio, per la durata della fornitura”. Ciò ha sollevato
il dubbio di includere o meno nella disciplina la somministrazione di cui all’art. 1677
del c.c.; ha elevato il rispetto di requisiti meramente formali (quali la redazione per
iscritto e la consegna di copia del documento) a condizione sufficiente di
un’adeguata tutela, mentre la ratio della dir. 87/102 è ispirata al primato del
controllo contenutistico del contratto o dell’insieme dei contratti collegati; ha
assoggettato i contratti di somministrazione privi della forma scritta alla disciplina
del credito al consumo, che paradossalmente impone l’adozione di tale forma.
92
3. Finanziamenti rimborsabili in una nuova soluzione entro 18 mesi, con il solo
eventuale addebito di oneri non calcolati in forma di interesse, purché previsti nel
loro ammontare;
4. Finanziamenti privi di corrispettivo di interessi o altri oneri, fatta eccezione per il
rimborso delle spese vive eventualmente e documentate. Detta ipotesi amplia
l’esenzione contenutistica dell’ipotesi di cui al punto 3; la loro sottrazione si
giustifica perché si tratta di forme di finanziamento essenzialmente gratuite.
5. Finanziamenti destinati all’acquisto o ala conservazione di un diritto di proprietà su
di un bene immobile edificato o da edificare, ovvero all’esecuzione di opere di
restauro o di miglioramento;
6. Contratti di locazione, a condizione che prevedano espressamente la clausola che in
nessun momento la proprietà della cosa locata possa trasferirsi, con o senza
corrispettivo, al locatario; ciò ribadisce a contrario l’estensione della tutela al
leasing traslativo al consumo.
7. Contratti di apertura di credito in conto corrente non connessi all’uso della carta di
credito. A loro riguardo si registra un’evidente divergenza tra dir. 87/102 e TUB. La
dir. ne prevede l’esclusione dalla disciplina nel credito al consumo. L’art. 126 del
TUB ne appronta, viceversa, una disciplina speciale che prevede l’indicazione a
pena di nullità: a. del massimale e dell’eventuale scadenza del credito; b. del tasso
di interesse annuo e del dettaglio analitico degli oneri applicabili dal momento della
conclusione del contratto, oltre i quali nulla è dovuto, nonché delle condizioni che
possono determinare la modifica durante l’esecuzione del contratto stesso; c. le
modalità di recesso dal contratto.
8. Fideiussione. È controverso se lo schema contrattuale della fideiussione sia idoneo a
realizzare la causa del credito al consumo. Sul contrasto si è pronunciato la CGE che
ha ritenuto la garanzia fideiussione estranea alla dir. n°87/102 sulla base di un
nozione ristretta di contratto di credito, giustificata alla luce delle molte fattispecie
espressamente escluse.
I doveri di informazione.
Ratio della disciplina del credito al consumo è riequilibrare i rapporti di forza contrattuale
tra finanziatore e consumatore.
1. ll tasso annuo effettivo globale. Sul piano della disclosure delle informazioni
rilevanti ai fini dell’adozione di scelte consapevoli da parte del cliente-consumatore.
La fase delle trattative è ampiamente disciplinata dal TUB che affianca alla buona
fede e alla correttezza codicistiche svariate presunzioni in tema di pubblicità delle
operazioni di credito al consumo; in particolare l’art.123 estende a tali operazione
gli obblighi imposti per la sollecitazione del pubblico alle operazioni e servizi bancari
imposti per la sollecitazione del pubblico di operazioni e servizi bancari e finanziari
dall’art.116, che prescrive l’obbligo di pubblicizzare, in ciascun locale aperto al
pubblico del soggetto abilitato, i tassi di interesse, i prezzi, le spese per le
comunicazioni alla clientela e ogni altra condizione economica relativa alle
operazioni e ai servizi offerti, ivi compresi gli interessi di mora e ove si tratti di
operazione di finanziamento anche il tasso effettivo globale medio. A tali elementi
l’art.123 co.1 affianca il tasso annuo effettivo globale (il TAEG) e il co.2 ne prevede
l’inserzione anche negli annunci pubblicitari e nelle offerte, con qualsiasi mezzo
effettuato.
93
Con tasso annuo effettivo globale si intende il costo totale del credito a carico del
consumatore espresso in percentuale annua della somma concessa e comprensivo
degli interessi e oneri da sostenere per l’utilizzazione del credito (art.122). le
modalità i calcolo, gli elementi da computare e la stesa formula di calcolo devono
esser stabilite con delibera dal CIRC (Comitato Interministeriale per il Credito ed il
Risparmio). Il TAEG è un tasso puramente virtuale poiché non viene utilizzato per
calcolare i ratei di restituzione della somma, ma costituisce un mero indicatore ossia
una cifra rappresentativa del costo globale del prestito, utile a fini comparatistici. Il
tasso nominale, al contrario, esprime il costo annuo del finanziamento, ma non
tiene conto di due elementi: il tempo della scadenza degli interessi (la c.d. tipologia
del rimborso) e le spese dell’operazione.
Il TAEG ha il pregio di esprimere in forma elementare il costo finanziario
dell’acquisto e si rileva indicato per venir incontro all’esigenza di comprensione del
cliente sprovvisto di competenze tecniche per il discernimento tra più offerte di
credito.
2. Il contenuto minimo del contratto
Sul versante della predisposizione del contenuto minimo del contratto come presidio
contro formulazioni oscure e reticenti del regolamento contrattuale, l’art.124 TUB
impone la forma scritta ad substantiam e l’obbligo di consegnare un esemplare del
contratto al cliente. Per la violazione del requisito di forma è prescritta la nullità
relativa di protezione; di contro, per la violazione dell’obbligo di consegna non è
previsto alcun rimedio. Tale omissione ha dato luogo alle ricostruzioni più varie:
dall’inopponibilità delle condizioni sfavorevoli al consumatore e sostituzione
automatica di clausole ex art.1339 c.c. al risarcimento del danno in capo al
finanziatore.
Al secondo comma è delineato il contenuto minimo inderogabile, esso comprende
oltre alle informazione relative al TAEG, anche indicazioni circa l’ammontare e le
modalità di finanziamento, il numero, gli importi e le scadenze delle singole rate;
eventuali garanzie richieste. Se il contratto di credito al consumo ha ad oggetto
l’acquisto di beni e servizi determinati, sono richiesti: la descrizione analitica dei
beni e dei servizi, l’indicazione del prezzo di acquisto in contanti, del prezzo stabilito
dal contratto e dell’ammontare dell’eventuale acconto, la specificazione delle
condizioni per il trasferimento di proprietà, nei casi in cui il passaggio della proprietà
non sia immediato. L’art.124 TUB è mal formulato sul piano rimediale: mentre il
co.2 tace le conseguenze da riconnettere all’inosservanza dei vincoli di contenuto in
esso previsti, il co.3 specifica che l’assenza delle indicazioni ulteriori prescritte in
caso di credito per l’acquisto di beni o servizi determinati produca la nullità relativa
del contratto. Da un’interpretazione complessiva della norma possiamo dedurre che
la nullità colpisce il contratto quale che sia la parte del contenuto inderogabile non
rispettata, perché sarebbe irragionevole ritenere che la violazione del contenuto
eventuale venga sanzionata più severamente dell’inosservanza delle disposizioni
generali di contenuto. La mancanza di un apposito rimedio al co. 2 si può
giustificare forse con il ricorso alla sostituzione automatica di clausole prevista dal
co.5 con riguardo alle indicazione del co.2: il mancato inserimento del contratto
determina allora nullità soltanto parziale ex art. 1419, co.2, c.c. ulteriore previsione
di nullità parziale riguarda le clausole di rinvio agli usi per la determinazione delle
condizioni economiche al prestito, sicché si considerano non dovute le somme
94
richieste e addebitate al consumatore senza un’espressa previsione contrattuale
(legato al principio di non determinazione per relationem del contenuto del
contratto).
3. Il collegamento negoziale e il recesso
Sul versante del diritto di recesso. L’art.125 co.2 TUB attribuisce al solo
consumatore la duplice facoltà di adempiere anticipatamente e recedere dal
contratto ed in entrambi i casi senza alcuna penalità. La prima regola mira a porre
un argine ala prassi dell’imposizione di penali spesso assai gravose per l’ipotesi di
restituzione anticipata ed in un’unica soluzione della somma, al fine di ristorare il
finanziatore dalla perdita degli interessi sulle ulteriori rate non scadute.
Facoltà del consumatore di opporre, in caso di cessione di crediti nascenti dal
contratto di finanziamento, al cessionario del credito (ma non del contratto)” tutte
le eccezioni che poteva far valere nei confronti del cedente compresa l’eccezione di
compensazione anche in deroga dell’art.1248 c.c.” (art. 125 co.3 TUB). La ratio è di
evitare che la cessione dei crediti peggiori la posizione contrattuale del debitoreceduto, scongiurando il rischio di atti di disposizione dei crediti di natura
fraudolenta, finalizzati alla limitazione delle difese del consumatore. La disposizione
in esame riconosce, dunque, il collegamento negoziale.
La disposizione più improntata alla logica del collegamento negoziale è l’art.125, poi
confluita nell’art.42 cod. cons., che sancisce che “Nei casi di inadempimento del
fornitore di beni e servizi, il consumatore che abbia effettuato inutilmente la
costituzione in mora ha diritto di agire contro il finanziatore nei limiti del credito
concesso, a condizione che vi sia un accordo che attribuisce al finanziatore
l'esclusiva per la concessione di credito ai clienti del fornitore. La responsabilità si
estende anche al terzo, al quale il finanziatore abbia ceduto i diritti derivanti dal
contratto di concessione del credito”.
È esclusa la risoluzione del contratto a fronte dell’inadempimento di una sola rata
purché non superi l’ottava parte dell’intera somma, con conservazione del beneficio
del termine per le rate successive (art. 125 co.1).
L’estensione dell’art. 1525 c.c. ai contratti di credito al consumo muniti di garanzia
reale sul bene acquistato a favore del finanziatore viene ricondotta anche alla figura
del collegamento negoziale. La rilevanza di detto collegamento risiede nella
circostanza che l’art.125, co.1, considera il contratto di credito al consumo non
come un negozio con esclusiva causa di finanziamento, ma come un accordo volto
a realizzare una causa più ampia di scambio proprio in virtù della connessione
funzionale con il contratto di compravendita del bene acquistato con la somma
presa a mutuo. In realtà l’estensione della disciplina di cui all’art.1525 non è
giustificato dalla sussistenza di un collegamento negoziale, dal momento che di
quest’ultimo si potrebbe parlare se la norma l’esclusione della facoltà di risolvere il
contratto di credito a fronte di un collegamento non significativo valesse anche
nell’ipotesi di inadempimento del contratto collegato di compravendita e sancisse la
facoltà del debitore di risolvere il contratto di credito al consumo a seguito di
inadempimento del venditore o di violazione del contratto di compravendita, come
nell’ipotesi di bene affetto da difformità o di proprietà altrui. In realtà l’art.125
considera la figura di interdipendenza contrattuale. L’estensione dunque è dovuta al
fatto che la scissione del contratto di vendita con dilazione di pagamento in due
contratti distinti (vendita e mutuo) rischia di frapporre uno schema negoziale
95
rappresentato dal contratto di credito al consumo, grazie al quale è possibile
trasformare la vendita con patto di riservato dominio in una compravendita
semplice e aggirare la prescritta soglia minima dell’inadempimento di importo
superiore all’ottava parte del prezzo al fine dell’attivazione del rimedio della
risoluzione.
