Scarica il testo completo dell`intervento di Jan Nawazi

Transcript

Scarica il testo completo dell`intervento di Jan Nawazi
Testimonianza di Jan Nawazi
Sono Nawazi Jan e vengo dall’Afganistan. Sono qui in Italia da maggio 2007.
Sono scappato dall’Afganistan per due motivi. Il primo è che sono un hazara. Gli hazara
nel mio Paese sono la minoranza sciita, mentre la maggioranza delle persone è sunnita. I
talebani – sunniti – ci hanno sempre considerato inferiori e, quando hanno preso il potere,
hanno cominciato a perseguitarci.
Il secondo motivo per cui sono scappato è che mio padre era un colonnello di un gruppo
etnico nelle guerre interne dell’Afghanistan, contro i talebani ed altri gruppi.
Da 7 anni in Afghanistan i talebani non sono più al potere e c’è un governo eletto, ma la
situazione è esattamente come prima, anzi sta peggiorando. Anche se non sono più
tornato nel mio Paese, vado tutti i giorni a leggere il sito della BBC e non solo: ogni giorno
muoiono centinaia di persone. Quando uno esce di casa non sa se vi farà rientro oppure
no. Ogni madre non sa se suo figlio tornerà a casa vivo oppure no. Si passa la vita così,
per il momento, in Afghanistan. Il fatto che vi sia un governo, da questo punto di vista, non
ha cambiato nulla.
Dopo aver lasciato il mio Paese sono rimasto in Pakistan per sette anni e in Iran per tre;
ho lavorato sempre come calzolaio, dall’alba fino a notte fonda. Spesso dormivo nel
laboratorio dove lavoravo.
Tuttavia non potevo rimanere in Iran perché in Iran è troppo difficile per noi afgani avere i
documenti. E, senza quelli, potevo essere scoperto in ogni momento ed essere mandato
indietro in Afganistan.
Anche i rapporti che gli iraniani hanno con noi, con gli afgani, sono orribili. Faccio un
semplice esempio: la frase che loro usano per indicarci, quando passiamo per strada, è:
“Afgani schifosi”. Questa è una parola ricorrente per noi in Iran: noi non possiamo
rimanere in quel Paese.
Tuttavia, non potevo nemmeno tornare in Afganistan perché c’erano ancora i talebani. Ho
deciso allora di lasciare l’Iran per venire qui, “da questa parte”, in Europa. Sapevo che il
viaggio era molto pericoloso e potevo anche morire. Ma per me era più importante cercare
una vita.
Eravamo in 12 quando siamo partiti dall’Iran: è stato il trafficante a cui ci eravamo rivolti a
formare il gruppo. Una volta arrivati al confine con la Turchia, poi, ci hanno ulteriormente
diviso in 4 o 5 gruppi. Noi eravamo i primi e, una volta giunti ad Istanbul, abbiamo
aspettato l’arrivo degli altri nostri compagni. Non tutti sono arrivati. Abbiamo poi saputo
che un gruppo era stato fermato dalla polizia, rispedito in Iran e da lì in Afghanistan. Un
paio di loro so che stanno in Pakistan, ma degli altri non so nulla.
Non tutti sono fortunati come noi che siamo riusciti ad arrivare da “questa parte”. Ognuno
di noi sa che sta rischiando seriamente la propria vita. Qualcuno arriva e qualcuno no.
Ogni passo è un pericolo, è sempre così.
E i pericoli più grossi sono quelli che incontri ai confini: tra Afghanistan e Pakistan, tra
Pakistan e Iran, tra Iran e Turchia, tra Turchia e Grecia. Ad esempio, per arrivare in
Turchia dall’Iran bisogna fare almeno una settimana di tragitto a piedi in mezzo alle
montagne ed è molto rischioso: se finisci l’acqua o le scorte di cibo “rimani lì”. So di
moltissime persone che sono “rimaste lì”.
