Pdf Opera - Penne Matte

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Pdf Opera - Penne Matte
Prologo
Kitzbuehel- Pista Streif19 gennaio 2002
Ore 9.09
Sono al cancelletto di partenza. La mente sgombra da ogni pensiero che non sia il percorso,
provato e rivisto con gli occhi della mente cento volte.
Respiro profondamente. Oggi è il mio giorno fortunato. Me lo sento. Ho il numero nove. Meglio di
così non mi poteva capitare. E’ la mia occasione e saprò sfruttarla.
5.4.3.2.1.Biiip
Parto. La neve è stupenda, dura, compatta. Una lastra di marmo, come piace a me.
Il tracciato è tosto davvero, ma del resto le gare di discesa libera lo sono sempre e quelle di Coppa
del Mondo ancora di più.
Mi piace da matti tutto questo. L'adrenalina a mille, il pericolo, la velocità, perché sono un duro
anch’io. Più il percorso è difficile, meglio riesco. E’ una specie di sfida.
E io adoro le sfide.
Un salto. Curva a destra. Un tratto dritto, velocissimo. Curva ancora a destra. Altro salto. La
curva successiva è a sinistra, un po’ stretta. Ma l’anticipo bene e mi trovo pronto per la successiva.
Che figata di neve c’è oggi! Mi diverto come un pazzo.
Sento che sto andando bene. Sento la neve, sento la velocità, sento il tracciato. Sento che è la mia
giornata.
E’ quasi finita. Sono in fondo, l’ultimo salto e poi non mi resta che volare sul traguardo.
Merda, l'ho anticipato troppo. Il palo, cazzo.
Il palo.
Poi più nulla.
Buio totale.
Il pubblico trattiene il fiato, mentre guarda sui maxi-schermi lo sciatore che impatta contro uno dei
pali e cade a peso morto sulla lastra ghiacciata della pista, capitombola giù, perde uno sci e continua
a rotolare per il resto della discesa, in diagonale, fino a fermarsi contro la rete rossa che delimita il
percorso.
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1. Il soldatino di stagno
19 gennaio 2002
Gherard riprende conoscenza mentre intorno a lui c'è il caos: i responsabili del soccorso in pista lo
stanno avvolgendo nella coperta termica e gli tengono sul viso una maschera con l'ossigeno.
Lui cerca di sorridere e vorrebbe dir loro che non ne ha bisogno, che è caduto mille altre volte, che
non gli è mai successo niente di grave, a parte una lussazione alla spalla, una volta. Ma gli uomini
sono tutti serissimi e gli dicono di non muoversi e non parlare.
Solo allora si rende conto di un dolore acuto alla gamba destra.
-Forse si è rotta? Peccato per la stagione finita, puttana vacca!,-pensa tra sé.
Ma le facce intorno a lui sono tese e stanno parlando di trasportarlo con l'elicottero a Innsbruck.
-Elicottero? Ma che esagerati! L'ambulanza basta e avanza per una gamba rotta.
Gherard è in stato di shock e una fitta più lancinante, mentre lo imbracano nel toboga, lo spedisce di
nuovo nel mondo dei sogni.
21 gennaio 2002 - Clinica universitaria di Innsbruck
Quando si desta nuovamente è nella stanza di un ospedale, quello di Innsbruck, e suo padre è
addormentato accanto a lui, nella poltrona.
-Papà? Porca merda, lo hanno fatto venire fin qui? Ma quanto cazzo ho dormito?
Gherard cerca di sollevarsi a sedere ma non ne ha la forza e ricade sul cuscino, mentre più di una
spia intorno a lui inizia a lampeggiare ed emettere suoni.
-Ma porc… Già odio la sveglia! Che è 'sto casino?,- pensa, mentre vede contemporaneamente
entrare un'infermiera e suo padre svegliarsi di soprassalto.
-Buongiorno, bell’addormentato!- esordisce quella che sembra una matrona tedesca, e ne ha anche
l’accento. -Dormito bene, dolcezza?
Suo padre intanto lo sta guardando, preoccupato e sollevato ad un tempo.
-Ciao Ghe! Mi hai fatto prendere un bello spavento, sai? Temevo non volessi svegliarti più, anche
se continuavano a dirmi che era soltanto l'effetto dei farmaci... Come ti senti?- Edmund Miller parla
veloce, sputando una raffica di parole, come quando è teso, o commosso.