Il TUB non provvede a regolare gli effetti della risoluzione del contratto di credito al
consumo per inadempimento del mutuatario. La prassi negoziale ha elaborato
clausole contrattuali inique, che prevedono anche l’azione esecutiva sul bene. La
lacuna si potrebbe correggere ricorrendo all’applicazione dell’art.1526 c.c., che
sancisce l’obbligo del finanziatore di restituire le rate riscosse verso un “equo
compenso per l’uso della cosa” e salvo diritto al risarcimento danno, nonché
l’obbligo del debitore di restituire l’intera somma presa a mutuo.
Nei casi di inadempimento del fornitore, il consumatore che abbia preventivamente
effettuato la costituzione in mora può agire contro il finanziatore nei limiti del
credito concesso, a condizione che vi sia un accordo che attribuisca al finanziatore
l’esclusiva per la concessione di credito ai clienti del fornitore (art.125).
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IL CONTRATTO DI PACCHETTO TURISTICO
La nozione.
Inizialmente, in assenza di una specifica disciplina normativa dei “viaggi organizzati” (che
impongono agli operatori del settore di non limitarsi a svolgere il ruolo di semplici
intermediari per il trasporto ed il soggiorno del cliente, ma di organizzare anche una serie
di servizi complementari che vengono venduti contestualmente in un unico “pacchetto”),
una parte della dottrina e della giurisprudenza considerarono il contratto di viaggio come
appalto di servizi, altra parte invece come mandato, altra ancora alla promessa del fatto
del terzo (quest’ultima era forse la tesi più rispondente alla realtà).
Nel 1970, la materia trovò regolamentazione nella convenzione internazionale di Bruxelles
(CCV), che pose fine alle incertezze circa la natura del contratto, ma ebbe scarsa incisività
pratica dal momento che fu ratifica soltanto dal Belgio e dall’Italia (che tra l’altro si è
giovata di una riserva limitandone l’applicazione ai contratti di viaggio internazionali,
eseguiti totalmente o parzialmente in uno Stato diverso dallo Stato dove il contratto è
stato stipulato o da dove il viaggiatore è partito).Tale convenzione continua a trovare
applicazione in concorso con le altre.
A livello europeo, un ventennio dopo è stata emanata la direttiva 90/314, che si applica a
viaggi, vacanze e circuiti turistici <<tutto compreso>> (cioè la combinazione,
venduta o offerta ad un prezzo forfettario, laddove superi le 24 ore e comprenda una
notte, di almeno due elementi tra: trasporto, alloggio, altri servizi turistici non accessori al
trasporto o all’alloggio che costituiscono una parte significativa del tutto compreso)
venduti o offerti in vendita nel territorio della comunità. Scompare la distinzione
operata dalla CCV tra contratto di organizzazione e contratto di intermediazione di viaggio.
Il termine fissato per l’attuazione della dir. 90/314 era il 31 dicembre 1992, ma tale
termine è stato disatteso da molti Paesi membri in ragione della necessità di coordinare il
testo comunitario con la normativa previgente e nell’esigenza di compiere alcune scelte su
punti che il legislatore comunitario aveva preferito lasciare alla discrezionalità dei
legislatori nazionali. L’ampia discrezionalità ha prodotto numerose disarmonie tra i diversi
ordinamenti.
L’attuazione della direttiva in Italia.
L’Italia, come moltissimi altri Paesi, ha disatteso il termine previsto per l’attuazione della
direttiva, provvedendo con decreto legislativo soltanto nel 1995 e ora tale disciplina è
confluita agli artt. 82 ss. del codice del consumo.
Il codice disciplina la vendita o l’offerta di pacchetti turistici nel territorio nazionale (ambito
oggettivo) dall’organizzatore e il venditore di pacchetti turistici al consumatore (ambito
soggettivo). La norma si limita a definire l’organizzatore e il venditore come quei soggetti
che predispongono o vendono pacchetti turistici, senza prevedere il possesso
dell’autorizzazione governativa; il consumatore è così maggiormente garantito, mentre in
precedenza risultava sprovvisto di tutela nel caso in cui si rivolgesse a tour operator non
autorizzati.
E’ prevista la forma scritta in termini chiari e precisi, una copia della quale, sottoscritta o
timbrata dall’operatore, deve essere rilasciata al consumatore; viene individuato il
contenuto minimo, i doveri di informazione circa le modalità di svolgimento del viaggio, la
ricettività delle strutture e i diritti che spettano al viaggiatore.
L’art. 86, lett. d) attribuisce alla somma versata all’atto della prenotazione la qualifica di
“caparra”; il contratto si considera concluso nel momento della prenotazione mediante la
97
consegna della caparra. La norma desta perplessità in quanto prevede che “gli effetti di cui
all’art. 1385 c.c. non si producono qualora il recesso dipenda da fatto sopraggiunto non
imputabile, ovvero sia giustificato dal grave inadempimento della controparte”; detta
caparra è, infatti, da qualificarsi più correttamente come caparra penitenziale e non
confirmatoria, in quanto non legata al profilo dell’inadempimento ma a quello del recesso:
la caparra costituisce il corrispettivo del diritto di recesso liberamente esercitabile dal
consumatore, salvo le ipotesi di recesso giustificato che impongono al tour operator a
restituire la caparra (l’onerosità del recesso vien meno quando il consumatore se ne
avvalga a causa di una variazione contrattuale sgradita oppure a causa di un fatto
sopravvenuto a lui non imputabile o di un inadempimento grave dell’organizzatore e/o del
venditore). Analoga ratio ha giustificato la possibilità che il contratto preveda in caso di
recesso il pagamento da parte del consumatore di una multa penitenziale, cioè una
somma proporzionalmente crescente all’approssimarsi del viaggio.
L’organizzatore o il venditore hanno il potere di modificare successivamente le condizioni
del contratto: nel caso in cui ciò avvenga prima della partenza, tali variazioni devono
avvenire per iscritto, specificando le differenze di prezzo, garantendo al consumatore la
possibilità di recedere senza il pagamento di penale (è da considerarsi “significativo” anche
quella variazione che non comporti variazione i prezzo); nel caso in cui durante il viaggio
una parte essenziale dei servizi non possa essere effettuata l’organizzatore deve
predisporre adeguate soluzioni alternative se non comportino oneri per i consumatori
ovvero deve rimborsare il consumatore nei limiti della differenza tra le prestazioni
originarie e quelle effettuate, salvo il risarcimento danni e qualora le modifiche siano tali
da impedire la prosecuzione del viaggio il consumatore non le accetti per un giustificato
motivo, l’organizzatore è tenuto a fornirgli un mezzo di trasporto per il ritorno al luogo di
partenza o altro luogo convenuto e restituire la differenza tra le prestazioni previste e
quelle effettuate fino al rientro anticipato (art 91).
Il consumatore che recede dal contratto o che lo veda cancellato prima della partenza ha
diritto di usufruire di un altro pacchetto turistico di qualità equivalente o superiore senza
supplemento di prezzo (se di qualità inferiore avrà diritto anche alla differenza del prezzo)
o gli è rimborsata entro sette giorni lavorativi dal momento del recesso o della
cancellazione la somma di denaro già corrisposta (art 92). Gli artt. 93 ss. contengono la
disciplina della responsabilità da inadempimento dell’organizzatore e del venditore, i quali
rispondono altresì dei danni cagionati alla persona (art.94) e di quelli causati dagli altri
eventuali prestatori di servizi di cui si sono avvalsi, salvo il diritto di rivalsa (art.93, co.2). Il
tour operator può sottrarsi alla responsabilità qualora provi che l’inadempimento è dipeso
da impossibilità dovuta a causa a lui non imputabile, come ad es. lo sciopero dei servizi di
trasporto.
L’art 98 co. 1 prevede che ogni mancanza nell'esecuzione del contratto deve essere
contestata dal consumatore senza ritardo affinché l'organizzatore, il suo rappresentante
locale o l'accompagnatore vi pongano tempestivamente rimedio . Al secondo comma è
prevista la possibilità che entro dieci giorni lavorativi dalla data del rientro il consumatore
sporga reclamo tramite raccomandata all’organizzatore o al venditore; non si capisce a
cosa il reclamo possa servire. Inoltre è previsto l’obbligo per l’organizzatore e il venditore
di stipulare un’assicurazione per la responsabilità civile verso il consumatore. In caso di
insolvenza o fallimento dell’organizzatore o del venditore al fine di garantire comunque il
rimborso del prezzo versato nonché il rimpatrio del consumatore nel caso di viaggi
all’estero, è istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri un fondo nazionale di
garanzia (art.100).
98
L’inadempimento e l’adempimento sanante
La disciplina codicistica del pacchetto turistico è molto attenta alla fase dell’esecuzione del
contratto; gli stessi obblighi informativi, non riguardano solo la fase precontrattuale e
quella della conclusione del contratto, ma attengono anche al profilo dell’esecuzione
diventando uno dei presupposti per la configurazione della responsabilità contrattuale del
venditore o dell’organizzatore. La disciplina in esame va accomunata a quella della vendita
dei beni di consumo, per quanto le tecniche rimediali predisposte siano diverse: nella
vendita dei beni di consumo, la garanzia in forma specifica e nel pacchetto turistico il c.d.
adempimento sanante e il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale.
Gli articoli 91 e 92, anche se non inseriti tra le disposizioni sul mancato od inesatto
adempimento, prevedono una prima forma di reazione all’inadempimento del contratto
che si ispira al principio della tutela in natura delle posizioni contrattuali. L’art 91
prevedendo “soluzioni alternative per la prosecuzione del viaggio” allude a una sorta di
c.d. adempimento sanante, ossia alla possibilità concessa all’organizzatore di eliminare gli
effetti dell’inadempimento rilevante del contratto di pacchetto turistico tramite prestazioni
differenti poste in essere con condotte successive ma pienamente idonee a soddisfare
l’interesse iniziale del consumatore.