Per arrivare in Grecia dalla Turchia, poi, bisogna prendere un gommone: se scoppia,
finisci in acqua. Ma devi rischiare. Io ad esempio non sapevo assolutamente nuotare,
avevo sempre avuto paura dell’acqua. Ma, in quel momento, mi sembrava del tutto
normale, non avevo paura.
E anche dalla Grecia per arrivare in Italia, sono tante le persone che sono morte, come
ormai sanno tutti. Come quel ragazzo che è morto sotto il camion vicino a Forlì. E tanti altri
come lui.
È come se, per tutta la durata del viaggio, ad ogni passo ci fosse un pericolo e non
sappiamo mai se riusciremo ad arrivare.
Il viaggio dall’Iran alla Turchia è durato tre settimane: in autobus, camion, oppure, per dei
lunghi tratti, a piedi.
Sono rimasto a Istanbul due settimane. Mi hanno portato in una casa dove c’erano altre
persone come me che aspettavano di venire “da questa parte”. Si pagavano 100 dollari
per dormire; se si rimaneva una notte o un mese era uguale. Sempre 100 dollari.
Poi, per 300 dollari a testa, ci hanno portato in furgone fino a una città sulla costa, vicino
ad un’isola greca, Samo.
Lì c’era un gommone e noi dovevamo arrivare in Grecia da soli, remando. Avevamo un po’
d’acqua e dei panini per sopravvivere. Siamo partiti in cinque, alle 23,30. Dopo due o tre
ore in acqua, una barca ci è venuta incontro. All’inizio pensavamo che fossero i poliziotti
greci che venivano a salvarci e portarci in Grecia. Eravamo contenti. Ma quando si sono
avvicinati, abbiamo visto che avevano la bandiera turca. Il nostro viaggio si è interrotto lì.
Ci hanno portato a riva e siamo rimasti per tre sere chiusi in un garage, dove faceva
freddissimo, anche perché non avevamo altri vestiti. In questo posto non ci hanno mai
dato da mangiare o da bere, se non un pezzettino di pane con uovo. Di notte non
riuscivamo a dormire dal freddo e se provavamo ad addormentarci durante il giorno
(eravamo distrutti dalla stanchezza!), le guardie ci prendevano a calci per costringerci a
stare svegli. Dopo tre giorni ci hanno portato via e, facendoci pagare 40 euro a testa, ci
hanno fatto tornare in autobus ad Istanbul. Se anziché liberarci ci avessero rimandato in
Iran, le nostre storie, le nostre vite sarebbero diverse ed il nostro viaggio avrebbe potuto
finire lì.
Ad Istanbul abbiamo ricontattato il trafficante che ci ha ospitato nella stessa casa di prima.
Dopo una settimana siamo ripartiti, con un altro gommone. Abbiamo remato
ininterrottamente per dodici ore prima che la polizia greca ci avvistasse.
In Grecia sono rimasto per tre settimane a Patrasso. Ogni giorno, ogni mattina, partivo
sperando di passare il confine per venire da “questa parte”. Ci provavo dieci, dodici volte
al giorno. Sotto ai camion, sopra ai camion, in qualsiasi buco che trovavo. Ma mi hanno
sempre scoperto: o il camionista, e mi mandava via, o i poliziotti, e allora mi davano anche
dei calci, mi picchiavano.
Dopo tre settimane, ho pagato un trafficante che mi ha trovato un posto in un camion
svedese che trasportava ferro, con altre 18 persone. Siamo rimasti lì dentro circa 36 ore,
chiusi senza niente da mangiare o da bere, finché siamo sbarcati ad Ancona.
Là siamo stati ancora fortunati, come sempre, perché al controllo del camion non ci hanno
trovato. Il camionista non sapeva che noi eravamo dentro perché eravamo saliti alle 3 di
notte mentre lui dormiva. Poi improvvisamente, mentre eravamo in autostrada, ci ha
sentito ed ha chiamato la polizia. Il mio viaggio si è interrotto così.