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-Po...trei sentir...mi me…glio se non avessi tutti que...sti tu...bi intor…no…,- a Gherard manca il
fiato e le parole escono stentate. Gli sembra di far fatica anche a pensare e, mentre la matrona
scambia uno sguardo serio con suo padre, lui ha l’impressione che qualcosa gli sfugga.
Vorrebbe che l'infermiera uscisse, che lo lasciasse solo con suo padre.
-Una più carina e giovane non ci sarebbe?
Poi due colpetti alla porta lo distraggono e un medico fa il suo ingresso con fare sorridente,
avvicinandosi a lui e salutandolo con un buffetto sulla spalla.
-Come si sente il nostro campione?,- chiede.
-Di merda, grazie,- vorrebbe rispondere Gherard, tuttavia sorride con una smorfia di noncuranza.
L'impressione che gli stiano nascondendo qualcosa è sempre più forte.
-O...kay! Po...sso sapere co...s'ho? Mi s…ento uno s…traccio. Non è no…rmale…, cre…do,- riesce
a biascicare.
Un altro sorriso.
-Otto ore di operazione e tre giorni di coma farmacologico ridurrebbero a pezzi anche un elefante,
direi. Ma hai tempra e fisico. Ti rimetterai in fretta e tra un mese sarai fuori di qui, vedrai.
Detto questo il medico torna serio, controlla la cartella clinica del ragazzo, gli chiede di non
sforzarsi oltre per parlare, poi passa ad osservare la sua gamba, spostando le lenzuola dal fondo del
letto.
E Gherard si perde nuovamente nei suoi pensieri cupi.
-…Otto ore di operazione? Coma farmacologico? Un mese prima di uscire di qui? ...Ma che cazzo
mi è successo?- Non riesce a vedere cosa stanno guardando il medico e l'infermiera, ma sente i loro
commenti: "la ferita si sta rimarginando in fretta", "la situazione è stabile".
Quando si volta verso suo padre vede che ha gli occhi sempre più lucidi.
-Porcaccia la fottutissima merda, ma che hanno tutti? Non sono mica stupido!
Con una gamba rotta: primo, non è usuale sentirsi così a pezzi, secondo, non ci vuole un mese per
uscire dall'ospedale, terzo, papà è troppo preoccupato.
Decide di aspettare che escano medico e infermiera, quindi tira un profondo sospiro e chiama suo
padre, rimasto muto in un angolo per tutto il tempo.
-Papà? Mi di...ci co...sa ha la... mia...gamba?- Fa una pausa che gli costa mezza vita. -La veri...tà...
Edmund Miller apre e chiude la bocca due o tre volte, senza emettere alcun suono. Poi ingoia la
saliva, chiude gli occhi e dice tutto d'un fiato:
-... Nell' incidente non hai soltanto rotto la gamba, Ghe. Nella caduta il tuo piede ha girato più volte
su se stesso... Sono insorti problemi, neuro-vascolari li hanno chiamati, e i medici non hanno potuto
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ricostruire i vasi sanguigni e le vene lacerati. E i tendini. Temevano per la tua vita. Tutti temevamo
per la tua vita, Ghe, - sospira e si passa una mano tra i capelli.
-...La gamba, hanno dovuto amputartela...
Mesi prima
Vent'anni, nativo di Salt Lake City, alto un metro e novanta, sportivo, divertente, ironico, con una
testa di capelli castano chiari, due occhi verdi eternamente sorridenti e una schiera di amici sempre
allegri come lui, Gherard Miller sciava da quando aveva imparato a camminare. Lo sapeva fare
meglio che parlare, correre, studiare, lavorare. Era come respirare per lui, avendo ereditato l'amore
per la neve da suo padre, maestro di sci.
Nella stagione invernale si allenava quotidianamente a casa sua, sulle piste del comprensorio,
mentre d’estate si divertiva con lo sci d’erba, giocava a football e macinava chilometri sui roller,
oltre a lavorare un po’ nell'officina di suo zio e a dare una mano nella stalla di famiglia, dove
avevano un paio di mucche e qualche capra.
Le ultime due attività non gli erano mai piaciute, ma voleva guadagnare qualche soldo per comprare
una macchina nuova e smettere di andare in giro con quel catorcio da museo che condivideva con
suo fratello Paul, un vecchio maggiolino grigio.
Il sabato sera se lo giocavano a braccio di ferro, sotto gli occhi divertiti del padre. A chi perdeva
toccava il re dei catorci, la golf bianca del genitore, che faceva venire voglia di andare a piedi.
Nella rimessa in realtà c’era anche una vecchissima utilitaria nera che da anni nessuno guidava più,
appartenuta alla signora Miller, mancata anni prima, quando i ragazzi erano ancora adolescenti. Una
perdita terribile che aveva lasciato sconvolti tutti i conoscenti e gli amici.
