trasviluppoe decrescita provegenerali perunasocietàsolidale

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trasviluppoe decrescita provegenerali perunasocietàsolidale
LICEO SCIENTIFICO STATALE VALLISNERI
LUCCA
TRA SVILUPPO E
DECRESCITA
PROVE GENERALI
PER UNA SOCIETÀ SOLIDALE
16 e 17 MARZO 2012
IL NOSTRO BENESSERE
Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale
soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico,
nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito
nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla
base del prodotto interno lordo (PIL). Il PIL comprende anche
l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze
per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa,
e le prigioni per coloro che cercano di forzarle […]. Comprende
programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti
violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e
testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la
disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli
equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che
aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi
popolari.
Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità
della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. […] Non
comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori
familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici
dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né
dell’equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia
né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né
la nostra compassione né la devozione al nostro paese.
Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna
di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo
essere orgogliosi di essere americani.
ROBERT F. KENNEDY
(Brookline, 20 novembre 1925 – Los Angeles, 6 giugno 1968)
University of Kansas, 18 marzo 1968
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Frontiere - Liceo Vallisneri - a.s. 2011/2012
- FRONTIERE I giovani che frequentano le nostre scuole
sono la frontiera più importante di tutte le frontiere che possiamo pensare.
Stanno in un punto
ma sono in movimento verso altro.
Si muovono per necessità
e per volontà.
Lenti o veloci,
conflittuali o consensuali,
privi di meta o dediti alla meta,
consapevoli o inconsapevoli:
comunque si muovono oltre l’essere costruito da altri.
Si muovono in una tensione estrema
tra il futuro che (si) rappresentano
ed il passato nel quale sono
e che hanno semplicemente ricevuto.
Sono la nostra frontiera biologica, antropologica, sociale e culturale.
Come tutte le frontiere,
anche questa, soprattutto questa,
è esibita, corteggiata ed esaltata,
ma in realtà è temuta, tenuta ai margini,
mobile ed inafferrabile.
Generiamo frontiere
solo perché così possiamo pensare il loro superamento,
perché
noi o altri
possano andare oltre.
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Frontiere - Liceo Vallisneri - a.s. 2011/2012
PRESENTAZIONE DEL PROGETTO “FRONTIERE”
Il progetto nasce da tre ordini di esigenze:
A) esigenza di rinforzare all’interno della scuola le buone pratiche educative.
- La scuola è comunità, è cittadinanza attiva le cui finalità, struttura, azioni, scelte e regole, sono partecipate e
condivise, dal momento che tutto fa parte della esperienza formativa.
- È comunità in cui i saperi, la formazione, la crescita sono accompagnati e sostenuti da esperienze di relazione e
consapevolezza.
- La comunità scolastica produce e impegna energie intorno a dei beni comuni che costituiscono una rete
articolata di percorsi all’interno dei quali ogni componente deve diventare soggetto attivo e responsabile.
E i nostri beni comuni su cui investire sono:
- progetti formativi permanenti e strutturati (di scuola/di dipartimento/individuali)
- progetti formativi integrati: accompagnano e sostengono i percorsi caratterizzandone e approfondendone
aspetti attorno a vari centri di interesse (umanistico/scientifici)
- incontri, seminari, percorsi, cineforum, dibattiti, convegni
- organi collegiali di rappresentanza: devono potenziare il ruolo di progettare la prassi didattica (riflettere su…
e operare per…)
B) esigenza di vivere la comunità degli studenti come risorsa relazionale-didattica.
- attivare e sostenere le diverse sensibilità dei ragazzi in occasioni di formazione e confronto.
- promuovere una partecipazione condivisa all’elaborazione/progettazione/attuazione di progetti formativi
C) esigenza di ridare alla scuola un ruolo guida, lanciare sfide, occuparsi di se stessa e ritrovarsi come luogo
pubblico, come comunità di pensiero, di formazione e confronto. Ripensare l’esistente scolastico dentro un
progetto
- che prende dall’esterno e ricodifica secondo linguaggi e narrazioni proprie di una comunità formativa
- che restituisce all’esterno la propria storia nella forma della riflessione e della passione del pensiero e del
confronto.
Abbiamo pensato di lanciare un appuntamento annuale, costruire una storia, mobilitare energie intorno a questioni
critiche, che richiedono sforzi e tensioni cognitive. Questo appuntamento l’abbiamo chiamato
“FRONTIERE”
e ogni anno proporrà questioni impegnative attorno a cui condividere e legare tanti momenti isolati che possono
diventare un trovarsi insieme. L’argomento di “Frontiere” di quest’anno è
TRA SVILUPPO E
DECRESCITA
PROVE GENERALI
PER UNA SOCIETÀ SOLIDALE
16 e 17 MARZO 2012
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Frontiere - Liceo Vallisneri - a.s. 2011/2012
QUALCHE RIFLESSIONE INTORNO ALL’IDEA DI PROGRESSO
L’idea di progresso appare come uno dei presupposti teorici della modernità. Si è persino potuto vedervi la vera
“religione della civiltà occidentale”. Storicamente, questa idea si formula intorno al 1680, nel quadro della disputa
degli Antichi e dei Moderni, alla quale partecipano Terrasson, Perrault, l’abate di Saint-Pierre e Fontenelle, per
poi precisarsi su iniziativa di una seconda generazione, comprendente principalmente Turgot, Condorcet e Louis
Sébastien Mercier.
Il progresso può definirsi come un processo che accumula tappe, la più recente delle quali è sempre giudicata
preferibile e migliore, ossia qualitativamente superiore a quella che l’ha preceduta. Questa definizione comprende
un elemento descrittivo (un cambiamento interviene in una direzione data) e un elemento assiologico (questa
progressione è interpretata come un miglioramento). Si tratta dunque di un cambiamento orientato, e orientato
verso il meglio, al contempo necessario (non si ferma il progresso) e irreversibile (non c’è globalmente un ritorno
indietro possibile). I teorici del progresso si dividono sulla direzione del progresso, il ritmo e la natura dei
cambiamenti che lo accompagnano, eventualmente i suoi attori principali.
Nondimeno, tutti aderiscono a tre idee-chiave:
1) Una concezione lineare del tempo e l’idea che la storia ha un senso, orientato verso il futuro.
2) L’idea dell’unità fondamentale dell’umanità, chiamata nella sua totalità a evolvere nella stessa direzione.
3) L’idea che il mondo può e deve essere trasformato, il che implica che l’uomo si afferma come sovrano
padrone della natura.
Queste tre idee provengono in origine dal cristianesimo. A partire dal XVII secolo, lo sviluppo delle scienze e delle
tecniche comporta la loro riformulazione in un’ottica secolarizzata.
Presso i greci, solo l’eternità è reale. L’essere autentico è immutabile: il movimento circolare che assicura
l’eterno ritorno del medesimo in una serie di cicli successivi è l’espressione più perfetta del divino.
Se c’è salita e discesa, progresso e declino, è all’interno di un ciclo al quale non può che succederne un altro (teoria
della successione delle età in Esiodo, del ritorno dell’età dell’oro in Virgilio). D’altra parte, la determinazione
maggiore viene dal passato, non dal futuro: il termine archè rinvia anzitutto all’origine (“arcaico”) in quanto
autorità (“arconte”, “monarca”).
Con la Bibbia, la storia diventa un fenomeno oggettivabile, una dinamica di progresso che mira all’avvento di un
mondo migliore. La Genesi assegna all’uomo la missione di “dominare la Terra”. L’età dell’oro non è più nel
passato, ma alla fine dei tempi: la storia finirà, e finirà bene, almeno per gli eletti. Questa temporalità lineare
esclude ogni eterno ritorno, ogni concezione ciclica della storia, ad immagine dell’alternanza delle età e delle
stagioni. Sant’Agostino sarà il primo a trarre da questa concezione una filosofia della storia universale inglobante
tutta l’umanità chiamata a progredire di età in età verso il meglio.
La teoria del progresso secolarizza questa concezione lineare della storia, da dove derivano tutti gli storicismi
moderni. La differenza maggiore è che l’al di là è ripiegato sull’avvenire, e che la felicità sostituisce la salvezza.
Per pervenire alla sua formulazione moderna, la teoria del progresso aveva dunque bisogno di elementi
supplementari, che appaiono a partire dal Rinascimento, e sbocciano a partire dal XVII secolo.
Lo sviluppo delle scienze e delle tecniche, aggiunto alla scoperta del Nuovo Mondo, nutre allora l’ottimismo
sembrando aprire il campo di un’infinità di possibili miglioramenti.
Francesco Bacone, che è il primo a utilizzare la parola progress in un senso temporale e non più spaziale, afferma
che il ruolo dell’uomo è di dominare la natura conoscendo le sue leggi.
Cartesio propone ugualmente agli uomini di diventare padroni e possessori della natura.
Questa, scritta per Galilei “in linguaggio matematico”, diventa allora muta e inanimata. Il cosmo non è più
portatore di senso di per se stesso. Non è altro che una meccanica che bisogna smontare per conoscerla e
strumentalizzarla. Il mondo diventa puro oggetto dell’uomo-soggetto. L’uomo sperimenta la convinzione che,
grazie alla ragione, può affidarsi solo a se stesso. Il cosmo degli Antichi cede così il posto a un mondo nuovo,
geometrico, omogeneo e infinito, governato da leggi di causa-effetto. Il modello che vi si applica è un modello
meccanico, più particolarmente quello dell’orologio. La tecnica ha l’obiettivo principale di accumulare cose utili,
ossia di aiutare a produrle. C’è un’evidente convergenza tra ottimismo scientifico e le aspirazioni di una classe
borghese sul punto di imporsi su mercati nazionali la cui creazione è andata di pari passo con quella dei regni
territoriali. La mentalità borghese tende a considerare come valide, o addirittura come reali, le sole quantità
calcolabili, ossia i valori mercantili. Georges Sorel vedrà più tardi nella teoria del progresso una “dottrina
borghese”.
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Nel XVIII secolo, gli economisti classici (Adam Smith, Bernard Mandeville, David Hume) riabilitano dal canto
loro il desiderio insaziabile: i bisogni dell’uomo, secondo loro, sono sempre suscettibili di essere aumentati.
È dunque nella natura stessa dell’uomo volere sempre di più e agire di conseguenza, cercando costantemente di
massimizzare il suo miglior interesse. La conclusione che se ne trae è il carattere necessario del progresso: se ne
saprà sempre di più, dunque tutto andrà sempre meglio.
Turgot parla così del “genere umano, considerato dalla sua origine… che appare agli occhi del filosofo un tutto
immenso che ha, come ogni individuo, la sua infanzia e i suoi progressi”.
Il meccanicismo cede qui il posto alla metafora organicista, ma si tratta di un organicismo paradossale, poiché
non vi sono considerati né l’invecchiamento, né la morte. Questa idea di un organismo collettivo che diventa
perpetuamente “più adulto” farà nascere l’idea contemporanea dello “sviluppo” compreso come crescita indefinita.
La nozione di progresso implica ancora l’idolatria del novum: ogni novità è a priori migliore per il solo fatto che è
nuova. La teoria del progresso possiede ormai tutte le sue componenti.
Turgot, nel 1750, e poi Condorcet, la esprimono sotto forma di convinzione: “La massa totale del genere umano
marcia verso una sempre più grande perfezione”. La storia dell’umanità è così percepita come definitivamente
unitaria.
Ciò che si conserva del cristianesimo è l’idea di una futura perfezione dell’umanità e la certezza che l’umanità si
dirige verso un fine unico. Ciò che è abbandonato è il ruolo della Provvidenza, sostituita dalla ragione umana.
L’universalismo si fonda d’ora in poi su una ragione “una e intera in ciascuno” debordante tutti i contesti,
eccedente tutte le particolarità. Parallelamente, l’uomo è posto non soltanto come un essere di desideri e bisogni
continuamente rinnovati, ma anche come un essere indefinitamente perfettibile.
L’umanità deve affrancarsi da tutto ciò che potrebbe intralciare l’irresistibile marcia in avanti del progresso: i
“pregiudizi”, le “superstizioni”, il “peso del passato”.
L’ottimismo inerente alla teoria del progresso si estende rapidamente a tutti gli ambiti, alla società e all’uomo.
¾ Si presume che il regno della ragione sfoci in una società al contempo trasparente e pacificata.
Ritenuto vantaggioso per tutte le parti, il “dolce commercio” (Montesquieu) è chiamato a sostituire lo scambio
mercantile al conflitto, le cui cause “irrazionali” saranno progressivamente eliminate.
L’idea più comune è che .dunque.la politica deve diventare razionale.
L’azione politica deve cessare di essere un’arte, governata dal principio di prudenza, per divenire una scienza,
governata dal principio di ragione.
Essa deve dunque essere gestita razionalmente, secondo principi regolari quanto quelli che si osservano in fisica.
Il sovrano deve essere il fisico incaricato di far evolvere la “fisica sociale” verso “la più grande utilità pubblica”.
Questa concezione ispirerà la tecnocrazia e la concezione amministrativa e gestionale della politica che si ritroverà
in un Saint-Simon o un Auguste Comte.
Un problema particolarmente importante è sapere se il progresso è indefinito o se sfocia in uno stadio ultimo
o terminale che sarebbe o una novità assoluta, o come la restituzione più “perfetta” di uno stato anteriore o
originale: sintesi hegeliana, società senza classi (Marx), fine della storia (Fukuyama), etc.
I liberali tendono qui a credere in un progresso indefinito, in un miglioramento senza fine della condizione umana,
mentre i socialisti gli assegnano piuttosto un fine felice ben determinato.
Questo secondo atteggiamento fa confluire progressismo e utopismo: il perpetuo cambiamento sfocia nello stato
stazionario, il movimento della storia è affermato solo per meglio considerarne la fine.
Un altro problema ugualmente importante è questo: il progresso è una forza incontrollata che interviene da sola,
oppure gli uomini debbono intervenire per accelerarlo o sopprimere ciò che lo ostacola?
Nel XIX secolo, la teoria del progresso conosce in Occidente il suo apogeo.
Essa si riformula tuttavia in un clima differente, segnato dalla modernizzazione industriale, il positivismo
scientista, l’evoluzionismo e l’apparizione delle grandi teorie storiciste.
. Si generalizza la speranza di un’organizzazione “scientifica” dell’umanità e di un dominio di tutti i fenomeni
sociali da parte della scienza.
È il tema sul quale ritornano instancabilmente Fourier con il suo Falansterio, Saint-Simon, con i suoi principi
tecnocratici, Auguste Comte, con il suo Catechismo positivista e la sua "religione del progresso”.
I termini di “progresso” e “civiltà” tendono contemporaneamente a diventare sinonimi.
L’idea di progresso serve a legittimare la colonizzazione, che dovrebbe diffondere ovunque nel mondo i benefici
della “civiltà”.
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Si riformula la nozione di progresso alla luce dell’evoluzionismo darwiniano, essendo la stessa evoluzione del
vivente reinterpretata come progresso (in particolare in Herbert Spencer, il quale definisce il progresso come
evoluzione dal semplice al complesso, dall’omogeneo all’eterogeneo). Le condizioni del progresso si trasformano
allora sensibilmente. Il meccanicismo illuminista si coniuga d’ora in avanti con l’organicismo biologico, mentre il
suo ostentato pacifismo cede spazio all’apologia della “lotta per la vita”. Il progresso risulta d’ora in poi dalla
selezione dei “più adatti” (i “migliori”), in una generalizzata visione concorrenziale. Questa reinterpretazione
rafforza l’imperialismo occidentale: essendo la civiltà dell’Occidente presumibilmente la più “evoluta”, essa
è anche la migliore.
L’evoluzionismo sociale, che deve anch’esso tutto all’idea di progresso, arriva allora al massimo della popolarità.
La storia dell’umanità è divisa in “stadi” successivi, che segnano le differenti tappe del suo “progresso”.
Già Condorcet faceva passare l’umanità attraverso dieci tappe successive.
Hegel, Auguste Comte, Karl Marx, Freud, ecc., propongono schemi analoghi, che vanno dalla “credenza
superstiziosa” alla “scienza”, dalla “mentalità primitiva” (magica o teologica) alla mentalità “civilizzata” e al regno
universale della ragione.
Ma accanto all’idea di progresso inizia con Rousseau la critica dell’idea di progresso.
L’idea di un movimento necessario della storia viene conservata, ma in una prospettiva invertita: la storia è
interpretata non come costante progressione, ma come inevitabile regressione (puntuale o generalizzata).
Da almeno vent’anni si moltiplicano le opere sulle disillusioni del progresso.
¾ I totalitarismi del XX secolo e le due guerre mondiali hanno con ogni evidenza scalzato l’ottimismo dei
due secoli precedenti.
¾ Le disillusioni sulle quali si sono infrante molte speranze rivoluzionarie hanno suscitato l’idea che la
società attuale, per quanto disperante e priva di senso, è malgrado tutto la sola possibile
¾ L’avvenire, che appare ormai imprevedibile, ispira più inquietudini che speranze.
¾ L’aggravamento della crisi sembra più probabile di un futuro radioso.
Non si crede più che il progresso materiale renda l’uomo migliore, o che i progressi registrati in un campo si
ripercuotano automaticamente negli altri.
Lo stesso progresso materiale appare come ambivalente.
Si ammette che accanto ai vantaggi che procura, ha anche un costo.
Si vede bene che l’urbanizzazione selvaggia ha moltiplicato le patologie sociali, e che la modernizzazione
industriale si è tradotta in una degradazione senza precedenti del naturale quadro della vita.
La massiccia distruzione dell’ambiente ha originato i movimenti ecologisti, che sono stati tra i primi a denunciare
le “illusioni del progresso”.
Lo sviluppo della tecnoscienza, infine, solleva con forza la questione delle finalità.
Lo sviluppo delle scienze non è più percepito come qualcosa che contribuisce sempre alla felicità dell’umanità: lo
stesso sapere, come si vede con il dibattito sulle biotecnologie, è considerato come portatore di minacce.
In strati di popolazione sempre più vasti, si comincia a comprendere che più non è sinonimo di meglio.
Si distingue tra l’avere e l’essere, la felicità materiale e la felicità tout court.
La tematica del progresso resta tuttavia pregnante, anche solo a titolo simbolico.
L’orientamento verso il futuro resta ugualmente dominante. Anche se si ammette che il futuro è carico di
minacciose incertezze, si continua a pensare che, logicamente, le cose dovrebbero globalmente migliorare in futuro.
¾ Ma soprattutto, la teoria del progresso resta largamente presente nella sua versione produttivista.
Anche se nella letteratura economica il concetto di progresso è stato sempre più sostituito da altri, in particolare da
quelli di sviluppo o di crescita, che si prestano a essere ricondotti a indici quantitativi come quelli di reddito pro
capite o di reddito globale di un paese.
Così Walt W. Rostow pubblicava nel 1952 The process of economic growth e nel 1960 The stages of economic
growth (enumera le “tappe” che tutte le società del pianeta debbono percorrere per accedere all’universo del
consumo e del capitalismo mercantile)
Nella sua neutralità, spesso tuttavia pregiudicata dall'assunzione acritica del modello occidentale di sviluppo, il
nuovo termine si prestava a usi plurimi:
-da un lato si contrapponeva alla stagnazione o al declino di un'economia 'matura',
-dall'altro trovava la sua antitesi nel sottosviluppo di paesi non ancora pervenuti all'industrializzazione o che si
trovavano soltanto alla soglia di essa.
¾ Ma, soprattutto, il ricorso alla nozione di sviluppo appariva compatibile con la teoria dei cicli economici,
qual era stata formulata da Schumpeter. Lo stesso Schumpeter, del resto, aveva fin dal 1912 elaborato una
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teoria non del progresso ma dello sviluppo economico, caratterizzando quest'ultimo sulla base di un
processo di innovazione che, sorto all'interno di un determinato settore produttivo, si diffonde poi anche
negli altri trasformando l'intero apparato produttivo e quindi l'economia complessiva di un paese, se non
addirittura - com'era accaduto nella rivoluzione industriale - del mondo.
Il collegamento tra lo sviluppo economico e l'esistenza di cicli di durata più o meno ampia consentiva di
individuare, all'interno di ogni ciclo, periodi di crescita e periodi di congiuntura negativa, e di far posto alle crisi
ricorrenti nel sistema economico.
¾ Dall’altra parte ci sono diversi autori (come Serge Latouche), che sostengono invece come la teoria dello
sviluppo non sia altro, alla fin fine, che una credenza. Finché non avremo abbandonato questa credenza,
non l’avremo fatta finita con l’ideologia del progresso.
INTERVISTA AL PROFESSOR REMO BODEI
Domanda: Professor Bodei, cosa intendono gli uomini per progresso nella storia?
Non sempre il senso della storia è stato legato al senso del progresso. L'attesa del giudizio finale vedeva la storia
come un regresso perché alla fine dei tempi sarebbe apparso l'anti-Cristo, e quindi si andava sempre verso il
peggio. Questo andare verso il meglio è in fondo una conquista relativamente recente. Se facciamo un passo
indietro e cominciamo dai greci (dicono sempre che bisogna cominciare dai Greci), l'idea greca era che il mondo
fosse eterno, e quindi non si riusciva a capire se il mondo è eterno e l'umanità è eterna perchè continuasse a farsi la
guerra, perchè in fondo fosse così indietro nello sviluppo della civiltà. Allora per spiegarsi questo paradosso
avevano inventato una teoria che è molto ragionevole, vista in questo contesto, e cioè che il mondo venisse
periodicamente distrutto, o che le civiltà venissero periodicamente distrutte. Per esempio, Platone e Aristotele,
soprattutto l'Aristotele giovane, ritenevano che tali distruzioni avvenissero soprattutto attraverso l'acqua, attraverso
inondazioni che giungevano tuttavia soltanto alle pendici dei monti. In modo che si salvavano i pastori, le
popolazioni meno acculturate, e se mi permettete una battuta si ricominciava non da zero ma da tre. Cioè si
ricominciava dalla... da un tipo di cultura arretrata che conservava la memoria delle civiltà precedenti nella forma
del mito. Invece gli stoici erano più radicali, e ritenevano, come già forse aveva fatto Pitagora, che tutto si sarebbe
ripetuto esattamente identico, di modo che la nostra vita (e questa è la teoria, che poi è ripresa da Nietzsche in altra
forma, dell'eterno ritorno dell'uguale), la nostra vita si sarebbe ripetuta infinite volte e il mondo non avrebbe avuto
mai fine. Però tra un periodo e l'altro ci sarebbero state delle esplosioni che distruggevano il mondo ma lo
riproducevano, esattamente uguale.
Quindi l'idea di progresso, che etimologicamente vuol dire fare un passo dopo l'altro, andare avanti, quindi non
essere continuamente distrutti e non dover ricominciare da zero o da tre, questa idea di progresso nasce quando si
mostra la possibilità di vincere le energie distruttive umane e naturali, che riportavano sempre le civiltà a
ricominciare. Quindi questa idea di progresso, grosso modo, ecco, ha il suo culmine tra il Seicento e il Settecento in
questa forma, sotto forma di un progresso spesso lineare, molte volte trionfale, e di progresso in cui si tratta di far
violenza alla natura. Francesco Bacone, un filosofo di fine Cinquecento-inizio Seicento, sosteneva che la natura
andava torturata perché rivelasse i suoi segreti, quindi c'è nell'idea di progresso anche un atteggiamento spesso
antinaturalistico: la natura deve diventare un arsenale e un magazzino per lo sviluppo degli uomini, e soprattutto
verso la fine del Settecento - inizio dell'Ottocento c'è anche per esempio nell'Abate Galiani l'idea di una vendetta
che l'uomo deve compiere nei confronti della natura. Finora siamo stati resi schiavi e umiliati dalla natura: è venuto
il momento di fargliela pagare, e quindi l'uomo, dacché ha raggiunto questa posizione di supremazia col progresso,
non deve avere scrupoli nel trattare la natura. Questo atteggiamento in un certo modo prometeico, che era
giustificato a quel tempo, sappiamo peraltro dove ha condotto. E quindi concludendo nel senso della sua domanda,
l'idea di storia associata al progresso è un'idea relativamente recente, e può reggere soltanto quando la storia, per
usare un'immagine bancaria, ha delle riserve auree di progresso.
Tratto dall'intervista "L'idea di progresso" Roma, Palazzo Spada, lunedì 29 agosto 1988
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LA FAVOLA DELLE API. VIZI PRIVATI E PUBBLICHE VIRTÚ
Bernard de Mandeville, La favola delle api (1724)
Un numeroso sciame di api abitava un alveare spazioso. Là, in una felice abbondanza, esse vivevano tranquille.
Questi insetti, celebri per le loro leggi, non lo erano meno per il successo delle loro armi e per il modo in cui si
moltiplicavano. La loro dimora era un perfetto seminario di scienza e d’industria. Mai api vissero sotto un governo
più saggio; tuttavia mai ve ne furono di più incostanti e di meno soddisfatte. Esse non erano né schiave infelici di
una dura tirannia, né erano esposte ai crudeli disordini della feroce democrazia. Esse erano condotte da re che non
potevano errare, perché il loro potere era saggiamente vincolato dalle leggi.
Questi insetti, imitando ciò che si fa in città, nell’esercito e nel foro, vivevano perfettamente come gli uomini ed
eseguivano, per quanto in piccolo, tutte le loro azioni. Le opere meravigliose compiute dall’abilità incomparabile
delle loro piccole membra sfuggivano alla debole vista degli uomini; tuttavia non vi sono presso di noi né
macchine, né operai, né mestieri, né navi, né cittadelle, né armate, né artigiani, né astuzie, né scienza, né negozi, né
strumenti, insomma non v’è nulla di ciò che si vede presso gli uomini di cui questi operosi animali pure non si
servissero. E siccome il loro linguaggio ci è sconosciuto, non possiamo parlare di ciò che le riguarda se non
impiegando le nostre impressioni. Si ritiene generalmente che tra le cose degne d’esser notate, questi animali non
conoscevano affatto l’uso né dei bossoli né dei dadi; ma, poiché avevano dei re, e conseguentemente delle guardie,
si può naturalmente presumere che conoscessero qualche specie di giochi. Si vedono mai, infatti, degli ufficiali e
dei soldati che si astengono da questo divertimento?
Il fertile alveare era pieno di una moltitudine prodigiosa di abitanti, il cui grande numero contribuiva pure alla
prosperità comune. Milioni di api erano occupate a soddisfare la vanità e le ambizioni di altre api, che erano
impiegate unicamente a consumare i prodotti del lavoro delle prime. Malgrado una cosí grande quantità di operaie,
i desideri di queste api non erano soddisfatti. Tante operaie e tanto lavoro potevano a mala pena mantenere il lusso
della metà della popolazione.
