Il cinema sulla scuola per l`innovazione delle pratiche

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Il cinema sulla scuola per l`innovazione delle pratiche
Il cinema sulla scuola per l’innovazione delle
pratiche didattiche
A. Agosti
Università di Verona
[email protected]
Abstract
Il confronto sui film di argomento scolastico può tradursi, per l’insegnante, in un utile
strumento di riflessione sulla propria pratica
educativa, e, per il ricercatore, una nuova
strategia di indagine. Il contributo presenta
le riflessioni maturate a seguito di alcune
esperienze condotte opresso l’Università di
Verona.
Abstract
The comparison of films with a school-based
plot may become a useful tool for teachers
to reflect on their teaching practice, as well
as a new research approach for researchers.
This paper presents the reflections stemming
from a series of experiences conducted at
the University of Verona.
Parole chiave: analisi delle pratiche, cinema,
formazione.
Keywords: analysis of teaching practice,
films, training.
Roig Vila, R. & Laneve, C. (Eds.) (2011). La práctica educativa en la sociedad de la información. Innovación a través de
la investigación. La pratica educativa nella società dell’informazione. L’innovazione attraverso la ricerca (pp. 19-32).
Alcoy - Brescia: Marfil & La Scuola Editrice.
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A. AGOSTI
1. LA COLLABORAZIONE TRA TEORICI E PRATICI NELLA FORMAZIONE E NELLA RICERCA:
ALCUNE CRITICITÀ
Questa riflessione prende le mosse da una domanda che provvede ad una prima precisazione della prospettiva delineata nel titolo del presente contributo: quali dispositivi e quali
setting si possono organizzare al meglio per lavorare con i colleghi docenti nelle scuole di ogni
ordine e grado sulle loro pratiche educative/didattiche sia in prospettiva di formazione, sia
in prospettiva di ricerca? Nello scritto si formula una proposta specifica. Si sottolinea la problematicità sottesa all’espressione ‘al meglio’, alla quale si potrebbe aggiungere un prudente
‘possibile’: al meglio possibile. È necessario esplicitare con chiarezza il perché ci si interroghi
attorno a tale questione, e in che termini si avverta la presenza di una serie di elementi critici,
in senso negativo, che potrebbero intervenire nei processi di formazione e di ricerca tra teorici
e pratici.1
Si tratta di una problematicità che, nel pensiero di chi scrive, postula un’attenta considerazione e che deriva dall’incontro tra professionisti appartenenti al medesimo comparto
dell’istruzione e dell’educazione, seppure a livelli differenti, in particolare tra professionisti
della didattica e della ricerca in ambito universitario e professionisti della didattica e dell’educazione negli altri ordini precedenti del sistema d’istruzione. Ci si chiede se non debba essere
considerata un problema, ai fini di una comunicazione il più possibile trasparente, l’esistenza
di una serie di reciproche attese, di percezioni, di rappresentazioni, di vissuti, di sentimenti, di
pregiudizi e stereotipi, e forse anche in taluni casi di idiosincrasie precostituite che possono
verosimilmente condizionare il clima di lavoro, che dovrebbe essere il più disteso e collaborativo possibile.
Occorre però uscire dall’indeterminatezza di ipotesi in alcun modo sondate presso gli
attori coinvolti nei processi suddetti, considerando i dati emersi da una prima e semplice
indagine esplorativa effettuata attraverso la somministrazione di un questionario anonimo
proposto ad un gruppo di insegnanti impegnati nell’azione formativa promossa dal Ministero
dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca a partire dall’anno 2007, tutt’ora in corso, che
va sotto il titolo Didattica della comunicazione didattica.2 Tale azione, ora riconfigurata come
piano Logos per la formazione degli insegnanti in ingresso, vede impegnate alcune centinaia
di scuole di ogni ordine e grado, scelte nel territorio nazionale. Il campione dell’indagine non
è particolarmente esteso – una quarantina di colleghi –, ma stimato sufficiente a rendere
significativa questa prima esplorazione, che non aveva lo scopo di risultare attendibile da un
punto di vista quantitativo, bensì di consentire di iniziare, si sottolinea il termine, a mettere a
fuoco alcune crucialità.
Quali pensieri possono infatti assumere forma se si prende in considerazione l’universo di
sentimenti/sensazioni, elementi di rappresentazione vari che emergono dai dati raccolti? Vale
la pena di riportarne alcuni. Alla domanda rivolta ai docenti in questi termini: come vive la
figura del docente universitario? Che cosa prova nei suoi confronti? Risponda liberamente con
1
In questo scritto si propone un costante riferimento alla dimensione della formazione e a quella della ricerca, ambedue capaci, se correttamente gestite, di promuovere l’innovazione. Si è ben consapevoli che alle due finalizzazioni
corrispondono intenzionalità differenti, ma si è altrettanto convinti che quando si fa ricerca le ricadute sul piano
formativo sono inevitabili, anzi auspicabili. Inoltre una buona azione di ricerca, come una buona azione di formazione,
producono solitamente esiti trasformativi, in tutti i soggetti coinvolti. Si chiede quindi una certa comprensione se in
questa sede non si terrà molto conto degli aspetti di distinzione tra i due tipi di azione.
