Le donne nel mondo

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Le donne nel mondo
Le donne nel mondo, tra discriminazioni e potere al femminile
La discriminazione sessuale a discapito del mondo femminile è un capitolo ancora aperto in tre quarti
del pianeta. Una discriminazione che si configura addirittura come crimine, in molti Paesi dove il passare
del tempo non ha aperto le porte al progresso della civiltà e della democrazia. Dove la rivendicazione
dei diritti da parte delle donne può costare la libertà, l'incolumità fisica o la vita stessa. Un viaggio fra le
diverse, seppure spesso simili, realtà di questi universi femminili nel mondo lo ha realizzato per noi
Daniela Lami, riferendoci gli elementi dolorosi, ma anche gli spiragli di cambiamento. Non manca una
tappa in una terra, l'Islanda, dove la civiltà e l'emancipazione sono regola quotidiana, dove
le donne sono quasi le uniche detentrici dei pilastri dell'economia, della società e della famiglia.
Divorzio all'Egiziana
Strano universo quello delle donne egiziane. Belle, spesso bellissime, come la regina Nefertari, una
donna coraggiosa e determinata, ma inevitabilmente sovrastata dalla figura prepotente del marito, il
faraone Ramses II. Come lei limitate in molti aspetti della loro vita da una legge, quella coranica, che
tuttora rende loro difficile trovare un posto nella società. Le vedi per le strade: di alcune non riesci a
scorgere neanche un centimetro di pelle tanto sono coperte. E le vedi sempre un passo dietro al marito.
Le più giovani hanno un'aria più spensierata, alcune vestono in modo moderno e in nulla diverso dalle
coetanee occidentali, se non per il fatto che hanno la testa coperta da un chador. Nero per le già
maritate, colorato per tutte le altre.
Ma in questo paese, dove la vita sembra essersi fermata a decenni fa, dove vedi ancora le donne che
lavano i panni nel Nilo, gli uomini muoversi per le strade del Cairo a "bordo" di un asino... beh, in questo
mondo a volte incomprensibile per noi occidentali, qualcosa sta lentamente cambiando. Proprio per le
donne. L'alta Corte egiziana ha finalmente sancito che anche loro hanno il diritto di ottenere un
passaporto. Nessuno, e tanto meno il marito, potrà più impedire loro di viaggiare all'estero. Non che
fino ad oggi esistesse un vero e proprio vincolo legale. Anzi: il diritto di ottenere un passaporto e, di
conseguenza, di viaggiare all'estero, in quanto espressione della libertà personale, viene protetto anche
dalla Costituzione. Ma, in questa società maschilista, e per la maggior parte islamica, il divieto era
ormai una consuetudine molto semplice da applicare. Per il marito, infatti, era sufficiente recarsi al
Ministero degli Interni e far inserire il nome della propria moglie in una sorta di lista nera, così da
impedirle di ottenere il passaporto. Un bel risultato, quindi. Ma attenzione. Niente facili entusiasmi. Di
fatto gli uomini potranno ancora impedire alle loro mogli di varcare i confini nazionali, anche se la prassi
sarà un po' più complicata: dovranno presentare un'apposita petizione alla Corte che valuterà caso per
caso, e non più di ufficio, se la donna può viaggiare o meno. Cosa accadrà nella pratica, resta dunque da
vedersi, ma certo la norma ha un grande valore simbolico.
Anche perché arriva solo alcuni mesi dopo un'altra importante e controversa decisione: quella di facilitare
alle donne la richiesta di divorzio dai loro mariti. Mentre gli uomini possono divorziare all'istante e senza
particolari giustificazioni, per una donna egiziana, lasciare il marito, era praticamente impossibile. Per
farlo doveva dimostrare di essere stata maltrattata. Adesso, invece, potrà chiedere il divorzio anche per
incompatibilità. Spetterà a due "arbitri" designati dalla Corte, di verificare se davvero la riconciliazione tra
i due coniugi è impossibile. A questo punto il divorzio verrà concesso. Ma, anche in questo caso,
attenzione: la donna otterrà sì il divorzio, ma dovrà rinunciare a ogni pretesa finanziaria e, quindi a
ogni forma di alimento e, in più, dovrà restituire al marito la dote ricevuta. Del resto, il profeta Maometto
diceva che "una donna può lasciare il proprio marito anche se non ha ricevuto alcun male fisico ma, se lo
fa, deve restituirgli il giardino che lui le ha dato". Dunque, per le donne un altro successo a metà: di
fatto le uniche che potranno usufruire di questo diritto saranno le donne benestanti e comunque coloro
che hanno i mezzi per restituire la dote e per mantenersi senza usufruire degli alimenti del marito.