Alcuni, con grandi capitali e pochi affanni, facevano dei guadagni molto considerevoli. Altri, condannati a
maneggiare la falce e la vanga, non potevano guadagnarsi la vita se non col sudore della fronte e consumando le
loro forze nei mestieri più penosi. Si vedevano poi degli altri applicarsi a dei lavori del tutto misteriosi, che non
richiedevano né apprendistato, né sostanze, né travagli. Tali erano i cavalieri d’industria, i parassiti, i mezzani, i
giocatori, i ladri, i falsari, i maghi, i preti, e in generale tutti coloro che, odiando la luce, sfruttavano con pratiche
losche a loro vantaggio il lavoro dei loro vicini, che non essendo essi stessi capaci d’ingannare, erano meno
diffidenti. Costoro erano chiamati furfanti; ma coloro i cui traffici erano più rispettati, anche se in sostanza poco
differenti dai primi, ricevevano un nome più onorevole. Gli artigiani di qualsiasi professione, tutti coloro che
esercitavano qualche impiego o che ricoprivano qualche carica, avevano tutti qualche sorta di furfanteria che era
loro propria. Erano le sottigliezze dell’arte e l’abilità di mano.
Come se le api non avessero potuto, senza istruire un processo, distinguere il legittimo dall’illegittimo, esse
avevano dei giureconsulti, occupati a mantenere le animosità e a suscitare malefici cavilli: questo era lo scopo della
loro arte. Le leggi fornivano loro i mezzi per rovinare i loro clienti e per approfittare destramente dei beni in
questione. Preoccupati, soltanto di ricavare degli elevati onorari, non trascuravano nulla al fine d’impedire che si
appianassero le difficoltà attraverso un accomodamento. Per difendere una cattiva causa, essi analizzavano le leggi
con la stessa meticolosità con cui i ladri esaminano i palazzi e i negozi. Ciò soltanto allo scopo di scoprire il punto
debole in cui potessero prevalere.
I medici preferivano la reputazione alla scienza e le ricchezze alla guarigione dei loro malati. La maggior parte,
anziché applicarsi allo studio dei princípi della loro disciplina, cercavano di acquistarsi una pratica fittizia. Sguardi
gravi e un’aria pensosa erano tutto quello ch’essi possedevano per darsi la reputazione di uomini dotti. Non
preoccupandosi della salute dei pazienti, essi lavoravano soltanto per acquistarsi il favore dei farmacisti, e per
conquistarsi le lodi delle levatrici, dei preti e di tutti coloro che vivevano dei proventi tratti dalle nascite o dai
funerali. Preoccupati di acquistarsi il favore del sesso loquace, essi ascoltavano con compiacenza le vecchie ricette
della signora zia. I clienti, e tutte le loro famiglie, erano trattati con molta attenzione. Un sorriso affettato, degli
sguardi graziosi, tutto era impiegato e serviva ad accattivarsi i loro spiriti già prevenuti. E si badava pure a trattare
bene le guardie, per non doverne subire le impertinenze.
Tra il grande numero dei preti di Giove, pagati per attirare sull’alveare la benedizione del cielo, ve n’erano ben
pochi che avessero eloquenza e sapere. La maggior parte erano tanto presuntuosi quanto ignoranti. Erano visibili la
loro pigrizia, la loro incontinenza, la loro avarizia e la loro vanità, malgrado la cura ch’essi si prendevano per
nascondere agli occhi del pubblico questi difetti. Essi erano furfanti come dei borsaioli, intemperanti come dei
marinai. Alcuni invece erano pallidi, coperti di vestiti laceri e pregavano misticamente per guadagnarsi il pane. E,
mentre che questi sacri schiavi morivano di fame, i fannulloni per cui essi officiavano, si trovavano bene a loro
agio. Si vedevano sui loro volti la prosperità, la salute e l’abbondanza di cui godevano.
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I soldati che erano stati messi in fuga venivano egualmente coperti di onori, se avevano la fortuna di sfuggire
all’esercito vittorioso, anche se tra essi vi fossero dei veri poltroni, che non amavano affatto le stragi. Se vi era
qualche valente generale che metteva in rotta i nemici, si trovava qualche persona che, corrotta con dei regali,
favoriva la loro ritirata. Vi erano pure dei guerrieri che affrontavano il pericolo comparendo sempre nei punti più
esposti. Prima perdevano una gamba, quindi un braccio, infine, quando tutte queste mutilazioni li avevano resi non
più in grado di servire, li si congedava vergognosamente a mezza paga; mentre altri, che più prudentemente non
andavano mai all’attacco, ricavavano la doppia paga, per restare tranquillamente tra di loro.
I loro re erano, sotto ogni riguardo, mal serviti. I loro ministri li ingannavano. Ve n’erano invero parecchi che non
tralasciavano nulla per far progredire gli interessi della corona; ma contemporaneamente essi saccheggiavano
impunemente il tesoro che s’industriavano ad arricchire. Essi avevano il felice talento di spendere
abbondantemente, nonostante che i loro stipendi fossero molto meschini; e per giunta si vantavano di essere molto
modesti. Si esagerava forse nel considerare le loro prerogative quando le si denominava le loro “malversazioni”? E
anche se ci si lamentava che non si comprendeva il loro gergo, essi si servivano del termine di “emolumenti”, senza
mai voler parlare naturalmente e senza camuffamenti dei loro guadagni. Infatti non vi fu mai un’ape che sia stata
effettivamente soddisfatta nel desiderio di apprendere, non dico quello che guadagnavano effettivamente questi
ministri, ma neppure ciò che essi lasciavano scorgere dei loro guadagni. Essi assomigliavano ai nostri giocatori, i
quali, per quanto siano stati fortunati al gioco, non diranno tuttavia mai in presenza dei perdenti tutto quello che
hanno guadagnato.
Chi potrebbe descrivere dettagliatamente tutte le frodi che si commettevano in questo alveare? Colui che acquistava
del letame per ingrassare il suo prato, lo trovava falsificato per un quarto con pietre e cemento inutili; e per giunta
qualsiasi poveretto non avrebbe avuto la facilità di brontolare di ciò, perché a sua volta imbrogliava mescolando al
suo burro una metà di sale.
La giustizia stessa, per quanto tanto rinomata per la sua fortuna di essere cieca, non era per questo meno sensibile al
brillante splendore dell’oro. Corrotta dai doni, essa aveva sovente fatto pendere la bilancia che teneva nella sua
mano sinistra. Imparziale in apparenza, quando si trattava d’infliggere delle pene corporali, di punire degli omicidi
o degli altri gravi crimini, essa aveva bensì spesso condannato al supplizio persone che avevano continuato le loro
ribalderie dopo esser state punite con la gogna. Tuttavia si riteneva comunemente che la spada che essa portava non
colpiva se non le api che erano povere e senza risorse; e che anche questa dea faceva appendere all’albero
maledetto delle persone che, oppresse dalla fatale necessità, avevano commesso dei crimini che non peritavano
affatto un tale trattamento. Con questa ingiusta severità, si cercava di mettere al sicuro il potente e il ricco.
Essendo cosí ogni ceto pieno di vizi, tuttavia la nazione di per sé godeva di una felice prosperità. era adulata in
pace, temuta in guerra. Stimata presso gli stranieri, essa aveva in mano l’equilibrio di tutti gli altri alveari. Tutti i
suoi membri a gara prodigavano le loro vite e i loro beni per la sua conservazione. Tale era lo stato fiorente di
questo popolo. I vizi dei privati contribuivano alla felicità pubblica. Da quando la virtù, istruita dalle malizie
politiche, aveva appreso i mille felici raggiri dell’astuzia, e da quando si era legata di amicizia col vizio, anche i più
scellerati facevano qualcosa per il bene comune.
Le furberie dello stato conservavano la totalità, per quanto ogni cittadino se ne lamentasse. L’armonia in un
concerto risulta da una combinazione di suoni che sono direttamente opposti. Cosí i membri di quella società,
seguendo delle strade assolutamente contrarie, si aiutavano quasi loro malgrado. La temperanza e la sobrietà degli
uni facilitava l’ubriachezza e la ghiottoneria degli altri. L’avarizia, questa funesta radice di tutti i mali, questo vizio
snaturato e diabolico, era schiava del nobile difetto della prodigalità. Il lusso fastoso occupava milioni di poveri. La
vanità, questa passione tanto destata, dava occupazione a un numero ancor maggiore. La stessa invidia e l’amor
proprio, ministri dell’industria, facevano fiorire le arti e il commercio. Le stravaganze nel mangiare e nella diversità
dei cibi, la sontuosità nel vestiario e nel mobilio, malgrado il loro ridicolo, costituivano la parte migliore del
commercio.
Sempre incostante, questo popolo cambiava le leggi come le mode. I regolamenti che erano stati saggiamente
stabiliti venivano annullati e si sostituivano ad essi degli altri del tutto opposti. Tuttavia con l’alterare anche le loro
antiche leggi e col correggerle, le api prevenivano degli errori che nessuna accortezza avrebbe potuto prevedere.
In tal modo, poiché il vizio produceva l’astuzia, e l’astuzia si prodigava nell’industria, si vide a poco a poco
l’alveare abbondare di tutte le comodità della vita. I piaceri reali, le dolcezze della vita, la comodità e il riposo
erano divenuti dei beni cosí comuni che i poveri stessi vivevano allora più piacevolmente di quanto non vivessero
prima. Non si sarebbe potuto aggiungere nulla al benessere di questa società.
Ma, ahimé, qual è mai la vanità della felicità dei poveri mortali! Non appena queste api avevano gustato le primizie
del benessere, tosto mostrarono che è persino al di là del potere degli dèi il rendere perfetto il soggiorno terrestre. Il
gruppo mormorante aveva spesso affermato di esser soddisfatto del governo e dei ministri; ma al piùpiccolo
dissesto cambiò idea. Come se fosse perduto senza scampo, maledí le politiche, gli eserciti e le flotte. Queste api
riunirono le loro lagnanze, diffondendo ovunque queste parole: “siano maledette tutte le furberie che regnano
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presso di noi!”. Tuttavia ciascuna se le permetteva ancora; ma ciascuna aveva la crudeltà di non volerne concedere
l’uso agli altri.
Un personaggio che aveva ammassato immense ricchezze, ingannando il suo padrone, il re e i poveri, osò gridare a
tutta forza: “il paese non può mancare di perire a causa di tutte le sue ingiustizie!”. E chi pensate che sia stato
queste severo predicatore? Era un guantaio, che aveva venduto per tutta la sua vita, e che vendeva anche allora,
delle pelli d’agnello per pelli di capretto. Non faceva la minima cosa in questa società che contribuisse al bene
pubblico. Tuttavia ogni furfante gridò con impudenza: “buon Dio, dateci soltanto la probità!”.
Mercurio (il dio dei ladroni) non poté trattenersi dal ridere nell’ascoltare una preghiera cos’ sfrontata. Gli altri dèi
dissero che era stupidità il biasimare ciò che si amava. Ma Giove, indignato per queste preghiere, giurò infine che
questo gruppo strillante sarebbe stato liberato dalla frode di cui essa si lamentava.
Egli disse: “Da questo istante l’onestà s’impadronirà di tutti i loro cuori. Simile all’albero della scienza, essa aprirà
gli occhi di ciascuno e gli farà percepire quei crimini che non si possono contemplare senza vergogna. Essi si sono
riconosciuti colpevoli coi loro discorsi, e soprattutto col rossore suscitato sui loro volti dall’enormità dei loro
crimini. È cosí che i bambini che vogliono nascondere le loro colpe, traditi dal loro colorito, immaginano che
quando li si guarda, si legga sul loro volto malsicuro, la cattiva azione che hanno compiuto”.
Ma, per Dio, quale costernazione! quale improvviso cambiamento! In meno di un’ora il prezzo delle derrate
diminuí ovunque. Ciascuno, dal primo ministro sino ai contadini, si strappò la maschera d’ipocrisia che lo
ricopriva. Alcuni, che erano ben conosciuti già da prima, apparivano degli stranieri, quand’ebbero ripreso le loro
maniera naturali.
Da questo momento il tribunale fu spopolato. I debitori saldavano di propria iniziativa i loro debiti, senza
eccettuare neppure quelli che i loro creditori avevano dimenticato. Si condonava generosamente a coloro che non
erano in grado di soddisfarli. Se sorgeva qualche difficoltà, quelli che avevano torto rimanevano cautamente in
silenzio. Non si videro più processi in cui entrassero la malvagità e la vessazione. Nessuno poteva più accumulare
ricchezze. La virtú e l’onestà regnavano nell’alveare. Che cosa potevano fare allora gli avvocati? Anche coloro che
prima della rivoluzione non avevano avuto la fortuna di guadagnare molto, disperati, abbandonavano la loro
scrivania e si ritiravano.
La giustizia, che sino ad allora si era occupata di far impiccare alcune persone, concedeva la libertà a quelle che
teneva prigioniere. Ma, dopo che le prigioni furono vuotate, diventando inutile la dea che ad esse presiedeva, costei
si vide costretta a compiere una ritirata, con tutta la sua corte e il suo seguito rumoreggiante. Tra esso si videro i
fabbri, addetti alle serrature, ai catenacci, alle inferriate, alle catene e alle porte munite di sbarre di ferro. Poi si
videro i carcerieri, i secondini e i loro aiutanti. Venne poi la dea preceduta dal suo fedele ministro scudiero, il
carnefice, grande esecutore delle sue sentenze severe. Essa non era armata della sua spada immaginaria, bensí in
sua vece portava l’ascia e la corda. La signora giustizia, con gli occhi bendati, seduta su di una nuvola, fu cosí
cacciata nell’aria accompagnata dalla sua corte. Attorno al suo seggio e dietro di esso vi erano i sergenti, gli uscieri
e i domestici di tale specie, che si nutrivano delle lagrime degli sfortunati.
L’alveare aveva ancora dei medici, cosí come prima della rivoluzione. Ma la medicina, quest’arte salutare, non era
più affidata se non a uomini abili. Essi erano cosí numerosi e cosí diffusi nell’alveare, che nessuno di essi aveva
bisogno di una vettura. Le loro vane dispute erano cessate. Il compito di guarire prontamente i pazienti era quello
che unicamente le occupava. Pieni di disprezzo per le medicine importate da paesi stranieri, essi si limitavano alle
semplici medicine prodotte nel loro paese. Convinti che gli dèi non mandavano alcuna malattia alle nazioni senza
donar loro, nello stesso tempo, i veri rimedi, si dedicavano a scoprire le proprietà delle piante che crescevano
presso di loro.
I ricchi ecclesiastici, destati dalla loro vergognosa pigrizia, non facevano più servire le loro chiese da api prese alla
giornata; officiavano essi stessi. La probità da cui erano animati li spingeva a offrire preghiere e sacrifici. Tutti
coloro che non si sentivano capaci di adempiere questi doveri, o che ritenevano che si potesse fare a meno dei loro
servizi, si dimettevano senza indugio dalle loro cariche. Non vi erano occupazioni sufficienti per tante persone, se
pur ne restava ancora qualcuna: giacché il loro numero diminuiva intensamente. Erano tutti modestamente
sottomessi al pontefice, il quale si occupava esclusivamente degli affari religiosi, abbandonando agli altri gli affari
dello stato. Il reverendo capo, divenuto caritatevole, non aveva più la durezza di cuore di cacciare dalla sua porta i
poveri affamati. Mai si sentiva dire ch’egli prelevasse qualcosa dal salario del povero. Era invece presso di lui che
l’affamato trovava cibo, il mercenario il suo pane, l’operaio bisognoso la sua tavola e il suo letto.
Il cambiamento non fu meno considerevole fra i primi ministri del re e fra tutti gli ufficiali subalterni. Divenuti
economi e temperanti, i loro stipendi bastavano loro per vivere. Se un’ape povera era venuta dieci volte per
richiedere il giusto pagamento di una piccola somma, e qualche funzionario ben pagato l’aveva obbligata o a
regalargli uno scudo o a non ricevere mai il suo pagamento, prima si era denominata una tale alternativa la
“malversazione” del funzionario; ma ora la si chiamava, col giusto nome, una ribalderia manifesta.
Una sola persona era sufficiente per adempiere le funzioni per le quali si richiedevano tre persone prima del felice
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cambiamento. Non v’era più bisogno di affiancare un collega per sorvegliare le azioni di coloro a cui si affidava il
mantenimento degli affari. I magistrati non si lasciavano più corrompere e non cercavano più di facilitare i
ladrocini degli altri. Una sola persona compiva allora mille volte più lavoro di quanto non ne facessero prima
parecchie persone.
Non era più cosa onorevole il far figura alle spese dei propri creditori. Le livree restavano appese nelle botteghe dei
rigattieri. Quelli che brillavano per la magnificenza delle loro carrozze, le vendevano a poco prezzo. I nobili si
liberavano di tutti i loro superbi cavalli tanto sontuosi e persino delle loro campagne, per pagare i loro debiti.
Si evitavano le spese inutili con la stessa cura con cui si evitava la frode. Non si mantenevano più degli eserciti
all’estero. Non curandosi più della stima degli stranieri e della gloria frivola che si acquista con le armi, non si
combatteva se non per difendere la propria patria contro coloro che attendevano ai suoi diritti e alla sua libertà.
Gettate ora lo sguardo sul glorioso alveare. Contemplate l’accordo mirabile che regna tra il commercio e la buona
fede. Le oscurità che offuscavano questo spettacolo sono scomparse: tutto si vede allo scoperto. Quanto le cose
hanno mutato il loro volto!
Coloro che facevano delle spese eccessive e tutti coloro che vivevano su questo lusso; sono stati costretti a ritirarsi.
Invano tenteranno nuove occupazioni: esse non potranno fornir loro il necessario.
Il prezzo dei poderi e degli edifici crollò. I palazzi incantevoli, i cui muri, simili alle mura di Tebe, erano stati
elevati con armonia musicale, divennero deserti. I potenti, che prima avrebbero preferito perdere la loro vita
piuttosto che veder cancellare i loro titoli fastosi scolpiti sui loro portici superbi, schernivano ora queste vane
iscrizioni. L’architettura, quest’arte meravigliosa, fu del tutto abbandonata. Gli artigiani non trovavano piùnessuno
che li volesse impiegare. I pittori non diventavano più celebri con le loro pitture. La scultura, l’incisione, il cesello
e la statuaria non furono più rinomate nell’alveare.
Le poche api che vi restarono, vivevano miseramente. Non ci si preoccupava più di come spendere il proprio
denaro, ma di come guadagnarne per vivere. Quando dovevano pagare il loro conto alla taverna, decidevano di non
rimetterci più piede. Non si vedevano più le donne da bettola guadagnare tanto da poter indossare abiti drappeggiati
d’oro. Torcicollo non donava più delle grosse somme per avere del borgogna e degli uccelletti. I cortigiani, che si
compiacevano di regalare a Natale alla loro amante degli smeraldi, spendendo in due ore tanto quanto una
compagnia di cavalleria avrebbe speso in due giorni, fecero bagaglio e si ritirarono da un paese cosí miserevole.
La superba Cloe, le cui grandi pretese avevano un tempo costretto il suo marito troppo condiscendente a
saccheggiare lo stato, ora vende il suo abbigliamento, composto dei più ricchi bottini delle Indie. Ora sopprime le
sue spese e porta tutto l’anno lo stesso abito. L’età spensierata e mutevole è passata. Le mode non si susseguono
più con quella bizzarra incoscienza. Dal canto loro, tutti gli operai che lavoravano le ricche stoffe di seta e
d’argento e tutti gli artigiani che dipendevano da loro, si ritirarono. Una pace profonda domina in questo regno; e
ha come sua conseguenza l’abbondanza. Tutte le fabbriche che restano producono soltanto le stoffe più semplici;
tuttavia esse sono tutte molto care. La natura prodiga, non essendo più costretta dall’infaticabile giardiniere,
produce bensí i suoi frutti nelle sue stagioni; però non produce più né rarità, né frutti precoci.
A misura che diminuivano la vanità e il lusso, si videro gli antichi abitanti abbandonare la loro dimora. Non erano
più né i mercanti né le compagnie che facevano decadere le manifatture, erano la semplicità e la moderazione di
tutte le api. Tutti i mestieri e tutte le arti erano abbandonati. La facile contentatura, questa peste dell’industria, fa
loro ammirare la loro grossolana abbondanza. Essi non ricercarono più la novità, non hanno più alcuna ambizione.
E cosí, essendo l’alveare pressoché deserto, le api non si potevano difendere contro gli attacchi dei loro nemici,
cento volte più numerosi. Esse difendevano tuttavia con tutto il valore possibile, finché qualcuna di loro avesse
trovato un rifugio ben fortificato. Non v’era alcun traditore presso di loro. Tutte combattevano validamente per la
causa comune. Il loro coraggio e la loro integrità furono infine coronate dalla vittoria. Ma questo trionfo costò loro
tuttavia molto. Parecchie migliaia di queste valorose api perirono. Il resto dello sciame, che si era indurito nella
fatica e nel lavoro, credette che l’agio e il riposo, che mettono a sí dura prova la temperanza, fossero un vizio.
Volendo dunque garantirsi una volta per sempre da ogni ricaduta, tutte queste api si rifugiarono nel cupo cavo di un
albero, dove a loro non resta altro, della loro antica felicità, che la contentatura dell’onestà.
MORALE
Abbandonate dunque le vostre lamentele, o mortali insensati! Invano cercate di accoppiare la grandezza di una
nazione con la probità. Non vi sono che dei folli, che possono illudersi di gioire dei piaceri e delle comodità della
terra, di esser famosi in guerra, di vivere bene a loro agio, e nello stesso tempo di essere virtuosi. Abbandonate
queste vane chimere! Occorre che esistano la frode, il lusso e la vanità, se noi vogliamo fruirne i frutti. La fame è
senza dubbio un terribile inconveniente. Ma come si potrebbe senza di essa fare la digestione, da cui dipendono la
nostra nutrizione e la nostra crescita? Non dobbiamo forse il vino, questo liquore eccellente, a una pianta il cui
legno è magro, brutto e tortuoso? Finché i suoi pampini sono lasciati abbandonati sulla pianta, si soffocano l’uno
con l’altro, e diventano dei tralci inutili. Ma se invece i suoi rami sono tagliati, tosto essi, divenuti fecondi, fanno
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parte dei frutti più eccellenti. È cosí che si scopre vantaggioso il vizio, quando la giustizia lo epura, eliminandone
l’eccesso e la feccia. Anzi, il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per
obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtú da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa. Per far rivivere
la felice età dell’oro, bisogna assolutamente, oltre all’onestà riprendere la ghianda che serviva di nutrimento ai
nostri progenitori.
Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XIV, pagg. 137-146
LA MANO INVISIBILE
Adam Smith, La ricchezza delle nazioni (1776)
La tesi di una sostanziale continuità della ricerca di Smith trova conferme anche prestando attenzione alla persistenza di
specifici temi nell’arco della sua produzione. Così il tema della "mano invisibile" non è affatto confinato - come si crede
comunemente - nella "Ricchezza delle Nazioni" in collegamento con l’analisi della produzione della ricchezza in una società
economica caratterizzata dal rifiuto del mercantilismo. Questo tema, molto probabilmente derivato dalle riflessioni sugli Stoici,
è presente anche in altre opere di Smith. L’attenzione continua di Smith per tutti quegli equilibri che non possono essere
spiegati come risultato di azioni consapevoli dei soggetti coinvolti, è testimoniata proprio dall’uso ricorrente di questa metafora
di una "mano invisibile". Così in SF alla "mano invisibile di Giove" si ricorre come a una delle possibili fonti per spiegare i
fenomeni naturali, una fonte che non fu per altro esplicitamente riconosciuta nel mondo antico. Nella "Teoria dei Sentimenti
Morali" si ricorre ancora alla "mano invisibile" per sostenere che i ricchi sono da essa spinti a realizzare una distribuzione dei
beni necessari per la vita quasi identica a quella "divisione eguale" che favorisce gli interessi della società. Probabilmente è
corretto sostenere che uno dei contributi offerto da Smith con le sue ricerche è quello di avere richiamato l’attenzione sugli
equilibri. Così si esprime Smith circa la dottrina della mano invisibile (dottrina che sarà accettata dallo stesso Hegel e confutata
da Marx):
"In effetti egli [l'individuo] non intende, in genere, perseguire l'interesse pubblico, né è consapevole della misura
in cui lo sta perseguendo. Quando preferisce il sostegno dell'attività produttiva del suo paese invece di quella
straniera, egli mira solo alla propria sicurezza e, quando dirige tale attività in modo tale che il suo prodotto sia il
massimo possibile, egli mira solo al suo proprio guadagno ed è condotto da una mano invisibile, in questo come in
molti altri casi, a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni. Né il fatto che tale fine non rientri sempre
nelle sue intenzioni è sempre un danno per la società. Perseguendo il suo interesse, egli spesso persegue l'interesse
della società in modo molto più efficace di quando intende effettivamente perseguirlo. Io non ho mai saputo che sia
stato fatto molto bene da coloro che affettano di commerciare per il bene pubblico. In effetti, questa è
un'affettazione non molto comune tra i commercianti, e non occorrono molte parole per dissuaderli da questa
fisima"
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L’ORDINE NATURALE DI MISTER SMITH
Serge Latouche, L’invenzione dell’economia, (2010) pp. 189, 201-213
Per una sorta di astuzia della ragione, nella sfera economica la concorrenza, fondamento della legge morale, viene a
coincidere quasi esattamente con l’interesse, e lo sfruttamento più feroce delle donne e dei bambini del capitalismo
nascente non è in alcun modo una macchia per il capitano d’industria onesto e abile che fa buoni affari facendo il
suo dovere senza compassione, ma con una “simpatia misurata” che lo guida nella ricerca dell’approvazione dei
suoi simili, e cioè dei suoi colleghi della camera di commercio locale. […] L’ipotesi di Hobbes di un contratto
sociale tra atomi viene ripresa di sana pianta. «Secondo Hobbes e molti dei suoi seguaci [Pufendorf e Mandeville],
l’uomo è portato a cercar rifugio nella società non per un amore naturale verso la propria specie, ma perché senza
l’assistenza degli altri è incapace di sopravvivere nel benessere e nella sicurezza. “L’uomo è un soggetto di bisogni,
e ridiventa homo oeconomicus. Naturalismo, individualismo e utilitarismo si ritrovano puntualmente
all’appuntamento. […] Nella sua opera la visione metafisica propria della visione economicista del mondo è
esposta con una lucidità che non si ritrova in nessun altro testo, tanto che oggi viene riproposta di sana pianta dai
sostenitori dell’ultra liberismo economico come Milton Friedmann e Friedrich Hayek, come pure dai filosofi che
levano osanna alla globalizzazione dei mercati (Reaganeconomics, thatcherismo e loro derivati): l’affermazione di
un ordine spontaneo, la credenza nella mano invisibile (l’invisible hand diventata la hidden hand dei manuali
americani) e le sue conseguenze ultraliberiste che si chiamano libero scambio totale, concorrenza assoluta,
flessibilità senza limiti dei salari, Stato minimo. Questi differenti elementi meritano di essere esaminati in dettaglio.