2 I materiali prodotti nella prima fase dell’azione formativa sono raccolti in Butturini (2008).
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Il cinema sulla scuola per l’innovazione delle pratiche didattiche
singole parole per favore’; essi hanno reagito offrendo un ventaglio di esternazioni quanto mai
variegate. Ne è risultato un universo di esplicitazioni molto interessante, che non può non condurre ad un atteggiamento pensoso, che potrebbe interessare ambedue le controparti, se controparti le si vogliono considerare o se tali le si vogliono vedere. I termini impiegati dai docenti
sono riportati di seguito. Spesso sono attributi, sovente invece sostantivi o talora piccole frasi,
che esprimono tuttavia una rappresentazione precisa. Pur muovendosi nella consapevolezza
che le parole non sono del tutto trasparenti e quindi specchio fedele rispetto al significato
reale che intendeva loro attribuire chi le ha pronunciate, pur tuttavia la loro lettura consente di
cogliere alcune crucialità. Di seguito l’elenco di abbinamenti effettuati alla figura del docente
universitario da parte di docenti dei precedenti ordini e gradi dell’istruzione scolastica:
Autoreferenziale, gerarchico, libertà, curiosità, innovazione, cooperazione, distante,
teorico, discrepanza tra contenuto e forma di presentazione, rispetto, distanza, scollegato, arrogante, farraginoso, fastidio, disagio, collaboratore/trice, esperto/a, rapporto
paritario, aiuto, attenzione, se è intelligente è accettato, socializzato e condiviso, esperto nella sua disciplina, specialista, con disagio per la separatezza dalla quotidianità
della scuola, lontananza – distacco, nicchia, teoria, parole, sapere, astrazione, ricerca,
attenzione, rispetto, anche un po’ d’invidia, subìta, indifferente, distanza, demotivazione, erudizione, invidia (per tempo libero), competenza, specializzato, lontano dalla
scuola di base, specializzato, astratto, concentrato su di sé, lontano dalla pratica quotidiana, astratto, specializzato, autoreferenziale, avulso, isolato, egocentrico, presuntuoso, autonomo, disponibile se interessato, preparato (teoria), poco avvezzo a calarsi
nel quotidiano, pronto a delegare, rispetto, diffidenza, curiosità, cólto, appassionato,
creativo, settorialità, frammentazione, specialismo, frontalità, trasmissività, ricercatore, distacco, docente privilegiato, ricercatore, costruttore della conoscenza, prestigio,
“chi sa di più”, “può dedicarsi ad accrescere il sapere”, avidità, invidioso, non sempre
leale, accademico, distaccato, autoreferenziale, inavvicinabile, supponente e astratto,
stima, invidia, possibilità di dedicarsi alla ricerca, serio, profondo, bene, positivamente,
dialetticamente, rispetto, stima, considerazione, attenzione, rispetto, curiosità, aderenza, concretezza, ricerca, perplessità, curiosità, invidia, fondamentale, innovazione, di
riferimento.
Procedendo ad un’analisi anche rapida di alcuni descrittori, si giunge ad individuare alcuni nodi. Un primo dato che emerge, evidenziandosi nettamente, è la quantità di termini e di
espressioni che connotano in modo decisamente negativo la rappresentazione che i docenti
non universitari hanno dei loro colleghi che lavorano negli atenei. Circa la metà delle esplicitazioni si qualifica in tal senso, ma anche altre esternazioni, pur riconoscendo alcune caratteristiche apprezzate, se le si leggono e le si interpretano nei risvolti di significato che possono
rappresentare, sono da considerarsi come problematiche. Di per sé, ad esempio, l’attributo
‘teorico’ potrebbe essere colto nella sua valenza positiva, ovvero nel suo significato di ‘orientato scientificamente, o sorretto da teorie rigorose’, però si sa come i pratici dell’educazione
e dell’istruzione, in particolar modo i docenti della scuola dell’infanzia, primaria e ancor più
dei successivi gradi dell’istruzione, ritengono sovente molto poco concreto l’approccio verso
le discipline adottato dai docenti universitari, soprattutto ai fini della didattica quotidiana che
essi si trovano a dover assicurare giorno per giorno a favore dei loro allievi.
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Tre sono comunque i nodi principali, le categorie organizzatrici, di molti dei pareri negativi
espressi: la distanza, la teoreticità appunto, e l’astrattezza. In particolare il primo termine si
lega per congruenza concettuale alle idee, pure espresse, di una separatezza, un isolamento,
un distacco, uno stato di avulsione che caratterizzerebbero la figura del docente universitario/
ricercatore rispetto a quella del docente di una scuola di grado precedente. Il quadro presentato lascia intravvedere comunque una problematicità rispetto alla qualità delle relazioni che
si può determinare quando questi professionisti della ricerca e della didattica si trovano per
lavorare assieme, ovvero per fare formazione o per fare ricerca. Sarebbe inoltre interessante
esplorare anche l’immaginario dei docenti universitari rispetto alle loro rappresentazioni dei
colleghi che non lavorano negli atenei.
Altri elementi emersi dall’indagine esplorativa, relativi alle funzioni che secondo i docenti
non universitari dovrebbero assicurare i colleghi accademici, specificamente in un percorso di
formazione o di ricerca sulle pratiche didattiche, si possono sintetizzare in alcuni nuclei che
vale la pena di citare: il docente universitario dovrebbe esercitare una funzione di guida, di
supervisione, di controllo, di valutazione, di correzione, di ‘illuminazione’, di chiarimento, di
aiuto.
Risulta evidente come per ottenere quella vicinanza di intenti e quella complicità che
possano garantire un lavoro compartecipato, il più possibile libero dal peso di stereotipi e pregiudizi, sulla cui legittimità o meno qui non è il caso di mettersi a discutere, occorre effettuare
un lavoro di scongelamento, di promozione di una compliance3, ben preparato e ben gestito.
La fiducia reciproca si qualifica come requisito a valenza scientifica, in grado di determinare
verosimilmente il livello di rigorosità di un’azione di ricerca.
Nel presente lavoro ci si interroga su quali dispositivi si possano mettere in atto per ottenere il raggiungimento di questo requisito, indispensabile perché un’attività di formazione e
di ricerca possa svolgersi, tra pratici e teorici, in un clima il più possibile tranquillo, nel senso
della creazione di un ambiente in cui i soggetti coinvolti possano sentirsi il più possibile alla
pari e, aspetto più rilevante, possano percepirsi tutti come autori della ricerca stessa.
2. LA PRESENZA DI PERCEZIONI E DI COMPONENTI AFFETTIVE OSTACOLANTI
Quando si lavora tra professionisti accomunati dal medesimo tipo di lavoro, in questo caso
l’insegnamento, non c’è ostacolo maggiore, rispetto ad un cambiamento consapevolmente
agito, di una percezione reciproca che veda gli uni e gli altri collocati asimmetricamente,
soprattutto sul piano delle conoscenze e delle capacità operative, rispettivamente disciplinari
e metodologico-didattiche. I docenti universitari vengono vissuti o si sentono, sovente, in qualche modo superiori, più ferrati rispetto ai contenuti delle diverse discipline, in possesso di una
maggiore e più completa preparazione resa tale grazie all’apporto teorico, in grado quest’ultimo di garantire precisione, pertinenza, rigorosità e solidità al loro sapere. L’insegnante degli
ordini di scuola precedenti all’università si sente spesso come colui, o colei, che ‘sa di meno’
da un punto di vista dei contenuti disciplinari, salvo poi scoprire in certi casi che ciò non corrisponde alle situazioni di fatto. Analogamente succede, in direzione inversa, per quanto riguar3
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Compliance è un termine mutuato dal linguaggio medico; il grado di compliance indica il grado di adesione del paziente alle prescrizioni dei medici. Da questo punto di vista risulta problematico adoperarlo nel contesto di significato che
si vuole costruire se non si valorizza il termine ‘adesione’. In questa direzione, più suggestivi e più pertinenti risultano
essere altri termini, anche impegnativi, che compaiono negli stessi titoli di alcune opere recenti: cfr. Calidoni (2004),
Damiano (2006).