Eliza si era ammalata di cancro, e nel giro di pochi mesi si era spenta sotto gli occhi terrorizzati dei
figli adorati e del marito, annichilito dalla disperazione.
Solo il tempo e il forte affetto tra loro li avevano aiutati, e oggi, cresciuti i ragazzi, non c’era cosa
che ciascuno dei tre uomini non avrebbe fatto per l’altro.
Al contrario di Paul che era sempre stato un ragazzo tranquillo, Gherard combinava quasi sempre
solo disastri, perché aveva sempre la testa altrove. Il football, le ragazze, la macchina, ma
soprattutto lo sci e le gare. Sognava le Olimpiadi e la Coppa del Mondo, ad occhi aperti.
Ma dal maggio del 2001 “altrove” ebbe coordinate geografiche ben precise e un nome: il ghiacciaio
di Ushuaia in Argentina.
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Una mattina di maggio infatti la posta arrivò in ritardo, verso le dieci, e Gherard la sfilò dalla
cassetta, sbuffando contro pubblicità e lettere commerciali di suo padre. Poi di colpo trattenne il
fiato: una busta era a suo nome e proveniva dal Comitato per gli Sport Invernali.
L'aveva aperta con mani tremanti, la saliva azzerata. Tempo di leggere ed era esploso, gridando e
saltando in aria a piè pari.
Era la convocazione a far parte della squadra nazionale sciistica degli Stati Uniti.
Un sogno si avverava.
-Papà! Cazzo, papà! Dove sei?
Corse a cercare suo padre in casa, salendo i gradini due a due.
-Convocato nella Nazionale? Papà, cazzo! E poi il ghiacciaio in Argentina, non ci sono mai stato!
Ma ci pensi, papà? Hanno convocato me! Me!- Era euforico.
§§§
Gherard cambiò molto, dopo l'incidente. Dovette rinunciare alla sua promettente carriera di atleta.
Dovette fare i conti con il dolore e il rimpianto di ciò che era stato e non sarebbe stato mai più.
Pianse, imprecò, urlò. Poi si calmò e, seduto sulla carrozzella, si fece accompagnare da suo padre
nel ricovero attrezzi, dove erano riposti tutti i suoi sci.
-Allontanati papà,- disse solo.
Prese in mano il martello più grosso e pesante che trovò e cominciò a picchiare.
Sudato, feroce, furioso, piegò, rovinò e rese inutilizzabili tutti i sui maledetti sci, che amava più di
ogni altra cosa al mondo, mentre suo padre lo guardava impietrito.
Passò mesi in silenzio, durante i quali parlava solo per dire lo stretto necessario. Per non far
preoccupare troppo suo padre e suo fratello.
E non accettò la protesi. Anzi, non volle nemmeno sentirne parlare.
Perché far finta di niente? Era uno storpio, un menomato. Un handicappato. A che pro fingere di
avere due gambe? Ne aveva solo una.
Qualcuno gli aveva detto, cercando di essere spiritoso, che era meglio di non averne nessuna.
Gli avrebbe volentieri spaccato la faccia, ma era facile perdere l'equilibrio, stando dritti su una
gamba sola. Non si poteva più neanche fare a pugni. Ed era faticoso abituarsi alla gamba di legno,
nonostante non fosse proprio di legno. Era meglio stare seduto su una carrozzella, comodo, riposato,
al sicuro. Ma c'era una fastidiosissima conseguenza.
Sulla carrozzella tutti lo guardavano sorridendogli concilianti, come si sorride a un cretino.
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Tutti cercavano di aiutarlo. Tutti guardavano il suo moncone con la gamba dei pantaloni che
pendeva floscia dal ginocchio in giù. Tutti gli davano ragione. Gli cedevano il passo. Lo
guardavano, e sulla loro fronte lui leggeva una frase a caratteri cubitali: “Povero Gherard”.
La gente non sa che un uomo è un uomo nella testa e nel cuore, e che le sue gambe non c'entrano
proprio niente.
-Okay. Volete essere presi per il culo? Per considerarmi un uomo mi volete in piedi? E mettiamoci
in piedi,- pensò allora.
Da quel momento ricominciò la riabilitazione, lunga, dolorosa e difficile, per abituarsi a muoversi e
camminare con la gamba nuova.
-Se volevi fermarmi, dovevi ammazzarmi, destino di merda. Non azzopparmi soltanto. Così mi hai
solo fatto incazzare.