Nella “Ricchezza delle nazioni” l’espressione « mano invisibile» si incontra, a quanto ci risolta, soltanto una volta.
[…] Si tratta in effetti della credenza in un ordine sociale naturale tema ampiamente sviluppato dai fisiocratici ed
all’origine della loro parola d’ordine del laissez-faire, fondato però su una visione individualistica della società. In
altre parole, quel che viene postulato è semplicemente una armonia naturale degli interessi particolari. Da questo
punto di vista, il passaggio più significativo della “Ricchezza delle nazioni” è senza alcun dubbio quello del
celebre apologo del macellaio, del fornaio e del birraio, benché l’espressione «mano invisibile» non vi compaia. Al
contrario, il self-love’, la preoccupazione di sé, occupa in quel passaggio un posto centrale. Perché è a esso e non
alla benevolenza dei miei fornitori che io devo la possibilità di fare un buon pasto.
Ci sono dunque due elementi nel tema della “mano invisibile”: quello dell’ordine sociale naturale e quello della
concordanza degli interessi particolari.
¾ Il primo, l’ordine sociale naturale, trova la sua fonte nell’episteme dell’epoca.
Empiristi e razionalisti sono uniti in una visione meccanicistica del mondo: è la grande macchina. L’universo è una
grande macchina munita di ingranaggi e molle. […] Sembra d’altronde che Smith abbia ripreso da Cicerone (De
divinatione, Ib. 2) l’espressione «mano invisibile di Giove», che compare per la prima volta nel suo trattato di
astronomia. D’altra parte, nel XVIII secolo l’idea di un ordine naturale era condivisa pressoché universalmente.
Perché la società dovrebbe sfuggire a questo ordine naturale? L’uomo, benché dotato di ragione, non è innanzitutto
un animale? E l’animale, secondo Cartesio, in questo abbastanza largamente seguito, non è che una macchina. […]
Smith è particolarmente affezionato alla metafora della macchina sociale: «Si potrebbe far muovere le varie ruote
della macchina di governo con più armonia e scorrevolezza, senza che stridano l’una contro l’altra o ritardi no i
moti dell’altra […] Mettere in movimento una macchina così bella e armoniosa». Ecco dunque in cosa si riassume
l’arte della politica, di cui nell’epoca moderna l’economia è il nocciolo.[…] Dunque il mondo sociale non aspetta
che il suo Galileo e il suo Newton. La forza di gravità dell’universo sociale e la molla della meccanica politica altro
non sono che l’interesse. E questo può essere compreso, percepito e valutato soltanto a partire dall’individuo.
¾ Di qui l’importanza del secondo elemento: la concordanza degli interessi particolari.
Nei fisiocratici c’era ancora il bisogno di un despota illuminato che presiedesse al buon funzionamento della
macchina. Il grande perfezionamento apportato da Smith consiste precisamente nell’assegnazione di una totale
autonomia ai diversi ingranaggi. Questi sono mossi dalla forza naturale di cui tutti sono dotati: l’interesse. […] Se
si presuppone una società naturalmente individualista, un’associazione contrattuale a scopo di lucro tra atomi, il
libero gioco degli interessi particolari non può che generare il benessere di tutti. Secondo il motto degli utilitaristi:
la più grande felicità per la più grande maggioranza. La concorrenza, che nel XIX secolo troverà il suo
fondamento naturalista nella legge della giungla (la concorrenza tra le specie di Darwin), viene elevata al rango di
provvidenza. […] Anticipando addirittura il grande mito contemporaneo dello sviluppo per tutti, Smith risolve la
questione sociale con un trickle down effect, cioè con un effetto di «ricaduta» dovuto alla mano invisibile.
«Tutte queste persone, così, ricevono dal suo lusso [ ricco] e dal suo capriccio quella parte di cose necessarie alla
vita che avrebbero invano aspettato dalla sua umanità e dalla sua giustizia. I ricchi sono condotti da una mano
invisibile a fare quasi la stessa distribuzione delle cose necessarie alla vita che avrebbe avuto luogo se la terra
fosse stata divisa in parti uguali tra tutti».
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E’notevole il fatto che la «mano invisibile» esonera esplicitamente i possidenti da ogni preoccupazione di giustizia.
La lezione non è mai stata imparata così bene come dai capitalisti rapaci di oggi, che versano compassionevoli
lacrime di coccodrillo sui miliardi di esseri umani che vivono al dì sotto della soglia di povertà. […] “Ogni uomo,
purché non violi le leggi della giustizia, è lasciato perfettamente libero di perseguire il proprio interesse a suo modo
e di portare la sua attività e il suo capitale in concorrenza con quelli di ogni altro uomo o categoria di uomini. Il
sovrano è affatto dispensato da un dovere, nel tentare di adempiere il quale egli dev’essere sempre esposto a
innumerevoli delusioni e per il consapevole adempimento del quale nessuna saggezza o sapienza umana potrebbe
mai essere sufficiente”. Di qui l’esaltazione del libero gioco delle forze naturali fondata sul presupposto che il
modello della concorrenza pura e perfetta costituisce la forma naturale dell’economia. Di qui la condanna
implacabile di qualsiasi intervento dello Stato (anche se viene ammessa qualche eccezione) e le violente invettive
contro il «sistema mercantile», che viene analizzato senza nessuna simpatia. […] Dunque lo spettatore imparziale
non è del tutto assente dalla Ricchezza delle nazioni. Tuttavia, non gli resta che «lasciar fare» un ordine sociale
giusto, non perché fondato sulla simpatia, ma perché fondato sull’azione spontanea e utile a tutti. « Secondo il
sistema della libertà naturale, il sovrano ha tre soli doveri cui attendere [...]:
- il primo, di proteggere la società dalla violenza e dall’invasione di altre società indipendenti;
- il secondo, di proteggere fin dove è possibile ogni membro della società dall’ingiustizia e dall’oppressione di ogni
altro membro [...]
- e il terzo, il dovere di erigere e mantenere certe opere pubbliche e certe pubbliche istituzioni, che un singolo
individuo o un piccolo numero di individui non avrebbero alcun interesse di erigere e di mantenere; giacché il
profitto non potrebbe mai rimborsare la spesa a qualsiasi individuo o piccolo numero di individui. benché spesso
possa rimborsarla abbondantemente a una grande società».
Con la globalizzazione dei giorni nostri, risultato degli auspici di Smith, il primo e il terzo dovere non hanno più
oggetto. Nel «villaggio globale» non esistono praticamente più imprese indipendenti, e le imprese multinazionali
dispongono di maggiori mezzi degli Stati per le necessarie spese di infrastrutture e per sponsorizzare i beni
collettivi che ancora non hanno privatizzato. Resta il secondo dovere, il cui contenuto è assai problematico, a parte
la questione della sicurezza del le persone e dei beni (lo Stato guardiano di notte). Un organismo tipo l’OMC,
incaricato di garantire il rispetto delle regole di concorrenza, dovrebbe servire allo scopo.
Qui si tocca con mano il cuore della contraddizione irrisolvibile dell’utopia liberista.
Occorrono delle istituzioni per imporre le leggi naturali del laissez-faire.
«Il governo civile, in quanto sia istituito per la sicurezza della proprietà, è in realtà istituito per la difesa dei ricchi
contro i poveri, ossia di coloro i quali hanno qualche proprietà contro coloro che non ne hanno alcuna». Marx dirà
la stessa cosa, ma si guarderà bene dal definire questo ordine come giusto! […] Ci si ritrova in una società
individualista, quella dello stato di natura di Hobbes, Locke e Hume. Hume in particolare presenta l’uomo come
«l’animale desiderante esasperato dalle risorse limitate del suo ambiente». […] Questa antropologia naturalista va
di pari passo con un etnocentrismo senza incrinature e senza esitazioni. Lo illustrano i frequenti riferimenti ai
«selvaggi». Chiaramente, per Smith, nella misura in cui sono naturali, le leggi economiche si applicano pienamente
anche alle altre società e ai periodi precedenti
[…] In Smith la tradizione» rappresentata dalle corporazioni e dai regolamenti pubblici, viene condannata, come
vengono condannati gli usi e i costumi dei selvaggi, in nome della ragione, secondo l’ideologia dei Lumi. In questo
modo la ragione si svela chiaramente come identificata con un modello di società di mercato fondata su una
concorrenza pura e perfetta.
Ovverosia, ragione uguale razionalità economica occidentale e capitalistica.
[…] L’uomo non può e non deve sfuggire ai «meccanismi» naturali. «E’ in questo modo che la domanda di uomini, al
pari di quella di ogni altra merce, necessariamente regola la produzione di uomini». Troviamo qui l’embrione
dell’idea ultraliberista de! capitale umano. «Un uomo istruito col costo di molto lavoro e molto tempo — scrive Smith
— a una di quelle occupazioni che richiedano destrezza e abilità straordinarie può essere paragonato a una di quelle
macchine costose […] Allo stesso modo, il tasso di interesse è determinato, in base alle leggi naturali, un poco al di
sopra del prezzo di rischio. Senza di ciò, soltanto la carità o l’amicizia potrebbero essere motivi di prestito.” La natura
ha addirittura previsto per ciascun paese il «grado di prosperità al quale sembra essere naturalmente destinato». […] Il
mito economico rappresenta una riproduzione e una inversione delle mitologie tradizionali. Come in queste ultime, si
parte da una situazione di disordine violento (la guerra degli dei e dei titani o quella tra i grandi feudatari) e si arriva
all’ordine. Soltanto, nelle grandi mitologie, questo risultato è prodotto dalla rottura dell’indifferenziazione originaria e
l’esercizio della violenza mimetica, con la designazione di una vittima sacrificale. Al contrario, nel mito economico la
pace (il dolce commercio) è il risultato dell’indifferenziazione mercantile attraverso la concorrenza e l’esacerbazione
della mimesis. Anche in questo caso c’è indubbiamente un capro espiatorio, ma occultato: la natura, di cui ci si fa
padroni e dominatori […]e del sacrificio reale e quotidiano del proletariato sotto il manto dell’uguaglianza-identità
giuridica e mercantile.
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Frontiere - Liceo Vallisneri - a.s. 2011/2012
SVILUPPO - CRISI - RIVOLUZIONE
Karl Marx e Friedrich Engels, Il manifesto del partito comunista (1848)
Il salto qualitativo nel sistema produttivo capitalistico borghese è magistralmente reso proprio nel Manifesto del
Partito Comunista, dove Marx mette in correlazione le crisi economiche con la necessità dell’espansione mondiale
del processo produttivo per garantire la sopravvivenza stessa della classe borghese... La fine è nota: “La borghesia
produce innanzi tutto proprio coloro che la seppelliranno. La sua caduta e la vittoria del proletariato sono
ugualmente inevitabili”.
[...] La moderna società borghese, elevatasi sulle rovine della società feudale, non ha abolito gli antagonismi tra le
classi. Essa non ha fatto altro che sostituire, a quelle vecchie, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove
forme di lotta.
Tuttavia, il carattere che distingue la nostra epoca, l’era della borghesia, è l’aver semplificato gli antagonismi di
classe. La società si va sempre più dividendo in due vasti campi opposti, in due classi nemiche: la borghesia ed il
proletariato.
Dai servi della gleba del medio-evo hanno avuto origine gli abitanti dei primi comuni; da questa popolazione
urbana sono derivati gli elementi costitutivi della borghesia. La scoperta dell’America, la circumnavigazione
dell’Africa, hanno offerto alla nascente borghesia un nuovo campo di azione. I mercati dell’India e della Cina, la
colonizzazione dell’America, il commercio con le colonie, l’aumento dei mezzi di scambio e delle merci, hanno
dato un impulso senza precedenti al commercio, alla navigazione, all’industria; e, di conseguenza, hanno garantito
un rapido sviluppo al fattore rivoluzionario della società feudale in via di dissoluzione. Il vecchio modo di
produzione non era più in grado di soddisfare i bisogni che aumentavano con l’apertura di nuovi mercati [...]
Il mercato mondiale ha dato una prodigiosa accelerazione allo sviluppo del commercio, della navigazione, di tutti i
mezzi di comunicazione. Questo sviluppo si è a sua volta ripercosso sul progresso dell’industria; e mano mano che
l’industria, il commercio, la navigazione, le ferrovie si andavano sviluppando, la borghesia cresceva, decuplicando
i suoi capitali e retrocedendo in secondo piano le classi provenienti dal medio-evo. La borghesia, noi lo vediamo, è
essa stessa il prodotto di un lungo processo di sviluppo, di una serie di rivoluzioni nei modi di produzione e di
comunicazione. Ogni tappa dell’evoluzione che la borghesia ha fatto era accompagnata da un corrispondente
progresso politico. Ceto oppresso dal dispotismo feudale, associazione che si auto-governa nel Comune; ora
repubblica municipale ora terzo stato tributario della monarchia: poi, all’epoca della manifattura, contrappeso della
nobiltà nelle monarchie a potere limitato o assolute; quindi pietra angolare del potere delle grandi monarchie; la
borghesia, da quando si sono affermati la grande industria e il mercato mondiale, si è finalmente impadronita del
potere politico nel moderno Stato rappresentativo, escludendone tutte le altre classi. Il governo attuale altro non è
che un consiglio d’amministrazione degli affari della classe borghese. La borghesia ha svolto nella storia un ruolo
essenzialmente rivoluzionario.
Dovunque ha preso il potere, la borghesia ha calpestato i rapporti sociali feudali, patriarcali e idilliaci. Essa ha
spezzato senza pietà tutti i variopinti legami che univano l’uomo del feudalesimo ai suoi naturali superiori, non
lasciando in vita nessun altro legame tra uomo e uomo che non sia il freddo interesse, il gelido argent comptant.
[...]
È la borghesia che per prima ha dato la prova di ciò che l’attività umana può compiere: creando ben altre
meraviglie che le piramidi d’Egitto, gli acquedotti romani o le cattedrali gotiche; e conducendo ben altre spedizioni
che le antiche migrazioni dei popoli e le crociate. La borghesia non può esistere se non a patto di rivoluzionare
incessantemente gli strumenti di lavoro, vale a dire il modo di produzione, e quindi tutti i rapporti sociali. [...]
Spinta dal bisogno di trovare sempre nuovi sbocchi, la borghesia invade il mondo intero. Essa deve penetrare
dovunque, stabilirsi dovunque e impiantare ovunque dei mezzi di comunicazione. Grazie allo sfruttamento del
mercato mondiale, la borghesia dà un carattere cosmopolita alla produzione ed ai consumi di tutti i paesi. Facendo
disperare i reazionari, ha tolto all’industria la sua base nazionale. Le antiche industrie sono distrutte o stanno per
esserlo. Vengono soppiantate da industrie nuove la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le
nazioni sviluppate, industrie che non utilizzano più materie prime locali, ma quelle importate dalle zone più
lontane, ed i cui prodotti vengono consumati in ogni angolo del pianeta, non solamente nel paese.
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Frontiere - Liceo Vallisneri - a.s. 2011/2012
Al posto dei vecchi bisogni, che venivano soddisfatti dalla produzione nazionale, sorgono bisogni nuovi, il cui
soddisfacimento richiede prodotti provenienti dai paesi più lontani e dai climi più diversi.
Al posto dell’antico isolamento e dell’autosufficienza delle singole nazioni, si sviluppa un commercio universale,
un’interdipendenza di tutte le nazioni. E ciò che vale per la produzione materiale, viene applicato anche alla
produzione intellettuale. Le creazioni intellettuali di un paese diventano proprietà comune di tutti. La ristrettezza e
l’esclusivismo nazionali, giorno dopo giorno, si fanno sempre più impossibili; e dalle varie letterature nazionali e
locali si forma una letteratura mondiale. Grazie al rapido sviluppo dei mezzi di produzione e di comunicazione, la
borghesia trascina nella corrente della civilizzazione perfino le nazioni più barbare. Il basso prezzo delle sue merci
è l’artiglieria pesante che abbatte qualsiasi Grande Muraglia e fa capitolare i barbari più ostinatamente ostili agli
stranieri.
Pena la loro morte, essa costringe tutte le nazioni ad adottare il modo di produzione borghese. In altre parole, la
borghesia modella il mondo a sua immagine e somiglianza.
La borghesia ha sottomesso la campagna alla città. Ha creato metropoli enormi; ha fatto crescere in modo
prodigioso la popolazione urbana a scapito di quella rurale e, così facendo, ha preservato una parte considerevole
della popolazione dall’idiotismo della vita dei campi. Così come ha subordinato la campagna alla città, i popoli
barbari o semi-civilizzati a quelli civilizzati, la borghesia ha assoggettato i paesi agricoli a quelli industriali e
l’Oriente all’Occidente. [...]
Dall’inizio del suo dominio, in poco meno di un secolo, la borghesia ha generato forme produttive più diversificate
e poderose di quanto avessero mai fatto tutte insieme le precedenti generazioni. Soggiogamento delle forze della
natura, macchine, applicazione della chimica all’industria ed all’agricoltura, navigazione a vapore, ferrovie,
telegrafi elettrici, dissodamento di interi continenti, canalizzazione dei fiumi, popoli interi sorti come per incanto
dalla terra: quale dei secoli passati avrebbe mai potuto presagire che simili forze produttive giacessero in seno al
lavoro sociale?
[...] La moderna società borghese, che ha messo in moto mezzi di produzione e scambio così poderosi, rassomiglia
allo stregone che non riesce più a dominare le potenze infernali che egli stesso ha evocato.
Da almeno trent’anni, la storia dell’industria e del commercio altra non è che la storia della ribellione delle forze
produttive contro i rapporti di proprietà, che sono le condizioni dell’esistenza della borghesia e del suo regno.
Basta ricordare le crisi commerciali che, con il loro ciclico ritorno, minacciano sempre di più l’esistenza della
società borghese.
Ogni crisi distrugge regolarmente non solo una massa di merci già prodotte, ma anche una gran parte delle stesse
forze produttive. L’epidemia della sovrapproduzione, un’epidemia che in tutte le altre epoche della storia sarebbe
parsa un paradosso si abbatte sulla società: che all’improvviso si trova ricacciata in uno stato di momentanea
barbarie; si direbbe che una carestia, una guerra di sterminio l’abbiano privata di tutti i mezzi di sussistenza; mentre
l’industria ed il commercio sembrano annichiliti. E tutto questo, perché? Perché la società ha troppa civiltà, troppi
mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive a sua disposizione non favoriscono
più lo sviluppo dei rapporti di proprietà borghesi; anzi, esse sono diventate troppo potenti per quei rapporti, che si
tramutano in intralci; e quando le forze produttive sociali superano questi intralci, gettano l’intera società nel
disordine, mettendo in pericolo l’esistenza della proprietà borghese. Il sistema borghese è diventato troppo stretto
per contenere le ricchezze create nel suo seno.
Come può la borghesia superare la crisi? Da un lato, mediante la distruzione forzata di una massa di forze
produttive; dall’altro lato, mediante la conquista di nuovi mercati e lo sfruttamento più perfezionato di quelli
esistenti: cioè preparando delle crisi più generali e terribili e diminuendo i mezzi per prevenirle. Le armi utilizzate
dalla borghesia per abbattere il feudalesimo si rivoltano contro di essa. Ma la borghesia non ha soltanto forgiato le
armi che devono darle la morte; ha prodotto anche gli uomini che le impugneranno: i moderni operai, I
PROLETARI. Mano mano si sviluppa la borghesia, vale a dire il capitale, si sviluppa il proletariato, la classe degli
operai moderni, che vivono solo se trovano lavoro e che lo trovano solo fino a quando il loro lavoro accresce il
capitale.
Gli operai, costretti a vendersi alla giornata, sono una merce al pari di qualsiasi altro articolo di commercio: di
conseguenza essi subiscono tutte le vicissitudini della concorrenza, tutte le oscillazioni del mercato.
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UN’ETICA PER LA CIVILTÀ TECNOLOGICA
Hans Jonas, Il principio responsabilità (1979)
In Das Prinzip Verantwortung (Il principio responsabilità,1979) Jonas parte dalla constatazione della «mutata
natura dell'agire umano», nel senso non solo di un ampliamento materiale, ma di una sua «novità qualitativa», per
mostrare l'insufficienza dell'etica tradizionale a rispondervi e dunque la necessità di una differente proposta
all'altezza della «civiltà tecnologica». Nell'antichità l'agire, esercitandosi principalmente all'interno della polis,
della comunità umana, non toccava la natura circostante considerata eterna e anzi occorreva per difendersi dalle sue
minacce e per questo l'etica, basata su un'idea costante di uomo e cosmo, poteva limitarsi all'ambito delle relazioni
interumane immediate, mentre la «sfera della techne [...] era neutrale sotto il profilo etico». Da qui il carattere
antropocentrico e la limitazione temporale al presente delle diverse proposte etiche tradizionali di matrice
«ellenistico-ebraico-cristiana». Con la tecnica moderna il quadro muta. L'intero mondo naturale mostra la sua
vulnerabilità di fronte all'agire dell'homo faber : si ampliano i confini spaziali e temporali della sua azione e delle
conseguenze di questa e pertanto anche la natura, così come la previsione degli effetti futuri dell'agire tecnologico
diventano oggetti d'interesse etico. In questo caso non è più sufficiente un'etica della «simultaneità e della
prossimità», ma è necessaria un'«etica del futuro» , e anzitutto della «responsabilità» per il futuro. Ma proprio la
rilevanza del futuro e della valutazione preventiva delle conseguenze dell'azione porta al centro dell'etica, come suo
primo dovere, la ricerca di un sapere reale, scientifico sugli effetti a lungo termine dell'agire che deve
accompagnarsi al sapere filosofico sui principi: è solo infatti conoscendo i possibili pericoli cui si va incontro che si
può evitarli, perché «sappiamo che cosa è in gioco soltanto se sappiamo che è in gioco». L'«euristica della paura» è
lo strumento che, immaginando possibili scenari negativi, proprio nell'incertezza e nel dubbio che essi possano
realizzarsi, deve guidare l'agire in nome della cautela e della responsabilità, mediando tra sapere ideale e praticopolitico. In questo senso la «paura», come apprensione per l'oggetto della nostra responsabilità, non deve mai
essere un sentimento paralizzante, non coincide dunque né con l'angoscia heideggeriana, né con la paura egoistica
di Hobbes, ma è un «timore di genere intellettuale che è opera nostra in quanto conseguenza di un atteggiamento»:
«Non intendiamo la paura che dissuade dall'azione ma che esorta a compierla; [...] la paura fondata, non la
titubanza, forse addirittura l'angoscia, ma mai lo sgomento e in nessun caso il timore o la paura per se stessi». Data
l'entità totale della posta in gioco - l'esistenza dell'umanità -, su cui non è permessa alcuna scommessa, occorre
«prestare più ascolto alla profezia di sventura che non a quella di salvezza» - in dubio pro malo.Vi è infatti la
possibilità concreta che per effetto del potere umano - in primo luogo a livello collettivo, politico, non tanto privato
e individuale -, il mondo naturale sia compromesso per le generazioni future e che l'umanità stessa possa perire o
essere modificata, manipolata nella sua essenza. Quale sarà un imperativo conforme a questa nuova situazione?
Non quello kantiano che nella sua formalità logica presuppone come data l'esistenza degli attori umani, ma quello
che riconosce in primo luogo l'obbligo che l'umanità debba continuare a esistere: la sua coerenza non è dunque
quella «dell'atto con se stesso, ma quella dei suoi effetti ultimi con la continuità dell'attività umana nell'avvenire»,
con il fatto cioè «che ci sia un'umanità». E ciò nel senso per cui l'esserci dell'uomo non implica soltanto la sua
mera sopravvivenza, ma include necessariamente la «ragione per cui in generale si rivendica l'esistenza
dell'umanità», il suo esser-così, ossia la preservazione, da un lato, della sua autenticità e, dall'altro, dell'intera
biosfera come luogo proprio di vita dell'uomo. [...] La formulazione jonasiana dell'imperativo della responsabilità,
l'unico a suo avviso davvero «categorico», rimane la seguente: «Agisci in modo che le conseguenze della tua
azione siano compatibili con la permanenza di un'autentica vita umana sulla terra»
in Claudio Bonaldi, Jonas, Carocci, 2009, pp.141-143
“L'esperienza ci ha insegnato che gli sviluppi di volta in volta avviati, con obiettivi a breve termine, dal fare
tecnologico presentano la tendenza a rendersi autonomi, ossia ad acquisire una propria dinamica coattiva, un
impeto automatico in forza del quale non soltanto diventano irreversibili, com'è stato detto, ma acquistano una
funzione propulsiva al punto da trascendere la volontà e i piani degli attori. Ciò a cui un tempo è stato dato avvio
ci sottrae di mano la legge dell'agire e i fatti compiuti sfociano nella normatività della coazione a ripetere. Se per
un verso può essere vero che «prendiamo in mano la nostra evoluzione», per l'altro essa vi sfugge dopo averne
subito la spinta: qui, più che altrove, si verifica che, mentre siamo liberi di fare il primo passo, al secondo e a tutti
gli altri successivi siamo già schiavi. Così alla constatazione che l'accelerazione dello sviluppo alimentato dalla
tecnologia non lascia più tempo all'autocorrezione, si aggiunge quella che anche nel tempo lasciato le correzioni
diventano sempre più difficili e la libertà di farle sempre più ridotta. Il che consolida il dovere di vigilare sugli
inizi, riconoscendo alle eventualità di sventura fondate con sufficiente serietà (e diverse da semplici fantasie
angosciose) una priorità sulle speranze, anche se queste non sono peggio fondate di quelle.”