Il cinema sulla scuola per l’innovazione delle pratiche didattiche
da le competenze didattiche legate alle diverse discipline, campo di sapere e di azione in cui
è il docente universitario a trovarsi frequentemente in difficoltà. L’analisi degli elementi che
concorrono ad alimentare questo senso di asimmetria andrebbe articolata più approfonditamente, ma ai fini di questa riflessione si ritiene sufficiente la breve puntualizzazione proposta.
Sussistendo tale reciproca percezione, spesso sottaciuta, ma intimamente presente
nell’immaginario cognitivo ed affettivo dei professionisti dell’insegnamento e della ricerca, si
è convinti che non poche siano le resistenze verso un cambiamento che dovrebbe anch’esso,
auspicabilmente, realizzarsi in termini di reciprocità: non si spostano – non cambiano postura
– né i docenti universitari, né i docenti degli altri ordini dell’istruzione scolastica, o se lo fanno,
questi ultimi, ciò avviene quando i docenti universitari si siano posti in una relazione dialogica
con i loro interlocutori. Si è evocato il termine ‘cambiamento’, che va di pari passo con l’idea di
‘innovazione’. Rispetto a quest’ultima parola, si esprime la convinzione che perché si inneschi
un processo di innovazione convinta e consapevole, vissuta in termini di pieno protagonismo
da parte dei professionisti della scuola, occorra un diverso tipo di rapporto con i colleghi delle
università, un rapporto di minor diffidenza, di maggiore riconoscimento reciproco delle proprie
specificità professionali, un rapporto in cui i diversi docenti si sentano maggiormente alla pari,
in una posizione meno asimmetrica, una posizione, sostanzialmente, di ascolto reciproco, di
autorità e autorialità condivise. A tale riguardo è necessario adottare un atteggiamento di
cura reciproca, di gentilezza, teso più al riconoscimento di ciò che di buono e valido sa offrire
l’interlocutore, e anche di cura, da parte di ogni partecipante ad un processo di formazione o
di ricerca, attorno a ciò che egli stesso, o ella stessa, possono – debbono – sentirsi invitati
ad offrire, ad esplicitare. Solo in questi termini gli apporti degli uni e degli altri attori coinvolti
possono essere avvertiti come doni reciproci, che invitano ad un ripensamento di sé consapevole e davvero aperto all’innovazione didattica creativa, piuttosto che essere vissuti, ad
esempio, come un passaggio di informazioni e di sapere perché poi questi ultimi vengano
applicati in classe.
Il tipo di relazionalità che si instaura tra i professionisti non è certamente neutro rispetto
all’adozione, magari implicita, di un modello di formazione e di ricerca di stampo applicazionista, non in grado di promuovere quella ‘alleanza’, termine felice, necessaria a garantire il
senso dell’interdipendenza positiva (Damiano, 2006).
3. IL FILM SULLA SCUOLA COME STRUMENTO DI RICERCA FACILITATORE
Uno degli strumenti che forse può aiutare a ‘scongelare’ possibili blocchi, ad eliminare o
perlomeno a ridurre possibili ostacoli, garantendo fin dal primo momento, in tema di pratiche
didattiche, di lavorare con gli insegnanti su un terreno ‘pertinente’ eppure in qualche modo
neutro, o per lo meno ‘esterno’, è il cinema. Si intende qui proprio il film, in particolare il film
sulla scuola, non tanto l’audiovisivo o il filmato o il documentario, bensì proprio il film, per una
serie di motivi che qui si accennano brevemente. Spesso i film raccontano di scuole lontane,
nel tempo e nello spazio, ed inoltre si può parlare con i docenti dell’intenzionalità dell’autore/
degli autori del film stesso, dell’idea di scuola di questi ultimi, del loro modo di rappresentare
l’azione insegnativa.
Un universo davvero bello ed interessante per cominciare a parlare di scuola, dell’insegnare e delle connessioni relative. Al tempo stesso parlare del film assieme può in un primo
momento coincidere con una fase in cui i docenti si possano esprimere liberamente, sotto
la spinta delle emozioni che parecchie buone pellicole, ma anche mediocri, sanno suscitare.
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Ed è estremamente interessante verificare che cosa succede dopo la visione di un film,
durante la discussione libera, quando si cerchi, da parte del ricercatore, di rassicurare
costantemente i colleghi rispetto alla possibilità di pronunciarsi senza il timore di venire
valutati o, peggio, giudicati. Tutto ciò che viene detto dopo la visione di un film è almeno
potenzialmente utile, mai controproducente. Non deve sussistere il timore dell’interpretazione ‘errata’, poiché non esistono né quella ‘giusta’, né tantomeno quella ‘buona’. Si
ripropone la stessa cautela in un approccio che non debba appoggiarsi sull’idea che solo
l’intervento buono, corretto, pertinente possano avere spazio, perché può verificarsi, a giudizio di chi scrive, quella stessa preoccupazione che può sorgere nel pratico dell’insegnamento quando lo si inviti a parlare delle ‘buone pratiche’, magari di quelle che egli stesso
attua nel suo insegnamento.
Si potrebbe definire questo un approccio morbido4, non immediatamente schiacciato sul
vissuto professionale del singolo collega, al quale non si chiede immediatamente di parlare
appunto delle sue pratiche, bensì sul vissuto immaginato/interpretato e sull’agito di figure
dell’insegnare rappresentate sullo schermo e interpretate in modo progressivamente sempre
più approfondito dopo la visione filmica, in un secondo momento, in un tempo disteso, senza la
pressione di urgenze predefinite e incombenti.5 Si è ben consapevoli d’altra parte che l’impiego
del film in sede di ricerca, e di formazione, non garantisce alcuna forma di neutralità. Si potrebbe recuperare opportunamente in questo caso il concetto di ‘pressione deittica’ o ‘indicale’,
proveniente dalla clinica della formazione di Riccardo Massa, che ha trovato però in Angelo
Maria Franza uno dei suoi più attenti cultori e implementatori (cfr. Franza & Mottana, 1997).