Anche l’art.92 contempla un’ipotesi di adempimento sanante: non vi è dubbio che la
cancellazione del pacchetto turistico costituisca un’ipotesi di inadempimento, altrettanto
non si può dire delle condizioni di attivazione del recesso, dove manca l’inadempimento. In
quest’ultimo caso piuttosto si può parlare di una garanzia in forma specifica volta a
realizzare l’interesse del consumatore, pur in assenza di vero e proprio inadempimento o
violazione del contratto e a prescindere dal titolo su cui si fonda la pretesa del
soddisfacimento dell’interesse, dal momento che essendoci stata risoluzione il titolo, e cioè
il contratto, è sciolto. Detto inquadramento è altresì confermato dall’ulteriore previsione
dell’art.92, co. 1, che, in alternativa attribuisce al consumatore il diritto alla restituzione
della somma già corrisposta, anch’esso riconducibile alla categoria della garanzia, nella sua
conformazione tradizionale di strumento di riequilibrio economico dell’affare.
È rigettata la ricostruzione della norma come ipotesi di risarcimento in forma specifica
perché il diritto di usufruire altro pacchetto non si fonda necessariamente
sull’inadempimento dell’organizzatore o venditore (presupposto essenziale invece per la
responsabilità contrattuale di cui il risarcimento costituisce l’effetto indefettibile) e in
secondo luogo, perché il rimedio risarcitorio assolve la funzione di riparare una perdita
tramite la rimozione delle conseguenze e non si può piegare alla realizzazione della diversa
funzione di attuare l’interesse creditorio rimasto insoddisfatto, funzione quest’ultimo
propria ella messa a disposizione di un pacchetto turistico sostitutivo.
Il rimedio dell’adempimento sanante presenta una portata più ampia di quella che emerge
dalle ipotesi sinora esaminate ed, infatti, l’art 96, co.2 e 98, co.1 si ispirano al principio
della correzione della prestazione e lo enunciano tramite un’accezione atecnica del termine
“rimedio”, con cui il legislatore on allude a uno specifico mezzo di protezione, ma di tale
idea si limita a cogliere il tratto categoriale di strumento di reazione ad un bisogno di
tutela.
Secondo l’art 96, co. 2 “l'organizzatore o il venditore apprestano con sollecitudine ogni
rimedio utile al soccorso del consumatore al fine di consentirgli la prosecuzione del viaggio
( in caso di inadempimento o inesatto adempimento), salvo in ogni caso il diritto al
risarcimento del danno nel caso in cui l'inesatto adempimento del contratto sia a questo
ultimo imputabile”. Non è richiesto l’accertamento dello stato soggettivo del venditore o
99
dell’organizzatore (dolo o colpa), come invece era originariamente previsto dalla direttiva
90/314. In ogni caso, ai sensi dell’art 96 1 co non sussiste responsabilità quando la
mancata o inesatta esecuzione del contratto è imputabile al consumatore o è dipesa dal
fatto di un terzo a carattere imprevedibile o inevitabile, ovvero da un caso fortuito o di
forza maggiore. L’intervento correttivo si attiva a prescindere dal sindacato sull’imputabilità
dell’inadempimento, che entra in ballo solo se il consumatore intenda esigere anche il
risarcimento del danno che residua a seguito dell’adempimento sanante.
Il primo comma dell’art.98, co. 2, si presenta invece come una norma di chiusura e
riconosce al consumatore la possibilità di sporgere reclamo, mediante l’invio di una
raccomandata, con avviso di ricevimento, all’organizzatore o al venditore del pacchetto
turistico entro e non oltre 10 giorni lavorativi dalla data del rientro nel luogo di partenza.
La logica è quella della conservazione dell’affare e della priorità dei rimedi in natura
rispetto al rimedio risarcitorio. La figura dell’adempimento sanante è contemplata nel c.c.
agli artt. 1662, co.2, in materia di appalto e all’art.2224 c.c. in materia di contratto d’opera
professionale.
La responsabilità da inadempimento ed il danno non patrimoniale contrattuale.
Per ciò che attiene al profilo risarcitorio, dobbiamo fare riferimento all’art 93 che,
analogamente al 1218 c.c.(responsabilità del debitore), afferma che in caso di mancato o
inesatto adempimento delle obbligazioni assunte con la vendita del pacchetto turistico,
l'organizzatore e il venditore sono tenuti al risarcimento del danno se non provano che il
mancato o inesatto adempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione
derivante da causa a loro non imputabile. Si tratta di una responsabilità concorrente, ma
non solidale perché l’organizzatore e il venditore rispondono ciascuno secondo le rispettive
responsabilità. La disposizione si è avvalsa della libertà concessa agli Stati membri di
predisporre tanto un sistema di responsabilità esclusiva quanto congiunto (solidale o
concorrente). La disposizione non indica un criterio idoneo a canalizzare la responsabilità
verso una delle due figure; ciò rischia di tradursi in un indebolimento della posizione del
consumatore finché non vengano elaborate regole idonee a selezionare il soggetto da
rendere responsabile. Saranno altresì responsabili per il fatto dei loro ausiliari (salvo il
diritto di rivalersi nei loro confronti a titolo di risarcimento). Inoltre godono della
surrogazione legale in tutti i diritti del consumatore e le azioni di quest’ultimo nei confronti
di terzi responsabili e a tal fine il consumatore deve fornire integralmente le informazione,
i documenti e quanto altro utile in suo possesso. Il contratto di viaggio copre il
consumatore contro danni sia di natura patrimoniale che non patrimoniale; il risarcimento
è assoggettato ai limiti di liquidazione stabiliti dalle convenzioni internazionali (limitazioni
non derogabili in peius, pena la nullità della relativa clausola contrattuale) (art 94).
*il danno non patrimoniale, rientra ormai pienamente nell’alveo della responsabilità
contrattuale. In particolare la Corte di giustizia europea, chiamata a pronunciarsi in via
pregiudiziale sull’interpretazione dell’art. 5 della dir. 90/314, sulla questione se in linea di
principio il consumatore ha diritto al risarcimento del danno morale derivante
dall’inadempimento o dalla cattiva esecuzione della prestazione fornita in occasione di un
<<viaggio tutto compreso>>, ha qualificato il c.d. danno da vacanza rovinata, e cioè il
disagio subito dal consumatore o la vanificazione del suo interesse a godere di un periodo,
di svago, relax etc..
Il BGB al § 561 ne fa espressa menzione stabilendo che qualora il viaggio non abbia luogo
del tutto o rimanga pregiudicato in maniera rilevante il viaggiatore può pretendere anche
100
un congruo indennizzo pecuniario per il fatto di avere impiegato in modo infruttuoso il
periodo della vacanza.
In Italia negli artt. 93 e 94 cod. cons. vi è un riconoscimento analogo, ma la dottrina e la
giurisprudenza affermano la risarcibilità del danno da vacanza rovinata quale perdita
connessa alla violazione di interessi contemplati nella lex contractus e rientranti nello <<
SCOPO DI PROTEZIONE>> dei comportamenti dedotti in obbligazione.
Il trasporto aereo.
Bisogna richiamare, per una più completa disciplina dei viaggi organizzati, le norme
comunitarie sul trasporto aereo, che si aggiungono alle norme della dir. 90/314,
disciplinando specifici aspetti del servizio di trasporto aereo per ovviare alle più frequenti
forme di inadempimento alimentate dall’intensificarsi del trasporto aereo. In particolare, il
regolamento 91/295 regola Il fenomeno dell’overbooking, ossia la prassi di accettare
un numero di prenotazioni superiore ai posti disponibili ( L’overbooking è a sua volta la
risposta all’abitudine statisticamente accertata dei frequent flyers di prenotare il posto su
diversi voli, riservandosi all’ultimo momento di prenotare il posto su diversi voli) ;in questo
caso si configurarsi la responsabilità del vettore nei confronti del passeggero. Il
regolamento 04/261 (che si applica sia ai voli di linea che ai voli charter) si occupa
della tutela dei diritti dei passeggeri, ad esempio nelle ipotesi di cancellazione del volo,
ritardo prolungato... Tale regolamento offre una tutela minima e non esclusiva da
integrare con altre fonti nazionali e non. In Italia vengono integrati dal c.c. , il cod. nav. E
il cod. cons.) e con le conv. Internaz.
101
L’ASSICURAZIONE
LE REGOLE COMUNITARIE DI ARMONIZZZAZIONE .
La normativa comunitaria ha lo scopo di armonizzare la disciplina di vigilanza dell’attività
assicurativa, condizione indispensabile per la creazione del mercato unico. La dir. 92/49
contiene la disciplina per i rami assicurativi diversi dai rami vita e la dir. 02/83 per i rami
assicurativi vita.
Un primo gruppo di norme ha lo di garantire al contraente un’informazione adeguata nella
fase precontrattuale. Le discipline nazionali sono orientate a garantire l’informazione
precontrattuale sulle circostanze del rischio da assicurare. Le norme comunitarie, invece,
impongono alle imprese particolari obblighi di informazione precontrattuale, specialmente
nelle assicurazione dei rami vita, nei quali assume un rilievo sempre più importante il
profilo finanziario dell’operazione. L’informazione è molto più complessa e dettagliata per i
contratti dei rami vita.
Prima della conclusione di un contratto di assicurazione dei rami assicurativi diversi dai
rami vita, il contraente deve essere informato:
a. della legislazione applicabile al contratto e se le parti hanno libertà di scelta
dovranno essere informate di detta facoltà;
b. delle disposizioni relative ai reclami dei contraenti, compresa l’eventuale esistenza di
un organo competente ad esaminare i reclami.
Ai contraenti dei contratti dei rami vita deve invece essere consegnata prima della
conclusione del contratto un nota informativa contenente informazioni dettagliate
sull’impresa di assicurazione e sulle clausole contrattuali. In particolare la nota informativa
deve contenere informazioni sulle garanzie, sule opzioni, sulla durata del contratto e sulle
modalità di scioglimento del rapporto, sulle modalità e durata del versamento dei premi,
con indicazione separata dei premi relativi a ciascuna garanzia, sulle modalità di calcolo e
assegnazione della partecipazione agli utili, sul valore di riscatto, sui valori di riferimento
utilizzati (unità di conto) e sulla natura delle attività di contropartita nei contratti a capitale
variabile, sulle modalità del diritto di rinuncia, sul regime fiscale applicabile alla polizza, sui
reclami e sulla legislazione applicabile al contratto. Sempre per i suddetti contratti è
prevista un’informazione in corso di contratto in caso di variazioni. Gli Stati membri sono
liberi di prevedere informazioni supplementari purché siano essenziali ai fini della
comprensione delle clausole contrattuali.
Il diritto di ripensamento è riconosciuto al contraente di contratto dei rami vita che può
rinunciare agli effetti del contratto entro il termine compreso tra i 14 e i 30 giorni dal
momento in cui è stato informato della conclusione del contratto. Gli Stati membri possono
non applicare questa disposizione ai contrati di durata pari o inferiore a sei mesi, allorché,
considerati la situazione del contraente o le circostanze in cui il contratto è concluso, il
contraente non necessiti di una tutela speciale (art.35 dir.02/83).