Inoltre, hanno sottolineato in molti, sarà comunque difficile per una donna ottenere il divorzio, in un
paese in cui non un solo giudice è di sesso femminile.
Paesi arabi: l'emancipazione abita anche qui
Quando parliamo di donne arabe, nel nostro immaginario entrano solo immagini di sottomissione,
frustrazione, diritti violati. In effetti è così. Non bisogna mai generalizzare, ma in generale è così.
Tuttavia, per avere un quadro completo, è necessario aggiungere alcuni tasselli al nostro mosaico. Forse
non tutti lo sanno, ma anche da queste parti si sono affacciate, in tempi più o meno recenti,
delle rivendicazioni di carattere femminista. Nei Paesi arabi, i movimenti femminili sono sorti agli inizi
del XX secolo, precisamente nel 1879 in Libano, nel 1923 in Egitto, nel 1944 in Giordania e in Marocco,
nel 1953 in Bahrein e negli anni '50 in Tunisia, epoca nella quale le Tunisine si sono impegnate nel
movimento di liberazione anticoloniale. Questi movimenti miravano soprattutto ad avanzare
rivendicazioni politiche, ma senza grandi risultati, visto che soffrivano di mancanza d'organizzazione e si
scontravano contro i diversi scogli rappresentati dai loro rispettivi governi. È con la Dichiarazione dei
Diritti dell'Uomo, che si assiste all'emergere di un nuovo discorso femminista. Anche se è solo
nel 1975(data del 1° Congresso mondiale sulla Donna in Messico) che le Nazioni Unite hanno cominciato
a parlare delle donne come delle "partners nello sviluppo". Questo fu anche il punto di partenza di un
progetto mirante ad eliminare ogni forma di discriminazione contro la donna, per collegare la questione
femminile al discorso dei Diritti dell'Uomo. Un progetto che i Paesi arabi devono sottoscrivere se vogliono
vincere la scommessa dello sviluppo.
Fra i 21 paesi arabi, soltanto 8 (fino al 1995) hanno sottoscritto l'accordo concernente l'eliminazione
d'ogni forma di discriminazione contro la donna. Un risultato già di per se modesto, a cui va aggiunta una
considerazione: la firma delle convenzioni internazionali non porta necessariamente alla loro applicazione.
Ed è questo è uno degli ostacoli contro cui si scontrano ancora oggi un buon numero di movimenti
femminili nel mondo arabo. La strada verso l'emancipazione delle donne arabe dalle rigide regole
della Sharia, la legge islamica, soprattutto nei ricchi ma conservatori Paesi petroliferi del Golfo non è mai
stata facile, né sarà breve.
Ciò nonostante, non si può fare di tutta un'erba un fascio. In alcuni di questi Paesi alle donne sono
riconosciuti ruoli sociali, e soprattutto diritti civili, che in altri - come l'Arabia Saudita - sono ancora
disconosciuti. Il Kuwait è l'unico regno del Golfo ad avere un Parlamento democraticamente eletto. Un
paese in cui a prima vista la situazione delle donne è tutt'altro che nera. Il ruolo femminile del Paese,
infatti, è molto importante. Ci sono donne che ricoprono alti incarichi in aziende statali e private.
Numerose sono le donne inserite nel lavoro, e molte sono le intellettuali, le scrittrici e le giornaliste, che
fanno sentire alta la loro voce anche nei tribunali per il riconoscimento dei propri diritti civili cui si
oppongono i parlamentari islamici più integralisti. Alle donne è inoltre riconosciuto il diritto non solo di
arruolarsi nella polizia ma anche nell'esercito. Dunque donne che hanno diritto a fare praticamente
tutto...tranne votare.