Interessante comunque leggere alcuni stralci tratti dai diari di bordo di alcune insegnanti
coinvolte nella ricerca citata in una nota precendente:6
La visione del film è un buon inizio per una buona occasione formativa e di ricerca sicuramente. Intanto perché la visione del film rilassa e invita all’apertura, alla disponibilità
di sé. Contemporaneamente, come le tecniche meditative, ti porta a decentrarti da te,
dal tuo io più strutturato e rigidamente costruito. In questa condizione e con tutti gli stimoli riflessivi che ne emergono, la discussione sul film con gli insegnanti può svolgersi
in un clima facilitante e non accusatorio. Nel parlare del film e non subito di sé, credo
che cadano anche quelle barriere protettive dietro le quali si difendono e si consolidano rigidamente le nostre posizioni.
4
Si tratta di un principio, che si ritiene anche etico, prima ancora che funzionale ad una ricerca empirica rigorosa,
spesso richiamato da Mortari, sulla scorta dei suggerimenti che ella ricava da Fenstermacher (1994); cfr. Mortari
(2010, p. 5).
5 Chi scrive sta conducendo una ricerca dal titolo La scuola sullo schermo, che si trova al suo secondo anno di svolgimento, e deve ancora concretizzarsi in un lavoro condiviso di attenzione alle pratiche didattiche osservate sullo schermo appunto, per passare poi alle pratiche agite in classe dai docenti coinvolti nella ricerca stessa. Si ritiene che non
si debba avere fretta, pena l’insorgere di un sentimento alquanto problematico nei soggetti: quello che il ricercatore
abbia già in mente, in modo compiuto, i tempi e i modi di sviluppo dell’intero percorso.
6 I corsivi sono di chi scrive. I termini in tal modo isolati sono da considerarsi in collegamento con l’idea di fondo del
presente scritto, ovvero che esistano una serie di ostacoli che in sede sia di formazione, sia di ricerca, debbano essere
riconosciuti ed eliminati o almeno ridotti. I brani riportati sono stati selezionati dai testi originali scritti dai docenti.
La scrittura si attesta quale pratica centrale e privilegiata nei processi di ricerca: è nello spazio della scrittura che il
soggetto riesce a riflettere in un tempo disteso, riflessivo e per questo maggiormente proficuo sul piano della significatività di quanto esplicita. Cfr. Mortari (2003) e Laneve (2010).
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Gli insegnanti non si sentiranno giudicati o accusati, perché nessuno metterà in discussione il loro comportamento professionale. Saranno essi stessi a riflettere su di sé,
a ripensarsi, a decidere se mettersi in discussione.
Un film sulla scuola credo che possa offrire un ottimo spunto di ‘riflessività’, quasi una
sorta di sosta che permette di attuare un distanziamento dalle ‘fredde’ pratiche e teorie, per
evitare che l’insegnamento si trasformi in un agire in termini di sola efficienza ed efficacia,
rischiando di perdere di vista tutto l’orizzonte e l’aspetto valoriale. Spesso nelle nostre azioni
viene trasmesso quello che è il nostro vissuto emozionale, il nostro giudizio. Ecco, ritengo che
la visione di film ‘scolastici’ potrebbe far riflettere sulla necessità di saper gestire il proprio
vissuto emozionale: questo ritengo sia l’aspetto più problematico di ogni ambito formativo e
di ricerca, che spesso fa nascere la sensazione di sentirsi giudicati e criticati.
La visione di un film come inizio è un buon modo per alleviare la tipica tensione ricercatore/formatore e soggetto in formazione o chiamato a collaborare per la ricerca. Con la proiezione ci si cala tutti nello stesso ruolo di spettatori e questo ‘appiattire’ le differenze permette
di relazionarsi con minor timore per una eventuale discussione. È come il critico quando deve
stilare le proprie impressioni. Si siede e guarda: è uno spettatore felice di esserlo, come dice
Roberto Escobar.7 Lasciar scorrere e fluire le proprie emozioni e i propri sentimenti, cancella i
pregiudizi con cui alle volte ci si accosta ad un film, per capire per esempio come esso sia lo
specchio di una realtà, non sempre simile alla nostra, ma con punti di congruenza molto forti.
Ciò che appare in un secondo momento importante e assai problematico nel suo determinarsi, e in questo frangente l’intenzionalità del ricercatore deve essere sottoposta a un
controllo per quanto possibile rigoroso, è il progressivo allontanamento dalle vicende, dai nodi,
dalle questioni individuate nel film, per avvicinarsi a questioni, crucialità, aspetti rilevanti che
riguardino le pratiche didattiche/educative di chi è coinvolto nell’azione formativa/nel percorso di ricerca, volta quest’ultima a far emergere l’implicito dal pratico, riconoscendo come la
pratica spesso sia improntata a teorie in parte inedite, creative.
La novità c’è, nelle pratiche, ma è silente, latente, nascosta: la ricerca compartecipata la fa
emergere e il punto di partenza per alleggerire un clima di reciproche attese e percezioni dense,
come s’è visto, può essere la visione di un film. Una visione compiuta assieme, in una stanza
buia e ben attrezzata, la quale, se non proprio come una sala cinematografica, consenta quel
rapporto diretto, personale ed esclusivo che si determina tra spettatore e immagini cinematografiche, rapporto durante il quale ci si dimentica, quasi, di essere in compagnia di altre persone.
4. CARATTERI DI MAESTRI E PROFESSORI SULLO SCHERMO CINEMATOGRAFICO
Alcuni contributi specifici in ordine alle rappresentazioni sullo schermo di quelle che
potremmo denominare come ‘figure dell’insegnare’, ovvero di maestri e professori, sottolineano come sia possibile individuare una serie di categorie nelle quali vederli collocati.
7
Il riferimento è relativo al saggio di Escobar (2004, p.32). Dice l’autore: “Che cos’è uno spettatore? C’è una definizione
di spettatore che mi piace molto: lo spettatore è un re in trono. Quando si spengono le luci, che si tratti di una poltrona
comoda, come per fortuna accade oggi, o che si tratti di una panca schiodata, come accadeva trent’anni fa, in ogni
caso lo spettatore è appunto un re in trono, e lo è in una dimensione e in un luogo dove tutti sono re. Non c’è gerarchia
nella platea del cinema” .