La direttiva 02/92 pone a carico dell’intermediario (colui che propone o presenta prodotti
assicurativi) l’obbligo di informare preventivamente l’assicurando circa la sua identità, il
suo indirizzo e il registro presso cui è iscritto precisando se fornisce consulenza su
un’analisi imparziale (cioè se agisce come mediatore o broker) ovvero se è vincolato
dall’obbligo di esercitare intermediazione per una o più imprese (agente di assicurazione
mono o plurimandatario) oppure ancora, se è un intermediario che non rientra né nella
prima, né nella seconda categoria.
102
L’intermediario deve inoltre fornire una serie di informazioni sugli eventuali rapporti
partecipativi con imprese di assicurazione e deve informare il consumatore dei mezzi di
ricorso previsti dalla legge nei confronti degli intermediari, nonché delle eventuali
procedure di reclamo o di risoluzione stragiudiziale delle controversie.
Un secondo gruppo di norme riguarda la legge applicabile al contratto di assicurazione. La
dir. 87/357 (detta anche “seconda direttiva non vita” in quanto applicabile ai contratti di
assicurazione nei rami diversi dai rami vita) distingue il caso in cui il contraente assicurato
abbia residenza abituale o l’amministrazione centrale nel territorio dello Stato membro nel
quale il rischio è situato, da quello contrario. Nella prima ipotesi, la legge applicabile è
quella dello Stato presso cui è situato il rischio. Viceversa, le parti possono scegliere tra la
legislazione dello Stato in cui il rischio è situato e la legislazione dello Stato in cui il
contraente ha la residenza o la dimora abituale. Ma, se il contraente assicurato esercita
una attività commerciale, industriale o liberale e il contratto copre due o più rischi relativi a
tale attività localizzati in vari Stati membri, la libertà di scelta comprende anche le
legislazioni di questi Stati.
Per “Stato membro in cui il rischio è situato” si intende lo Stato in cui: sono ubicati i beniè avvenuta l’immatricolazione se riguarda veicoli – il contraente ha sottoscritto il contratto
nel caso di contratti inerenti ad un viaggio – il contraente assicurato residua abitualmente
o , se persona giuridica, quello in cui è situato lo stabilimento al quale il contratto si
riferisce.
Secondo la dir. 02/83 la legge regolatrice dei contratti compresi nei rami vita è quella dello
Stato membro dell’impegno, vale a dire quella dello Stato in cui il contraente ha la
residenza abituale o, se persona giuridica, lo stabilimento. Qualora lo Stato di residenza
dia diverso da quello di cittadinanza le parti possono scegliere la legge dello Stato in cui il
contraente ha la cittadinanza. In ogni caso le parti possono scegliere la legge di un altro
paese se il diritto dello Stato dell’impegno lo permette. Per tutti i contratti resta
impregiudicata l’applicazione delle norme imperative della legge del luogo in cui si svolge il
processo, indipendentemente dalla legge applicabile al contratto.
PROFILI DI CONVERGENZA DELLE DISCIPLINE NAZIONALI SUL CONTRATTO DI ASSICURAZIONE .
Il contratto di assicurazione è il più tipico contratto d’impresa in quanto si tratta di un
contratto la cui disciplina giuridica è fortemente influenzata dall’operazione economica
sottostante, la cui caratteristica principale va individuata nella compensazione dei rischi e
nella reciproca influenza delle vicende dei rischi assunti dalla medesima impresa.
Inoltre, l’assicurazione è per sua natura un’operazione economica transnazionale. La
compensazione dei rischi livello internazionale. Le condizioni poste dal riassicuratore
influenzano la disciplina contrattuale e la gestione dei contatti di assicurazione ceduti e,
tenuto conto della tendenziale dimensione internazionale dell’attività riassicurativa,
contribuiscono all’armonizzazione delle prassi negoziali, talvolta anche in contrasto on la
disciplina nazionale del contratto. Ciò spiega perché la direttiva sull’esercizio dell’attività
assicurativa siano così dettagliate e perché contengono una disciplina in massima parte già
compiuta e sostanzialmente self- executung. Un’armonizzazione così puntuale non sarebbe
possibile se l’operazione assicurativa non fosse regolata dagli stessi principi fondamentali
in tutti i Paesi dell’UE.
Regole sostanzialmente uniformi valgono per la disciplina del rischio: possono esservi
rimedi diversi previsti in caso di dichiarazioni non rispondenti al vero o reticenti, ma le
normative nazionali considerano essenziale la corretta informazione dell’assicuratore sulla
natura ed entità del rischio da assicurare. Considerazioni analoghe valgono per il caso di
103
aggravamento del rischio nel corso del contratto e per la disciplina del premio e in
particolare la regola del pagamento anticipato rispetto al periodo di copertura. In tutti gli
ordinamenti sono posti a carico dell’assicuratore particolari oneri in caso di sinistro, volti a
tutelare il diritto dell’assicuratore di controllare tempestivamente la sussistenza delle
condizioni per il pagamento dell’indennità (obbligo di avviso) e provvedere alla corretta
gestione del sinistro da parte dell’assicurato (obbligo di salvataggio).
Prospettive e difficoltà d’armonizzazione della disciplina.
La principale difficoltà per la creazione di un diritto europeo uniforme è data dalla
presenza di norme imperative nella legislazione nazionale e dalla resistenza degli Stati a
modificare per questo aspetto la disciplina interna.
Va inoltre rilevato che è molto difficile giungere ad un’armonizzazione della disciplina sul
contratto di assicurazione in assenza di una disciplina uniforme del diritto generale dei
contratti.
Il diritto del contratto di assicurazione presuppone regole generali sulla formazione del
contratto, sull’adempimento, sull’invalidità del contratto. La commissione europea ha
tentato di introdurre una disciplina minima di armonizzazione delle norme sul contratto di
assicurazione. La prima dir. sull’esercizio dell’attività assicurativa è la dir. 73/239 per i rami
non vita alla quale è seguita la prima dir. per i rami vita. Tale proposta mirava a dettare
un minimo di norme inderogabili a favore degli assicurati ma fu ritirata per opposizione
della UK.
Altro tentativo da ricordare è la Comunicazione del 2003, con la quale la Commissione ha
rilevato che la diversità delle normative nazionali sul contratto di assicurazione è di
ostacolo allo sviluppo delle contrattazioni assicurative trasfrontaliere e alla creazione di un
effettivo mercato unico del settore ed inoltre ha indicato come primo obiettivo del Piano il
miglioramento della normativa comunitaria esistente.
I SERVIZI FINANZIARI
La vendita a distanza dei prodotti finanziari
La normativa in materia di servizi finanziari è ispirata a finalità principali di trasparenza e di
efficienza del mercato.: ne costituiscono esempi paradigmatici la disciplina della vendita a
distanza di servizi finanziari e la c.d. riforma per la tutela del risparmio. Il processo
legislativo dei contratti a distanza aventi ad oggetto servizi finanziari si può dividere in re
104
fasi: a. la fase in cui, essendo in formazione un progetto di direttiva, gli Stati
provvedevano a regolare le operazioni con regole di diritto interno. In Italia inizialmente la
materia era regolata dal TUF che con una norma di mero rinvio (art. 32) richiamava il
potere di autoregolamentazione delle Autorità amministrative indipendenti (es. Consob e
Isvap) che avevano provveduto a individuare le modalità di formazione del contratto, i
contenuti minimi e la fase dell’esecuzione; b. la fase in cui è stata approvata la direttiva
comunitaria in materia; c. la fase dell’attuazione di tale direttiva.
Nel 2005, con il d. lgs. n°190 è stata data attuazione alla direttiva europea 02/65. Il
decreto si applica alla commercializzazione a distanza di servizi finanziari (cioè qualsiasi
servizio di natura bancaria, creditizia, di pagamento, di investimento, di assicurazione o di
previdenza individuale) ai consumatori, anche quando una delle fasi della
commercializzazione comporta la partecipazione di un soggetto diverso dal fornitore. Si
applica solo all’accordo iniziale e non alle operazioni successive. Le parti sono il fornitore
(cioè qualunque persona fisica o giuridica, pubblica o privata, che nell’ambito delle proprie
attività commerciali o professionali, è il fornitore contrattuale dei servizi oggetto di
contratti a distanza) e il consumatore. Il contratto col consumatore si conclude mediate
l’uso di una tecnica di comunicazione a distanza.
Al fine di porre il consumatore nella migliore posizione per effettuare consapevolmente le
sue scelte, nella fase delle trattative devono essere fornite al consumatore (in modo
chiaro, preciso e comprensibile con qualsiasi mezzo adeguato alla tecnica di
comunicazione utilizzata e alla luce dei principi di correttezza e buona fede nella fase
precontrattuale e dei principi di protezione degli incapaci di agire e dei minori), tutta una
serie d’informazioni riguardo al fornitore(ad es. identità, attività principale e se è iscritto a
un registro commerciale), al servizio finanziario (ad es. le principali caratteristiche, il
prezzo totale, limite del periodo durante il quale sono valide le informazioni fornite), al
contratto a distanza (es. l’eventuale esistenza di un diritto di recesso e la sua durata e le
modalità di esercizio, le informazioni relative ai diritti delle parti), al ricorso(i rimedi
giudiziali e stragiudiziali a disposizione del consumatore, l’esistenza di fondi di garanzia o
di altri dispositivi di indennizzo). Il consumatore deve conoscere prima della conclusione
del contratto tutte le condizioni contrattuali nonché le informazioni; se il contratto è stato
concluso con modalità che non consentono di trasmettere le condizioni contrattuali né le
informazioni, il fornitore ottempera agli obblighi informativi subito dopo la conclusione del
contratto.
Il consumatore ha a sua disposizione il recesso di pentimento (art.11), da esercitarsi in un
termine di 14 giorni (30 se il contratto ha ad oggetto assicurazioni sulla vita o schemi
pensionistici individuali) che decorre dal momento della conclusone del contratto (nel caso
delle assicurazioni sulla vita dal momento in cui viene comunicato al consumatore che il
contratto è concluso) o dal momento in cui il consumatore riceve le condizioni contrattuali
e le informazioni se tale data è successiva. L’espressione recesso è dunque utilizzata
correttamente dal momento che lo scioglimento del rapporto avviene dopo la conclusione
del contratto, il quale non produce effetti durante la decorrenza del termine previsto per
l’esercizio del diritto di recesso.
Vi sono alcuni contratti che per la natura del loro oggetto non ammettono il recesso, ad
es. i servizi finanziari il cui prezzo dipende da fluttuazioni del mercato finanziario che il
fornitore non è in grado di controllare e che possono aver luogo durante il periodo di
recesso (quali ad es. servizi riguardanti strumenti di cambio o valori mobiliari), polizze di
assicurazione viaggio e bagagli, contratti eseguiti da entrambe le parti su esplicita richiesta
scritta dal consumatore prima che quest’ultimo eserciti il suo diritto di recesso, alle
105
dichiarazioni dei consumatori rilasciate dinnanzi ad un pubblico ufficiale a condizione che
quest’ultimo confermi che al consumatore sono stati garantiti i diritti relativi alle
informazioni preliminari.