Il primo Paese del Golfo in cui tutte le donne sono andate alle urne è stato il Qatar. Nel marzo 1999, si
sono svolte le prime elezioni amministrative a suffragio universale, anche se le sei candidate donne
non sono state elette. La consultazione è stata considerata, da molti analisti, come un importante
esperimento verso la democratizzazione dell'emirato ed un primo passo verso la prossima elezione di un
Parlamento. Altra singolare conquista: lo scorso maggio un gruppo di qatariote - non scortate dai mariti o
da parenti maschi - hanno potuto assistere nello stadio di Doha (da una tribuna riservata) alla finale di un
torneo di calcio.
Anche in Oman le donne possono votare, ma non tutte. L'Oman ha infatti una Shura (Consiglio
consultivo, eletto nel 1997) ma ad eleggerla sono soltanto 50.000 omaniti - uomini e donne appositamente scelti dal sultano. Nel sultanato esistono però tre donne sottosegretario, altre due fanno
parte della Shura ed una è stata nominata recentemente ambasciatore in Olanda. Un'altra curiosità: dallo
scorso maggio il governo del sultanato ha concesso alle donne omanite che lavorano come tassiste di
poter prendere a bordo delle proprie auto anche passeggeri maschi, cosa sino ad allora proibita.
India le donne dimenticate
Paradossale, assurda, incomprensibile e piena contraddizioni. Così si potrebbe riassumere
la condizione femminile in India, un in cui le donne sono formalmente uguali agli uomini, con gli stessi
diritti politici e le stesse opportunità sociali e di lavoro. Un paese in cui la discriminazione sessuale è
addirittura vietata dalla Costituzione indiana. Un paese in cui ai vertici della vita economica e sociale si
affermano sempre di più nomi femminili, come quello della scrittrice Arundhati Roy, autrice di "Il dio
delle piccole cose" o quello di Bhartia Shoban, proprietaria dell'Hindustan Times, uno dei giornali più
autorevoli del Paese.
Ma anche un paese negato alle donne. Un paese in cui la cui discriminazione di massa resta una
realtà, che affonda le sue radici in tradizioni arcaiche, che le statistiche generali mettono bene in
evidenza. Su una popolazione di circa un miliardo di individui, infatti, le donne, a differenza di quel che
avviene in quasi tutto il mondo, sono in minoranza: il 48 per cento. Il rapporto è di 929 donne per
1.000 uomini, a conseguenza di una selezione spietata praticata talvolta ancora prima della nascita.
Quaranta donne su cento non hanno alcun grado di istruzione, e se in alcuni Stati, come il Kerala,
l'alfabetizzazione primaria è prossima alla totalità della popolazione femminile, in altri, come il Bihar, non
raggiunge il 28 per cento. Le donne occupano solo l'8 per cento dei posti in Parlamento, il 6,1
dell'amministrazione pubblica, un quarto di tutta la forza lavoro registrata. E se sempre più numerose
sono le giovani che frequentano le facoltà di Ingegneria, di Informatica o di Economia, la presenza
femminile nelle università è soltanto del 5 per cento. Ma questi in fondo sono solo numeri.
E le storie? Quelle delle donne indiane, raccontano casi strazianti di sfruttamento, di spose
bambine vendute per un sacco di riso, di ripudi e prepotenze, di eliminazioni fisiche per questioni di
dote. Il rifiuto preconcetto di un figlia, considerata come un peso per la famiglia. Su
ottomila aborti registrati a Bombay, dopo un ciclo di esami mirati ad accertare il sesso del nascituro,
7.999 erano feti femminili. Solo un maschio: "La madre era un'ebrea e voleva una figlia". La
discriminazione tra uomini e donne nasce e si perpetua nella famiglia, secondo antiche convenzioni.