Hans Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, pp.40-41
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LA MINACCIA DI SVENTURA DELL'IDEALE BACONIANO
Hans Jonas, Il principio responsabilità (1979)
Tutto questo poggia sull'assunzione che viviamo in una situazione apocalittica, ossia, se lasciamo che le cose
seguano il loro corso attuale, nell'imminenza di una catastrofe universale. A questo riguardo dovremo adesso
ribadire alcune cose, per note che siano. Il pericolo scaturisce dalle smisurate dimensioni della civiltà tecnicoscientifico-industriale. Quel che possiamo definire il programma baconiano, ossia orientare il sapere verso il
dominio della natura utilizzando quest'ultimo per migliorare il destino umano, non ha fin da principio goduto nella
sua attuazione capitalistica né della razionalità né della giustizia con cui sarebbe stato di per sé compatibile; ma la
dinamica del suo successo, destinata a determinare una produzione e un consumo smisurati, avrebbe travolto
presumibilmente ogni società (infatti nessuna è composta di saggi), a causa della relativa miopia delle finalità
umane e della reale imprevedibilità delle dimensioni del successo.
1. La minaccia della catastrofe proveniente dal successo smisurato.
Il pericolo di una catastrofe per l'ideale baconiano del dominio sulla natura ad opera della tecnica scientifica è
insito quindi nella grandezza del suo successo. Esso è in sostanza di duplice natura, economico e biologico: il
rapporto reciproco fra queste due componenti, destinato a provocare necessariamente la crisi, si manifesta oggi
apertamente. Il successo economico, a lungo considerato isolatamente, significava incremento per quantità e genere
della produzione di beni pro capite, diminuzione dell'impiego di lavoro umano e crescente aumento del benessere
di molti, anzi persino aumento involontario del consumo globale del sistema e quindi enorme incremento del
ricambio del corpo sociale complessivo con l'ambiente naturale. Già questo da solo implicava i rischi di
esaurimento (supersfruttamento) delle risorse naturali limitate (si prescinde qui dai pericoli di corruzione interna).
Ma tali rischi vengono potenziati ed accelerati dal successo biologico, in un primo tempo scarsamente visibile:
l'aumento numerico di questo corpo collettivo soggetto del ricambio, ossia l'incremento demografico esponenziale,
nella sfera d'influenza della civiltà tecnica ormai estesa all'intero pianeta; e non soltanto nel senso che questa
crescita accelera, per cosi dire dall'esterno, il tasso dello sviluppo primario moltiplicandone gli effetti, ma nel senso
che essa gli sottrae anche la possibilità di arginare se stesso. Una popolazione statica potrebbe dire a un certo punto:
«Basta! »; ma una popolazione in aumento è costretta a dire: «Ancora di più! » Oggi comincia a diventare
terribilmente chiaro che il successo biologico non soltanto mette in discussione quello economico, facendo
ripiombare dalla breve festa della ricchezza nella quotidianità cronica della povertà, ma minaccia anche di
provocare una catastrofe umana e naturale di proporzioni gigantesche. L'esplosione demografica, intesa come
problema planetario del ricambio, ridimensiona l'aspirazione al benessere, costringendo l'umanità in via di
impauperimento a fare, per sopravvivere, ciò che un tempo era libero oggetto di scelta in vista della felicità: saccheggiare cioè in modo sempre più indiscriminato il pianeta, finché quest'ultimo avrà l'ultima parola e si negherà
all'insostenibile domanda. Quale mortalità di massa o quali omicidi di massa accompagneranno una simile
situazione da «si salvi chi può! » sfida ogni immaginazione. Le leggi ecologiche dell'equilibrio, che nelle
condizioni naturali impediscono la reciproca prevaricazione delle singole specie, rivendicheranno ora, venuti meno
i meccanismi artificiali di controllo, i loro diritti tanto più temibili in quanto troppo a lungo sarà stata sfidata la loro
tolleranza. Come in seguito un residuo di umanità potrà ricominciare da capo su una terra devastata, non riesce
possibile neppure ipotizzare.
Hans Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, pp.179-180
CRITICA DELL’UTOPISMO MARXISTA
2. I limiti di tolleranza della natura: utopia e fisica.
La questione è di come «la natura» reagirà a quest'aggressione cosi intensificata, dato che per essa non fa differenza
che l'attacco provenga da «destra» o da «sinistra» e che l'aggressore sia marxista o borghese-liberale - certo com'è
che le leggi naturali non sono un pregiudizio borghese (benché gli ideologi marxisti siano inclini a crederlo, e
Stalin notoriamente, in materia di genetica, agisse anche di conseguenza). In ultima analisi la questione non è
perciò che cosa l'uomo sarà ancora in grado di fare - questo dipende dal nostro orientamento prometeico -, ma
quanto di tutto ciò la natura potrà sopportare. Oggi nessuno mette in dubbio che esistano a questo proposito dei
limiti numerici - il che vuoi dire demografici - di tolleranza, così che nell'attuale contesto c'è soltanto da chiedersi
se l'«utopia» si collochi all'interno o all'esterno di essi. Tali limiti di tolleranza, se commisurati alle esigenze
umane, possono collocarsi ben al di sotto del limite di manipolabilità astrattamente teorica della natura in sé e per
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Frontiere - Liceo Vallisneri - a.s. 2011/2012
sé. La presenza di quei limiti diventa percepibile là dove «gli effetti collaterali» degli interventi dell'uomo, volgendosi a suo danno, cominciano a offuscare il vantaggio dei profitti minacciando di diventare preponderanti. Quei
limiti vengono varcati, forse in modo irreversibile, quando gli sforzi diretti in un'unica direzione spingono l'intero
sistema, composto di innumerevoli e delicati equilibri, alla catastrofe, almeno in rapporto alle finalità umane. (Di
per sé la natura non conosce catastrofi). Che un evento del genere non sia soltanto possibile in linea di principio,
ma possa essere (e in larga misura già sia) il prodotto dell'interferenza umana sul corso dell'« astronave terra», è un
convincimento relativamente nuovo, che ridimensiona in maniera radicale la fede nel progresso socialistico non
meno che in quello capitalistico. […]
Gli interrogativi saranno allora: quali sono i «limiti» e dove sono collocati? sono ancora lontani o già vicini? e
quanto? Rispondere a tali questioni fa parte dei compiti dell'ancor giovane scienza ecologica e di branche
specialistiche di competenza di biologi, agronomi, chimici, geologi, climatologi e via dicendo, inclusi economisti e
ingegneri, esperti di urbanistica e traffico ecc., dalla cui cooperazione interdisciplinare si sviluppa la scienza
globale dell'ambiente che è oggi necessaria. Il filosofo non ha qui nulla da dire, bensì solo da imparare. Purtroppo
egli non può neppure ricavare dallo stadio attuale della scienza dei risultati certi per il suo lavoro. Tutte le
previsioni o le proiezioni quantitative sono attualmente incerte persino negli ambiti specifici, per non parlare poi
della loro integrazione nell'insieme ecologico, qualora dovesse risultare attuabile sul piano del calcolo. In ogni
modo risulta possibile indicare sommariamente quali limiti siano insiti nelle varie linee di sviluppo, il che non è
senza interesse almeno per la valutazione delle prospettive utopiche, che ovunque spingono il gioco all'estremo.
Hans Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, pp.237-238
3. L'imperativo permanente del risparmio energetico in economia e il suo veto contro l'utopia.
a) Progresso con cautela.
[…] Nulla di quanto si è affermato fin qui dovrebbe essere interpretato erroneamente come il tentativo di
dissuadere da questo tipo di progresso o dal progresso in generale, anche se la pericolosità dei frutti del suo potere
nella mani dell'avidità e della miopia umane (anzi, persino del bisogno) costituisce un tema ricorrente della nostra
melodia. La fusione nucleare, se mai vi arriveremo, potrebbe risolvere per sempre il problema energetico. Solo che
questo dono andrebbe usato con saggezza e moderazione, tenendo presente la responsabilità globale e non una
grandiosa speranza onnicomprensiva. Resterebbe solo da stabilire dove sia situato il limite naturale e dove inizi la
soglia critica del pericolo, qualora si dovesse arrivare all'embarras de richesse. Ma sarebbe necessario stabilire in
anticipo, senza attendere che la realtà s'incarichi di dimostrarlo, questo valore-limite per i fattori già adesso attuali,
a qualcuno dei quali abbiamo appunto accennato (ad es. lo stato biochimico del terreno e delle acque, l'equilibrio
planetario dell'ossigeno, e cosi via). Per tutto ciò è richiesta una nuova scienza che tratti l'enorme complessità delle
interdipendenze. Finché non siano disponibili qui proiezioni sicure, la cautela, soprattutto in caso di irreversibilità
di alcuni fra i processi avviati, costituisce il lato migliore del coraggio e in ogni caso un imperativo della
responsabilità: forse per sempre se, com'è probabile, una tale scienza supererà definitivamente tutte le capacità
tecniche reali già rispetto alla completezza dei dati e a maggior ragione rispetto alla loro elaborazione complessiva.
Su questo punto l'insicurezza potrà essere il nostro destino permanente: il che comporta delle conseguenze morali.
b) La moderazione negli obiettivi contro l'immodestia dell'utopia.
Già adesso sono lecite supposizioni, specialmente sul versante negativo. Si può mettere in dubbio, ad esempio, che
anche soltanto gli attuali 4,2 miliardi di esseri umani possano vivere approssimativamente nello stile dei paesi più
avanzati, cioè con il consumo energetico pro capite dell'odierno mondo europeo-americano, senza arrecare danni
ambientali rilevanti e irreversibili. (Certamente non con le fonti energetiche convenzionali). […] Per queste cifre
azzardo ora la previsione che in nessun caso, neppure lontanamente, con o senza la fonte energetica sperata, la
popolazione mondiale potrebbe imitare a lunga scadenza e impunemente l'esempio attuale di una minoranza
mondiale sperperatrice (e neppure delle sue società, che sono ancora ben lontane dall'utopia). Quella fonte
energetica per cosi dire assoluta (la fusione nucleare), qualora fosse disponibile potrebbe, è vero, preservare i nostri
discendenti dalle grandi sofferenze della recessione economica, assicurando in permanenza un fabbisogno globale
concepito in modo razionale. Ma con la sua inesauribilità virtuale subentrerebbe anche la tentazione, anzi
l'irresistibile seduzione di obiettivi immodesti: da questa leggerezza deve mettere tempestivamente in guardia la
prosa più debole della ragione, rafforzata dal pathos della responsabilità (e se non giovano quelle, la voce meno
nobile della paura). Vale la pena riflettere sulla circostanza che il massimo successo pratico-scientifico di tutta la
storia della fisica, la rivelazione del mistero dell'atomo, contiene potenzialmente in sé la salvezza e l'annientamento
dell'umanità; la possibilità di quest'ultimo non è insita soltanto nell'uso distruttivo dell'atomo, ma anche nel suo uso
costruttivo, pacifico e produttivo. E qui, soverchiata dai vantaggi immediati, la voce della prudenza lungimirante
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incontra molte più difficoltà che non nel denunciare la minaccia di distruzione dell'uso militare dell'atomo, quando
la nuda paura collettiva le viene in soccorso. Il richiamo verso fini «più modesti», per quanto suoni stonato rispetto
alla grandiosità dei mezzi, diventa una necessità prioritaria proprio a causa di quella grandiosità. In ogni caso ci si
deve togliere dalla testa l'utopia, il fine immodesto par excellence, non tanto perché la sua esistenza è precaria,
quanto piuttosto perché già il suo perseguimento provoca la catastrofe.
Hans Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, pp.243-244
ZYGMUNT BAUMAN
(da un’intervista di Giuliano Battiston, Micromega 8, 2011)
A proposito di crescita economica: la società «solida» dei produttori si basava sull'assunto che la crescita del
potere (potere produttivo, militare, industriale) portasse alla crescita della felicità, e tutto il XX secolo è stato
fortemente condizionato dall'idea - egemone anche a sinistra - che tra crescita economica e giustizia sociale ci
fosse un 'equivalenza, come se il «progresso» e lo «sviluppo» potessero automaticamente risolvere la
disuguaglianza sociale. La crisi può essere l'occasione per abbandonare l'idea della crescita come fine in sé, in
favore di un nuovo paradigma politico, e prima ancora culturale, che coniughi giustizia e limiti?
I crescenti livelli di opulenza si traducono in crescenti livelli di consumo; dopotutto, l'arricchimento è un valore che
merita di essere ambito fino a quando aiuta a migliorare la qualità della vita, ma «rendere la vita migliore», o anche
solo renderla in qualche modo meno insoddisfacente, significa «consuma di più», nel dialetto della congregazione
planetaria della Chiesa della crescita economica. Per la fede di questa Chiesa fondamentalista, tutte le strade verso
la redenzione, la salvezza, la grazia divina e secolare, la felicità immeditata ed eterna, passano attraverso i negozi.
E quanto più affollati sono gli scaffali dei negozi in attesa dei cercatori di felicità, tanto più vuota è la Terra, l'unico
contenitore/ fornitore di risorse materiali grezzi ed energia - di cui c'è bisogno per riempire i negozi: una verità che
viene reiterata e confermata un giorno sì e l'altro pure dalla scienza, e che tuttavia viene ripetutamente sottostimata;
basti pensare che secondo una recente ricerca questa verità viene negata nel 53 per cento degli spazi che la stampa
americana riserva alla questione della «sostenibilità», mentre gli altri settori giornalistici la trascurano o la passano
sotto silenzio. Ciò che è passato sotto il più assordante, indifferente e avvilente silenzio è l'avvertimento dato da
Tini Jackson nel suo libro di ormai due anni fa, Prosperità senza crescita [Edizioni Ambiente, 2011]: alla fine di
questo secolo, scrive, «i nostri figli e nipoti avranno a che fare con un clima ostile, risorse esaurite, distruzione
degli habitat, decimazione delle specie, scarsità di cibo, migrazione di massa e guerra quasi inevitabile». Il nostro
debito, guidato e zelantemente favorito, assistito, incoraggiato da quel potere che è il consumo, è «ecologicamente
insostenibile, socialmente problematico ed economicamente instabile». Ma c'è anche un'altra delle osservazioni
agghiaccianti di Jackson che è stata quasi universalmente ignorata dai più popolari (e più efficaci) canali di
comunicazione, o che al massimo è stata relegata alle pagine o agli orari conosciuti per ospitare voci ormai abituate
alla difficile condizione di predicare nel deserto: il fatto che, in un sistema sociale come il nostro - in cui il quinto
più ricco del mondo detiene il 74 per cento del reddito annuale planetario mentre il quinto più povero si deve
accontentare del 2 per cento - il tentativo abituale di giustificare la devastazione perpetrata dalle politiche volte alla
crescita economica con il nobile bisogno di rimediare alla povertà non può che essere pura ipocrisia e un'offesa alla
ragione. Sul Guardian del 23 gennaio 2010, Jeremy Leggett segue i suggerimenti di Jackson e suggerisce che una
prosperità duratura (non condannata o del tutto suicida) deve essere cercata al di fuori «delle trappole consuete
dell'abbondanza» (e, mi si lasci aggiungere, al di fuori del circolo vizioso dell'uso/cattivo uso e abuso di materiali
ed energia): nelle relazioni, nelle famiglie, nei vicinati, nelle comunità, nei significati della vita, in un'area
dichiaratamente confusa e oscura di «vocazioni verso una società funzionale che attribuisce valore al futuro». Lo
stesso Jackson d'altronde parte dalla sobria ammissione che mettere in questione la crescita economica viene
ritenuto un atto da ««lunatici, idealisti e rivoluzionari», e chi lo fa rischia/teme/si aspetta non senza ragione di
essere assegnato a una di queste tre categorie dagli apostoli e dai drogati dell'ideologia del cresci o muori. Il libro di
Elinor Ostrom, Governare i beni collettivi [Marsilio 2005] è dieci volte più vecchio di quello di Jackson, ma già lì
possiamo leggere che la convinzione strenuamente diffusa che la gente sia incline per natura ad agire secondo il
profitto di breve termine e a seguire il principio «ognun per sé e dio per tutti» non riflette lo stato delle cose. Dai
suoi studi sulle attività economiche di piccola scala, localmente attive, la Ostrom trae infatti una conclusione
piuttosto diversa: «La gente che vive in comunità» tende ad assumere decisioni che non «sono orientale soltanto al
profitto». In una conversazione che ha avuto con Fran Korten lo scorso marzo, ha fatto riferimento a un'onesta e
sincera comunicazione intracomunitaria, al rispetto di pascoli comuni e aperti, e ad altri stratagemmi che
virtualmente non consumano energia e non sono viziati dallo spreco come a risposte umane piuttosto verosimili,
quasi istintive alle sfide della vita. Nessuna di queste risposte è particolarmente favorevole alla crescita economica,
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ma sono tutte volte alla sostenibilità del pianeta e dei suoi abitanti. È dunque arrivato il tempo di chiedersi: queste
forme di vita in comune, conosciute dalla maggior parte di noi attraverso i resoconti etnografici inviati dalle
rimanenti vestigia degli «antichi tempi perduti», sono cose che appartengono irrimediabilmente al passato? O,
forse, sta per emergere la verità di una visione alternativa della storia (e dunque anche di un'interpretazione
alternativa del progresso): il fatto che, anziché una corsa in avanti, irreversibile e che non prevede ritirate,
rincorrere la felicità attraverso i negozi era/è/dimostrerà di essere solo una deviazione eccezionale, intrinsecamente
e inevitabilmente temporanea? Come si dice, la giuria non si è ancora espressa. Ma è tempo che emetta un verdetto.
Più a lungo indugia, più è verosimile che sarà costretta a uscire di corsa dalla sala di consiglio. Per mancanza di
cibo.
L’ETICA È CAUSA O EFFETTO DELLA CRESCITA ECONOMICA?
LORENZO SACCONI
Professore ordinario dell’Università di Trento e Direttore centro interuniversitario EconomEtica Università Milano Bicocca
Contrariamente a quanto si crede spesso gli economisti affrontano "temi etici". Il Festival dell’economia di Trento
ne ha ripreso alcuni che sono stati nei mesi scorsi al centro delle riflessioni degli economisti italiani – specie quelli
riuniti del network di EconomEtica. Uno dei "temi etici" più interessanti in effetti è posto dal libro dell’economista
di Harvard (ospite del Festival) Benjamin Friedman – "Il valore etico della crescita " (trad. it. EGEA 2006, in effetti
il titolo sarebbe le "conseguenze morali della crescita economica" – che riflette assai meglio le intenzioni
dell’autore, per il quale l’etica è per l’appunto più una conseguenza che un valore a sé).
un’opera voluminosa che presenta una tesi tutto sommato semplice: la crescita economica e dei redditi è essenziale
per il mantenimento e lo sviluppo delle virtù morali di una società, quali il grado di apertura, gli atteggiamenti di
generosità verso i poveri e di tolleranza dei suoi membri verso le minoranze e la pluralità di opinioni e stili di vita,
la democraticità delle istituzioni e la possibilità che attraverso scelte democratiche sia favorita la mobilità sociale.
Prendendo a prestito con licenza un detto brechtiano potremmo dire: – "prima vien la crescita poi vien la virtù".
La tesi di Friedman riflette la "fissazione per la crescita" che ritorna in molte prese di posizione di politica
economica specie nell’area dei democratici in Italia, tra i quali sembra addirittura essersi persa l’intuizione della
reciproca dipendenza tra equità e creazione di surplus sociale, che potrebbe invece essere considerata la posizione
tipica del riformismo liberal (oltre che essere condivisa da tanta buona teoria economica, dalla teoria dei giochi di
contrattazione alla teoria della giustizia di Rawls, su cui torneremo).
Cerchiamo quindi di seguire Friedman, per capire come questa posizione possa essere argomentata. Gli individui
hanno atteggiamenti di apertura e di generosità, che permettono la mobilità sociale, sia ascendente che discendete,
solo se pensano di stare "abbastanza bene". Ma la percezione del benessere è soggettiva e caratterizzata da due tipi
di confronti che non necessariamente riflettono il livello assoluto di benessere. In primo luogo il confronto con la
condizione degli altri individui nella stessa cerchia, che tuttavia per effetto della diffusione dei media e della
televisione si è progressivamente ampliata fino ad ammettere confronti con altre nazioni. Da questo punto di vista,
se il nostro reddito rimane invariato, ma noi peggioriamo relativamente alla media, allora ci sentiamo infelici e
diveniamo ostili agli altri. Secondariamente il confronto personale con la propria condizione precedete (o quella dei
propri genitori): la nostra felicità aumenta se noi miglioriamo nel tempo, anche se la nostra situazione peggiora (di
poco) rispetto ai nostri contemporanei. Ecco allora la tesi di Friedman: siccome la mobilità sociale e le pari
opportunità creano un rischio di peggioramento relativo per chi ha raggiunto una certa posizione benessere, la
disuguaglianza è connessa con le dinamiche competitive della mobilità sociale, e la generosità sociale ha un costo,
allora possiamo mantenere gli atteggiamenti di apertura, tolleranza e generosità solo se i nostri redditi crescono in
modo sostenuto, in modo che la minaccia di peggioramento relativo rispetto agli altri sia controbilanciata dal
miglioramento rispetto a noi stessi in passato o ai nostri genitori. Un’economia stagnante perciò, specie per chi si
trova nella condizione di svantaggio relativo, tenderà a ostacolare l’apertura, la mobilità sociale, i diritti civili e la
tolleranza.
Mentre per Friedman la riduzione della povertà assoluta e le pari opportunità sono un valore , è chiaro che la
domanda di uguaglianza dei redditi non lo è necessariamente (anzi ne sottolinea la componente di risentimento
sociale) e ha una relazione ambigua con la crescita. Essa tuttavia costituisce per lui un fatto di psicologia
economica con la quale bisogna fare i conti: senza crescita, l’avversione alla disuguaglianza impone interventi
redistributivi che riducono ulteriormente la crescita. Al contrario la crescita favorisce, anche se lentamente, la
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riduzione della povertà, (tranne – aggiungo – nel caso in cui un brusco rialzo della domanda globale di beni
alimentari con l’inflazione dei prezzi causi carestie tra i poveri del mondo).
La tesi di Friedman è però per molti versi paradossale. La sua ricostruzione storica sottolinea l’importanza
originaria del pensiero dei puritani della Baia di Boston (cioè letteralmente un movimento etico-religioso
all’origine dell’idea di progresso materiale). Inoltre molta recente buona teoria economica delle istituzioni
sottolinea piuttosto la relazione inversa, cioè che sono le istituzioni giuridiche e sociali (ma non necessariamente la
democrazia politica) ciò che consente la crescita economica. Tra queste non solo i diritti di proprietà, ma le norme
sociali di fiducia reciproca e di equità di trattamento sono ciò che garantisce le decisioni di investimento che danno
avvio allo sviluppo economico, sia che sui tratti di investire capitale finanziario o capitale umano. Anche molta
letteratura sul "capitale sociale" è incentrata sul ruolo delle norme sociali per lo sviluppo.
Ciò che colpisce soprattutto è che gli stessi fatti citati da Friedman possono essere usati contro la sua tesi. Molti
studi di "economia del comportamento" mettono in luce che le preferenze degli agenti (o la cosiddetta "utilità") non
dipendono solo dal consumo o dal reddito personale, ma anche da altri fattori motivazionali come l’avversione alla
disuguaglianza (si veda la "scuola di Zurigo"), la reciproca equità di trattamento (ad es. Rabin) e anche le
reciproche aspettative di conformità a norme di condotta concordate equamente (esperimenti svolti all’Università di
Trento). Questi fatti suggeriscono la possibilità di una politica economica che, riducendo le disuguaglianze sociali
più odiose, oppure favorendo l’accordo su norme sociali eque, possa creare sostegno alle pari opportunità, alla
mobilità ascendete e alla tolleranza, anche in contesti di crescita economica ridotta (come quelli diffusi in Europea
nell’ultimo decennio). La ragione è che queste preferenze sostengono direttamente la conformità a norme il cui
contenuto è identico a quei principi di apertura, tolleranza, generosità (anzi poiché Friedman parla direttamente di
atteggiamenti, potremmo dire che queste preferenze non standard riflettono quegli atteggiamenti).
Per Friedman sembrerebbe invece che, siccome sulla posizione relativa tra le persone non si può fare nulla (cioè
fare una politica contro le disuguaglianze arbitrarie che suscitano avversione e riducono il benessere percepito),
allora non resterebbe che la leva di una crescita sostenta. Ma la crescita ha effetti non univoci sulla disuguaglianza
– può indurre ulteriori ragioni di insoddisfazione legate all’aumento della distanza tra posizioni sociali.
In effetti la soluzione viene dalla stessa Università di Harvard ove fino a pochi anni ha insegnato John Rawls ,
massimo teorico liberale della giustizia sociale del ‘900. Rawls propone un semplice "criterio di differenza" per la
scelta delle istituzioni fondamentali della società - che completa i due principi di "uguale libertà" e "uguale apertura
delle carriere". Noi non saremmo disposti razionalmente ad accettare le disuguaglianze sociali (necessarie a dare gli
incentivi che ci spingono alla crescita) a meno che esse non siano giustificate, ovvero siano quell’assetto che torna
a maggiore vantaggio degli svantaggiati (rispetto agli altri livelli di disuguaglianza) – e quindi siano nel reciproco
vantaggio sia di chi sta meglio che di chi sta peggio. Non si può perciò giustificare le disuguaglianze crescenti
dell’economia globalizzata col solo fatto che le briciole della crescita ricadano anche sui dannati della terra. Al
contrario se tra due livelli di crescita ve n’è uno (inferiore) che tuttavia fa migliorare maggiormente la posizione del
quintile inferiore della popolazione, allora dovremmo scegliere quel livello di crescita perché solo esso è accettabile
imparzialmente.
Si prenda l’esempio di Friedman a favore della delocalizzazione di industrie dagli Usa all’India. La crescita
economica in questo caso si accompagna a maggiori profitti e minori salari, aumentando così la disuguaglianza in
Usa. Siccome però trasferisce salari da Usa a India, anche se non riduce la disuguaglianza in India, riduce la
disuguaglianza aggregata tra i due paesi e sarebbe comunque positiva. Tuttavia si può osservare che la
disuguaglianza assoluta (tra ricchi americani e poveri indiani) aumenta e quindi per il "criterio di differenza" si
pone la domanda se essa sia giustificata, oppure non ci sia una diversa politica di delocalizzazione grazie alla quale
i redditi in India possano salire maggiormente, anche a costo di una minor crescita dei profitti, in modo da tornare a
maggior vantaggio per gli svantaggiati (il che, dati i livelli salariali spesso abominevolmente bassi e la possibilità di
introdurre ragionevoli clausole sociali a protezione dei diritti umani nei trattati del commercio internazionale e nei
codici etici delle multinazionali, è ovviamente vero). Questo tra l’altro ridurrebbe (relativamente) l’incentivo per gli
azionisti a delocalizzare per sole ragioni di risparmio sul costo del lavoro (con un impatto meno pesante sugli
operai americani). Il risultato sarebbe che col miglioramento per chi sta peggio e un grado inferire di
disuguaglianza assoluta, si ridurrebbe anche il risentimento verso politiche di economia aperta. Insomma per la
"società aperta" la giustizia (la prima virtù morale delle istituzioni) è altrettanto importante della crescita, e non si
capisce come possa essere solo una sua conseguenza.