Per esercitare il diritto di recesso il consumatore deve inviare, prima dello scadere del
termine e secondo le istruzioni che gli sono state date, una comunicazione scritta al
fornitore mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento.
Se il fornitore ostacola l’esercizio del diritto di recesso, o non gli rimborsa le somme già
pagate o viola gli obblighi d’informativa precontrattuale in modo da alterare
significativamente la rappresentazione delle sue caratteristiche, il contratto è nullo
(art.16). Si tratta di una nullità relativa (solo il consumatore può farla valere) e obbliga le
parti alla restituzione di quanto ricevuto. Nei contratti di assicurazione l’impresa è tenuta
alla restituzione dei premi pagati e deve adempiere alle obbligazioni concernenti il periodo
in cui il contratto ha avuto esecuzione. È fatto salvo il diritto al risarcimento dei danni. I
diritti attribuiti al consumatore sono irrinunciabili: è nulla l’eventuale pattuizione volta a
privare il consumatore della protezione assicurata dal d.lgs. 190/05. La nullità può esser
fatta valere solo dal consumatore e rilevata d’ufficio dal giudice. Ove le parti abbiano
scelto di applicare una legislazione diversa da quella italiana, al consumatore devono
comunque essere riconosciute le condizioni di tutela previste dal decreto menzionato. Il
consumatore è agevolato nell’esercizio dei suoi diritti di tutela perché il d.lgs. stabilisce che
sul fornitore gravi l’onere della prova riguardante: a. l’adempimento agli obblighi di
informazione del consumatore; b. la prestazione del consenso del consumatore alla
conclusione del contratto; c. l’esecuzione del contratto; d. la responsabilità per
l’inadempimento delle obbligazione derivanti dal contratto. Le clausole che hanno per
effetto l’inversione o la modifica dell’onere della prova si presumono abusive.
Inoltre vi sono state delle obiezioni circa le modalità con cui sono state affrontate le
materie oggetto della nuova disciplina: in particolare in materie di conflitti d’interesse le
obiezioni sono dovute da un lato al rinvio della loro disciplina dettagliata alle leggi delegate
e regolamenti delle Autorità indipendenti, dall’altro alla lacuna della previsione dei rimedi
riservati all’investitore in
Tra i vari rimedi a tutela del consumatore a disposizione delle associazioni dei consumatori
abbiamo:
Reclamo per l’accertamento delle violazioni. Da proporre alle competenti autorità di
vigilanza;
Azione inibitoria (per far cessare le violazioni delle disposizioni). Da proporre all’autorità
giudiziaria
Inoltre le autorità di vigilanza possono vietare l’inizio o ordinare ai soggetti vigilati la
cessazione delle pratiche non conformi al decreto. I ministeri dell’economia, delle attività
produttive, di giustizia possono promuovere procedure extragiudiziali di reclamo.
Sul fornitore grava l’onere della prova circa l’adempimento degli obblighi di informazione,
la prestazione del consenso del consumatore, l’esecuzione del contratto. Le clausole volte
a invertire o modificare l’onere della prova si presumono abusive.
********
La riforma italiana a tutela del risparmio.
Le “disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari” (l.262/05)
costituiscono l’esito di un processo che ha suscitato sempre più aspettative da parte dei
risparmiatori. Il legislatore non si è, però, curato di coordinare la nuova disciplina in
106
particolare con i due codici di settore, emananti entrambi nel 2005 (il codice del consumo
e il codice delle assicurazioni private).
È stato introdotto un complesso di solide misure che dovrebbero migliorare la situazione
degli investitori; in particolare la previsione di controlli nel governo societario, trasparenza
nei rapporti societari, regole di comportamento (in realtà viene elevata a norma primaria
una disciplina già dettata in via regolamentare: I soggetti abilitati devono comportarsi con
diligenza, correttezza e trasparenza nell’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati),
risoluzione stragiudiziale delle controversie(banche e intermediari finanziari adesso sono
tenuti ad aderire all’alternative dispute resolution ovvero il sistema di risoluzione
stragiudiziale al fine di ottenere una soluzione rapida ed efficiente e rendere effettiva la
tutela; ma nulla si dice in ordine alle modalità processuali o alla competenza dell’organo
decidente o al principio del contraddittorio), i rapporti tra banca e impresa, i conflitti
d’interesse delle banche nelle prestazioni dei servizi di investimento (obbligo di “ridurre al
minimo” i conflitti di interesse e assicurare la trasparenza e l’equo trattamento dei clienti),
la circolazione dei prodotti finanziari e l’istituzione del fondo di garanzia. Nonostante abbia
segnato un significativo passo avanti per la tutela degli investitori, la legge continua a
lasciare irrisolte numerose questioni e problemi interpretativi, ad es. resta praticamente
affidata alla normativa del c.c. e al TUF la disciplina dei rapporti contrattuali tra investitori
non professionali e gli intermediari. Altri problemi che non sono stati risolti riguardano la
responsabilità delle autorità di vigilanza. Mentre negli altri ordinamenti la giurisprudenza
sembra riconoscere l’immunità di tali autorità, nel nostro è stata riconosciuta la
responsabilità della CONSOB.
In relazione alla violazione degli obblighi informativi la casistica è stata varia a seconda
dell’operazione o del tipo di obblighi (ad es. la Cassazione ha distinto tra violazione di
legge per inosservanze di comportamenti dovuti che da vita a responsabilità
precontrattuale e difetto di requisiti di validità che da vita a nullità).
L’OPA: definizione e tipologie.
L’OPA (offerta pubblica di acquisto - il c.d. tender offer) è ogni offerta, invito ad offrire o
messaggio promozionale finalizzato all’acquisto in denaro di prodotti finanziari; se a titolo
di corrispettivo vengono dati altri prodotti finanziari, l’offerta pubblica è definita di
scambio. Si tratta quindi di un fenomeno di sollecitazione al disinvestimento. L’ OPA
può essere volontaria (se l’iniziativa proviene esclusivamente dall’offerente) o obbligatoria
(se è l’ordinamento a imporla). Quest’ultima può essere totalitaria (imposta a chi,
successivamente ad acquisti a titolo oneroso, detenga una partecipazione superiore al
30% nel capitale ordinario della società emittente), preventiva (se ne avvale chi detiene
una partecipazione superiore al 30% a seguito di un’OPA avente ad oggetto almeno il
60% delle azioni ordinarie, purché gli offerenti non abbiano acquistato partecipazioni in
misura superiore all’1% nei 12 mesi precedenti la comunicazione alla Consob e che
l’efficacia dell’offerta sia stata condizionata alla’approvazione di tanti soci che possiedono
la maggioranza delle azioni ordinarie; ciò al fine di evitare il lancio dell’OPA totalitaria
assicurando comunque il cambio del controllo societario e la tutela delle minoranze) e
residuale (colui che detiene una partecipazione superore al 90% è tenuto a promuoverla
per le azioni residue o, in alternativa, deve ripristinare il flottante). Chi si trova a detenere
+ del 98% delle azioni ha il diritto entro 4 mesi di acquistare le azioni residue(c.d. diritto
d’acquisto o squeeze out). La dottrina qualifica l’OPA consensuale (se il consiglio di
amministrazione della società è a essa favorevole) o ostile ( quando si pronuncia contro).
107
L’OPA trova disciplina nel TUF agli art 102-112 e nel regolamento Emittenti. La
disciplina si divide in principale (i soggetti interessati, obblighi informativi dell’offerente e
dell’emittente, condizioni dell’offerta e suo svolgimento) ed in una parte speciale
(disciplina delle singole tipologie di OPA previste).
Quanto agli obblighi informativi, il soggetto che la lancia è tenuto a dare preventiva
comunicazione alla Consob, attraverso un documento (contenente tutti gli elementi
essenziali dell’offerta, le finalità dell’operazione, le garanzie e le eventuali modalità di
finanziamento previste), che diffonde nel mercato e la trasmette alla società oggetto
dell’OPA (dopo aver effettuato un controllo). L’emittente (c.d. società target) deve
diffondere al pubblico un comunicato contenente ogni dato utile per la valutazione
dell’offerta. Il comportamento di tutti i soci deve essere improntato ai principi di
trasparenza e correttezza. Vi sono due regole degne di attenzione, perché conformi alla
disciplina comunitaria delle Opa prevista dalla dir. 04/25 (c.d. take of directive). La prima
regole è quella della passivity rule : le società italiane (operanti nel mercato nazionale o di
altri paesi dell’UE) devono astenersi dal compiere atti o operazioni che contrastino con il
conseguimento degli obiettivi dell’offerta, salvo non vi sia espressa autorizzazione
dell’assemblea ordinaria o straordinaria a seconda della competenza. La seconda regola è
quella dell’irrevocabilità dell’offerta e della parità di trattamento: L’offerta è irrevocabile
(ogni clausola contraria è nulla) e deve essere rivolta a parità di condizioni a tutti i titolari
dei prodotti finanziari che ne formano oggetto.
La direttiva 04/25 e la sua attuazione.
A livello comunitario bisogna richiamare la direttiva 04/25. Gli obiettivi perseguiti sono:
a. rendere equivalenti le garanzie peste a tutela degli interessi dia dei soci sia dei terzi nel
caso di OPA transfrontaliera (la società emittente e il mercato su cui vengono negoziati
appartengono a due Paesi membri); b. eliminare le incertezze giuridiche relative alla legge
applicabile e all’autorità competente per le OPA transfrontaliere; c. realizzare una
maggiore trasparenza nello svolgimento dell’operazione.
A tutela dei possessori di titoli di una società emittente sono posti il principio della parità di
trattamento e quello della informazione sull’offerta. Inoltre la direttiva prevede che i
dipendenti della società target debbano essere informati dettagliatamente sull’offerta. La
direttiva inoltre prevede la passivity rule. Le autorità di vigilanza devono essere designate
dagli Stati membri tra enti pubblici, associazioni o organismi privati riconosciuti
dall’ordinamento nazionale o da autorità pubbliche espressamente abilitate a tal fine
dall’ordinamento nazionale. Gli Stati membri devono verificare che tali autorità esercitino le
loro funzioni in modo imparziale e indipendente rispetto a tutte le parti dell’offerta.
Inoltre è previsto che la disciplina applicabile alle autorità di vigilanza è quella dello Stato
membro in cui la società emittente ha la sua sede sociale, qualora i suoi titoli siano
ammessi alla negoziazione sul mercato regolamentato di tale Stato membro.
108
L’APPALTO
Contratto di appalto e figure affini nel del diritto europeo.
Il contratto di appalto è uno dei contratti tipici generalmente disciplinati dai codici civili
europei, però la nozione di appalto che si rinviene nei diversi ordinamenti non è del tutto
uniforme ed a volte si distacca da quella del codice civile italiano secondo cui è appalto <<
il contratto con quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con
gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo
di denaro>> (art. 1655). La parte che si obbliga a costruire l’opera o a prestare il servizio
è definita <<appaltatore>> mentre in altri codici europei prevale l’uso del termine
<<imprenditore>> (art 1656).