La donna è destinata fin dalla nascita a stare in cucina, ad occuparsi della casa, sostenendone tutto il
peso. È difficile cambiare la mentalità. È così nei villaggi, è così ancora in molti ambienti della città. Se si
va a cena in una famiglia borghese, anche benestante, è normale che il cibo venga servito agli ospiti
uomini dalle donne, che poi mangiano per conto loro. Molte cose stanno cambiando anche nella società
indiana, ma nella profonda India, quella dei villaggi, le tradizioni resistono anche alle riforme,
nonostante il sorgere di movimenti di pressione. Dal 1993 un emendamento della Costituzione riserva il
33 per cento dei posti nei consigli locali alle donne. Di fatto, anche quando vengono elette, molte sono
convinte a lasciare la delega al marito, perché non hanno il tempo o la capacità di seguire i lavori. Così
la forma è rispettata e la sostanza non cambia. Forse ha ragione chi dice che: "Per cambiare le donne
dell'India, c'è un solo modo: cambiare gli uomini".
Israele: donne di proprietà
Cosa pensereste di un marito che preferisce aggiustare la sua macchina, piuttosto che portare
la moglie, che sta per partorire, in ospedale? E se vi dicessimo anche che il risultato di tanto egoismo è
che il bambino è nato morto? Terribile. Eppure sono cose che capitano. Capitano ad esempio nel deserto
del Neghev, in Israele. Sorvolando dall'alto questo fazzoletto del mondo, si notano tante piccole oasi
abitate: sono i villaggi dei beduini. Non vivono in case, ma in grosse tende e dormono su materassi
sparsi sulla sabbia all'ombra di larghe tele. Intorno alle tende corrono sempre dozzine di bambini, spesso
figli dello stesso padre, ma non della stessa madre. E dentro le tende, vivono rinchiuse le donne
beduine. Donne che, neanche a dirlo, sono considerate proprietà del marito. Già, una proprietà. E
questa è la somma di una triplice forma di discriminazione:
•
innanzi tutto, queste donne sono musulmane, e all'interno della società ebraica israeliana,
rappresentano una minoranza;
•
in secondo luogo, sono donne che vivono in una società fortemente patriarcale, dove mariti e
padri hanno il completo controllo su di loro;
•
infine, vivono nel Neghev, una zona periferica, rispetto al centro di Israele, e lontana dalle zone
industrializzate.
La donna beduina è la vittima di una tradizione molto forte, in cui la religione è mal interpretata. Tra
queste donne, ci sono molte vittime di stupri e incesti. Vittime che non hanno nessuno a cui rivolgersi,
all'interno della comunità, e sicuramente non possono presentare denunce alla polizia, perché
rischierebbero di essere uccise. Non deve stupire, quindi, che le donne beduine siano molto chiuse,
difficilmente facciano capire le loro sensazioni e i loro stati d'animo: non sono abituate a parlare con
stranieri, e quindi è difficile capire cosa le faccia star male. Molte di loro soffrono, ad esempio, di tumori
al seno ma, nonostante il vicino ospedale Soroka di Beer Sheva abbia i macchinari per mammografia più
avanzati al mondo, quasi nessuna si fa visitare: imariti non vogliono che le proprie mogli vengano
visitate da estranei. Certo, possiamo fare ben poco, per loro. Ma sicuramente parlarne è meglio che
tacere!
Sveliamo le donne afgane
È molto difficile comprendere come ci si sente ad essere donna a Kabul. Sicuramente molto difficile per
noi, donne occidentali, che non facciamo che lamentarci delle - peraltro ingiuste - discriminazioni che
tuttora subiamo in certi ambienti di lavoro e in certi strati di società. Quel che accade in Afghanistan è
fuori dalla portata della nostra immaginazione e fa gelare il sangue, solo a pensarci.
Per chi non ricordasse cosa significa essere donna sotto il regime dei talebani, ecco un piccolo elenco
esemplificativo di divieti. Le donne non possono lavorare. Non possono uscire da casa, se non
accompagnate da un mehram (marito, padre o fratello), non possono andare a scuola("i talebani
sostengono che le donne hanno il cervello più piccolo degli uomini, e quindi non ne vale la pena"); non
possono parlare o dare la mano a uomini che non siano mehram; non possono apparire in tv, né
partecipare a riunioni; non possono ridere forte, né indossare abiti dai colori vivaci; devono
usare autobus riservati; le finestre delle loro case devono essere oscurate, affinché non possano
essere viste dall'esterno. Una donna che non indossa il burqa (o lascia, per esempio, le caviglie scoperte)
rischia la fustigazione pubblica, e se ha le unghie dipinte l'amputazione delle dita.