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SVILUPPO, CRISI, RISTRUTTURAZIONE. SCHUMPETER
Equilibrio e sviluppo
L'apporto più originale e caratterizzante dato da Schumpeter alla teoria economica è, probabilmente, costituito dalla
sua concezione dello sviluppo.
Nella sua opera prima, L'essenza e i contenuti fondamentali dell'economia teorica (1908), egli aveva sostenuto
l'affinità dell'economia alle scienze naturali, sostenendo che lo studio economico dovesse essere tenuto ben
separato da quello delle scienze sociali. Seguiva così le concezioni di Leon Walras, l'economista da lui più stimato,
padre della prima formulazione completa della teoria di equilibrio economico generale, secondo cui il sistema
economico si adattava ai fattori esogeni (istituzioni, evoluzioni politiche, eventi storici, ecc.) ed endogeni
(preferenze dei consumatori, sviluppo tecnico, ecc.), tendendo all'equilibrio. Ma Schumpeter si spinse oltre.
Con il basilare Teoria dello sviluppo economico (1911), l'economista austriaco aggiunse a questo approccio
"statico", un approccio "dinamico", adatto a spiegare la realtà dello sviluppo. In un'ipotetica economia basata sul
modello statico, i beni vengono prodotti e venduti secondo la mutevole domanda dei consumatori ed il ciclo
economico assorbe le influenze della storia, ma i prodotti scambiati rimangono sempre gli stessi, le strutture
economiche non mutano, e così via. Schumpeter fa notare che questo modello di economia non corrisponde alla
realtà ed egli lo supera con il già menzionato approccio "dinamico", in cui un nuovo soggetto, l'imprenditore,
introduce nuovi prodotti, sfrutta le innovazioni tecnologiche, apre nuovi mercati, cambia le modalità organizzative
della produzione. L'imprenditore può fare questo in quanto dispone dei capitali messigli a disposizione dalle
banche, che remunera con l'interesse, ossia una parte del profitto aggiuntivo realizzato grazie all'innovazione.
La teoria delle innovazioni consente a Schumpeter di spiegare l'alternarsi, nel ciclo economico, di fasi espansive e
recessive. Le innovazioni, infatti, non vengono introdotte in misura costante, ma si concentrano in alcuni periodi di
tempo – che, per questo, sono caratterizzati da una forte espansione – a cui seguono le recessioni, in cui l'economia
rientra nell'equilibrio di flusso circolare. Un equilibrio però, non uguale a quello precedente, ma mutato
dall'innovazione.
Le opere del periodo americano
Abbandonata nel 1932, anche se non per motivi eminentemente politici, una Germania che stava per precipitare
nella barbarie nazista (il 30 gennaio 1933 Hitler diverrà cancelliere) a favore degli Stati Uniti e dell'Università di
Harvard, Schumpeter continuò ad affinare le sue teorie anche nella nuova sede americana.
Del 1939 è l'uscita di Cicli Economici, in cui il nostro autore rielabora e perfeziona i concetti già espressi nella
Teoria dello sviluppo economico. Il ciclo economico si scompone così in diversi momenti (espansione, recessione,
depressione, ripresa), che operano su diverse scale temporali, le cosiddette "onde", a seconda dell'importanza delle
innovazioni introdotte. Così le innovazioni davvero epocali (macchina a vapore, petrolio...) si susseguono a cicli
particolarmente lunghi, intorno ai cinquanta anni (cicli Kondratieff), quelle di valore intermedio esauriscono il ciclo
in tempi minori (cicli Juglar) e così a discendere, fino a quelle di valore minimo (cicli Kitchin).
Il 1942 è l'anno di Capitalismo, socialismo, democrazia. Si tratta di un'opera in cui convivono diversi ambiti:
quello economico, quello politico e sociologico. Schumpeter esordisce ponendo i confini tra la sua teoria e quella
marxiana. Per Karl Marx, come per l'economista austriaco, il capitalismo si sviluppa in fasi cicliche per fattori
interni (peraltro, diversi: il plusvalore per Marx, l'innovazione per Schumpeter) e, per entrambi, è destinato ad
essere sostituito dal socialismo. Schumpeter rifiuta però la concezione di Marx delle istituzioni sociali come mere
sovrastrutture dei rapporti di produzione e, soprattutto, non concorda con il filosofo di Treviri circa le cause per cui
il capitalismo entrerà in crisi irreversibile. Per Schumpeter sarà, infatti, proprio il successo del capitalismo a
renderne inevitabile il declino. Con il processo di distruzione creatrice che la caratterizza, l'economia borghese
sostituisce i vecchi modi di produrre e pensare, promovendo lo sviluppo, ma distrugge anche i valori tipici
dell'ancien regime, importante supporto alla stabilità. Soprattutto – e qui si giunge alla geniale intuizione di
Schumpeter – mentre nella grande impresa capitalistica il ruolo dell'imprenditore, creativo e diretto all'innovazione,
verrà sempre più sostituito dalla mentalità burocratica e tendente all'immobilismo dei managers, nella società si
affermeranno, ad opera degli intellettuali, valori contrari allo sviluppo capitalistico, facendo sì che i capitalisti stessi
prima si vergognino del proprio ruolo ed, infine, rinuncino ad esso. A quel punto, una qualsiasi forma di socialismo
sarà inevitabile sbocco al capitalismo monopolistico ed alla sua eutanasia. Il passaggio al socialismo non avverrà,
infatti, a mezzo di una rivoluzione violenta, come profetizzato dai marxisti e realizzato dai bolscevichi, ma con un
processo graduale, per vie parlamentari – ogni accelerazione rivoluzionaria, come quella sovietica, avrebbe
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unicamente causato innumerevoli lutti – e darà vita ad un sistema socialista compatibile con la democrazia, in cui si
vedrà la concorrenza di gruppi corporativi, non più regolata dal mercato, bensì dallo Stato. A proposito di
quest'opera, Schumpeter dichiarò non aver inteso scrivere un manifesto politico (era, del resto, un conservatore e
non nutriva alcuna simpatia per il socialismo), ma semplicemente un'analisi sociale. In sintonia con Marx su molti
punti, Schumpeter sottolinea l’importanza dello spirito innovativo in campo economico, che è in grado di offrire
benessere e ottenere il profitto come corrispettivo. L’economia si svolge per fasi: a quella prospera segue la fase di
flessione e quindi quella di ripresa. Per Schumpeter il capitalismo, dopo aver distrutto tutte le altre formae mentis,
alla fine distruggerà anche se stesso. Il nostro autore afferma che il processo capitalistico tende alla eliminazione
delle piccole e medie aziende, in un processo che lo porterà a negare se stesso:
“Il processo capitalistico, sostituendo i pacchetti di azioni ai muri e alle macchine dello stabilimento, svuota il
concetto di proprietà, ne indebolisce la presa un tempo cosí forte – la presa nel senso del diritto legale e della
capacità reale di trasformare ciò che si ha in ciò che si vuole, sia nel senso che il possessore del titolo è deciso a
combattere, economicamente, fisicamente e politicamente per la “propria” azienda e per il suo controllo e a morire,
se necessario, sui suoi gradini. L’evaporazione di quella che possiamo chiamare la sostanza materiale della
proprietà – e la sua realtà visibile e tangibile – incide non solo sull’atteggiamento degli azionisti, ma anche su
quello degli operai e del pubblico in genere. La proprietà smaterializzata, sfunzionalizzata e assenteista non esercita
piùil fascino tipico della forma ancora vitale della proprietà. Un giorno non ci sarà piùnessuno al quale veramente
prema di difenderla – nessuno all’interno, e nessuno all’esterno dei confini dell’azienda-gigante” (Capitalismo,
socialismo, democrazia, Etas Libri, Milano 1977, pp. 136-137).
SVILUPPO E LIBERTÀ SENZA STATO. HAYEK
Friedrich August von Hayek (Vienna 1899 – Friburgo 1992), premio Nobel per l’economia nel 1974, è uno dei
più grandi esponenti del neoliberalismo novecentesco e uno dei maggiori critici dell’economia pianificata e
centralista. Egli fu per molto tempo docente alla London School of Economics, dove si è distinto per l’amicizia con
Karl Popper e per l’opposizione alle tesi favorevoli allo “Stato sociale” del noto economista John Maynard
Keynes: è autore di una nutrita serie di scritti che spazia dal campo economico a quello socio/politico e filosofico.
Nel 1944, egli pubblica un libro che gli dà una grande notorietà, Verso la schiavitù, dedicato “ai socialisti di tutti i
partiti”, in cui, tra le altre cose, accusa il socialismo di avere idee impraticabili e di essere stato la radice del
nazismo. Nel 1949 Hayek si trasferisce negli Stati Uniti, dove permane fino al 1962, insegnando presso
l’Università di Chicago. Del 1960 è l’opera che può considerarsi un vero e proprio classico del pensiero liberale del
Novecento, Constitution of Liberty.
La filosofia politica di Hayek è interamente costruita sull’ideale di libertà individuale e sulla stretta connessione –
come ha rilevato Norberto Bobbio – tra libertà economica e libertà senza altri aggettivi.
La libertà è sempre una condizione che riguarda la persona in quanto individuo, equipaggiato di una sfera privata
attorno a sé che gli altri non possono valicare.
La libertà è allora essenzialmente assenza di interferenza o di coercizione esterne.
Quando l’uomo è costretto a seguire dei fini impostigli dagli altri e non dal proprio libero esercizio intellettuale,
ecco che allora si riduce a uno stato di schiavitù.
In tale prospettiva, Hayek mette in luce come anche chi vivesse negli agi e nell’opulenza (ad esempio, un
cortigiano) o in mezzo a un popolo che partecipa alle scelte del proprio governo (come nei regimi democratici
novecenteschi) non per questo deve credersi libero.
Da ciò appare comprensibile la concezione “negativa” che Hayek ha della libertà, intesa come assenza di
costrizione esterna: in ciò, egli è in perfetta sintonia più con la tradizione liberale inglese del Settecento (in primis
con Locke) che con quella continentale europea (Kant innanzitutto).
Ciò che più interessa a Hayek è dunque la libertà concepita come protezione mediante la legge contro ogni
forma di coercizione arbitraria (freedom from) e non come rivendicazione del diritto di ognuno di
partecipare alla determinazione della forma di governo (freedom to).
In tale impostazione, acquista grande rilievo il discorso sullo Stato, che deve avere essenzialmente un ruolo
secondario e negativo, deve intervenire il meno possibile nell’ambito di autonomia individuale e deve garantire,
grazie a leggi generali, il pieno dispiegarsi delle libertà individuali, assicurando solide barriere a difesa dei
“territori” dei singoli individui. La proprietà privata, intesa lockeanamente come diritto alla “vita, alla libertà e ai
beni”, è, di conseguenza, il fondamento di ogni civiltà evoluta. A tal proposito, Hayek scrive che essa
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“è la sola soluzione finora scoperta dagli uomini per risolvere il problema di conciliare la libertà individuale con
l’assenza di conflitti. Legge, libertà, proprietà sono una trinità inseparabile. Non vi può essere alcuna legge, nel
senso di regola universale di condotta, che non determini confini di aree d’azione, stabilendo regole che
permettono a ciascuno di accertare fin dove egli è libero di agire” (Law, Legislation and Liberty).
Come risulta da tali affermazioni, lo Stato dev’essere esso stesso soggetto alla legge, che è l’unica garanzia della
libertà individuale. In tema di legge, Hayer distingue innanzitutto la “legge” (avente carattere generale e universale)
dalla “legislazione” concreta, riguardante le singole norme o i comandi che perseguono fini specifici e interessi di
gruppo. A suo avviso, un esempio di legge generale è il divieto di uccidere un altro individuo, mentre il comando di
non uccidere in un ben determinato caso ha a che fare con la legislazione di uno Stato. Altri esempi di leggi astratte
e generali sono quelle messe in luce, a suo tempo, da Hume: la stabilità del possesso dei beni, la cessione per
comune consenso, il mantener fede alle promesse. Hayek sottolinea come la legge non riguardi casi individuali,
mentre la legislazione si componga di provvedimenti amministrativi voluti dalla maggioranza parlamentare per fini
particolari o, più spesso ancora (soprattutto nelle democrazie moderne), per fini elettorali. È un gravissimo errore –
nota Hayek – identificare la legge con la legislazione, come spesso si fa: infatti, la legislazione dipende dal
governo, mentre la legge è da esso svincolata e, anzi, rappresenta la norma che ogni governo deve osservare.
Sulle orme di Locke, Hayek nutre la convinzione che, dove finisce la legge, là inizia la tirannide, con l’inevitabile
conseguenza che la sfera legislativa dei governi dev’essere limitata dal “governo della legge” (rule of law):
“L’imperio della legge […] comporta dei limiti al campo della legislazione; esso lo restringe a quel tipo di regole
generali cui si tributa il nome di leggi formali ed esclude la legislazione che miri direttamente a persone
determinate o che metta in grado qualcuno di usare il potere coercitivo dello Stato ai fini di una tale
discriminazione. Esso non significa che tutto deve essere regolato dalla legge, ma significa all’opposto che il
potere coercitivo dello Stato può essere usato soltanto in casi anticipatamente definiti dalla legge e in maniera tale
che si possa prevedere come sarà impiegato” (Verso la schiavitù).
Da ciò risulta che Hayek pensa che un governo possa intervenire legittimamente nella vita dei suoi cittadini
soltanto per far rispettare le norme generali, ossia le norme che servono a proteggere “la vita, la libertà, i beni”. Lo
Stato diventa coercitivo nella misura in cui interferisce in qualche modo con la libertà degli individui di perseguire i
propri scopi e di realizzare i propri personali piani di vita:
“Ciò che distingue radicalmente le condizioni di un paese libero da quelle di un paese sottoposto a un governo
arbitrario è il fatto che nel primo si osserva il grande principio denominato l’imperio della legge. Spogliato da
ogni tecnicismo, esso significa che il governo, in tutte le sue azioni, è vincolato da regole fisse e annunziate in
anticipo, regole che danno la possibilità di prevedere con ragionevole sicurezza in qual modo l’autorità userà i
suoi poteri coercitivi in determinate circostanze, e di indirizzare i propri affari individuali sulla base di tale
cognizione” (Verso la schiavitù).
Una delle forme più diffuse di interferenza è sicuramente la legislazione in materia di giustizia sociale, la quale
tende a modificare la posizione economico/sociale delle persone favorendo (ad esempio attraverso la tassazione) le
persone meno agiate.
Su questa tematica, la posizione di Hayek è assai drastica: le persone svantaggiate (i poveri, gli ammalati, i
portatori di handicap, le vedove, gli orfani, ecc) debbono essere protetti da una “rete” che assicuri loro il minimo
necessario alla sopravvivenza, ma ciò deve avvenire al di fuori del libero mercato e non come intervento correttivo
del mercato da parte della legislazione.
Assicurare un reddito minimo a tutti è, secondo Hayek, un dovere della società libera: ma ciò deve verificarsi
tramite l’assistenza e non cambiando in modo artificiale le regole del mercato.
Tra i vari compiti dello Stato, spicca quello di costruire strade, fissare indici di misura, di fornire altri tipi di
informazioni (attraverso mappe e cartelli stradali, ad esempio) e il controllo sulla qualità dei beni e dei servizi.
Ma riguardo ad altri servizi, come ad esempio quello postale, quello dell’istruzione e delle telecomunicazioni, il
monopolio dello Stato è pernicioso al massimo, oltre che inefficiente.
Da questa posizione, ben emerge l’immensa fiducia nel libero mercato che, pur non funzionando sempre in modo
perfetto, presenta benefici che superano di gran lunga gli svantaggi.
Indubbiamente suggestionato dalla “mano invisibile” di cui parlava Adam Smith, Hayek è convinto che il
mercato riesca ad armonizzare in maniera spontanea le decisioni dei produttori con la volontà e coi desideri dei
consumatori, senza la mediazione del governo, e che assicuri il perseguimento dei propri scopi a tutti, sviluppando
altresì quella che Hayek chiama la “Grande Società”, cioè la moderna società complessa, che sfugge a ogni
pianificazione centralizzata poiché si affida solo all’iniziativa individuale e al meccanismo della concorrenza.
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La politica, concepita come sistema decisionale e governativo, resta allora sempre e comunque un metodo
imperfetto rispetto al libero mercato. Queste idee implicano ovviamente una riconsiderazione della democrazia, la
quale agli occhi di Hayek dev’essere esplicitamente condannata quando diventa “governo della maggioranza
dotato di potere illimitato” (Law, Legislation and Liberty). In una siffatta prospettiva, il filosofo viennese propone
di sostituire il termine “democrazia” (che significa “potere del popolo”, dal greco κρατος e δηµος) con
“demarchia”. Infatti, il verbo greco κρατειν (avere potere, dominare) – nota Hayek - “al contrario del verbo
alternativo αρχειν (usato nei composti quali monarchia, oligarchia, ecc) sembra sottolineare la forza bruta,
piuttosto che il governare secondo regole”. L’espressione “democrazia” deve essere allora sostituita da quella
“demarchia”:
“Questo sarebbe il nuovo nome di cui ha bisogno, se si vuole preservare l’ideale alla sua radice, in un’epoca in
cui, dato il crescente abuso del termine democrazia per designare sistemi che tendono alla creazione di nuovi
privilegi attraverso coalizioni o interessi organizzati, un numero sempre crescente di persone si allontana dal
sistema prevalente […]. Se tale reazione giustificata contro l’abuso del termine non si vuole che porti a
discreditare l’ideale stesso, e a far accettare alla gente disillusa forme di governo molto meno desiderabili, sembra
necessario avere un nuovo termine come ‘demarchia’ che descriva l’antico ideale con un nome non macchiato da
un lungo abuso” (Law, Legislation and Liberty).
E Hayek si propone anche di indicare gli organi costituzionali che questa demarchia dovrebbe avere:
a)
un’Assemblea legislativa, composta da uomini e donne tra i 45 e i 60 anni (ossia dalle persone più esperte)
che restino in carica per quindici anni, col compito di assicurare il quadro generale delle libertà individuali,
impedendo ogni forma di coercizione arbitraria sulla sfera privata;
b) un’Assemblea governativa, che corrisponda lato sensu ai parlamenti, i cui membri (suddivisi in partiti)
siano eletti periodicamente col fine di occuparsi degli interessi particolari.
La fiducia smisurata di Hayek nel libero mercato si coniuga con un’incessante polemica contro l’economia
pianificata e dirigista del comunismo e contro l’eccesso di interventismo del Welfare State. Tale polemica si
sostanzia non solo di motivazioni di ordine economico o della persuasione dell’inesistenza di una mente collettiva
in grado di possedere tutte le conoscenze necessarie per la regolamentazione di una società complessa, ma anche di
ragioni etiche, politiche ed esistenziali:
“Il controllo economico non è il semplice controllo di un settore della vita umana che possa essere separato dal
resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini. E chiunque abbia il controllo dei mezzi deve anche determinare
quali fini debbano essere alimentati, quali valori vadano stimati […] in breve, ciò che gli uomini debbano credere
e ciò per cui debbano affannarsi” (Verso la schiavitù).
Deriva di qui il nesso imprescindibile fra liberalismo politico e liberismo economico: i due liberalismi sono
strutturalmente uniti e ogni distinzione fra essi dev’essere – nota Hayek – respinta senza mezzi termini.
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SVILUPPO E LIBERTÀ NELLO STATO. KEYNES
John Maynard Keynes, (primo Barone Keynes di Tilton Cambridge, 5 giugno 1883 – Tilton, 21 aprile 1946), è
stato un economista britannico, padre della macroeconomia e considerato uno dei più grandi economisti del XX
secolo. I suoi contributi alla teoria economica hanno dato origine a quella che è stata definita "rivoluzione
keynesiana". In contrasto con la teoria economica neoclassica, ha sostenuto la necessità dell'intervento pubblico
nell'economia con misure di politica fiscale e monetaria, qualora una insufficiente domanda aggregata non riesca
a garantire la piena occupazione.
Le sue idee sono state sviluppate e formalizzate nel dopoguerra dagli economisti della scuola keynesiana. A
quest'ultima viene spesso contrapposta la scuola monetarista, che si originò nel dopoguerra dalle teorie di Milton
Friedman.
È presto assegnato alla Royal Commission on Indian Currency and Finance, una posizione che gli consente di
mostrare il suo considerevole talento nell'applicare la teoria economica a problemi di ordine pratico.
La sua provata abilità in riferimento alle questioni riguardanti le valute e il credito, gli consente di diventare, alla
vigilia della Prima guerra mondiale, consigliere del Cancelliere dello Scacchiere e del Ministero del Tesoro per
le questioni economiche e finanziarie. Tra le sue responsabilità rientra la definizione dei rapporti di credito tra la
Gran Bretagna e i suoi alleati continentali durante la guerra, nonché l'acquisizione di valute rare. I successi gli
fruttano un incarico che avrà un enorme impatto sullo sviluppo della sua vita e della sua carriera, quello di
rappresentante economico del Tesoro alla Conferenza di pace di Versailles del 1919.
È in seguito a tale esperienza che pubblica Gli effetti economici della pace (The economic consequences of peace,
1919), nonché Per una revisione del Trattato (A revision of the Treaty, 1922), in cui sostiene che le pesanti
riparazioni imposte alla Germania dai paesi vincitori avrebbero portato alla rovina l'economia tedesca a causa
degli squilibri che le avrebbero apportato. Questa previsione viene confermata durante la repubblica di Weimar:
solo una piccola parte delle riparazioni viene pagata ai vincitori. Nel tentativo di rispettare gli obblighi la Germania
sviluppa una potenza industriale di tutto rispetto, destinata a contribuire al successivo riarmo. Inoltre
l'iperinflazione del 1923 che pesa duramente sull'economia tedesca, causa un forte scontento che prepara la strada
all'avvento del nazismo.
La Teoria generale
“In the long run we are all dead.”
“Nel lungo periodo siamo tutti morti.”
(John Maynard Keynes, risposta a coloro che criticavano l'applicabilità dei suoi modelli al lungo periodo.)
La sua opera principale è la Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta (The general theory of
employment, interest and money, 1936), un volume che ha un notevole impatto sulla scienza economica, e
costituisce il primo nucleo della moderna macroeconomia.
In esso Keynes pone le basi per la teoria basata sul concetto di domanda aggregata, spiegando le variazioni del
livello complessivo delle attività economiche così come osservate durante la Grande depressione. Il reddito
nazionale sarebbe dato dalla somma di consumi e investimenti; in uno stato di sotto-occupazione e capacità
produttiva inutilizzata, sarebbe dunque possibile incrementare l'occupazione e il reddito soltanto passando tramite
un aumento della spesa per consumi o con investimenti. L'ammontare complessivo di risparmio sarebbe inoltre
determinato dal reddito nazionale.
Nella Teoria generale, Keynes afferma che sono giustificabili le politiche destinate a stimolare la domanda in
periodi di disoccupazione, ad esempio tramite un incremento della spesa pubblica. Poiché Keynes non ha piena
fiducia nella capacità del mercato lasciato a se stesso di esprimere una domanda di piena occupazione, ritiene
necessario che in talune circostanze sia lo Stato a stimolare la domanda. Queste argomentazioni trovano conferma
nei risultati della politica del New Deal, varata negli stessi anni dal presidente Roosevelt negli Stati Uniti.
La teoria macroeconomica con alcuni perfezionamenti negli anni successivi giunge ad una serie di risultati di
rilievo nelle politiche economiche attuali.
Gli anni quaranta e la Seconda guerra mondiale
Nel 1942 Keynes, ormai celebre, ottiene il titolo di baronetto, diventando il primo Barone Keynes di Tilton.
Durante la Seconda guerra mondiale, Keynes sostiene con Come pagare per la guerra (How to pay for the war),
che lo sforzo bellico dovrebbe essere finanziato con un maggiore livello di imposizione fiscale, piuttosto che con
un bilancio negativo, per evitare spinte inflazioniste.
Con l'approssimarsi della vittoria alleata, Keynes è nel 1944 alla guida della delegazione inglese a Bretton Woods,
negoziando l'accordo finanziario tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, nonché a capo della commissione per
l'istituzione della Banca Mondiale.
Non riesce tuttavia a raggiungere i suoi obiettivi. Keynes sa che il sistema di cambi fissi stabilito dagli accordi può
essere mantenuto nel tempo, in presenza di economie molto diverse quanto a tassi di crescita, inflazione e saldi
finanziari, solo a patto di costringere gli Stati Uniti, destinati ad avere una bilancia commerciale e finanziaria
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positiva, a finanziare i paesi con saldi finanziari negativi. Ma incontra l'opposizione statunitense verso la
predisposizione di fondi, che Keynes avrebbe voluto essere assai ingenti, destinati a tale scopo.
I fondi vengono predisposti ma sono, per volere americano e grazie all'azione del negoziatore statunitense Harry
Dexter White, di dimensioni contenute. Risulteranno insufficienti a finanziare i saldi finanziari negativi dei paesi
più deboli e a fronteggiare la speculazione sui cambi, che nel corso del tempo, e in particolare dopo che la crisi
petrolifera degli anni settanta avrà riempito di dollari le casse dei paesi produttori di petrolio, diventa sempre più
aggressiva.
Il sistema di Bretton Woods resisterà fino alla prima metà degli anni settanta, quando le pressioni sulle diverse
monete causeranno la fine dei cambi fissi ed il passaggio ad un regime di cambi flessibili, ad opera del presidente
degli Stati Uniti d'America Richard Nixon.
ECONOMIA E DEMOCRAZIA
KARL POLANYI, La libertà in una società complessa (1987)
Tra economia e politica si è aperto un fossato. Questa in parole povere la diagnosi dell'epoca. L'economia e la
politica, entrambe manifestazioni di vita della società, si sono rese autonome e combattono tra loro una guerra
continua; sono diventate parole d'ordine sotto le quali partiti politici e classi economiche esprimono i loro opposti
interessi. Si è giunti al punto che la destra e la sinistra si combattono tra loro in nome dell'economia e della democrazia, come se le due funzioni fondamentali della società potessero essere incarnate in due partiti diversi nello
Stato! Ma dietro la parola d'ordine si nasconde la crudele realtà. La sinistra è ancorata nella democrazia, la destra
nell'economia. E proprio perciò il presente disturbo funzionale tra economia e politica si accentua fino a diventare
una polarità catastrofica. Dall’ambito della democrazia politica scaturiscono le forze che interferiscono
nell'economia, la paralizzano e la vincolano. L'economia risponde con un attacco generale contro la democrazia
come l'incarnazione di una irresponsabile, irrealistica ostilità nei confronti dell'economia.