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Bocci identifica ben quattordici possibili raggruppamenti: gli autoritari, i direttivi, i flessibili,
i democratici, i lassisti, gli incompetenti, i dipendenti, i coraggiosi, i creativi, i buoni, gli intellettuali, gli esaltati, i mediatori, e poi sotto l’espressione l’eterno femminino evoca le insegnanti
procaci e spesso scollacciate presenti nella commedia all’italiana degli anni Settanta (Bocci,
2002), mentre altri saggi di autori stranieri identificano l’insegnante come guardiano della
cultura e liberatore, l’insegnante iconoclasta e sovvertitore, quello portatore di una cultura
aliena, colui che nell’insegnare si attesta soprattutto come agente di cambiamento, come
soggetto che apprende egli stesso, come mèntore appassionato ed empatico (cfr. Raimo,
Devlin-Scherer & Zinicola, 2002). La maggior parte dei film sugli insegnanti a scuola raffigurano docenti in possesso di una carisma non comune, a volte eccezionale.8 Altrove si analizzano
le rappresentazioni cinematografiche dell’agire professionale e delle vite personali degli insegnanti, e si dimostra come i film che le contengono possano essere adoperati efficacemente,
al pari dei testi di pedagogia e di didattica, per la formazione degli insegnanti in servizio, anche
in virtù della particolare presa sul piano e affettivo e cognitivo che essi sanno esercitare sugli
spettatori (Trier, 2001; Robertson, 1997; si veda anche Gale & Densmore, 2001). Talvolta può
accadere che un testo filmico possa risultare verosimilmente molto più efficace, ai fini formativi, di un testo sull’insegnamento. Si sostiene anche che le rappresentazioni di educatori ed
insegnanti presenti nella cultura popolare e veicolate dai mass media di vario genere, hanno
ricadute evidenti e dirette in termini di condizionamento degli immaginari individuali e collettivi, soprattutto dei giovani (cfr. Fisher, Harris & Jarvis, 2008).
Nelle diverse opere citate si evidenzia come le caratterizzazioni delle figure di insegnanti
siano quasi sempre molto accentuate. D’altra parte la riconoscibilità da parte dello spettatore
di caratteri prevalenti nei personaggi filmici è resa talvolta quasi obbligatoria dalla narrazione cinematografica, perché l’autore o gli autori di cinema tendono spesso ad enfatizzare in
un’unica direzione le caratteristiche di personalità dei loro protagonisti, per garantire l’adesione incondizionata o, al contrario, il netto distanziamento da parte dello spettatore, che dev’essere adeguatamente sollecitato sul piano emozionale. Questo perché il film risulti avvincente.
Talvolta, nel caso dei film sulla scuola, l’enfatizzazione dei caratteri dei maestri e dei
professori che agiscono sullo schermo è talmente accentuata da tradursi in rappresentazioni
caricaturali, se non addirittura macchiettistiche, non per questo sovente meno interessanti
sul piano artistico e sul piano del lavoro di formazione e di promozione della ricerca.9 Queste
enfatizzazioni possono provocare nello spettatore una simpatia o, al contrario, un sentimento
di indifferenza se non di distanziamento o addirittura di avversione, tale da influenzare e condizionare la percezione globale dei personaggi osservati sullo schermo. L’impatto emotivo che
un protagonista dello schermo è in grado di provocare, architettato spesso ad arte dal regista e
dallo sceneggiatore, e altrettanto spesso programmato fin dall’inizio del film, è destinato verosimilmente a far sì che tutto l’agire di tale protagonista venga letto in buona misura sotto tale
8 Cfr. l’interessante Carry on, teachers, in cui l’autrice Ellsmore prende in considerazione una ventina di opere cinematografiche e televisive. Nel suo testo ella dimostra come nessuna di queste sia esente da cliché e stereotipi, se non
addirittura talvolta da pregiudizi, ma afferma anche come, nonostante questi limiti, esse possano essere utilmente
impiegate per porre all’attenzione di chi le guardi questioni cruciali rispetto all’attività insegnativa, nonché temi centrali quali, citandone solo alcuni, il rispetto reciproco, l’ascolto, l’autenticità nelle e delle relazioni interpersonali, la
valorizzazione dei singoli talenti e della solidarietà nel gruppo, per arrivare sovente ad interrogarsi sui temi essenziali
e generali relativi al senso della scuola e della stessa educazione. Cfr. Ellsmore (2005).
9 E’ questo il caso, ad esempio, dell’indimenticabile Amarcord (Italia/Francia 1974) di Federico Fellini.
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Il cinema sulla scuola per l’innovazione delle pratiche didattiche
condizionamento. Una volta che lo spettatore è stato conquistato, in termini di adesione, o, al
contrario, in termini di distanziamento, egli può tendere a confermare quello che si configura
come un vero e proprio giudizio, che diventa pregiudizio per lo svolgersi successivo della vicenda filmica. Da questo punto di vista si rivela utile il lavoro di confronto tra le diverse letture e le
diverse interpretazioni e può assumere un significato preciso il tentare di descrivere le pratiche
osservate sullo schermo nei termini di una fedeltà rigorosa nella misura maggiore possibile.
Resta comunque un interrogativo da risolvere: come è possibile – e si può legittimamente intervenire, in qualche modo – per offrire un punto di vista divergente qualora esso non
emerga dalla posizione di almeno uno dei soggetti coinvolti nella ricerca? Si fa l’esempio de
L’attimo fuggente, conosciutissimo e accattivante film di Peter Weir. Il protagonista, il professor John Keating, ha raccolto e raccoglie adesioni e consensi quasi unanimi circa il suo modo
di intendere la funzione della scuola e dell’insegnamento, modo che si riflette in una didattica assai vivace, inconsueta, sorprendente, piena di stratagemmi, generalmente apprezzati.