Ma era dura, durissima, ed alcuni giorni anche più di altri.
Gli amici venivano a trovarlo, gli proponevano di uscire, gli parlavano, e lui era sempre più assente,
distratto, depresso.
Si sentiva un inutile relitto alla deriva.
-Vuoi bere?,- gli chiese una sera Paul, incazzato come mai Gherard lo aveva visto prima.
-Non ho sete.
-Lo sai cosa intendo, Ghe. Bere fino a svenire. Bere per dimenticare.
-Domattina sarei sempre qui. Niente cambierebbe ed in più avrei un fottuto mal di testa,- provò a
sorridere. Ma Paul non sorrideva.
-Non ti resta altro. Bevi, Ghe.
Sparì oltre la porta per tornare con una cassa di bottiglie di grappa, che gli posò sul tavolo, proprio
davanti al muso.
-Ad aprire una bottiglia riesci?
-Cosa credi di fare parlandomi così, Paul?
-Ti sto sfidando, Ghe. Sono la tua fottuta vita di merda e ti sto sfidando. Credevo che non fossi un
vigliacco. Dimmi che non mi sono sbagliato.
Paul sparì di nuovo e tornò con due assi di legno che fissò con nastro d'alluminio intorno alla
propria gamba destra, per bloccarla.
Gherard lo guardava come si guarda un folle in preda a delirio.
-Che cazzo significa questa sceneggiata?
-Alzati, stronzo. Prova a darmi un pugno. Dimostrami che sei ancora vivo. Che non era meglio se
crepavi, cazzo.
E Gherard si alzò.
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-Ora mi hai proprio rotto il cazzo, Paul.
Si pestarono come da bambini, crollando sul pavimento e continuando a colpirsi con tutta la forza e
la rabbia trattenute.
-Smettetela! Siete impazziti?,- urlava il padre, cercando di dividerli, arrotolati come serpi sul
pavimento.
-Stanne fuori, papà.
-Una cosa l'hai azzeccata, stronzo. Stanne fuori, papà.
Quando esaurirono i colpi, le labbra sanguinanti e le mani doloranti, si abbracciarono stretti, un po'
piangendo e un po' ridendo.
-Picchi duro anche con una gamba sola, Ghe.
-Anche tu, pure se sei stronzo.
Si trascinarono in bagno, si lavarono, si asciugarono, e finalmente Gherard parlò.
-Non è che non so di essere ancora vivo. E' che non so più che direzione prendere, Paul. Ciò che
sapevo fare era solo sciare, e sciare non posso più, se non per divertimento, magari con una protesi
adattata… Tu che faresti al posto mio?
Ma Paul non sapeva cosa rispondere.
-Stavo pensando di rimettermi a studiare,- disse un giorno, mentre sedevano a tavola tutti insieme.
-Ho rimesso in piedi me stesso. Voglio studiare per imparare a farlo come lavoro, e aiutare a
rimettere in piedi altri come me.
-Ti serve una protesi anche al cervello, a mio parere!,- aveva scherzato suo fratello, ma gli occhi
dicevano altro. "Qualunque cosa vuoi. Io sono con te", dicevano quegli occhi.
Ghe rise.
Suo padre invece lo guardava serio e commosso, non gli avrebbe mai negato nulla.
Il suo amore verso i figli era incondizionato e rispettoso, quasi cieco.
-D'accordo,- disse semplicemente.
Così Gherard, con una borsa di studio che attestava i suoi precedenti meriti sportivi, lasciò la casa
paterna e partì per l'Università di Denver.
Con la stessa caparbietà usata in allenamento, si mise a studiare e stette lontano dalle sue montagne,
dal suo paese, dalla sua famiglia, da casa sua, per sei lunghi anni. Tornando solo per le feste
comandate, d'estate e in qualche week-end.
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All'inizio fu difficile arrangiarsi da solo, cucinare, studiare, dare gli esami, muoversi, anche fare
amicizia. Non voleva parlare di sé, e invece c'era sempre qualcuno che lo riconosceva e gli faceva
domande imbarazzanti.
-E adesso cosa pensi di fare?
-Scii ancora?
-Hai pensato alle Paraolimpiadi?
Pensare ci aveva pensato, però non poteva farne il suo lavoro.
Prima era diverso: qualche anno in Coppa del Mondo, pubblicità, sponsor, poi avrebbe potuto fare il
maestro di sci. Aprire un negozio di articoli sportivi con i soldi guadagnati. Allenare squadre o
atleti.