Non c'è problema contemporaneo più degno di questo dell'attenzione di tutti gli uomini di buona volontà. Una
società i cui sistemi politico ed economico sono in contrasto tra loro sarebbe inevitabilmente votata al declino, o al
crollo. Di fatto la democrazia politica è caduta nella maggior parte dell'Europa. In Russia regna il bolscevismo, in
molti Stati dell'Europa orientale, centrale e meridionale la dittatura militare o il fascismo. E non se ne vede ancora
la fine.
Anche noi, che siamo radicati con ogni fibra nel terreno spirituale della democrazia, non possiamo nasconderci in
proposito che la democrazia subisce una delle più grandi prove di resistenza del suo sviluppo centenario: sin dalla
guerra tanto l'economia quanto la democrazia sono ciascuna in aperta crisi. L'economia aveva appena creduto
superate le crisi del periodo rivoluzionario nei paesi vinti quando cadde di nuovo vittima, stavolta senza limiti
territoriali, di una crisi generale di una gravità senza precedenti. In modo in apparenza indipendente, si manifestò
una crisi della democrazia e del parlamentarismo in un gran numero di paesi. Sarebbe bastato questo a sminuire il
prestigio della democrazia. Tuttavia, l'impeto dell'assalto si sarebbe centuplicato per il fatto che l'economia rendeva
parimenti responsabile della propria paralisi la democrazia. Non le sarebbe stato rimproverato solo il fallimento
della legislazione, le interminabili crisi di governo e di alleanze, la degenerazione del sistema dei partiti, ma anche
l'inarrestabile calo dei prezzi, della produzione e del consumo, l'altrettanto inarrestabile moltiplicarsi dei crolli, la
miseria della disoccupazione di massa.
L'accusa dell'economia contro la democrazia (ovvero spesso anche contro la politica) suona: inflazionismo,
sovvenzionismo, protezionismo, tradunionismo, cattiva gestione della valuta, costosi e insensati appoggi e finanziamenti a singole imprese, interventi statali di aiuto e risanamento a singoli rami dell'economia, protezionismo ed
eccessivo aumento dei salari nonché dei costi sociali. I governi di sinistra nei paesi vincitori sono falliti sulla questione valutaria. Il nuovo franco, il franco belga, la nuova sterlina staccata dall'oro tendente alla stabilizzazione, e in
verità anche il nuovo marco tedesco sono nati dalle rovine di periodi di governo democratico progressista. Herriot e
il Cartello in Francia, il regime Pouillet-Vandervelde in Belgio, il secondo governo laburista in Inghilterra, la
coalizione di Weimar in Germania e in parte sin dal 1920 il governo di coalizione in Austria sono stati vittime
dell'inflazione. In paesi come l'Inghilterra, dove i sindacati non dipendono dai partiti operai e perciò conducono una
politica salariale di classe del tutto libera da responsabilità politiche, il congelamento del salario nominale reso
possibile dal sussidio di disoccupazione (nonostante la rivalutazione della sterlina) ha causato un eccessivo
aumento dei salari dei settori economici che dipendono dal mercato mondiale. L'industria carbonifera, armatoriale,
cantieristica, tessile ne risentirono. Perciò gli imprenditori (primi tra tutti i più incapaci) godettero di un premio
statale, la famigerata sovvenzione per il carbone. Questo sistema di finanziamento statale di singole industrie a
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spese delle altre si sviluppò col massimo rigoglio in Germania (dopo la lotta per la Ruhr anche su un terreno
puramente politico).
È difficile che un paese ricco di grano in Europa non ceda alla tentazione di alti dazi protezionistici agrari. Il
pregiudizio politico per eccellenza di una autarchia a volte impossibile, altre volte nociva alla comunità costituisce
inoltre un impulso eccezionale. L'economia nel suo complesso contò con sicurezza su questi incoraggiamenti di
singoli suoi settori. Di qui la tendenza spesso trascurata e particolarmente tragica per la democrazia: le è stata
addossata la responsabilità dell'acuirsi delle crisi generali da quegli stessi circoli economici a profitto dei quali sono
andate le agevolazioni: dagli agrari, dagli imprenditori, infine da parte della stessa classe operaia! Il fascismo si
nutrì indubbiamente anche della politica economica della democrazia, deludente per la classe operaia. La politica, i
partiti, il parlamento divennero sospetti. La democrazia cadde in discredito. Larghe masse di destra e di sinistra
l'avversarono.
Da ciò risulta la consapevolezza che nulla può oggi salvare la democrazia se non una nuova cultura di massa di
formazione economica e politica. Solo questo può salvaguardarla dal suicidio. Se fosse possibile educare in
maniera efficace ed evidente i dirigenti intermedi delle grandi masse - essi stessi rappresentano già quasi una massa
- a una cultura economica, gran parte delle misure che la democrazia prende solo perché ne ignora le conseguenze,
risulterebbero superflue. Quel che uccide oggi la democrazia è l'ignoranza delle condizioni e delle leggi
fondamentali della moderna vita economica.
Il vecchio sapere non basta più. Anche i problemi infatti sono nuovi. È nuova la questione valutaria, così come si
pone alla generazione del dopoguerra; nuova la perdurante disoccupazione di massa; nuovi i tentativi di economia
pianificata nati dalla guerra; nuova per la nostra generazione è l'esperienza di una rivoluzione industriale nella
tecnica e nell'azienda. Completamente nuovo è l'intreccio incredibilmente stretto dell'economia mondiale basata sul
credito. Quasi altrettanto nuove come i problemi di cui sopra sono le conoscenze necessarie per affrontarli.
L'economia politica teorica è nella sua applicazione a moneta, congiuntura, crisi, razionalizzazione ecc. una scienza
quasi del tutto nuova (le opere più importanti sono state prodotte dal dopoguerra). E nuovo sapere non significa
ancora nuova cultura! Il sapere diventa cultura soltanto nel momento in cui contribuisce a dischiudere alle masse il
senso, del lavoro, della vita e della quotidianità.
Chi consiglia più cultura alla democrazia ha spesso l'aria di voler contrapporre l'economia alla politica. Ma a questo
punto va detto chiaro e tondo che oggi la cultura politica manca quasi altrettanto all'economia quanto la cultura
economica alla politica. Quanto spesso nel corso di questi ultimi dieci anni non è stata data la preminenza
all'economia sulla politica! In ogni singolo caso ha fallito. Più ancora. I dirigenti economici si sono dimostrati ignoranti delle cose economiche quasi quanto i politici, solo non capivano neppure gli elementi della politica. Quante
volte l'economia ha ingannato il mondo con false promesse, dai primi contratti privati per la fornitura di merci,
dalla creazione della Comunità internazionale per l'acciaio da parte dell'Intesa del Lussemburgo del defunto
Mayrisch, dall'accordo sulla potassa di Arnold Rechberg, dalla cosiddetta commercializzazione e mobilizzazione
delle riparazioni sino ai piani di cartellizzazione di Loucheur che pretendevano di risolvere il problema francotedesco! Oppure nell'economia mondiale: si ricordi soltanto la Conferenza di Genova, dove gli interessi petroliferi
tra lo stupore generale pensavano di risolvere la questione russa con la sottoscrizione di un capitale azionario di 25
milioni di sterline; o lo stupefacente contributo di Morgan al problema del sistema creditizio mondiale mediante
creazione della Banca di compensazione internazionale; o le innumerevoli conferenze economiche mondiali; infine,
il fallimento di quasi tutte le direzioni bancarie nei confronti del problema del credito a breve termine, dei creditori,
non meno che dei debitori! In verità, con l'eccezione degli effimeri meriti di Morgan per l'armistizio finanziario
detto Piano Dawes, tutto ciò che sul piano strettamente economico è stato intrapreso per la soluzione di questioni
politiche si è rivelato privo di valore. Il problema non è Stinnes e Kreuger, ma Thyssen e Loucheur, Hoover e Ford.
Che i dirigenti economici non avessero nemmeno una formazione nella scienza economica accentuò la commedia
degli equivoci fino al paradosso. Non solo nella politica ma anche nel loro ambito più ristretto faceva difetto la
conoscenza delle connessioni, la visione della totalità. Con l'aiuto di una politica monetaria inflazionistica, furono
intrapresi investimenti smisurati per garantire i quali sul piano della produttività si dovette ricorrere a elevate tariffe
doganali protezionistiche. Dapprima in Germania, poi in Francia, oggi in Inghilterra, sono in auge il protezionismo
e l'interventismo statale. Certo la beneficenza agli imprenditori da parte della democrazia è fatta spesso solo come
scambio o indennizzo per le conseguenze di interventi di politica sociale. Questa sciagurata alleanza, spesso solo
parzialmente chiara alle parti in causa, tra interessi della sinistra e della destra danneggiò nel modo più grave
soprattutto in Germania il prestigio della democrazia.
Ma l'autorità perduta dalla democrazia, non accrebbe l'influsso dei dirigenti economici nella democrazia. In questo
consistette il loro maggior fallimento. Invece di educare la democrazia alla responsabilità economica, la
sacrificarono in molti Stati nei quali il parlamentarismo e la democrazia costituivano un ordinamento relativamente
nuovo: in Germania, in Italia, in Polonia, in quasi tutta l'Europa orientale, l'economia si distolse dalla democrazia e
dal diritto. I lavoratori nel dopoguerra opposero al pensiero dittatoriale una resistenza spirituale e morale più forte
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che non la borghesia. Con una sconsideratezza che sarebbe impensabile nei paesi anglosassoni già solo per il
radicamento ideologico della democrazia nel retroterra religioso della tradizione puritana, si lasciò cadere la
democrazia come se si trattasse di una pura esteriorità e non della più elevata espressione della coscienza morale,
nell'ambito dello Stato moderno. Free Trade per l'inglese non significa soltanto libero scambio nel senso
continentale, ma anche pace, libertà e diritto. Niente tradì tanto 1a mancanza di una vera cultura politica in quelle
parti dell'Europa separate geograficamente dall'Occidente, o arretrate rispetto ad esso, quanto un simile
misconoscimento dei nessi più elementari.
Anche in politica avvenne lo stesso che in economia: le scienze politiche del dopoguerra si sono arricchite di
importanti capitoli. Anche in questo i campo, infatti, nuovi sono i problemi stessi: il sorprendente fallimento del
sistema elettorale proporzionale nella forma della- lista chiusa; 1e basi e i limiti dell'inserimento di rappresentanze
professionali nella vita costituzionale; il significato dell'idea di plebiscito per la salute della democrazia
parlamentare e così via. E anzitutto il capitolo decisivo: il fascismo.
Ci troviamo di fronte a un nuovo compito del sapere nel nostro tempo. La tecnica moderna e il commercio moderno
hanno configurato in maniera così intricata la struttura della divisione del lavoro nell'economia nazionale e
mondiale, che è andata perduta qualsiasi visione d'insieme circa la posizione del singolo. Questo è anche il motivo
più profondo del fossato che si è aperto tra democrazia ed economia. Il fatto che spesso sia la stessa persona che
compare di fronte a sé stessa sul terreno della politica e su quello dell'economia rimane celato al singolo: da ciò
derivano quelle delusioni che privano di credito la democrazia. Alla luce del sapere il singolo si accorgerebbe con
stupore di come egli, stando contemporaneamente sui due fronti, della politica e dell'economia, spesso non faccia
altro che combattere insensatamente sé stesso. Con stupore egli nota quanto il sapere risvegli in lui delle
responsabilità per connessioni che prima gli erano ignote. Quanto più ricco, profondo e multiforme è lo sviluppo
delle strutture della democrazia, tanto più reale diventa questa responsabilità. Tutto ciò però si trasferisce già
nell'ambito dell'ideologia, un ambito che è al di là della scienza. Non occorre addentrarvisi per approvare senza
alcuna riserva il compito della cultura economica e politica nel nostro tempo: portare a maturità la democrazia
mediante il sapere e la responsabilità individuale.
da K. POLANYI, La libertà in una società complessa, Bollati Boringhieri, 1987, pgg. 65-69
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SVILUPPO, CRISI, DECRESCITA
Intervista a SERGE LATOUCHE, La decrescita ai tempi della crisi
Lo abbiamo conosciuto anni fa alle Piagge, parlammo dei limiti dell’attuale sistema economico e della strada da intraprendere per far
“decrescere” la nostra economia. Oggi che l’insostenibilità del capitalismo è sotto gli occhi di tutti anche la stampa mainstream intervista
Serge Latouche. Ecco il colloquio con Gigi Riva dell’Espresso.
Non ci si può naturalmente aspettare che la destra sposi qualunque teoria sulla decrescita né, tantomeno, che possa
considerarla “felice”. Ma la vera novità , negativa secondo Serge Latouche, 71 anni, economista e filosofo francese,
ideologo della necessità impellente di produrre e consumare meno (per vivere meglio), è che anche molti giovani e
meno giovani di sinistra già “riconvertiti in verdi”, stanno tornando a vecchi dogmi che misurano il progresso con
la capacità che hanno le fabbriche di sfornare beni. Ascolta un Nichi Vendola che si dice affascinato dalla
“provocazione culturale di Latouche” ma per cui, per ora, la realtà è quella di una decrescita molto infelice, e
allarga metaforicamente le braccia: “Amo Vendola ma non ho mai creduto alla sua conversione ideologica”.
Insomma: pur se ha messo la parola “ecologia” nel nome del suo partito, non ha mai sposato fino in fondo le
conseguenze di una scelta davvero, e radicalmente, verde. Gli contrappone, attualizzandolo, un politico italiano del
passato, Enrico Berlinguer: “Nel 1977 lui usò il termine “austerità ” e non venne capito. Io dico la stessa cosa con
un’altra parola: “frugalità ”". La nostra abbondanza frugale è la maniera “per superare un modello consumista
dissennato che è entrato in crisi, i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero”.
Serge Latouche, una teoria – seppur affascinante – ha bisogno di un progetto politico. E se anche una fetta di
sinistra, in epoca di crisi economica, pensa che la risposta sia la crescita, allora lei ha poche chances.
“Il problema è un cambiamento culturale profondo. I giovani tornano al produttivismo perché cercano un impiego
che non hanno e non riescono nemmeno a immaginare una società che crea lavoro senza essere dentro la logica
della crescita. Nessuno gliel’ha spiegata”.
E’ invece possibile.
“Partiamo dalla considerazione opposta. Da diverso tempo la crescita, almeno quella che noi conosciamo in
Occidente e che negli anni più floridi è stata al massimo nell’ordine del 2 per cento, non crea posti di lavoro. Ci
vorrebbe una crescita del 5-6 per cento per eliminare la disoccupazione. Cifra evidentemente impossibile da
raggiungere”.
La politica, o meglio gli economisti che hanno sostituito i politici, si affannano su ricette che riducano i debiti
pubblici e, se ci riescono, rilancino lo sviluppo.
“Sì, il famoso programma del vertice del G8 di Toronto del 2009 che si è chiuso con la doppia impostura contenuta
nelle parole “rilancio” e “austerità ”. Basta andare a chiedere ai greci cosa ne pensano di questa politica e dei suoi
risultati catastrofici. In Grecia il popolo aveva votato massicciamente per un partito socialista che non è riuscito a
realizzare i suoi progetti perché, a causa della pressione dei mercati, si è visto imporre un’austerità neo-liberale.
Dopo il fallimento del socialismo reale assistiamo al vergognoso scivolamento della socialdemocrazia verso il
social-liberismo. E non vale solo per la Grecia”.
Una parte degli economisti di sinistra cerca in effetti di badare al sodo: rilancio di consumi e investimenti
per ridare un segno più al prodotto interno lordo.
“Lo fanno alcuni intellettuali, come Joseph Stiglitz, che rilanciano vecchie ricette keynesiane, ma è una terapia
sbagliata. Almeno dagli anni Settanta i costi della crescita sono superiori ai suoi benefici e stiamo esaurendo le
risorse naturali. Quella della crescita è solo un’illusione, un inganno che possiamo perpetuare per qualche anno,
non di più. Prendiamo l’Europa ad esempio. Sia governi di sinistra come quelli di Papandreou o Zapatero, quando
c’erano, sia di destra come Merkel o Sarkozy, continuano a proporre per uscire dalla crisi le stesse ricette che
l’hanno prodotta. Quando ci vorrebbe il coraggio di uscire dalla logica della religione della crescita”.
Resta da capire con chi lei immagina di realizzare questo progetto.
“Con una sinistra che sia davvero tale e che superi qualche tabù come quello dell’euro. La moneta unica ci sta
strangolando perché è supervalutata e ci impedisce di fare politiche nazionali di protezionismo economico e
sociale. Ci impedisce, di fatto, di gestire la crisi perché non possiamo svalutare la moneta”.
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La sua ricetta, decrescere, o “a-crescere” come lei ha precisato, per alcuni evoca una lugubre stagione di
privazioni e rinunce.
“Siamo entrati lentamente nel capitalismo, che è il sinonimo di crescita, e lentamente ne usciremo. Grazie a un
cambiamento lento, ma ineluttabile. Lavoreremo meno per produrre meno. Se si produce meno si distrugge meno
natura, ma non è detto che si abbia necessariamente meno. Se invece di cambiare automobile ogni due anni e
computer ogni anno li si cambia ogni dieci perché se ne producono di resistenti, la soddisfazione del bisogno di
possedere quegli oggetti è esaudita ma c’è bisogno di meno denaro, dunque di meno lavoro. E si avrà più tempo
libero per relazioni e affetti”.
C’è da chiedersi cosa faranno i dipendenti di quelle aziende di computer o auto.
“A loro volta avranno bisogno di meno. è il nostro rapporto col tempo che va completamente rivisto. Siamo così
stressati che dormiamo, in media, meno che in passato, guardiamo troppa televisione, non facciamo sport,
diventiamo obesi (altro problema sociale) e non ci occupiamo dei nostri bambini”.
Lei, professor Latouche, sta dipingendo un perfetto modello occidentale. Ma il mondo è assai più vasto.
“Infatti “decrescita” è uno slogan da usare per i Paesi ricchi, senza pretesa di imporlo ad altri. Io so solo, però, che
l’ideologia della crescita è catastrofica per tutti, a ogni latitudine. Ma ciascuna società deve poi gestire il
funzionamento dell’a-crescita secondo i propri valori. I cinesi arriveranno a pratiche ecologiche per poter stare
meglio. Per gli africani la parola crescita non ha granché senso e semmai devono pensare di produrre di più nel
settore alimentare. Ma stando attenti a salvaguadare il territorio”.
Tornando a noi: è di gran moda l’espressione “sviluppo sostenibile”.
“Mi spiace, non ci sto. Non c’è nessuno sviluppo che sia sostenibile oggi. Abbiamo dissipato troppe risorse.
Dovremmo fare più attenzione. Penso sempre a due Tir che si incrociano sotto il tunnel del Monte Bianco e uno
porta l’acqua minerale francese a voi, l’altro l’acqua minerale italiana a noi. Che spreco”.
Che altro guadagniamo dalla decrescita?
“Mi viene in mente Baldassarre Castiglione e il suo “Il cortigiano”, in cui suggeriva al Principe di dare più tempo
alla vita contemplativa e alla riflessione e meno all’azione. Ecco, il tempo per se stessi sarebbe davvero il regalo
migliore della decrescita”.
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PIER PAOLO PASOLINI. SVILUPPO E PROGRESSO
Inedito, ora in Walter Siti, a cura di, Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società [Scritti corsari]
ed. Meridiani Mondadori, Milano 1999
Ci sono due parole che ritornano frequentemente nei nostri discorsi: anzi, sono le parole chiave dei nostri discorsi.
Queste due parole sono «sviluppo» e «progresso». Sono due sinonimi? O, se non sono due sinonimi, indicano due
momenti diversi di uno stesso fenomeno? Oppure indicano due fenomeni diversi che però si integrano
necessariamente fra di loro? Oppure, ancora, indicano due fenomeni solo parzialmente analoghi e sincronici?
Infine; indicano due fenomeni «opposti» fra di loro, che solo apparentemente coincidono e si integrano? Bisogna
assolutamente chiarire il senso di queste due parole e il loro rapporto, se vogliamo capirci in una discussione che
riguarda molto da vicino la nostra vita anche quotidiana e fisica.
Vediamo: la parola «sviluppo» ha oggi una rete di riferimenti che riguardano un contesto indubbiamente di
«destra». Chi vuole infatti lo «sviluppo»? Cioè, chi lo vuole non in astratto e idealmente, ma in concreto e per
ragioni di immediato interesse economico? È evidente: a volere lo «sviluppo» in tal senso è chi produce; sono cioè
gli industriali. E, poiché lo «sviluppo», in Italia, è questo sviluppo, sono per l’esattezza, nella fattispecie, gli
industriali che producono beni superflui. La tecnologia (l’applicazione della scienza) ha creato la possibilità di una
industrializzazione praticamente illimitata, e i cui caratteri sono ormai in concreto transnazionali. I consumatori di
beni superflui, sono da parte loro, irrazionalmente e inconsapevolmente d’accordo nel volere lo «sviluppo» (questo
«sviluppo»). Per essi significa promozione sociale e liberazione, con conseguente abiura dei valori culturali che
avevano loro fornito i modelli di «poveri», di «lavoratori», di «risparmiatori», di «soldati», di «credenti». La
«massa» è dunque per lo «sviluppo»: ma vive questa sua ideologia soltanto esistenzialmente, ed esistenzialmente è
portatrice dei nuovi valori del consumo. Ciò non toglie che la sua scelta sia decisiva, trionfalistica e accanita.
Chi vuole, invece, il «progresso»? Lo vogliono coloro che non hanno interessi immediati da soddisfare, appunto,
attraverso il «progresso»: lo vogliono gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra. Lo vuole chi lavora e chi è
dunque sfruttato. Quando dico «lo vuole» lo dico in senso autentico e totale (ci può essere anche qualche
«produttore» che vuole, oltre tutto, e magari sinceramente, il progresso: ma il suo caso non fa testo). Il «progresso»
è dunque una nozione ideale (sociale e politica): là dove lo «sviluppo» è un fatto pragmatico ed economico.
Ora è questa dissociazione che richiede una «sincronia» tra «sviluppo» e «progresso», visto che non è concepibile
(a quanto pare) un vero progresso se non si creano le premesse economiche necessarie ad attuarlo.
Qual è stata la parole d’ordine di Lenin appena vinta la Rivoluzione? È stata una parola d’ordine invitante
all’immediato e grandioso «sviluppo» di un paese sottosviluppato. Soviet e industria elettrica... Vinta la grande
lotta di classe per il «progresso» adesso bisognava vincere una lotta, forse più grigia ma certo non meno grandiosa,
per lo «sviluppo». Vorrei aggiungere però - non senza esitazione - che questa non è una condizione obbligatoria per
applicare il marxismo rivoluzionario e attuare una società comunista. L’industria e l’industrializzazione totale non
l’hanno inventata né Marx né Lenin: l’ha inventata la borghesia. Industrializzare un paese comunista contadino
significa entrare in competitività coi paesi borghesi già industrializzati. È ciò che, nella fattispecie, ha fatto Stalin.
E del resto non aveva altra scelta.
Dunque: la Destra vuole lo «sviluppo» (per la semplice ragione che lo fa); la Sinistra vuole il «progresso».
Ma nel caso che la Sinistra vinca la lotta per il potere, ecco che anch’essa vuole - per poter realmente progredire
socialmente e politicamente - lo «sviluppo». Uno «sviluppo», però, la cui figura si è ormai formata e fissata nel
contesto dell’industrializzazione borghese.
Tuttavia qui in Italia, il caso è storicamente diverso. Non è stata vinta nessuna rivoluzione. Qui la Sinistra che vuole
il «progresso», nel caso che accetti lo «sviluppo», deve accettare proprio questo «sviluppo»: Io sviluppo
dell’espansione economica e tecnologica borghese.
È questa una contraddizione? È una scelta che pone un caso di coscienza? Probabilmente sì. Ma si tratta come
minimo di un problema da porsi chiaramente: cioè senza confondere mai, neanche per un solo istante, l’idea di
«progresso» con la realtà di questo «sviluppo». Per quel che riguarda la base delle Sinistre (diciamo pure la base
elettorale, per parlare nell’ordine dei milioni di cittadini), la situazione è questa: un lavoratore vive nella coscienza
l’ideologia marxista, e di conseguenza, tra gli altri suoi valori, vive nella coscienza l’idea di «progresso»; mentre,
contemporaneamente, egli vive, nell’esistenza, l’ideologia consumistica, e di conseguenza, a fortiori, i valori dello
«sviluppo». Il lavoratore è dunque dissociato. Ma non è il solo ad esserlo. Anche il potere borghese classico è in
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questo momento completamente dissociato: per noi italiani tale potere borghese classico (cioè praticamente
fascista) è la Democrazia cristiana.
A questo punto voglio però abbandonare la terminologia che io (artista!) uso un po’ a braccio e scendere a
un’esemplificazione vivace. La dissociazione che spacca ormai in due il vecchio potere clerico-fascista, può essere
rappresentato da due simboli opposti, e, appunto, inconciliabili: «Jesus» (nella fattispecie il Gesù del Vaticano) da
una parte, e i «blue-jeans Jesus» dall’altra. Due forme di potere l’una di fronte all’altra: di qua il grande stuolo dei
preti, dei soldati, dei benpensanti e dei sicari; di là gli «industriali» produttori di beni superflui e le grandi masse del
consumo, laiche e, magari idiotamente, irreligiose. Tra l’«Jesus» del Vaticano e l’«Jesus» dei blue-jeans, c’è stata
una lotta. Nel Vaticano - all’apparire di questo prodotto e dei suoi manifesti - si son levati alti lamenti. Alti lamenti
a cui per solito seguiva l’azione della mano secolare che provvedeva a eliminare i nemici che la Chiesa magari non
nominava, limitandosi appunto ai lamenti. Ma stavolta ai lamenti non è seguito niente. La longa manus è rimasta
inesplicabilmente inerte. L’Italia è tappezzata di manifesti rappresentanti sederi con la scritta «chi mi ama mi
segua» e rivestiti per l’appunto dei blue-jeans Jesus. Il Gesù del Vaticano ha perso.
Ora il potere democristiano clerico-fascista, si trova dilaniato tra questi due «Jesus»: la vecchia forma di potere e la
nuova realtà del potere...