Certo, l'oppressione e la discriminazione nei confronti delle donne è un fenomeno diffuso in tutto il
mondo. Così come lo è la lotta della donna per i propri diritti, ma in Afganistan la battaglia delle donne
per l'uguaglianza dei propri diritti, è un'idea troppo stravagante, per poter essere anche solo
concepita. In Afganistan, sotto il regime fondamentalista, le donne dovevano lottare, per essere
riconosciute come esseri umani. L'odio nei confronti della donna, come essere subumano, è uno dei
principi del fondamentalismo islamico. La situazione delle donne afgane non era mai stata una
situazione felice, ma nell'ultima metà del secolo, le cose stavano iniziando a migliorare, soprattutto
grazie all'educazione e ai rapidi cambiamenti che stavano avvenendo in tutte le parti del mondo. La
consapevolezza che le donne avessero delle potenzialità e fossero capaci di altro, oltre che ad avere figli,
stava iniziando ad illuminare le menti degli strati più bassi di questasocietà, conservatrice e
tradizionalista. Ma, con l'avvento dei fondamentalisti, la ruota della storia è stata rimandata indietro di
centinaia di anni. Per tutto il periodo, dal 1996 al 2001, nel quale i Talibani sono stati i padroni di Kabul,
le donne di ogni età, anche bambine, sono state vittime di un assurdo regime di segregazione,
instaurato per legge. Senza diritti. Da esseri invisibili. Ed anche oggi, nonostante il ritorno della
democrazia, la strada per l'emancipazione sembra ancora molto lunga, per le donne afgane.
Islanda: civiltà al femminile
Ragazze che spingono carrozzine con splendidi bambini dagli occhi blu infagottati per ripararsi dal
freddo. Ragazze alte e snelle, con le facce slavate e gli occhi chiari e vivaci, intelligenti e sereni, anche
se poco più che adolescenti È questa, la prima immagine che si coglie appena sbarcati in Islanda. Tante
giovani mamme. Anche troppo giovani e persino troppo numerose, per lo standard europeo. Ma non c'è
da stupirsi. Le statistiche demografiche dell'Islanda potrebbero fare impazzire uno studioso della
tendenza. Il trend che descrive la donna del ventunesimo secolo come single, o comunque disposta a
rinunciare alla famiglia e figli, assolutamente non vale nell'isola di ghiaccio. In Islanda si fanno
più figli che in qualsiasi altro paese d'Europa occidentale, il doppio rispetto a quanto accade in Italia.
Eppure, oltre l'85 per cento di esse lavora fuori casa. Sono molto emancipate e molte di loro scelgono,
liberamente e senza rischiare di essere vittime di discriminazioni e pregiudizi, di essere ragazze madri.
Donne forti, quindi. Una forza che hanno forse ereditato dalle loro madri e dalle loro nonne, costrette ad
occuparsi di tutto, perché i loro uomini erano quasi sempre in mare. Donne forti, che abituavano i figli
maschi ad essere uomini forti, perché soltanto così avrebbero potuto, d'inverno, strappare all'oceano il
cibo per tutta la famiglia. Donne forti e all'avanguardia, non solo nella vita privata, ma anche in
quella politica. L'Islanda è uno dei primi paesi ad ottenere il diritto di voto per le donne (era il 1915). È
anche uno dei primi paesi ad avere avuto un partito delle donne, una signora sindaco della capitale e
una presidente donna(Vigdis Finnbogadòttir, 1980-1996). Eletta alla suprema carica dello Stato nel
1980 (la prima donna al mondo a diventare presidente in seguito ad un'elezione popolare), Vigdis
Finnbogadòttir si è distinta anche per aver fatto della difesa dell'ambiente una delle linee fondamentali
della sua azione, assieme a quella dell'educazione attiva dei ragazzi. Sotto la sua presidenza, l'Islanda
ha conquistato il primato mondiale della riforestazione e in un anno, ogni islandese, ha piantato in
media 20 alberi. Donne dunque pedine fondamentali della società islandese. Avete qualche dubbio?
Chiedete a un islandese se si ricorda cosa accadde il 24 ottobre 1975: le donne, in Islanda, si presero
un "giorno libero!". E il paese si fermò.