Ricordo che a Patrasso avevo conosciuto una ragazza francese che studiava Scienze
Politiche a Parigi e veniva tutti i giorni al campo dove dormivamo. Siccome io parlavo
inglese abbiamo cominciato a passare un po’ di tempo assieme e a conoscerci. Tutte le
sere lei rientrava a dormire in albergo e mi salutava dicendo: “Ci rivedremo in Italia”,
perché pensava che ce l’avrei fatta quella sera ad imbarcarmi. Il giorno dopo, quando
tornava al campo, mi chiedeva: “Sei ancora qua?”. Un giorno è venuta a salutarmi perché
doveva tornare a casa: in mano aveva il biglietto della nave che l’avrebbe portata in Italia.
Le ho detto: “Vedrai, io sono un afgano, arrivo prima di te in Italia”. Quella sera stessa
sono riuscito a passare. Il giorno dopo le ho scritto una mail dall’Italia, in cui le dicevo: “Hai
visto che sono arrivato prima di te?”
E’ un ricordo bellissimo che ho di Patrasso.
Adesso guardo i ragazzi che sono ancora bloccati a metà del viaggio. Quando sei in
mezzo, hai solo voglia di cercare una vita tranquilla, normale. Vuoi avere il diritto di vivere
come le altre persone di questo mondo. Oggi penso che sia un viaggio impossibile,
allucinante. Guardo i documentari o le foto che vengono fatti con riguardo alla nostra
situazione, con riguardo a quel viaggio, e mi chiedo: “Come ho fatto?” Non so darmi una
risposta.
Non ho consigli da dare a chi si trova ancora a metà strada, ognuno rischia con la propria
vita e lo sa. Ognuno è responsabile di se stesso. Ma è meglio trovare una vita normale
che vivere in quelle condizioni in cui loro si trovano oggi. E per trovare una vita normale,
per avere il diritto di vivere, bisogna affrontare questo rischio. Bisogna rischiare con la vita.
Meglio morire piuttosto che sopportare quelle condizioni.
A questo riguardo voglio dire un’altra cosa: l’Unione Europea e le organizzazioni
internazionali dovrebbero dare una mano ai ragazzi che si trovano ancora a metà strada,
che vivono in quelle condizioni in Grecia. La loro non è vita. Quella situazione, anche se
sul territorio europeo, è peggiore dell’Afghanistan. E anche in Italia ci sono condizioni
simili.
Ma raccontarle a chi sta pensando di partire non serve a niente: se, durante il mio viaggio,
un parente o un amico – ne ho in Italia, in Norvegia, in Inghilterra – mi avessero detto
quello che succedeva in Grecia o in Italia, io avrei pensato che scherzassero. Non
possono succedere queste cose in Europa! Quando tu guardi la tv o senti un po’ quali
leggi a tutela dei diritti umani esistono qui in Europa, non puoi pensare che poi succedono
cose del genere. Nessuno in Afghanistan può credere che in Europa non ci sia rispetto per
i diritti umani, come il diritto di chiedere asilo.
Dunque, se adesso io raccontassi a qualcuno che si trova in Afghanistan le reali
condizioni dei viaggi e quello che succede, non sarei creduto. Penserebbero che non
voglio che mi raggiungano.
Comunque, dopo aver fatto questo viaggio – che è il viaggio che fanno tutti gli afgani che
vengono “da questa parte” – ho domandato l’asilo in Italia e lo Stato mi ha riconosciuto la
protezione. Vivo a Bologna, lavoro e vado a scuola. Non avevo mai studiato in vita mia, se
si esclude un anno di scuola coranica in Afghanistan quando ne avevo cinque. Eppure, in
tre mesi e mezzo di studi intensi, ho preso la licenza media, poi ho fatto corsi di italiano e
di informatica ed ho anche preso la patente di guida.
Ora lavoro in una pizzeria dove faccio un’ottima pizza napoletana, autentica.
Mi trovo bene sia con i miei amici sia con i colleghi, italiani e stranieri. Per il momento va
così, più avanti non si sa. Forse, tra qualche anno, a Bologna ci sarà una “Pizzeria
Kabul”….