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IL PENSIERO DELLA DECRESCITA
a cura di Alberto Castagnola
Premesse
E’ interessante sapere che perfino il nome viene rifiutato, spesso anche da chi condivide i contenuti: la parola
“decrescita” viene infatti considerata una contrapposizione troppo netta e radicale ad un sistema economico
dominato dalla spinta ad una crescita quantitativa continua e illimitata e quindi una scelta pubblicitaria poco felice
in quanto suscita immediate sensazione di rigetto. Se appena si conoscono i principali problemi che tormentano
l’umanità da alcuni decenni, molto più importanti di quelli legati alle guerre o agli eventi naturali più drammatici
come uno tsunami o una delle tante epidemie di continuo evocate, invece il termine è utile proprio perché attira
subito l’attenzione sugli snodi centrali da affrontare. Se proprio si vogliono evitare gravi traumi alle persone
propense a rimuovere qualunque sollecitazione ad uscire dalla monotonia del quotidiano, si può, subito dopo aver
usato questo termine, cercare di tranquillizzare il pubblico, affermando che nessuno vuole tornare all’età delle
caverne e che il patrimonio scientifico e tecnologico non sarà certo cancellato, anzi troverà utilizzazioni molto più
di interesse per il genere umano.
Chiarito tutto ciò in via preliminare, quali sono le premesse analitiche su cui si basa il pensiero della decrescita,
emerso all’inizio degli anni ’70 dalle opere di alcuni pensatori illuminati ma non certo iniziatori di correnti di
pensiero a grande diffusione (Marcel Mauss, Ivan Illich, Georgescu Roegen, Karl Polanyi, ecc.) e poi ripreso in
alcuni paesi da Alain Caillè, Serge Latouche, e molti altri e reso ben conosciuto da scritti descrittivi e propositivi,
che hanno caratterizzato gli ultimi 15 anni e che continuano a circolare in testi e convegni che solo oggi
cominciano ad interessare fonti di più larga diffusione.
¾ Un primo filone analitico riguarda il problema del cosiddetto sviluppo, la parte di “pensiero unico”
cioè dell’ideologia liberista che domina il mondo occidentale dalla fine della seconda guerra mondiale e
che tanti guasti ha arrecato ai paesi coloniali prima e poi al cosiddetto Terzo mondo dagli anni ’60 del
secolo ad oggi. Fin dal punto IV del famoso discorso del presidente Truman del 1949, per i paesi usciti
vincitori dalla guerra e per tutti quelli che avevano già realizzato una qualche industrializzazione, veniva
tracciato un modello economico basato sulla continua crescita del reddito nazionale, concepito come
l’unico indicatore di benessere della popolazione, e sul prelievo ed uso, senza limiti e spesso senza
recupero, di materie prime, in particolare di quelle energetiche (petrolio, gas, scisti bituminosi e ancora
oggi carbone).
E’ ormai evidente a molte persone, ma non certo agli Stati, che l’impiego senza alcuna considerazione
sull’ammontare delle riserve ancora ipotizzabili sul pianeta, e cioè senza tenere conto della limitatezza delle risorse
del suolo e della pratica impossibilità di riprodurle nella maggior parte dei casi, crea delle enormi difficoltà nei
processi industriali dei prossimi anni, di cui solo pochissimi si preoccupano. Però il pensiero dominante considera
la sviluppo “come la realizzazione dei desideri e delle aspirazioni di tutti e di ciascuno”, anche se dopo oltre 60
anni è ormai evidente che processi di questo tipo non si sono mai verificati in nessun paese del mondo, mentre
aumentano paurosamente le persone i cui diritti essenziali sono completamente ignorati.
Il carattere mitico e illusorio del concetto di sviluppo è stato ben descritto da autori come S. Latouche, però
continua a infestare le pagine dei rapporti delle organizzazioni internazionali e il linguaggio di quasi tutti i politici.
¾ Un secondo filone del pensiero racchiuso nella cornice della decrescita riguarda la situazione reale
delle terre e delle acque del pianeta, ormai ben nota a livello delle ricerche scientifiche e di alcune sedi
internazionali, mentre gran parte degli Stati e delle organizzazioni internazionali si rifiutano ancora di
riconoscere la drammatica situazione in cui versa il pianeta nel suo insieme. Negli anni più recenti si è
passati da alcune anticipazioni (il riscaldamento dell’atmosfera causato in gran parte dall’emissione di Co2
che determina “l’effetto serra”; da scomparsa di un numero crescente di specie animali e vegetali, con il
conseguente aumento della “omogeneità genetica”, cioè la perdita della preziosa diversità genetica, ecc.)
allo studio sistematico dei rapidi mutamenti climatici indotti dalle attività umane, alla individuazione di
diecine di meccanismi di danni ambientali, alcuni dei quali pressoché irreversibili o tra loro interagenti, e
soprattutto alla chiara evidenziazione delle logiche di causa-effetto e cioè delle imprese o delle politiche
all’origine dei danni arrecati al pianeta. Da tutte queste analisi emerge il carattere sistemico dei fenomeni,
in quanto sono tutti riconducibili al sistema economico e finanziario oggi dominante, che ha visto (ormai
da tre secoli, ma con una accelerazione fortissima negli ultimi tre decenni) il pianeta come una sfera di
componenti utili alla vita e alla tecnologia degli esseri umani, rifiutando di accorgersi del fatto che
all’interno della biosfera operano dei meccanismi delicatissimi di riproduzione e di recupero che non
debbono assolutamente superare la soglia della riproducibilità e del continuo riequilibrio.
¾ Il terzo filone di pensiero, purtroppo accessibile ad un numero limitato di esperti e di centri
decisionali, riguarda l’estrazione di petrolio, di gas e varie fonti energetiche, nonché di una serie di altre
materie prime fondamentali (da quelle agricole a quelle per usi industriali, comprese le cosiddette “terre
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rare” essenziali per i prodotti elettronici) ha da tempo posto il problema del loro esaurimento o comunque
del raggiungimento del “picco di produzione” cioè il momento in cui i costi della loro produzione superano
i guadagni derivanti dalla loro immissione sul mercato. Per alcune fonti, non si tratta di un rischio a venire,
ma dei picchi sarebbero stati di fatto già superati. Di nuovo, siamo di fronte al fatto che il pianeta è un
sistema finito, con dei limiti fisicamente insuperabili, mentre finora le scelte produttive e le logiche
evolutive delle tecnologie si sono comportate come se avessimo a disposizione più pianeti. Gli studi e le
previsioni si stanno moltiplicando, ma le politiche nazionali e internazionali sono ancora molto al di sotto
della soglia di adeguatezza, cioè sembrano non rendersi conto della reale portata del problema.
¾ Il pensiero della decrescita, inoltre, sta elaborando un ulteriore filone di riflessione, il quarto, che
riguarda gli aspetti non strettamente economici della crisi sistemica, sta cioè cercando di immaginare
come dovrebbero essere le società di un futuro non molto lontano, in modo da non cedere alla pericolosa
tentazione di difendere ad oltranza la via del consumo illimitato del pianeta e di predisporci a quei
cambiamenti radicali di modi di vivere, di preferenza attribuita a un nuovo sistema di relazioni tra persone
e tra collettività, di consumi tollerabili per la vita della Terra, che potrebbero - se iniziassimo subito e a
scala planetaria - prolungare l’esistenza dell’umanità sul pianeta. Questo sforzo di immaginazione e di
creatività mentale e fattuale è appena all’inizio, ma dovrebbe diventare quanto prima una componente
ineludibile della nostra vita quotidiana.
Infine, il pensiero della decrescita si trova oggi, completato in larga misura il processo di denuncia della gravità dei
problemi da noi creati all’equilibrio del pianeta, di fronte alla necessità di elaborare rapidamente una amplissima
serie di percorsi, alternativi a quelli dominanti, che affrontino singoli meccanismi economici e li rimettano in
relazione positiva con le logiche della ecosfera. Filiere produttive gravemente dannose devono essere ridotte al
minimo, prodotti non recuperabili devono essere sostituiti da beni riciclabili all’infinito, scorie e rifiuti devono
essere ricondotti a dimensioni riassorbibili dalla terra e dai mari, tutte le specie animali e vegetali devono essere
salvaguardate insieme ai loro ambienti di elezione, i nostri consumi devono prevedere solo la soddisfazione di
bisogni essenziali, mentre devono essere resi facilmente fruibili per tutti il godimento del tempo finalmente liberato
e l’accesso alle opere della natura e dell’arte finalmente salvaguardati in modo radicale. Un cambiamento di
modello così radicale può sembrare impossibile, ma forse il rapido progredire dei danni alle persone e alla salute
causati dall’ambiente danneggiato dai nostri saccheggi dissennati, riuscirà a convincerci a reagire in tempi
sufficientemente rapidi e senza nasconderci dietro a difficoltà solo derivanti dai condizionamenti di cui siamo
vittime.
Il primo passo in questa direzione può essere quelle di accettare senza riluttanze le prospettive di una “decrescita”
che in realtà descrive un futuro molto migliore del nostro presente.
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DECRESCITA. UN PROGETTO RIVOLUZIONARIO
di Marino Badiale e Massimo Bontempelli in Alfabeta2 n. 6, gennaio-febbraio 2011
L’ idea (o slogan) della decrescita è una componente essenziale di un pensiero critico capace di confrontarsi con la
situazione del mondo contemporaneo, e di interagire con una possibile nuova pratica politica adeguata ai gravissimi
problemi attuali. Il punto di partenza del pensiero della decrescita è la ritrovata consapevolezza, annullata nel senso
comune da qualche secolo di capitalismo, che i concetti di bene economico e di merce non sono identici: beni
(intesi anche come servizi) sono i prodotti del lavoro umano che soddisfano determinati bisogni e necessità, merci
sono, tra quei beni, quelli inseriti in un mercato monetario con un prezzo di vendita, e acquisibili, quindi, soltanto
pagando quel prezzo. In termini logici, sono due concetti interconnessi, ma non coestensivi. La distinzione
chiaramente riecheggia quella, introdotta dagli economisti classici e ripresa da Marx, fra valore d'uso e valore di
scambio. Quando si parla di crescita si intende la crescita della sfera della circolazione di merci, quindi della sfera
di compravendita di beni e servizi dotati di un prezzo. Quando si parla di decrescita si intende la diminuzione del
raggio di questa sfera.
La decrescita è necessaria per risparmiare all'umanità la gravissima crisi di civiltà alla quale ci sta portando l'attuale
organizzazione economica e sociale, che ha nella crescita il dogma che non può essere messo in discussione. C'è
ormai una presa di coscienza sempre più diffusa del fatto che non ci può essere una crescita illimitata in un pianeta
le cui risorse sono limitate, e che sono ormai stati raggiunti (e superati) i «limiti della crescita». Ma oltre a questo, è
necessario acquisire anche un altro livello di consapevolezza: la crescita economica degli ultimi trent'anni è stata
ottenuta con la distruzione delle conquiste dello Stato sociale e con una tendenziale riduzione della logica di
funzionamento della totalità sociale alla logica del profitto e del mercato. In questo modo, lo sviluppo capitalistico
non distrugge solo la natura, distrugge anche ogni forma di coesione sociale e lo stesso equilibrio mentale degli
individui. La decrescita, l'opposizione a questo sviluppo cancerogeno, è dunque un passaggio necessario per salvare
la civiltà umana. Essa non deve però essere considerata una dura e sgradevole necessità. La decrescita non è
impoverimento: essa è definita, come abbiamo ricordato sopra, nei termini della diminuzione delle merci e non
necessariamente dei beni. La decrescita non comporta, in linea di principio, la diminuzione di beni e di servizi fruiti
dalla popolazione. Comporta piuttosto un ripensamento e una riorganizzazione della produzione e del consumo,
incentivando, per fare qualche esempio, i beni ottenuti con l'autoproduzione o con scambi non mercantili, le merci
ottenute con produzioni locali, le merci programmate per durare a lungo e per essere facilmente riciclate alla fine
del loro ciclo d'uso. Questo comporta ovviamente un cambiamento profondo degli stili di vita delle popolazioni, ma
non un loro impoverimento. Per esempio, comporta un drastico ridimensionamento della dimensione della moda e
della pubblicità che ci fanno considerare desueti oggetti ancora perfettamente funzionali, ma anche la diminuzione
generalizzata dell'orario di lavoro (inteso come lavoro salariato) per rendere possibile l'autoproduzione di una parte
dei beni e la cura delle relazioni umane e dei rapporti di comunità, al cui interno possono avvenire scambi non
mercantili di beni e servizi.
Per approfondire questo punto, il fatto cioè che la decrescita non è l'impoverimento, occorre riflettere sulla nozione
di povertà. L'errore che viene commesso comunemente, a tutti i livelli, è di definire la povertà nei termini
quantitativi di un livello di reddito monetario. Un qualsiasi articolo giornalistico sulla povertà nel mondo conterrà
sempre il richiamo al fatto che «al mondo ci sono x milioni di persone che vivono con meno di due dollari al
giorno», dove appunto si intende che «povertà» sia definita quantitativamente dall'avere un reddito inferiore ai due
dollari al giorno. Si tratta, come dicevamo sopra, di un errore: la povertà va definita in termini qualitativi, sociali e
storici, e non in termini quantitativi. Due persone ugualmente povere secondo la definizione quantitativa, cioè allo
stesso (basso) livello di reddito monetario, possono vivere tale situazione in maniera completamente diversa a
seconda del contesto sociale. Per fare un esempio, ci possono essere, come in certe epoche del Medioevo, situazioni
nelle quali il povero è rispettato, e soprattutto la povertà è considerata una delle possibili condizioni umane, non
l'espressione di un fallimento personale come adesso. Per cui il povero, economicamente aiutato da comportamenti
caritativi non episodici e non umilianti, non è povero nel nostro senso della parola. Ma per venire a considerazioni
più vicine al tema della decrescita, pensiamo alla situazione di un contadino inglese di bassa condizione sociale
nella fase in cui ha la possibilità di usufruire di una serie di beni comuni (boschi, pascoli), e confrontiamola con la
fase successiva nella quale i beni comuni sono stati appropriati dai grandi proprietari terrieri (le famose enclosures
sulle quali ha tanto insistito Marx). E chiaro che, nelle due situazioni, lo stesso reddito monetario si coniuga a una
situazione materiale ben diversa, perché nel primo caso il contadino ha la possibilità di integrare uno scarso reddito
monetario con beni e servizi ai quali ha accesso senza passare per lo scambio monetario, mentre nel secondo caso
questa possibilità non c'è più. Per fare infine un ultimo esempio, pensiamo alla condizione in cui si trovavano un
tempo i domestici che vivevano nella stessa casa dei padroni: essi avevo diritto a una casa, al cibo, spesso agli abiti,
e a uno scarso reddito monetario. Un tale scarso reddito, assieme alla condizione di servitore, implicava certamente
l'essere in fondo alla gerarchia sociale, ma non una condizione di miseria, come lo sarebbe invece stato se lo stesso
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reddito monetario, o anche uno leggermente superiore, avesse dovuto essere utilizzato per l'acquisto del cibo e il
pagamento di un affitto.
Possiamo allora adesso capire più facilmente l'errore del discorso comune sulla povertà, che la identifica con un
reddito inferiore ai due dollari al giorno. Il punto è che due dollari al giorno possono indicare una situazione in cui
è possibile vivere, oppure possono indicare la miseria più disperata, a seconda delle condizioni sociali. Se le
persone vivono all'interno di una economia di sussistenza, nella quale cibo e altri beni sono prodotti e scambiati al
di fuori del meccanismo del mercato, la vita con meno di due dollari al giorno può essere possibile e può perfino
essere ricca, non dal punto di vista materiale ma dal punto di vista delle relazioni umane. Ma se le persone vivono
con meno di due dollari al giorno in una situazione in cui l'accesso ai beni fondamentali come cibo e acqua è
mediato dal denaro, allora davvero si trovano in una situazione di disperazione.
Il punto è che ciò che comunemente si chiama «sviluppo dei paesi poveri» consiste essenzialmente nel passaggio
da economie non monetarie di sussistenza a economie monetarie: per quanto abbiamo appena detto, è allora assai
probabile che l'effetto di questo sviluppo sia la creazione di povertà autentica, disperata, invivibile, al posto di una
situazione in cui le persone e le comunità potevano sopravvivere (certamente con meno agi rispetto a quelli ai quali
noi occidentali siamo abituati) Queste osservazioni rappresentano fra l'altro la risposta a una tesi che ricorre
frequentemente, nelle discussioni sulla decrescita, la tesi cioè secondo la quale la decrescita potrebbe essere una
buona idea per i paesi sviluppati ma è improponibile nei paesi poveri. La risposta è dunque che la crescita è
distruttiva sia nei paesi sviluppati che in quelli sottosviluppati, e la decrescita è una strategia di salvezza per l'intera
umanità3.
Un altro aspetto di cui tenere presente, quando si parla di povertà, sta nel fatto che la povertà ha sempre anche un
aspetto comparativo: si è più o meno poveri in riferimento allo status medio della società nella quale si vive e alle
merci che essa considera necessario possedere. Spingendo all'acquisto di sempre nuovi oggetti, l'attuale sistema
economico crea nuove povertà, perché non tutti sono in grado di acquistarli. Oggi molte persone che definiremmo
povere spendono parte del loro scarso reddito per acquisti come quello del telefono cellulare: bisogna averlo perché
tutti ce l'hanno, lo usano e danno per scontato che tutti debbano essere attraverso di esso rintracciabili, quindi senza
di esso ci si sente più poveri. La società basata sulla crescita genera quindi povertà, da un lato perché genera
bisogni cui non tutti possono accedere, dall'altro perché è organizzata in modo da rendere necessari certi acquisti.
Questo è ciò che capita se per esempio scompaiono i piccoli negozi e sono disponibili solo supermercati lontani da
casa, rendendo così necessaria l'automobile, oppure se a poco a poco si trasferiscono su internet gran parte delle
transazioni della vita1 quotidiana, rendendo necessario l'acquisto del computer e il suo continuo aggiornamento.
L'identificazione di decrescita e impoverimento deriva quindi da un'idea sbagliata di povertà, un'idea nella quale
si sono fatti scomparire tutti gli aspetti storicamente e socialmente determinati della povertà stessa.
Allo stesso modo, occorre distinguere fra decrescita e recessione economica. La recessione è la diminuzione del Pil
in un quadro immutato di mercificazione dell'economia e, più in generale, di configurazione sociale. Recessione
significa allora che l'individuo ha sempre gli stessi bisogni di prima (ha bisogno dell'automobile, dell'asilo a
pagamento per i figli, di cambiare continuamente il vestiario per seguire la moda e così via), ma non ha più il
reddito monetario per soddisfare questi bisogni, quindi è più povero.
La decrescita, al contrario, è un mutamento qualitativo, non solo quantitativo. Decrescita significa che il Pil
diminuisce per due ragioni. In primo luogo certi beni che prima venivano prodotti come merci vengono prodotti
come beni non mercificati, oppure restano merci ma includono spese minori per il trasporto e la pubblicità (che
andrebbe abolita). In secondo luogo cambia la struttura dei bisogni: se ci sono presidi sanitari sparsi nel territorio
che forniscono prestazioni gratuite di buon livello, non si sente il bisogno dell'assistenza sanitaria privata, e chi non
ha i soldi per questa non si sente povero. Se un quartiere viene attrezzato per avere una vita sociale autosufficiente,
non si genera il bisogno di andare a cercare una discoteca a cento chilometri di distanza, e chi non ha la possibilità
di farlo non si sente povero. La scelta della decrescita è in sostanza la scelta di una vita sobria, nella quale una volta
raggiunto il soddisfacimento di una serie di bisogni fondamentali non si cerca, come succede oggi, il consumo
compulsivo e distruttivo di sempre nuovi oggetti, ma si ricerca la vera ricchezza che oggi ci manca: il tempo per
costruire relazioni umane ricche e rapporti di comunità significativi.
La differenza fra decrescita e recessione si comprende anche dall'osservazione che la recessione è un automatismo
dell'economia di mercato: interviene necessariamente, date certe condizioni iniziali. Al contrario la decrescita è un
progetto che deve essere attivamente perseguito, e sicuramente non si instaurerà in modo automatico.
Se si è compreso tutto questo, è allora facile capire come la decrescita rappresenti un progetto rivoluzionario,
l'unico autentico progetto rivoluzionario oggi disponibile.
Infatti, l'organizzazione economica capitalistica spinge alla mercificazione di ogni aspetto della realtà sociale e di
quella naturale: si tratta di un meccanismo necessario alla riproduzione allargata della creazione di plusvalore. Chi
vuole la decrescita vuole bloccare e invertire questa tendenza, e quindi ha una posizione anticapitalistica, anche se
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la coscienza di questo non sembra essere pienamente chiara in coloro che la sostengono e neppure nei critici
anticapitalisti della decrescita stessa.
La confusione fra decrescita e povertà, o fra decrescita e recessione, è in ultima analisi un prodotto dell'attuale
egemonia del capitalismo. Si tratta del fatto che all'interno della società capitalistica appare del tutto inconcepibile
una società che produca e consumi secondo una logica non mercantile. La decrescita appare inconcepibile, oppure
concepibile solo come una sventura, perché il nostro immaginario è dominato da un'idea di povertà e ricchezza, e in
generale di vita e di umanità, forgiata dal capitalismo. La lotta anticapitalista deve oggi essere una lotta contro
questo immaginario.
1. A scanso di equivoci, precisiamo che non stiamo facendo propaganda alla condizione del domestico di famiglia,
che era comunque una condizione di subalternità sociale e poteva accompagnarsi a freddezza o durezza nei rapporti
umani. Stiamo semplicemente sottolineando come lo stesso livello quantitativo di reddito monetario sia compatibile
con condizioni reali di vita molto diverse fra loro.
2. Ovviamente la dinamica reale dello «sviluppo» nei paesi poveri può essere molto diversa a seconda delle diverse
situazioni. Ci possono essere casi nei quali lo sviluppo non ha tutte le conseguenze negative che potenzialmente
potrebbe avere. Non stiamo qui indagando casi determinati, stiamo facendo considerazioni generali sulla nozione di
«povertà».
3. Con queste osservazioni non intendiamo naturalmente dire che le economie di sussistenza, ancora largamente
diffuse nei paesi «poveri», debbano essere conservate così come sono, ma semplicemente suggerire che un
autentico progresso umano per quei paesi dovrebbe avvenire senza inseguire il modello di mercificazione
universale tipico del capitalismo.
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CHE COS'È LA CONVERSIONE ECOLOGICA
di Guido Viale in alfabeta2 n. 12, settembre2011
L’ idea di una «conversione ecologica» - un termine introdotto anni fa nel lessico socio-politico da Alex Langer appare centrale, ogni giorno di più, per affrontare la crisi che stiamo attraversando. Conversione ecologica è un
termine che ha un risvolto soggettivo, etico, personale e un risvolto oggettivo, sociale, strutturale. Rimanda
innanzitutto a un cambiamento del nostro stile di vita, dei nostri consumi, del modo in cui lavoriamo e del fine per
cui lavoriamo o vorremmo lavorare, del nostro rapporto con gli altri e con l'ambiente. La «conversione» è ecologica
perché tiene conto dei limiti dell'ambiente in cui viviamo: limiti che sono essenzialmente temporali; sia perché
fanno i conti con il fatto che siamo esseri mortali in un mondo destinato a durare anche dopo di noi — e per questo
toccano il nucleo più profondo della nostra esistenza - sia perché ci ricordano che non si può consumare in un
tempo dato più di quello che la natura è in grado di produrre; né inquinare più di quanto l'ambiente riesce a
rigenerare. Ma se i nostri comportamenti, sia individuali che collettivi, sono la radice ultima tanto dello stato di
cose presente quanto di una sua possibile trasformazione, questa si potrà tradurre in un recupero di sostenibilità
(che vuoi dire capacità di durare nel tempo), cioè di compatibilità con i tempi di riproduzione e di rigenerazione
dell'ambiente, solo se è l'oggetto di un progetto consapevole e condiviso. Ciò richiede uno sguardo disincantato
sulla natura della crisi in corso; cioè sul lato «oggettivo» di ogni progetto di conversione. Questa crisi è senza
sbocchi: non sarà più possibile «uscirne» riprendendo il cammino interrotto della crescita e della distruzione
dell'ambiente: più ci si accanisce in questa direzione e più la crisi si avvita su se stessa. Lo vediamo bene nel
riproporsi in termini sempre più drammatici della dimensione finanziaria della crisi, dimensione che trascina con sé
redditi, occupazione, sicurezze, aspirazioni. Lo vediamo ancora meglio nell'incapacità delle classi dominanti di tutti
i paesi del mondo di far fronte alla crisi ambientale che incombe sul pianeta.
Non si può cambiare il mondo solo con scelte individuali su come vivere e che cosa consumare, mentre i
comportamenti collettivi in grado di incidere sulla realtà, di trasportarci dall'etica dell'intenzione all'etica della
responsabilità, richiedono sempre una condivisione più o meno spinta di analisi, di intenti, di progetti, di strumenti.
Una condivisione che non esclude certo la presenza e la permanenza di divergenze e di conflitti tra chi di essa
partecipa. In questi comportamenti collettivi orientati rientrano quelli che chiamiamo «lotte», compresa la «lotta di
classe»; ma le lotte non esauriscono l'arco delle opzioni coinvolte dalla conversione ecologica. Molte
trasformazioni avvengono infatti sottotraccia e non sulla ribalta dello spazio pubblico, magari attraverso processi
capillari e non di massa. Ma in generale, i processi che contribuiscono a cambiare il mondo secondo un progetto,
anche quando l'esito non corrisponde che in parte agli obiettivi perseguiti, sono sempre il frutto di una attività di
aggregazione di una domanda esplicita o latente, enunciata o silente. Aggregare domanda, per rispondere a
desideri, aspettative, bisogni che non possono essere soddisfatti in forma individuale - cioè rivolgendosi a quello
che oggi offre, o non offre, il mercato - costituisce una vera e propria «impresa sociale». Ogni impresa sociale
richiede comprensione del contesto, capacità di ascolto, relazioni dirette, competenze tecniche e, soprattutto,
capacità imprenditoriali: dove non c'è nessuno che «tiri», assumendo delle responsabilità che travalicano la propria
persona, i processi di trasformazione non raggiungono la meta, le lotte non partono o si arenano, la disgregazione
prevale.