L’appalto come contratto d’ impresa
In tutti gli ordinamenti europei il contratto di appalto si configura come contratto
d’impresa e da ciò derivano alcune peculiarità rispetto alla disciplina del contratto prevista
nelle parti generali dei codici.
1. La fase della formazione del contratto è caratterizzata dallo svolgimento di
lunghe trattative che impongono alle imprese notevoli costi per lo studio del
progetto e la predisposizione dell’offerta e obblighi di riservatezza che rendono
particolarmente accentuata l’esigenza di comportamenti conformi alla buona
fede.
2. Nonostante non sia prevista una forma particolare i contratti d’appalto vengono
di solito stipulati in forma scritta. Nei casi di maggiore di maggiore complessità il
testo contrattuale può essere composto da una serie di documenti, c.d. verbali
di trattativa, che racchiudono l’accordo delle parti su alcuni aspetti e consentono
man mano di pervenire alla redazione di un documento finale che rappresenta il
punto conclusivo della trattativa e spesso si limita a richiamare quanto già
concordato.
3. È frequente il rinvio a condizioni generali di contratto predisposte dalle imprese
per disciplinare in modo uniforme alcuni aspetti del rapporto.
4. Il contenuto delle obbligazioni a carico delle parti viene inserito nei c.d. capitolati
generali e speciali, mentre il cod. civ. italiano dispone che se il contratto o gli usi
non dispongono diversamente la materia necessaria per compiere l’opera deve
essere fornita dall’appaltatore (art. 1658 c.c.).
5. Altre peculiarità risultano dalla regola secondo cui la proposta o la accettazione
non perdono efficacia in caso di morte o sopravvenuta incapacità prima della
conclusione del contratto, tranne che risulti diversamente dalla natura dell’affare
o da altre circostanze. Oppure che il contratto non si risolve e continua con gli
109
eredi dell’appaltatore quando quest’ultimo muore durante la fase
dell’esecuzione, tranne che le qualità personali dell’appaltatore siano state
decisive per la scelta effettuata dal committente, oppure gli eredi
dell’appaltatore non diano affidamento per la buona esecuzione dell’opera e del
servizio (art. 1674 c.c.).
Disciplina italiana e spunti comparatistici.
L’appalto si caratterizza per la previsione di un corrispettivo che può essere à forfait
oppure a misura e viene pagato dopo la conclusione e la consegna dell’opera o del
servizio, a seguito della verifica e dell’accettazione da parte del committente (collaudo). Di
solito vengono fatti pagamenti in corso d’opera collegati ai c.d. stati di avanzamento dei
lavori. Tali pagamenti hanno la natura di acconti e nonostante la verifica della prestazione
effettuata non implicano di regola accettazione dei lavori da parte del committente. La
normativa vigente in Italia prevede che in caso di mancata determinazione il corrispettivo
spettante all’appaltatore venga calcolato in base alle tariffe o agli usi e in mancanza
stabilito dal giudice ( art. 1657 c.c.). solo con l’accettazione dell’opera finita e completa da
parte del committente si configura il diritto dell’appaltatore al pagamento del prezzo.
Inoltre a seguito dell’accettazione viene meno la responsabilità dell’appaltatore per vizi e
difformità dell’opera conosciuti o conoscibili con l’ordinaria diligenza da parte del
committente. La responsabilità permane nel caso in cui l’appaltatore abbia taciuto o
occultato i vizi in mala fede ( art 1667, co. 1, c.c. E’ disciplinata la materia delle variazioni
dei modi di effettuazione dell’opera rispetto a quanto previsto nel progetto. Al
committente è riconosciuto il potere di controllo della regolare esecuzione dei lavori.
Qualora nel corso dell’opera il committente accerti che l’esecuzione non procede come
stabilito nel contratto e a regola d’arte può fissare un congruo termine entro il quale
l’appaltatore si deve conformare a tali condizioni. Trascorso inutilmente il termine stabilito,
il contratto è risolto salvo il diritto del committente al risarcimento del danno ( art. 1662
c.c.). Il prezzo pattuito è soggetto a revisione quando per effetto di situazioni imprevedibili
si siano verificati aumenti o diminuzioni del costo dei materiali o della mano d’opera tali da
determinare un aumento o una diminuzione superiore al decimo del prezzo complessivo
convenuto (art. 1664) ( le parti possono fissare anche un limite diverso, perché la norma
ha carattere dispositivo). Il committente prima della consegna ha diritto di verificare
l’opera compiuta. Se il committente non fa il collaudo entro un breve termine ovvero
riceve senza riserve la consegna dell’opera questa, si considera accettata (art. 1665).
L’appaltatore è tenuto alla garanzia per le difformità e i vizi dell’opera (art. 1667). La
denunzia all’appaltatore dei vizi deve avvenire entro un anno dalla scoperta. Il diritto del
committente al risarcimento del danno si prescrive in anno dalla denunzia (art. 1669). La
responsabilità del costruttore d’immobili ha natura extracontrattuale e si configura solo nel
caso di rovina o di minaccia di rovina di immobile. Il committente può recedere dal
contratto in qualsiasi momento a condizione che tenga indenne l’appaltatore per le spese
sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno (art.1667). Una particolare
disciplina in tema di recesso è dettata con riguardo all’ipotesi in cui sia necessario fare
110
variazioni al progetto. Se l’importo supera il sesto del prezzo complessivo convenuto,
l’appaltatore può recedere dal contratto è può ottenere un’equa indennità. Mentre se le
variazioni sono di notevole entità il committente può recedere corrispondendo solo un
equo indennizzo. Nel caso in cui l’esecuzione dell’opera diventi impossibile per causa non
imputabile a nessuna delle parti il committente è tenuto a pagare all’appaltatore la parte
dell’opera già compiuta, mentre qualora si verifichi il perimento o il deterioramento
dell’opera prima della consegna l’appaltatore sopporta le conseguenze dannose di detti
eventi se ha fornito la materia. Se la materia è stata fornita dal committente, il perimento
o il deterioramento dell’opera è a carico di quest’ultimo per quanto riguarda la materia da
lui fornita mentre per il resto è a carico dell’appaltatore. Di soliti i reciproci diritti delle parti
sono garantiti mediante lo scambio di fideiussioni. L’appaltatore consegna al committente
una fideiussione di esatto adempimento mentre quest’ultimo consegna all’appaltatore una
fideiussione che serve a garantire il pagamento tali fideiussioni sono spesso <<a prima
richiesta>>. Altra fideiussione, c.d. di garanzia può essere prevista a carico
dell’appaltatore per il periodo stabilito dalla legge in cui l’appaltatore è tenuto a garantire
la perfetta esecuzione dell’opera. L’appaltatore ha autonomia nell’organizzazione del
lavoro, ma tale autonomia è accompagnata dal rischio economico, cioè dalla possibilità che
i costi necessari per l’esecuzione dell’opera o la prestazione del servizio siano più alti del
corrispettivo previsto nel contratto. Tale rischio è accresciuto tutte le ipotesi in cui il
committente ha realizzato una <<gara>> tra diversi appaltatori spingendoli ad abbassare
il prezzo richiesto. L’appalto è un contratto consensuale a effetti obbligatori il cui
corrispettivo deve essere previsto <<in denaro>> e nonostante il rischio è considerato
commutativo e non aleatorio.
Appalto e contratti di durata.
Nonostante l’attività dell’appaltatore si protrae per un certo periodo si esclude
tradizionalmente la sua riconducibilità ai contratti di durata. Mentre è diffusa la definizione
di dell’appalto quale <<contratto a esecuzione prolungata>>. La differenza consiste nella
possibilità ricorrente nei contratti di durata di scomporre l’adempimento in vari momenti
ciascuno dei quali soddisfa l’interesse del creditore in misura proporzionale all’intero
rapporto. L’appalto è considerato contratto a esecuzione prolungata perché l’interesse del
committente è soddisfatto alla consegna dell’opera e il tempo costituisce solo una
necessità pratica.
La risoluzione per inadempimento.
Nel contratto di appalto l’inadempimento dell’appaltatore si qualifica come inadempimento
per mancato conseguimento del risultato previsto. Il carattere dell’obbligazione di risultato
sembra confermato dalla definizione legislativa ove si precisa che <<l’obbligazione
dell’appaltatore deve essere adempiuta con organizzazione di mezzi necessari e con
gestione a proprio rischio>> garantendo una certa autonomia dell’appaltatore. Nel caso in
cui si verifichi l’impossibilità di raggiungere il risultato previsto nel contratto rispettando le
previsioni del committente, l’appaltatore è tenuto ad avvertire il committente della
111
necessità di modificare il contratto. L’eventuale rifiuto del committente configura un suo
inadempimento da considerare grave alla stregua dell’art. 1455 c.c. poiché impedisce il
raggiungimento del risultato programmato. Il riequilibrio delle posizioni dei contraenti può
essere realizzato mediante la restituzione del valore dell’opera realizzata ma anche
applicando la norma sui contratti di durata che sembra più adeguata a disciplinare la
fattispecie, <<salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno>> (art. 1453, co. 1, c.c.).
Il subappalto.
Il codice civile italiano dedica al subappalto un solo articolo al fine di escludere che
l’appaltatore possa dare in subappalto l’esecuzione dell’opera o del servizio se non è stato
autorizzato dal committente (art. 1656 c.c.). Tale norma è spiegata in ragione dell’intuitus
personae appare inadeguata nei casi in cui l’appaltatore sia anche progettista dell’opera
poiché in questo caso il contratto presenta elementi comuni con quello del contratto
d’opera professionale, ma soprattutto oggi deve essere intesa con riferimento all’impresa
che assume di regola la forma di una società di capitali.
L’appalto a regia.
Caratteristica essenziale del contratto di appalto è l’autonomia dell’appaltatore. Nel caso in
cui l’ingerenza del committente non si limiti solo al controllo, ma miri a ridurre l’autonomia
propria dell’appaltatore si dice che l’appaltatore esegue il contratto come nudus minister
del committente e non si configura la sua responsabilità in caso di mancato
raggiungimento del risultato, purché siano stati rispettati gli ordini ricevuti. Parimenti si
esclude la responsabilità dell’appaltatore nei confronti dei terzi per danni derivanti
dall’esecuzione dell’appalto. In tali casi si parla di << appalto a regia>> fattispecie il cui
oggetto è pur sempre il compimento di un’opera o la prestazione di un servizio ma da
parte di un imprenditore privo di autonomia.
112
LA
SUBFORNITURA
Una disciplina in cerca d’identità.
L’esigenza di una disciplina specifica per i contratti di subfornitura ha una chiara matrice
comunitaria. Nel 1978 una Comunicazione della Commissione europea aveva mostrato
l’intento di predisporre una qualche forma di tutela delle piccole e medie imprese
nell’ambito della suddetta tipologia contrattuale; interesse poi confermato sia dalla
pubblicazione di una guida che proponeva agli operatori del settore della subfornitura
norme, convenzioni e principi per la costituzione di partnership solide e dinamiche, sia da
un altro Comunicazione del 1992, dal titolo <<Verso un mercato europeo della
subfornitura>>.