Eppure, a parere di chi scrive, ma anche di altri che hanno argomentato attorno alla figura
di tale insegnante, egli appare sostanzialmente come un docente autoritario al pari dei suoi
colleghi, se non peggio, ovvero un insegnante che tende a plagiare i suoi studenti, tanto più
pericoloso in quanto in perfetta buona fede, in virtù dei sottili dispositivi suasori che egli mette
in atto per convincere velocemente i suoi allievi, al fine di portarli a pensarla come egli desidera. È ciò che accade, in modo meno marcato e assai meno ‘pachidermico’, anche a Katherine
Watson, professoressa di Storia dell’arte, nel piacevole film Mona Lisa Smile, la quale, agendo
attraverso la sua materia, cerca di indicare alle sue allieve che lo sbocco per il loro futuro non
può configurarsi solo nei termini della brava moglie, protesa a fare figli e a condurre una vita
da casalinga modello, bensì anche in altre direzioni, per esempio quella dello studio e della
ricerca, come ha fatto lei.10
Il ruolo del ricercatore, in questi casi, può essere quello di rilanciare continuamente le
interpretazioni dei suoi ‘collaboratori’ nei processi di formazione e di ricerca. È improbabile
che, operando in tal modo, non si levi qualche voce divergente rispetto ad interpretazioni
corali univoche. L’importante è che egli controlli i modi e i toni dei suoi rilanci, al fine di non
determinare una centralità accentuata della sua presenza, che induca a prestare attenzione
ad una serie di sue attese e precomprensioni, predefinite e urgenti, soprattutto percepite
come ‘necessarie’. Nulla vieta che comunque egli possa esplicitare anche il suo punto di vista,
magari al termine dei confronti, e senza far assumere alla sua esplicitazione il tono e il colore
dell’interpretazione più opportuna, quindi in qualche modo più valida, e perciò definitiva.
5. IL FILM COME PRE-TESTO DI RICERCA: ANCORA CRITICITÀ
Il linguaggio filmico è fatto di una serie di componenti visive e auditive del tutto peculiari:
campi corti, medi, lunghi, primi e primissimi piani, esaltazione di dettagli, nonché dialoghi,
musiche, suoni e rumori, luci, ombre e colori. Una sintassi estremamente complessa e variegata che evidenzia tutta una serie di particolari, oppure li nasconde, in modo che la visione
10 Sia L’attimo fuggente sia Mona Lisa Smile del regista Mike Newell (USA, 2003), raccontano vicende ambientate in
due college americani, piuttosto esclusivi, che si svolgono negli anni Cinquanta. Per una argomentazione più ampia e
dettagliata su Mona Lisa Smile cfr. Agosti (2008). A proposito di figure di insegnanti sullo schermo che presentano più
o meno sospette deviazioni connotate da autoritarismo, da narcisismo e da un erotismo in forme al limite del lecito,
si può leggere Bauer (1998).
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ne risulti condizionata a ciò che il regista o lo sceneggiatore vogliono proporre all’occhio e
all’orecchio dello spettatore. Certamente il testo filmico esercita in tal senso una pressione
che non è da sottovalutare, ma, per gli scopi che ci interessano, neanche da considerare
necessariamente solo un limite.11
Nella realtà percepita in situazione, nella vita quotidiana, l’occhio e l’orecchio umani non
sono così abituati ad operare quelle selezioni che invece sarebbero molto utili per riconoscere
alcune caratteristiche o elementi rilevanti delle pratiche, ad esempio, all’interno di un contesto
lavorativo, come quello scolastico. L’esercizio attentivo verso i particolari e i dettagli può
essere facilitato dalla visione dei film, come pure, indubbiamente, la loro presenza e la
loro enfatizzazione nell’opera di cinema possono costituirsi come elementi di convergenza
verso la costruzione narrativa dell’autore o degli autori dei film. Esiste peraltro sempre la
possibilità delle interpretazioni da parte degli spettatori, di modo che gli elementi mostrati
e colti durante la visione filmica, possono essere utilmente messi in discussione, tenendo
conto del problema – ma anche al di là di esso – delle intenzioni di chi ha realizzato il film
(cfr. Agosti, 2001, cap. I).
Comunque il lavoro di interrogazione attorno al pensiero, o anche all’ideologia che possono
aver guidato l’autore o gli autori di una determinata opera filmica, se compiuto in gruppo, si
rivela un passaggio formidabile per il disvelamento reciproco di modelli e teorie implicite da
parte dei soggetti coinvolti nella formazione e/o nella ricerca. Questo vale massimamente per gli
elementi simbolici e metaforici presenti nei film: un territorio di lavoro quanto mai promettente.
Un altro limite, ma nello stesso tempo risorsa, che si definisce quando i professionisti della
scuola guardano film che trattino di vicende situate nel loro medesimo contesto di lavoro è
l’inevitabile rispecchiamento che si genera. Da un altro lato però, a detta degli interessati,
come si può leggere sopra, è possibile che si verifichi anche una sorta di decentramento,
almeno temporaneo, rispetto a quanto visto sullo schermo.
Questo induce a ritenere che comunque la visione di un film è destinata a produrre una
certa dinamicità, rispetto alla propria posizione, da parte dello spettatore. A tale proposito, la
metafora del viaggio, seppure da ritenersi non del tutto esauriente rispetto a ciò che accade
quando si guarda un film, può comunque essere interessante. Tale esperienza è però verosimilmente destinata a non dare frutti maturi se non c’è una successiva opera di riflessione,
anche sulle sensazioni e sui sentimenti provati. Il confronto in gruppo può essere a questo
riguardo molto utile. La prima impressione a pelle, rispetto alla quale va dato spazio d’espressione, va esaminata rispetto ai possibili motivi che l’hanno determinata, a partire dalla prima
semplice ed immediata impressione ricevuta, ovvero se una determinata opera filmica sia
risultata piacevole oppure no.
Ma proprio questa prima impressione si definisce come un passaggio cruciale del lavoro di
ricerca, perché può condurre frettolosamente ad aderire a pratiche e modelli osservati senza
entrare più di tanto nel merito delle stesse pratiche e degli stessi modelli.
Può essere quindi una via efficace, da praticare, quella di cercare di descrivere oggettivamente le pratiche osservate? E se non ci si riesce subito, quale senso può avere separare,
riconoscendoli nelle descrizioni, quegli elementi di pensiero, o emozionali, come sono stati
11 Un campo di studio quanto mai interessante, e poco praticato, è quello relativo alle influenze che il cinema e la
televisione esercitano su studenti ed insegnanti. Si tratta di un vero e proprio condizionamento, che verosimilmente
impoverisce la loro capacità di valutazione e perfino la qualità delle loro aspettative. Cfr. Gregory (2007).