Come atleta paraolimpico invece, quanti soldi avrebbe mai potuto guadagnare? Chi faceva
pubblicità agli storpi, o li sponsorizzava?
Aveva letto una volta un articolo su uno di loro, reduce dalla vincita della medaglia d'oro alle ultime
Paraolimpiadi invernali: medaglia d'oro, sì, in un trafiletto a fondo pagina, senza foto, tra gli ultimi
articoli del giornale sportivo. Una vergogna. Aveva mandato una mail di fuoco al direttore che gli
aveva risposto scusandosi.
La vita è ingiusta, ma le regole del business contano più di quelle della giustizia, e delle persone.
Così, alle domande che gli rivolgevano Gherard rispondeva evasivo, fingendo superficialità e
indifferenza, difetti che non aveva più.
Un giorno vide una ragazza seduta a terra che stava ascoltando musica con il suo Ipod, mentre
leggeva un libro posato sulle ginocchia, fuori dall'aula magna. Passandole vicino, poggiò il piede
“finto” sulla sciarpa di lei e stava quasi per finire in terra, ma riuscì a riprendersi contro lo stipite
della porta.
-Maledetta gamba di legno e maledetta vita di merda! Non potresti spostare 'sta sciarpa del cazzo,
tu?,- imprecò.
La ragazza lo sentì e, senza alzare gli occhi a guardarlo, gli chiese scusa.
-Non riesco a vedere dove poggio le cose,- rispose.
Allora Gherard notò che ciò che lei stava leggendo era scritto in braille. Si sentì un cretino
certificato, le offrì un caffè per scusarsi e in breve divennero amici.
Studiavano insieme, a volte uscivano.
Lei era cieca dalla nascita e non sentiva la mancanza di quello che invece a Gherard mancava da
impazzire: la vita normale di prima. Ma lo aiutò a trovare un senso anche alla vita del dopo.
Lei fu il suo primo vero amore.
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Riusciva a ballare, a ridere. Gli chiedeva di farle “vedere” le cose. Lui doveva descriverle cos'è un
cielo azzurro.
Come si può spiegare a chi non l'ha mai visto? Se la cavava con le sensazioni.
Il tepore di una giornata di sole è il cielo azzurro.
Liscio come il vetro è il cielo azzurro.
Lieve come una carezza è il cielo azzurro.
Così tutte le sensazioni piacevoli erano colori pastello e chiari. Tutte quelle dolorose e sgradevoli
erano colori scuri.
Crebbe Gherard. Fuori era già un uomo da un po', ma dentro lo divenne dopo l'incidente e dopo la
rabbia.
Sicuro, forte, più introverso rispetto a quando era ragazzo, ma maledettamente determinato, con un
cipiglio scontroso che lo rendeva molto affascinante.
Lui non se ne accorgeva, ma in facoltà tutti si giravano a guardarlo, quando passava, ammirati per la
sua storia e il suo carattere.
La ragazza non vedente era spagnola e dopo la laurea tornò a fare tirocinio al suo paese.
Anche Gherard desiderava tornare a casa propria. Gli mancavano suo padre e suo fratello, gli
mancava il suo paese, gli mancava la montagna.
Si lasciarono senza drammi. Erano stati necessari l'uno all'altra, due tronchi alla deriva che si erano
salvati, aiutati, fatti forza a vicenda. Ora erano in porto, al sicuro.
-Buona fortuna,- si augurarono, senza lacrime, abbracciandosi.
In seguito, il tirocinio di Gherard fu all'ospedale di Salt Lake City, per due anni.
Faceva più ore dell'orologio. Alla sera il moncone dove poggiava la protesi gli faceva un male cane.
Ma in ospedale si sentiva utile, vivo. Un uomo completo, non solo un pezzo d'uomo. Si fece
apprezzare e benvolere per serietà e caparbietà, e fu così che, terminato il tirocinio, il dottor
Spreider, uno dei più importanti specialisti ad operare al Salt Hospital due volte alla settimana e
direttore della Clinica Major a Denver, lo volle con sé.
A distanza di poco più di due anni, oggi Gherard Miller è il vicedirettore di quella stessa clinica.
Stimato da chiunque lo conosca e amato dai tanti pazienti che ha aiutato a rimettersi in piedi, con la
sua preparazione medica e la sua esperienza personale.
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Oggi per nulla al mondo cambierebbe la sua vita con quella di prima dell'incidente, futile, dal futuro
incerto, quella stessa che gli era sembrata insostituibile.
La sorte è strana: un attimo sei fortunato, un attimo dopo sei un relitto, ancora uno e rinasci.
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