La scelta italiana.
L’intervento del legislatore italiano in materia di disciplina della subfornitura nelle attività
produttive ha il merito di sottendere una precisa scelta di campo. La portata innovativa
della l. 192/98 sta nell’avere rappresentato il primo significativo riconoscimento normativo
dello stato di debolezza contrattuale di una sotto-categoria di operatori economici: quella
degli imprenditori dimezzati.
Definizioni e ambito applicativo.
A qualche anno dal suo esordio la l. 192/98 continua a suscitare interesse in ambito
dottrinario. Le ragioni dell’incerto cammino applicativo della disciplina sono da ricercare in
una stesura claudicante, frutto di un processo legislativo nel quale si sono incrociati
compromessi politici ed incertezze sul piano della impostazioni di riferimento; un ambito di
applicazione ristretto; l’introduzione di una disposizione in tema di abuso di dipendenza
economica rispetto alla quale continua a manifestarsi uno strenuo, quanto diffuso
ostracismo. La maggior parte degli articoli riguardano i problemi di disparità di potere
contrattuale. La legge rinuncia a dettare una disciplina esaustiva del contratto di
subfornitura innescando un processo di tipizzazione a metà che non risolve le incertezze
sul suo statuto giuridico. La l. 192/98 si presenta come il primo statuto del contraente
consapevole. Spetta all’interprete risolvere il rebus dell’ambito applicativo e individuare con
rigore i rapporti effettivamente interessati. Tutto ruota intorno alla lettura dell’art. 1 la cui
definizione di subfornitura fa leva su due elementi caratterizzanti: prestazione
caratteristica del subfornitore e sua subalternità progettual-tecnologica. Il primo requisito
tratta della descrizione delle possibili prestazioni che caratterizzano la subfornitura e che
attengono al fenomeno della de-verticalizzazione produttiva: si può trattare, ad. es. della
lavorazione su prodotti semilavorati. Decisivo ai fini della qualificazione giuridica del
contratto appare il fattore relativo al trapasso di conoscenze dal committente al
subfornitore. La subfornitura è la connotazione terminologica di una modalità organizzativa
della produzione che si è spesso incarnata nella c.d. subfornitura di capacità conseguenza
113
dell’esternalizzazione di fasi di lavorazione a basso valore aggiunto. Il criterio guida che
informa la disciplina sembra quello di escludere nella vasta gamma di servizi che l’impresa
può affidare all’esterno quelli che risultino aspecifici nel senso di poter essere resi
indifferentemente a chiunque ne faccia richiesta: la subfornitura entrerebbe in gioco tutte
le volte in cui le prestazioni richieste siano ritagliate sull’esigenze peculiari del
committente. Il su fornitore è un soggetto che orbita intorno al committente in una
situazione di sudditanza economica: è anche un imprenditore adespota perché etero
diretto sul versante dell’impegno progettuale.
Forma scritta, nullità e termini di pagamento.
L’art. 2, co. 1, prevede che il contratto rivesta la forma scritta a pena di nullità, inoltre tale
sanzione si estende anche agli obblighi di trasparenza contrattuale e laddove si richiede
che il prezzo, le modalità di pagamento, e la descrizione tecnica del bene da produrre
siano dettagliata. Ai sensi del co.3, nel caso di contratti ad esecuzione periodica e
continuata, anche i singoli ordinativi devono essere predisposti dal committente nelle
forme previste dal co. 1. L’obbligo della forma scritta subisce alcuni temperamenti e la
sanzione di nullità non impedisce l’operatività dell’abuso di dipendenza economica, la cui
applicazione ex art. 9 non è legata necessariamente alla sussistenza di un contratto: il co.1
dell’art. 2 stabilisce l’equiparazione alla forma scritta di altre forme di comunicazione,
come telefax e altre vie telematiche, nonché il diritto del subfornitore al pagamento delle
prestazioni già effettuate e al risarcimento delle spese effettuate in buona fede ai fini
dell’esecuzione del contratto, inoltre il co. 2 aggiunge che se la proposta del committente
è formulata per iscritto o con le forme equiparate il subfornitore può validamente
concludere il contratto iniziando direttamente l’esecuzione senza bisogno di inviare una
accettazione scritta a controparte. La sanzione di nullità è estesa anche ad altre ipotesi di
violazione di disposizioni contenute nel testo della legge. L’art.4 stabilisce che la fornitura
di beni e servizi oggetto del contratto di subfornitura non può essere ulteriormente
affidata in subfornitura senza l’autorizzazione del committente per una quota superiore al
50% del valore della fornitura. Altra ipotesi di nullità è quella prevista dall’art.5: sono nulli i
patti con i quali le parti modificano il regime di responsabilità legale del subfornitore, il
quale risponde del funzionamento e della qualità della parte o dell’assemblaggio da lui
prodotti o dal servizio fornito secondo le prescrizioni contrattuali, ma non può essere
considerato responsabile per i difetti di materiali o attrezzi che siano stati forniti dal
committente , purché il subfornitore li abbia tempestivamente denunciati. Ai sensi dell’art.
6 è nullo il patto che riservi ad una delle parti la facoltà di recedere senza congruo
preavviso e di modificare unilateralmente una o più clausole del contratto a meno che non
si tratti di accordi che consentano al committente di precisare le quantità da produrre ed i
tempi di esecuzione della fornitura. È altresì nullo il patto con cui il subfornitore disponga a
favore del committente e senza congruo corrispettivo di diritti di privativa industriale
(co.3). L’art. 3 obbliga le parti del contratto di subfornitura a fissare nel regolamento
contrattuale il termine di pagamento, che non deve superare i sessanta giorni, ma può
essere derogato fino a novanta giorni da accordi nazionali stipulati tra le parti sociali; e gli
114
interessi di mora scattano automaticamente, senza bisogno della messa in mora. Il co. 4
prevede che la mancata corresponsione del prezzo entro i termini pattuiti costituirà titolo
per l’ottenimento di un decreto ingiuntivo per il recupero del credito. Ove su richiesta del
committente vengano apportate nel corso dell’esecuzione del rapporto, modifiche
significative e varianti che comportino incrementi di costi, il subfornitore ha diritto ad un
adeguamento del prezzo anche se non espressamente previsto dal contratto.
Abuso di dipendenza economica.
La dipendenza economica estende lo spettro del potere economico sottoposto al vaglio
antitrust e le regole di concorrenza si prestano a trasformarsi in strumenti incidenti
direttamente sull’autonomia negoziale della parti ed operanti nello spazio dell’equilibrio
economico-giuridico dei rapporti contrattuali. La sfera economica incisa è quella della parte
contrattualmente debole, ma è anche vero che l’abuso di dipendenza economica tende a
stravolgere le condizioni che rendono possibile una concorrenza effettiva. La definizione
fornita dall’art.9 è incentrata sul potere economico il quale si manifesta nella capacità di
determinare un eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi. Gli unici due parametri che la
legge consegna all’interprete sono: A) << l’eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi >> e
B) << la reale possibilità di reperire sul mercato alternative soddisfacenti >>, ma tali
criteri non sono risolutivi poiché se non esiste un contesto perfettamente concorrenziale e
nessun rapporto contrattuale all’interprete spetta il compito di dare forma e sostanza alla
fattispecie, definendo quando uno squilibrio risulta eccessivo e quando una possibilità
reale. Il percorso ermeneutico relativo alla valutazione dello stato di dipendenza
economica prevede l’accertamento della sussistenza della possibilità dell’alternativa , poi la
verifica della realtà di tale possibilità e, infine, la valutazione dell’attitudine satisfattiva
dell’opportunità alternativa. Inoltre il giudice può tenere conto di circostanze estranee alla
situazione di mercato dell’impresa che subisce l’abuso. La sanzione della nullità si applica
solo alle ipotesi in cui si sia in presenza di un negozio giuridico, ovvero nei casi in cui
l’abuso consista nell’imposizione di condizioni ingiustificatamente gravose o discriminatorie.
Non è chiaro se la nullità colpisca singole clausole o se si estende all’intero contratto, ma
estensione della nullità all’intero contratto renderebbe di fatto lo strumento della
dipendenza economica inadatto a fornire un’efficace tutela del contraente debole, il quale
resterebbe imprigionato nell’alternativa di subire l’esecuzione del contratto squilibrato o di
rinunciare a soddisfare l’interesse che lo aveva spinto a stipularlo.
115
L’AGENZIA
La direttiva 86/653 e la sua <<incompletezza>>.
Negli Stati membri dell’UE era diffusa la rappresentazione del contratto di agenzia alla
stregua di un rapporto in cui una parte (agente) assumesse l’incarico di promuovere, per
conto di un’ altra parte (preponente), in cambio di un corrispettivo, la conclusione di affari
di un certo ambito territoriale. Si è realizzato il rafforzamento della posizione dell’agente,
identificato come il soggetto che svolge un’attività di intermediazione, indipendentemente
e in modo permanente, al fine di trattare per un’altra persona , definita proponente , la
vendita oppure l’acquisto di merci, ma anche per trattare e concludere in una predefinita
sfera territoriale tali operazioni in nome e per conto del preponente medesimo. La dir.
86/653 ha lasciato libri gli Stati membri dell’UE di qualificare gli agenti come operatori
indipendenti o come lavoratori subordinati. Di conseguenza alla luce delle legislazioni
nazionali di attuazione, uno stesso soggetto può risultare qualificato, in uno Stato , come
lavoratore, mentre in un altro Stato, è un lavoratore subordinato. Inoltre gli Stati membri
hanno facoltà di escludere dall’ambito di applicazione della normativa di attuazione quei
soggetti che svolgano attività di agente commerciale ritenute di natura accessoria secondo
le proprie leggi nazionali. In concreto alcuni Stati fra i quali la Germania, la Francia e
l’Inghilterra hanno sfruttato tale facoltà , mentre alcuno stati fra i quali l’Italia non l’hanno
fatto creando i presupposti per un’ulteriore diversità di regime in contrasto con gli intenti
uniformanti insiti nel provvedimento comunitario.
Riflessi positivi della direttiva 86/653. Il rafforzamento della posizione
dell’agente.
Il <<sistema>> creatosi a seguito dell’attuazione della dir. 86/653 si caratterizza, per il
prevalente avvicinamento delle legislazioni dei vari Stati dell’UE: il che si è tradotto in un
rafforzamento della posizione dell’agente, consentendogli di adempiere ai suoi compiti
nell’ambito di un quadro normativo di riferimento transnazionale segnato dalla tendenziale
omogeneità.
1. Si richiede che l’agente possieda intuito nell’individuazione dei potenziali soggetti
interessati alla negoziazione di affari rilevanti per il preponente e nella
conduzione delle trattative in modo adeguato.