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Il cinema sulla scuola per l’innovazione delle pratiche didattiche
definiti, dagli elementi descrittivi oggettivi?12 Si tratta inoltre di un lavoro semplice? La compartecipazione tra ricercatori e soggetti coinvolti nella ricerca può attestarsi come una via da
percorrere sperando in una sua efficacia?
La pratica della compartecipazione rappresenta in effetti un’altra criticità rilevante: occorre dare un significato a tale termine, chiedendosi che cosa possa/debba fare il ricercatore e
che cosa debbano/possano fare, in questo caso, gli insegnanti che partecipano alla ricerca.
Il ricercatore può forse infatti aiutare a far emergere e a far sistematizzare le teorie implicite,
quelle che reggono le cosiddette ‘buone pratiche’, espressione che a chi scrive risulta sempre più stretta: in particolare fa problema quel ‘buone’ – chi decide infatti che sono buone?
Da quale punto di vista si osserva per dire che sono buone? Che cosa vuol dire quel buone?
Efficaci? Su quale piano? Educativo? Sul piano degli apprendimenti? Si ritiene che prima di
definire che cosa sia buono o cattivo in didattica, ma anche in educazione, occorra sciogliere
alcuni preconcetti e anche pregiudizi, alcune illusioni, che costantemente agiscono in noi e
che guidano a certi atteggiamenti ed approcci, discutibili e talvolta ambigui, piuttosto che ad
altri, maggiormente rigorosi.
6. GUARDARE UN FILM E LAVORARCI ASSIEME, COMPROMETTENDOSI
Risulta necessario interrogarsi su ciò che succede all’insegnante che guarda un film sulla
scuola, un film che in qualche modo lo tocca da vicino. Il termine ‘tocca’ è degno di attenzione:
la sua presenza, pertinente in ordine a descrivere uno degli elementi che si possono verificare
all’interno dell’esperienza filmica, costituisce – almeno dovrebbe costituire – uno spazio di
pensiero da parte del ricercatore. È evidente che proiettare un film in cui si mostrino le dinamiche che si sviluppano in una determinata vicenda narrata sullo schermo, significa ‘toccare’
le persone per le quali tale esperienza, la visione del film, è stata orchestrata. Non è irrilevante
l’attesa che tali persone dimostrano di avere verso il film, o lo spezzone di film, che il ricercatore ha preparato per loro. Perché ha scelto quel film? Perché l’ha fatto vedere per intero?
Perché ne ha selezionato un solo frammento e perché proprio quel frammento? È chiaro che
questi interrogativi, magari non del tutto così evidenti ai soggetti coinvolti in una ricerca che
utilizzi questo dispositivo, giocano un ruolo, in parte almeno, condizionante. E occorre allora
porsi il problema di come attenuare questa pressione, questa intenzionalità, agita dal ricercatore secondo un suo criterio di scelta attorno al quale si potrebbero concentrare, restandone
troppo condizionate, le risposte degli insegnanti chiamati a fare ricerca.
È comprensibile infatti che in questi ultimi si mobiliti una serie di tensioni e desideri che
vanno da quello di fare, in qualche modo, bella figura, a quello opposto, ma congruente rispetto a quello appena enunciato, di non risultare in qualche modo non all’altezza della situazione.
Il timore del giudizio da parte del ricercatore e da parte dei colleghi del gruppo di ricerca può
giocare un ruolo di ostacolo ad una esplicitazione di pensieri e giudizi liberi il più possibile
12 Il termine ‘oggettivo’ è fortemente problematico. Qui si intende il dato fenomenico come lo si vede accadere e come
lo si può descrivere secondo una formulazione condivisa, che cerchi di fermarsi o meglio di rimanere nei confini di ciò
che si è visto e percepito. Certamente l’attività percettiva innesca una parallela attività interpretativa, che non inizia
dopo la visione filmica, bensì si attiva fin dall’inizio di quest’ultima, rendendo comunque interessante un lavoro che
appare necessario: quello del confronto reciproco delle descrizioni e sulle descrizioni, per discernere assieme di quali
elementi esse si sostanzino, distinguendo il più possibile, almeno in un primo momento, le interpretazioni e soprattutto i giudizi dagli elementi che maggiormente sembrino descrivere in modo fedele le pratiche osservate. Sul lavoro di
analisi dei film nei contesti formativi cfr. Agosti (2001, p. 44-59).
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da vincoli destinati ad allontanare i soggetti dalla possibilità di dire ciò che pensano, senza
doversi troppo preoccupare che ciò che dicono debba risultare necessariamente interessante,
valido, apprezzabile, degno di un giudizio positivo.
Se lavorare sulle pratiche didattiche significa cercare di descriverle al meglio rispetto a
una corrispondenza stretta tra ciò che viene detto e ciò che realmente viene praticato, ciò
implica, a livello di ricerca in gruppo, che si lavori accuratamente affinché si affermi quel
clima di complicità ed alleanza, tra ricercatori e soggetti in ricerca – dove anche il ricercatore
si cimenti nel lavoro di formazione e di ricerca – immergendosene, talvolta eseguendo gli
stessi step delle persone coinvolte nel percorso di formazione o di ricerca, e confrontando il
risultato del suo lavoro con i risultati dei lavori delle persone appena nominate. Questo ovviamente non per orientare l’operatività del gruppo nei termini di un’intenzionalità finalizzata ad
indicare il modo migliore per ottemperare ad una consegna, bensì per dar modo al ricercatore
di esporsi ad una valutazione da parte del gruppo che consenta di far apprezzare come egli
stesso, al pari degli altri soggetti coinvolti nella ricerca, debba tenersi aperto al confronto e
al progressivo aggiustamento degli strumenti concettuali e metodologici praticati nel lavoro
compiuto assieme.13 Potremmo parlare di una necessità specifica, quella che il ricercatore
si comprometta e si sottoponga al vaglio del gruppo per dimostrare come la definizione di
concetti e procedure non possa essere data per scontata, bensì vada monitorata attraverso
un apporto ed una valutazione corale. In altre parole si sostiene che sia opportuno che il
ricercatore non abbia remore a cimentarsi, magari almeno in qualche momento del percorso
di formazione o di ricerca, nello stesso lavoro che svolgono i soggetti e abbia il coraggio di
confrontarsi con loro. Questo vale per diminuire il senso di distanza tra ricercatore e soggetti
coinvolti, alimentando un clima di disponibilità a mostrare che nessuno può arrogarsi il diritto
di proporsi come detentore primario o decisore privilegiato in assoluto di concetti, criteri e
metodologie relative alla ricerca. Nella fattispecie la ricerca cui si è fatto riferimento all’inizio
di questo contributo, ancora in una fase volta ad alimentare il clima di sostanziale parità tra
i soggetti del gruppo, imperniata sul tema delle pratiche didattiche, non ha presupposto una
preliminare definizione della stessa idea di ‘pratica didattica’. Che cosa essa sia, di quali elementi essa si componga, come vada quindi osservata, rilevata e descritta sono tutte questioni
ancora aperte, da definire.
Per questo, dopo i primi tentativi su alcuni referenti filmici, constatato che, data una consegna – descrivere le pratiche didattiche contenute in una determinata opera filmica – gli esiti
erano molto differenti a seconda di com’era stata interpretata la consegna stessa, e deciso
assieme che occorreva intendersi nel modo più preciso possibile attorno all’idea di ‘pratica
13 Nel suo libro Breaking into movies. Film and the Culture of Politics, Giroux affronta il tema del profondo ruolo pedagogico che svolge il film nella società contemporanea e dimostra come esso descriva in una maniera drammaticamente
verosimile il modo in cui i giovani si confrontano con le attuali questioni sociali più scottanti. Condividiamo il tipo di
intenzionalità espresso dall’autore laddove, nell’introduzione, a proposito del suo lavoro di formazione con gli studenti,
che prevede l’impiego di film, specifica: « … I provide a particular reading of the films I analyze, but in doing so I am
not suggesting that my analyses in any way offer interpretations that make a claim to either certainty or finality. My
analiyses of film are necessarily partial, incomplete, and open to revision and contestation. Rather than closing down
student participation, my own interpretations are meant to be strategic and positional, eschewing the notion that any
type of closure is endemic to my perspectives on particular films while at the same time using my own position to
encourage students to think more critically about their own interpretations as they enter into dialogue about films.» (p.
13). Lo stesso atteggiamento deve guidare il ricercatore, che esplicita le sue letture, le sue interpretazioni, ma non le
anticipa né tantomeno le impone, tenendole il più possibile aperte alle critiche di coloro che lavorano con lui.
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Il cinema sulla scuola per l’innovazione delle pratiche didattiche
didattica’, s’è pensato che occorresse un momento di condivisione simultanea del lavoro di
ricerca: visionare tutti assieme uno stesso spezzone filmico, concedersi un tempo di scrittura
circa le pratiche didattiche colte sullo schermo e confrontare gli scritti rintracciando negli scritti stessi le parti dedicate alla descrizione delle pratiche stesse e le parti invece di commento
o di valutazione, ad esempio, delle pratiche stesse. Si tratta di un lavoro raffinato, quello di
descrivere i dati fenomenici restando fedeli all’evidenza dei fatti osservati.
Che cosa succede, infatti, normalmente ad un insegnante quando gli si chiede di restituire
per iscritto ciò che vede accadere, in questo caso, sullo schermo? Succede che egli non si
limiti alla descrizione, bensì si preoccupi immediatamente di accompagnare la descrizione con
una serie di aggettivi ed avverbi volti a comunicare, sostanzialmente, il suo giudizio su una
pratica osservata, un giudizio che tende ad essere di sostanziale adesione e approvazione
oppure di rifiuto e di distanziamento. In ogni caso la tendenza è quella di esprimere immediatamente una valutazione, nel bene e nel male, rispetto ad una opportunità intravista o
pienamente riconosciuta, oppure rispetto ad un comportamento o un’azione che non vengono
giudicati come congruenti ad un buon modo di insegnare o di educare. Nella descrizione delle
pratiche gli insegnanti tendono a giustificare il loro giudizio con aggettivi, verbi ed avverbi che
provengono da una interpretazione della pratica osservata. La scrittura diventa quindi ben
di più di una descrizione fenomenologica di quanto osservato, avendo ogni soggetto, molto
spesso, la tentazione di esplicitare il significato e il senso attribuiti alla pratica stessa. E’ una
tendenza, un rischio, rispetto ai quali nemmeno il ricercatore può pensare di trovarsi in una
posizione di immunità o di esenzione. È un esercizio di rigore, quello di cercare di descrivere
una pratica didattica fermandosi ai suoi elementi fenomenologici, un esercizio difficile, perché
il soggetto in ricerca, soprattutto quando osserva un suo simile, nella realtà o nella finzione,
è portato ad identificarvisi oppure, all’incontrario, a distanziarsene14, e per far questo sente
l’urgenza di dover esplicitare valutazioni e giudizi attinenti al senso e al significato di quanto
osservato, secondo, ovviamente, il suo punto di vista. Succede così che dentro la scrittura
della pratica non c’è quasi mai, in prima battuta, solo la pratica osservata in sè, come dato
fenomenologico sufficientemente oggettivo, bensì anche la sua interpretazione. È umano che
succeda questo. L’apporto del ricercatore diventa quindi un supporto, una compromissione
che però assolve anche alla funzione di coordinamento del lavoro di ricerca, un lavoro che
deve essere, nell’interesse di tutti, il più rigoroso possibile. Anche il ricercatore si può dunque
cimentare nell’esecuzione di una consegna, con il vantaggio da parte sua di affermare, ma in
modo aperto al confronto, una posizione, un punto di vista, che tengano conto di un progetto
di formazione e di ricerca definito nel titolo, ma interpretabile passo dopo passo, tendendo
ad una sintonia sempre più collaborativa e sempre più scevra da timori e attese che ostacolino la comunicazione tra ricercatori e soggetti coinvolti nella formazione o nella ricerca, o in
ambedue le dimensioni, alimentando quella riflessività non imposta in grado di favorire un’innovazione voluta e pienamente consapevole del proprio agire professionale.
14 Si tratta di dinamiche psichiche ed intrapsichiche molto ben descritte da Cesare Musatti; cfr. in particolare il saggio
Psicologia degli spettatori al cinema, ma anche altri contributi dell’autore citato, raccolti da Dario F. Romano in Musatti, C. (2000).
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