2.
Si è generalizzata la distinzione fra l’incarico di promuovere contratti e la
conclusione degli stessi, rimanendo quest’ultima una prerogativa specifica del
proponente.
3. Sono derivati uno standard omogeneo di protezione e la tendenziale
chiarificazione degli elementi strutturali e imprescindibili del contratto di agenzia,
rendendosi più facile la sua esecuzione quando ne siano artefici soggetti stabiliti
in diversi Stati membri.
116
4. Inoltre la dir. Ha attivato un processo di uniformazione normativa negli stati
membri dell’UE in merito all’esigenza dell’iscrizione in albi o ruoli appositi per lo
svolgimento dell’attività di agente, inteso come mero adempimento
amministrativo e quindi non preclusivo dello svolgimento dell’attività dell’agente.
L’obbligo di buona fede e correttezza. Diritto alla provvigione e parametri di
riferimento.
Altro cardine della disciplina contenuta nella dir.86/653 è l’obbligo reciproco dell’agente e
del preponente di agire con lealtà e buona fede per il corretto adempimento contrattuale.
Si tratta della <<prima comparsa dell’espressione “buona fede” nel testo di una dir >>. La
buona fede potrebbe incidere nella dinamica del contratto di agenzia ponendosi come un
<<rimedio>> del contratto. Inoltre è importazione la fissazione del principio che l’agente
a diritto a ricevere una provvigione per tutte le operazioni concluse grazie al suo
intervento , rilevando in materia i seguenti criteri generali: a)l’eventuale previsione del
pagamento di una retribuzione fissa a prescindere dal volume d’affari dell’agente;
b)l’agente che riceve una retribuzione fissa può qualificarsi come lavoratore subordinato,
laddove ne ricorrano gli ulteriori elementi necessari, cioè l’assenza di una propria
organizzazione, l’obbligo di procedere a una serie di visite e incontri predeterminati, il
rispetto di un orario di lavoro obbligatoriamente prefissato, la mancanza di rischio a carico
dell’agente nello svolgimento della sua attività lavorativa; c) la presenza di una
retribuzione fissa rappresenta un semplice indizio dell’esistenza della subordinazione tale
da non costituire un elemento da cui desumere tout court l’automatica esclusione di un
rapporto di agenzia; d)la provvigione spetta tutte le volte in cui l’operazione venga
conclusa grazie al suo intervento oppure nel caso in cui sia stata conclusa con un terzo già
cliente per operazioni simili; e)all’agente spetta la provvigione quando sia stato incaricato
di curare una determinata zona oppure un determinato gruppo di persone e quando goda
di un diritto di esclusiva perché l’operazione sia conclusa con un << cliente appartenente
a tale zona o tale gruppo >>. L’ultima coordinata sembra offrire due possibili
interpretazioni: 1. << provvigione indiretta >>, nel senso che l’agente può beneficiare
della provvigione senza che gli sia riconosciuta l’esclusività su un determinato settore
territoriale per tutti gli affare conclusi con un cliente appartenente ad esso; 2. riconosce la
<< provvigione indiretta>> in favore dell’agente il quale goda dell’esclusiva per un certo
territorio o per un gruppo di persone a lui assegnato. Tale duplice possibilità interpretativa
e la mancata scelta del legislatore comunitario in favore dell’una o dell’altra interpretazione
favorisce la presenza di legislazioni nazionali in materia differenti. La territorialità conserva
un ruolo pregnante, poiché in mancanza di un accordo delle parti ai fini della
determinazione del compenso spettante all’agente, le norme nazionali di attuazione della
dir. 86/653 fanno riferimento agli usi del luogo in cui l’attività viene svolta. Per quanto
concerne l’individuazione degli affari conclusi dall’agente, quale referente per il pagamento
della provvigione, il criterio di base è quello che il compenso spetti quando l’ordinativo
del terzo venga ricevuto dall’agente o dal proponente prima dell’estinzione del contratto di
agenzia. Dopo l’estinzione del contratto di agenzia la provvigione spetterà qualora l’affare
117
sia concretamente riconducibile all’attività dell’agente come tale e purché venga concluso
in un tempo ragionevole rispetto alla fine del contratto di agenzia. Il cliente ha a
disposizione un termine di esecuzione ben definito e proprio questo limite temporale
rappresenta il momento finale per la liquidazione della provvigione spettante all’agente.
Altro importante e diffuso principio contenuto nell’art. 12 della dir.86/653 è che il diritto
alla provvigione si estingue se e nella misura in cui risulti certo che il contratto fra il cliente
e il proponente non verrà più eseguito, non essendo la mancata esecuzione da addebitare
al proponente medesimo. In connessione rileva l’obbligo imposto all’agente di restituire le
provvigioni già riscosse, se e nella misura in cui il contratto con il cliente non sia
regolarmente eseguito a causa dell’agente medesimo. È escluso per qualsiasi accordo più
sfavorevole per l’agente.
Durata del contratto di agenzia.
Vale il principio secondo cui il contratto di agenzia a tempo determinato si trasforma in
contratto a tempo indeterminato quando le parti interessate continuino a darvi esecuzione
dopo la scadenza del suo termine. Inoltre si è affermato anche il principio dello
scioglimento del contratto da parte di ciascuno dei contraenti mediante preavviso: di un
mese per primo anno; due mesi per il secondo anno iniziato; tre mesi per terzo anno
iniziato e per gli anni successivi; non essendo permesso alle parti di fissare ad libitum
termini più brevi, mentre sono legittimate a individuare termini più lunghi di quelli fissati
dalla legge, con il limite del preavviso del proponente non sia inferiore a quello dovuto
dall’agente.
L’indennità di clientela e la clausola di non concorrenza dopo la cessazione del
rapporto di agenzia.
Un settore della nuova normativa sul contratto di agenzia è quello che disciplina l’obbligo
del proponente di corrispondere un’indennità di clientela all’agente in seguito alla
cessazione del rapporto, però tale obbligo è stato collegato alla presenza di una duplice
condizione: 1) che l’agente abbia procurato nuovi clienti, abbia incrementato in modo
sensibile gli affari con i clienti esistenti, dando al proponente sostanziali vantaggi; 2) che il
pagamento di tale indennità risponda ad una esigenza di equità da valutare rispetto alla
situazione specie, tenendo primariamente conto della quantità di provvigioni
potenzialmente perdute dall’agente in relazione al giro d’affari a lui ascrivibile.
Prima della dir. 86/653 si oscillava fra una configurazione dell’indennità per la cessazione
del rapporto di agenzia alla stregua di una compensazione oppure di un risarcimento.
Adesso il diritto all’indennità è riconosciuto a tutti gli agenti operanti negli Stati membri.
Per quanto concerna il quantum dell’indennità, l’indicazione del legislatore europeo è stata
univoca: esso deve determinarsi nella cifra corrispondente a un’indennità annua, da
calcolare in base alla media annuale delle retribuzioni ricevute dall’agente nel corso
dell’ultimo quinquennio. Il diritto all’indennità sorge anche nel caso in cui l’estinzione del
contratto dipenda dal decesso dell’agente, inoltre il diritto dell’agente di richiedere il
118
risarcimento per gli eventuali danni derivanti dalla cessazione del rapporto con il
proponente è autonomo rispetto alla stessa indennità. Sia il diritto alla riparazione del
pregiudizio derivato dalla cessazione del rapporto di agenzia sia il diritto all’indennità si
estinguono entro un anno dalla cessazione del contratto se l’agente non notifica al
proponente la volontà di farli valere. Esistono cause di esclusione dell’indennità e della
riparazione del pregiudizio derivante dall’estinzione del contratto: 1) risoluzione connessa
a un’inadempienza imputabile all’agente; 2) recesso dell’agente senza che vi rilevino
circostanze riconducibili al proponente oppure all’età, all’infermità o alla malattia
dell’agente medesimo; 3) l’accordo dell’agente con il proponente in forza del quale il
primo possa cedere a un terzo i diritti e gli obblighi derivanti dal contratto di agenzia.
Altra importante conseguenza dovuta alla trasposizione da parte degli Stati membri dell’UE
della dir. 86/653 è il riconoscimento del patto di non concorrenza per il periodo successivo
alla cessazione del contratto. Tale clausola deve essere prevista per iscritto, fare
riferimento alla zona e al gruppo di persone affidati all’agente, ma anche le merci
riguardo alle quali quest’ultimo abbia la rappresentanza. Il patto è da considerare valido
per un periodo di due anni dopo l’estinzione del contratto.
La specificità del contratto di agenzia rispetto ad alcune forma contrattuali
contigue.
Successivamente alla trasposizione della dir. 86/653 rimane ferma l’autonomia del
contratto di agenzia rispetto al contratto di concessione di vendita esclusiva. Inoltre
permane la distinzione fra il contratto di agenzia e quella particolare forma di affiliazione
commerciale che viene definita franchising. Nel contratto di concessione di vendita
esclusiva e nel franchising, prevale il momento dell’attività volta alla rivendita di prodotti,
mentre ciò che caratterizza il contratto di agenzia è lo svolgimento di un’attività di
promozione di affari. Il contratto di agenzia va tenuto distinto anche dal contratto di
commissione, in cui il commissionario conclude gli affari in nome e per conto del
committente. È assai diffusa la prassi commerciale del subagente, come l’agente
dell’agente. Rimangono fuori dal contratto di agenzia le forme particolari di intervento
poste in essere dai mediatori, dai procacciatori di affari, dagli sponsor e da altri
intermediari occasionali, poiché gli agenti svolgono un’attività promozionale degli affari in
modo continuativo.
Alcune considerazioni di sintesi.
L’analisi delle novità indotte dalla dir. 86/653 nei diversi Stati dell’UE in tema di contratto
di agenzia, consente di enucleare gli snodi principali della nuova disciplina. In particolare,
emerge la netta caratterizzazione dell’incarico dato all’agente nel senso della promozione
dei contratti, restando tale funzionalità distinta da quella della conclusione degli stessi.
Altro elemento è rappresentato dalla stabilità conferita al rapporto di agenzia,
sottolineandone il carattere continuativo in riferimento precipuo all’attività promozionale
gravante sull’agente. Non appare intaccata la caratterizzazione dell’agente nei confronti
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del proponente come un lavoratore autonomo, poiché sull’agente grava il rischio
dell’organizzazione dell’attività connessa al contratto di agenzia nella sfera territoriale di
competenza.
Anche se l’autonomia dell’agente è compromessa laddove si ammetta
che egli possa lavorare per un solo proponente, finendo la sua posizione per presentare
oggettivamente contorni più vicini a quelli del lavoratore subordinato. Altro cardine della
disciplina comunitaria è quello di assicurare all’agente una tutela in tema di diritto alla
provvigione, essendone fissata la spettanza in riferimento a tutti gli affari conclusi nella
zona d pertinenza, nonché per gli affari conclusi in prima persona, dal proponente
sfruttando la clientela acquisita precedentemente dall’agente.
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