Dunque, oggi il problema centrale della conversione ecologica è probabilmente quello di convincere e coinvolgere i
lavoratori che vedono il loro posto di lavoro minacciato, o già perso, che la strada da imboccare non è il ritorno alla
situazione di prima; che lungo questa traiettoria non c'è sbocco possibile. Mentre l'obiettivo della sostenibilità quello che alcuni si ostinano a chiamare «decrescita», con un termine che suscita più equivoci che chiarezza - offre
reali possibilità di ricostituire lavoro, reddito e benessere; anche se un benessere diverso da quello, peraltro sempre
più misero, prospettato dalla moda e dalla pubblicità. Efficienza energetica e fonti rinnovabili, agricoltura e
alimentazione sostenibili, mobilità di massa e flessibile con mezzi condivisi alla portata di tutti, manutenzione e
riparazione dei beni, degli edifici, del territorio, riciclaggio dei materiali, educazione libera e permanente - cioè tutti
i principali temi intorno a cui si è andata sviluppando, radicando e precisando la cultura ambientalista nel corso
degli ultimi decenni - offrono oggi concrete possibilità di una loro realizzazione anche in contesti circoscritti.
Enunciare in termini generali questo programma è facile. Tradurlo in proposte concrete, senza le quali non
raggiungerà mai quell'articolazione settoriale e territoriale che ne costituisce gran parte del vantaggio nei confronti
delle misure tradizionali, generali e centralizzate - quelle adottate dai governi di mezzo mondo per affrontare la
crisi - è molto più complesso. Perché esige di misurarsi con le caratteristiche specifiche di ogni territorio, sia per
quanto riguarda le risorse disponibili, sia per quanto riguarda i fabbisogni da colmare, sia per quanto riguarda la
composizione sociale, cioè gli attori delle comunità che vi abitano. Basta pensare alle fonti rinnovabili e
all'efficienza energetica (ma lo stesso vale per tutti gli altri settori indicati) per cogliere questo punto. Ogni
territorio ha risorse e potenzialità differenti, ma anche carichi e fabbisogni da soddisfare diversi, come diverse sono
le forze sociali che vi operano. Un progetto unico, valido per tutti e replicabile ovunque non
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esiste. Ogni progetto va costruito casa per casa, tetto per tetto, azienda per azienda, campo per campo. Ma la vera
sfida è proporre una prospettiva del genere a chi sta lottando, per lo più in forme drammatiche e a volte estreme,
per difendere il proprio posto di lavoro; spiegare che in quella forma quel posto di lavoro non tornerà mai più; che
limitarsi a difenderlo è una strada senza uscita e che la sola possibilità di salvaguardarlo risiede in un impegno
collettivo per produrre altro, in un altro modo, per un altro mercato - un mercato ancora in gran parte da costruire,
riconvertendo la fabbrica, l'impianto, l'ufficio, il laboratorio, l'azienda, il campo, verso produzioni e attività
sostenibili.
E chiaro che quella della conversione ambientale degli impianti produttivi e delle aziende di servizio è una strada
altamente conflittuale nei confronti dell'ordine esistente e degli interessi costituiti che lo governano; ma questo
conflitto, come molti altri che attraversano il nostro tempo - pensiamo solo alla battaglia per l'acqua pubblica - non
può essere ricondotto né ai termini della lotta di classe, né a un conflitto sindacale interno al perimetro di
un'azienda o di un settore. Per realizzare una riconversione ecologica, tanto di uno stabilimento che di un territorio,
o dell'intera società, occorre sì una grande mobilitazione, ma bisogna coinvolgere intere comunità, le loro
espressioni associative - dove già ci sono, altrimenti bisogna costruirle - una parte almeno del mondo
imprenditoriale locale; e poi le amministrazioni locali, o almeno una parte di esse. Poi bisogna aggregare domanda
per costruire i mercati delle nuove produzioni; mobilitare i saperi diffusi necessari per il nuovo progetto; mettere al
lavoro le capacità imprenditoriali di quelle aziende che non vedono più futuro nelle vecchie produzioni; reperire i
capitali, pubblici e privati, dimostrando che anche, o magari solo, su questa strada c'è la possibilità di metterli a
frutto con equità e minori rischi.
Per questo oggi è importante creare un «spazio pubblico» di consultazione e di partecipazione dove di queste cose
si cominci a discutere città per città, quartiere per quartiere, paese per paese, azienda per azienda, permettendo a
tutti di esprimere e far capire il proprio punto di vista. Lavorando in questo modo si prepara il territorio a dotarsi di
una prospettiva e di progetti, o per lo meno di idee progettuali, praticabili, di cui sono stati valutati le potenzialità,
gli attori, gli ostacoli, le specificità. Domani, mano a mano che le conseguenze della crisi si faranno più pesanti - e
si faranno sempre più pesanti, soprattutto in termini di occupazione e di redditi, si tratterà di raccogliere le forze per
rendere operativi quei programmi. La crisi metterà tutti o quasi alle strette e la disponibilità a imboccare una strada
nuova, se apparirà ben delineata e praticabile, potrebbe coinvolgere attori e forze oggi impensabili. Senza questo
lavoro preliminare, però, non ci sarà alcun vero cambiamento, perché la «conversione ecologica» non è un
programma che possa essere governato dall'alto o da un «centro».
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Serge Latouche, Manifesto del doposviluppo in www.decrescita.it
La corrente di pensiero che si riferisce alla decrescita ha conservato fino a oggi un carattere quasi confidenziale.
Nel corso di una storia già lunga ha prodotto, ciò nonostante, una letteratura non disprezzabile che si trova
rappresentata in numerosi campi di ricerca e d'azione nel mondo.
Nata negli anni sessanta, il decennio dello sviluppo, da una riflessione critica sui presupposti dell'economia e sul
fallimento delle politiche di sviluppo, questa corrente riunisce ricercatori, attori sociali del Nord come del Sud
portatori di analisi e di esperienze innovatrici sul piano economico, sociale e culturale. Nel corso degli anni si sono
intrecciati dei legami spesso informali tra le sue diverse componenti e le esperienze e le riflessioni si sono
mutuamente alimentate. Il movimento per la decrescita s'inscrive dunque nel più amppio movimento
dell'International Network for Cultural Alternatives to Development (INCAD) e si riconosce pienamente nella
dichiarazione del 4 maggio 1992. Intende proseguire e ampliare il lavoro così cominciato.
Il movimento mette al centro della sua analisi la critica radicale della nozione di sviluppo che, nonostante le
evoluzioni formali conosciute, resta il punto di rottura decisivo in seno al movimento di critica al capitalismo e
della globalizzazione. Ci sono da un lato quelli che, come noi, vogliono uscire dallo sviluppo e dall'economicismo
e, dall'altro, quelli che militano per un problematico "altro" sviluppo (o una non meno problematica "altra"
globalizzazione). A partire da questa critica, la corrente procede a una vera e propria "decostruzione" del pensiero
economico. Sono pertanto rimesse in discussione le nozioni di crescita, povertà, bisogno, aiuto ecc.
Le associazioni e i membri della presente rete si riconoscono in tale impresa. Dopo il fallimento del socialismo
reale e il vergognoso scivolamento della socialdemocrazia verso il social-liberalismo, noi pensiamo che solo queste
analisi possano contribuire a un rinnovamento del pensiero e alla costruzione di una società veramente alternativa
alla società di mercato. Rimettere radicalmente in questione il concetto di sviluppo è fare della sovversione
cognitiva, e questa è la condizione preliminare del sovvertimento politico, sociale e culturale.
Il momento ci sembra favorevole per uscire dalla semiclandestinità dove siamo stati relegati finora e il grande
successo del colloquio di La ligne d'horizon, "Défaire le développement, refaire le monde", che si è tenuto presso
l'UNESCO dal 28 febbraio al 3 marzo 2002, rafforza le nostre convinzioni e le nostre speranze.
Rompere l'immaginario dello sviluppo e decolonizzare le menti
Di fronte alla globalizzazione, che non è altro che il trionfo planetario del mercato, bisogna concepire e volere una
società nella quale i valori economici non siano più centrali (o unici). L'economia dev'essere rimessa al suo posto
come semplice mezzo della vita umana e non come fine ultimo. Bisogna rinunciare a questa folle corsa verso un
consumo sempre maggiore. Ciò non è solo necessario per evitare la distruzione definitiva delle condizioni di vita
sulla Terra ma anche e soprattutto per fare uscire l'umanità dalla miseria psichica e morale. Si tratta di una vera
decolonizzazione del nostro immaginario e di una diseconomicizzazione delle menti indispensabili per cambiare
davvero il mondo prima che il cambiamento del mondo ce lo imponga nel dolore. Bisogna cominciare con il vedere
le cose in altro modo perché possano diventare altre, perché sia possibile concepire soluzioni veramente originali e
innovatrici. Si tratta di mettere al centro della vita umana altri significati e altre ragioni d'essere che l'espansione
della produzione e del consumo.
La parola d'ordine della rete è dunque "resistenza e dissidenza". Resistenza e dissidenza con la testa ma anche con i
piedi. Resistenza e dissidenza come atteggiamento mentale di rifiuto, come igiene di vita. Resistenza e dissidenza
come atteggiamento concreto mediante tutte le forme di autorganizzazione alternativa. Ciò significa anche il rifiuto
della complicità e della collaborazione con quella impresa dissennata e distruttiva che costituisce l'ideologia dello
sviluppo.
Illusioni e rovine dello sviluppo
La attuale globalizzazione ci mostra quel che lo sviluppo è stato e che non abbiamo mai voluto vedere. Essa è lo
stadio supremo dello sviluppo realmente esistente e nello stesso tempo la negazione della sua concezione mitica. Se
lo sviluppo, effettivamente, non è stato altro che il seguito della colonizzazione con altri mezzi, la nuova
mondializzazione, a sua volta, non è altro che il seguito dello sviluppo con altri mezzi. Conviene dunque
distinguere lo sviluppo come mito dallo sviluppo come realtà storica.
Si può definire lo sviluppo realmente esistente come una impresa che mira a trasformare in merci le relazioni degli
uomini tra loro e con la natura. Si tratta di sfruttare, di valorizzare, di trarre profitto dalle risorse naturali e umane.
Progetto aggressivo verso la natura e verso i popoli, è -come la colonizzazione che la precede e la mondializzazione
che la segue- un'opera al tempo stesso economica e militare di dominazione e di conquista. È lo sviluppo realmente
esistente, quello che domina il pianeta da tre secoli, che causa i problemi sociali e ambientali attuali: esclusione,
sovrappopolazione, povertà, inquinamenti diversi ecc.
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Quanto al concetto mitico di sviluppo, è nascosto in un dilemma: da una parte, esso designa tutto e il suo contrario,
in particolare l'insieme delle esperienze storiche e culturali dell'umanità, dalla Cina degli Han all'impero degli Inca.
In questo caso non designa nulla in particolare, non ha alcun significato utile per promuovere una politica, ed è
meglio sbarazzarsene. Dall'altra parte, esso ha un contenuto proprio, il quale designa allora necessariamente ciò che
possiede in comune con l'avventura occidentale del decollo dell'economia così come si è organizzata dalla
rivoluzione industriale in Inghilterra negli anni 1750-1800. In questo caso, quale che sia l'aggettivo che gli si
affianca, il contenuto implicito o esplicito dello sviluppo è la crescita economica, l'accumulazione del capitale con
tutti gli effetti positivi e negativi che si conoscono. Ora, questo nucleo centrale che tutti gli sviluppi hanno in
comune con tale esperienza, è legato a rapporti sociali ben particolari che sono quelli del modo di produzione
capitalistico. Gli antagonisti di "classe" sono ampiamente occultati dalla pregnanza di "valori" comuni ampiamente
condivisi: il progresso, l'universalismo, il dominio della natura, la razionalità quantificante. Questi valori sui quali
si basa lo sviluppo, e in particolare il progresso, non corrispondono affatto ad aspirazioni universali profonde. Sono
legati alla storia dell'Occidente e trovano scarsa eco nelle altre società. Al di fuori dei miti che la fondano, l'idea di
sviluppo è totalmente sprovvista di senso e le pratiche che le sono legate sono rigorosamente impossibili perché
impensabili e proibite. Oggi questi valori occidentali sono precisamente quelli che bisogna rimettere in discussione
per trovare una soluzione ai problemi del mondo contemporaneo ed evitare le catastrofi verso le quali l'economia
mondiale ci trascina. Il doposviluppo è al contempo postcapitalismo e postmodernità.
I nuovi aspetti dello sviluppo
Per tentare di scongiurare magicamente gli effetti negativi dello sviluppo, siamo entrati nell'era dello sviluppo
aggettivato. Si è assistito alla nascita di nuovi sviluppi autocentranti, endogeni, partecipativi, comunitari, integrati,
autentici, autonomi e popolari, equi…senza parlare dello sviluppo locale, del microsviluppo, dell'endosviluppo,
dell'etnosviluppo! Affiancando un aggettivo al concetto di sviluppo, non si tratta veramente di rimettere in
discussione l'accumulazione capitalistica; tutt'al più si pensa di aggiungere un risvolto sociale o una componente
ecologica alla crescita economica come un tempo si è potuto aggiungerle una dimensione culturale. Questo lavoro
di ridefinizione dello sviluppo riguarda, in effetti, sempre più o meno la cultura, la natura e la giustizia sociale. In
tutto ciò si tratta di guarire un male che colpirebbe lo sviluppo in modo accidentale e non congenito. Per l'occasione
è stato addirittura creato uno spauracchio, il malsviluppo. Questo mostro è solo una chimera, poiché il male non
può colpire lo sviluppo per la buona ragione che lo sviluppo immaginario è per definizione l'incarnazione stessa del
bene. Il buon sviluppo è un pleonasmo perché lo sviluppo significa buona crescita, perché anche la crescita è un
bene contro il quale nessuna forza del male può prevalere.
È l'eccesso stesso delle prove del suo carattere benefico che meglio rivela la frode dello sviluppo.
Lo sviluppo sociale, lo sviluppo umano, lo sviluppo locale e lo sviluppo durevole non sono altro che gli ultimi nati
di una lunga serie di innovazioni concettuali tendenti a far entrare una parte di sogno nella dura realtà della crescita
economica. Se lo sviluppo sopravvive ancora lo deve soprattutto ai suoi critici! Inaugurando l'era dello sviluppo
aggettivato (umano, sociale ecc.), gli umanisti canalizzano le aspirazioni delle vittime dello sviluppo del Nord e del
Sud strumentalizzandoli. Lo sviluppo durevole è il più bel successo di quest'arte di ringiovanimento di vecchie
cose. Esso illustra perfettamente il procedimento di eufemizzazione mediante aggettivo. Lo sviluppo durevole,
sostenibile o sopportabile (sustainable), portato alla ribalta alla Conferenza di Rio del giugno 1992, è un tale "fai da
te" concettuale, che cambia le parole invece di cambiare le cose, una mostruosità verbale con la sua antinomia
mistificatrice. Ma nello stesso tempo, con il suo successo universale, attesta la dominazione della ideologia dello
sviluppo. Ormai la questione dello sviluppo non riguarda soltanto i paesi del Sud, ma anche quelli del Nord.
Se la retorica pura dello sviluppo con la pratica legata dell'espertocrazia volontarista non ha più successo, il
complesso delle credenze escatologiche in una prosperità materiale possibile per tutti e rispettosa dell'ambiente
resta intatto. L'ideologia dello sviluppo manifesta la logica economica in tutto il suo rigore. Non c'è posto in questo
paradigma per il rispetto della natura reclamato dagli ecologisti né per il rispetto dell'uomo reclamato dagli
umanisti. Lo sviluppo realmente esistente appare allora nella sua verità. E lo sviluppo alternativo come un
miraggio.
Oltre lo sviluppo
Parlare di doposviluppo non è soltanto lasciar correre l'immaginazione su ciò che potrebbe accadere in caso di
implosione del sistema, fare della fantapolitica o esaminare un problema accademico. È parlare della situazione di
coloro che attualmente al Nord come al Sud sono esclusi o sono in procinto di diventarlo, di tutti coloro, dunque,
per i quali il progresso è un'ingiuria e una ingiustizia, e che sono indubbiamente i più numerosi sulla faccia della
Terra. Il doposviluppo si delinea già tra noi e si annuncia nella diversità.
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Il doposviluppo, in effetti, è necessariamente plurale. Si tratta della ricerca di modalità di espansione collettiva
nelle quali non sarebbe privilegiato un benessere materiale distruttore dell'ambiente e del legame sociale.
L'obiettivo della buona vita si declina in molti modi a seconda dei contesti. In altre parole, si tratta di ricostruire
nuove culture. Questo obiettivo può essere chiamato l'humran (crescita/rigoglio) come in Ibn Khald?n, swadeshisarvo-daya (miglioramento delle condizioni sociali di tutti) come in Gandhi, o bamtaare (stare bene assieme) come
dicono i toucouleurs, o in altro modo. L'importante è esprimere la rottura con l'impresa di distruzione che si
perpetua sotto il nome di sviluppo oppure, oggi, di mondializzazione. Per gli esclusi, per i naufraghi dello sviluppo,
può trattarsi soltanto di una sorta di sintesi tra la tradizione perduta e la modernità inaccessibile. Queste creazioni
originali di cui si possono trovare qua e là degli inizi di realizzazione aprono la speranza di un doposviluppo.
Bisogna al tempo stesso pensare e agire globalmente e localmente. È solo nella mutua fecondazione dei due
approcci che si può tentare di sormontare l'ostacolo della mancanza di prospettive immediate. Il doposviluppo e la
costruzione di una società alternativa non si declinano necessariamente nello stesso modo al Nord e al Sud.
Proporre la decrescita conviviale come uno degli obiettivi globali urgenti e identificabili attualmente e mettere in
opera alternative concrete localmente sono prospettive complementari.
Decrescere e abbellire
La decrescita dovrebbe essere organizzata non soltanto per preservare l'ambiente ma anche per ripristinare il
minimo di giustizia sociale senza la quale il pianeta è condannato all'esplosione. Sopravvivenza sociale e
sopravvivenza biologica sembrano dunque strettamente legate. I limiti del patrimonio naturale non pongono
soltanto un problema di equità intergenerazionale nel condividere le disponibilità, ma anche un problema di giusta
ripartizione tra gli esseri attualmente viventi dell'umanità.
La decrescita non significa un immobilismo conservatore. La saggezza tradizionale considerava che la felicità si
realizzasse nel soddisfare un numero ragionevolmente limitato di bisogni. L'evoluzione e la crescita lenta delle
società antiche si integravano in una riproduzione allargata ben temperata, sempre adattata ai vincoli naturali.
Organizzare la decrescita significa, in altre parole, rinunciare all'immaginario economico, vale a dire alla credenza
che di più è uguale a meglio. Il bene e la felicità possono realizzarsi con costi minori. Riscoprire la vera ricchezza
nel fiorire di rapporti sociali conviviali in un mondo sano può ottenersi con serenità nella frugalità, nella sobrietà e
addirittura con una certa austerità nel consumo materiale.
La parola d'ordine della decrescita ha soprattutto come fine il segnare con fermezza l'abbandono dell'obiettivo
insensato della crescita per la crescita, obiettivo il cui movente non è altro che la ricerca sfrenata del profitto per i
detentori del capitale. Evidentemente, non si prefigge un rovesciamento caricaturale che consisterebbe nel
raccomandare la decrescita per la decrescita.
In particolare, la decrescita non è la crescita negativa. Si sa che il semplice rallentamento della crescita sprofonda le
nostre società nel disordine con riferimento alla disoccupazione e all'abbandono dei programmi sociali, culturali e
ambientali che assicurano un minimo di qualità della vita. Si può immaginare quale catastrofe sarebbe un tasso di
crescita negativa! Allo stesso modo non c'è cosa peggiore di una società lavoristica senza lavoro e, peggio ancora,
di una società della crescita senza crescita. La decrescita è dunque auspicabile soltanto in una "società di
decrescita". Ciò presuppone tutt'altra organizzazione in cui il tempo libero è valorizzato al posto del lavoro, dove le
relazioni sociali prevalgono sulla produzione e sul consumo dei prodotti inutili o nocivi. La riduzione drastica del
tempo dedicato al lavoro, imposta per assicurare a tutti un impiego soddisfacente, è una condizione preliminare.
Ispirandosi alla carta su "consumi e stili di vita" proposta al Forum delle ONG di Rio, è possibile sintetizzare il
tutto in un programma di sei "R": rivalutare, ristrutturare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare. Questi sono i
sei obiettivi interdipendenti un circolo virtuoso di decrescita conviviale e sostenibile. Rivalutare significa rivedere i
valori in cui crediamo e in base ai quali organizziamo la nostra vita, nonché cambiare i valori che devono essere
cambiati. Ristrutturare significa adattare la produzione e i rapporti sociali in funzione del cambiamento dei valori.
Per ridistribuire s'intende la ridistribuzione delle ricchezze e dell'accesso al patrimonio naturale. Ridurre vuol dire
diminuire l'impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e di consumare. Per fare ciò bisogna riutilizzare gli
oggetti e i beni d'uso invece di gettarli e sicuramente riciclare i rifiuti non compressibili che produciamo.
Tutto ciò non è necessariamente antiprogressista e antiscientifico. Si potrebbe, nello stesso tempo, parlare di
un'altra crescita in vista del bene comune, se il termine non fosse troppo alternativo.
Noi non rinneghiamo la nostra appartenenza all'Occidente, di cui condividiamo il sogno progressista, sogno che ci
ossessiona. Tuttavia, aspiriamo a un miglioramento della qualità della vita e non a una crescita illimitata del PIL.
Reclamiamo la bellezza delle città e dei paesaggi, la purezza delle falde freatiche e l'accesso all'acqua potabile, la
trasparenza dei fiumi e la salute degli oceani. Esigiamo un miglioramento dell'aria che respiriamo, del sapore degli
alimenti che mangiamo. C'è ancora molta strada da fare per lottare contro l'invasione del rumore, per ampliare gli
spazi verdi, per preservare la fauna e la flora selvatiche, per salvare il patrimonio naturale e culturale dell'umanità,
senza parlare dei progressi da fare nella democrazia. La realizzazione di questo programma è parte integrante
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dell'ideologia del progresso e presuppone il ricorso a tecniche sofisticate alcune delle quali sono ancora da
inventare. Sarebbe ingiusto tacciarci come tecnofobi e antiprogressisti con il solo pretesto che reclamiamo un
"diritto di inventario" sul progresso e sulla tecnica. Questa rivendicazione è un minimo per l'esercizio della
cittadinanza.
Semplicemente, per i paesi del Sud, colpiti in pieno dalle conseguenze negative della crescita del Nord, non si tratta
tanto di decrescere (o di crescere, d'altra parte), quanto di riannodare il filo della loro storia rotto dalla
colonizzazione, dall'imperialismo e dal neoimperialismo militare, politico, economico e culturale. La
riappropriazione delle loro identità è preliminare per dare ai loro problemi le soluzioni appropriate. Può essere
sensato ridurre la produzione di certe colture destinate all'esportazione (caffè, cacao, arachidi, cotone ecc., ma
anche fiori recisi, gamberi di allevamento, frutta e verdure come primizie ecc.), come può risultare necessario
aumentare la produzione delle colture per uso alimentare. Si può pensare inoltre a rinunciare all'agricoltura
produttivista come al Nord per ricostituire i suoli e le qualità nutrizionali, ma anche, senza dubbio, fare delle
riforme agrarie, riabilitare l'artigianato che si è rifugiato nell'informale ecc. Spetta ai nostri amici del Sud precisare
quale senso può assumere per loro la costruzione del doposviluppo.
In nessun caso, la rimessa in discussione dello sviluppo può ne deve apparire come una impresa paternalista e
universalista che la assimilerebbe a una nuova forma di colonizzazione (ecologista, umanitaria…) Il rischio è tanto
più forte in quanto gli ex colonizzati hanno interiorizzato i valori del colonizzatore. L'immaginario economico, e in
particolare l'immaginario dello sviluppo, è senza dubbio ancora più pregnante al Sud che al Nord. Le vittime dello
sviluppo hanno la tendenza a non vedere altro rimedio alle loro disgrazie che un aggravarsi del male. Penano che
l'economia sia il solo mezzo per risolvere la povertà quando è proprio lei che la genera. Lo sviluppo e l'economia
sono il problema e non la soluzione; continuare a pretendere e volere il contrario fa parte del problema.
Una decrescita accettata e ben meditata non impone alcuna limitazione nel dispendio di sentimenti e nella
produzione di una vita festosa o addirittura dionisiaca.
Sopravvivere localmente
Si tratta di essere attenti al reperimento delle innovazioni alternative: imprese cooperative in autogestione,
comunità neorurali, LETS e SEL3, autorganizzazione degli esclusi del Sud. Queste esperienze che noi intendiamo
sostenere o promuovere ci interessano non tanto per se stesse, quanto come forme di resistenza e di dissidenza al
processo di aumento della mercificazione totale del mondo. Senza cercare di proporre un modello unico, noi ci
sforziamo di realizzare in teoria e in pratica una coerenza globale dell'insieme di queste iniziative.
Il pericolo della maggior parte delle iniziative alternative è, in effetti, di chiudersi nella nicchia che hanno trovato
all'inizio invece di lavorare alla costruzione e al rafforzamento di un insieme più vasto. L'impresa alternativa vive o
sopravvive in un ambiente che è e dev'essere diverso dal mercato mondializzato. È questo ambiente dissidente che
bisogna definire, proteggere, conservare, rinforzare sviluppare attraverso la resistenza. Piuttosto che battersi
disperatamente per conservare la propria nicchia nell'ambito del mercato mondiale, bisogna militare per allargare e
approfondire una vera società autonoma ai margini dell'economia dominante.
Il mercato mondializzato con la sua concorrenza accanita e spesso sleale non è l'universo dove di muove e deve
muoversi l'organizzazione alternativa. Essa deve cercare una vera democrazia associativa per sfociare in una
società autonoma. Una catena di complicità deve legare tutte le parti. Come nell'informale africano, nutrire la rete
dei "collegati" è la base del successo. L'allargamento e l'approfondimento del tessuto di base è il segreto del
successo e deve essere il primo pensiero delle sue iniziative. È questa coerenza che rappresenta una vera alternativa
al sistema.
Al Nord, si pensa prima ai progetti volontari e volontaristici di costruzione di mondi differenti. Alcuni individui,
rifiutando in tutto o in parte il mondo in cui vivono, tentano di mettere in atto qualcos'altro, di vivere altrimenti: di
lavorare o di produrre altrimenti in seno a imprese diverse, di riappropriarsi della moneta anche per servirsene per
un uso diverso, secondo una logica altra rispetto a quella dell'accumulazione illimitata e dell'esclusione massiccia
dei perdenti.
Al Sud, dove l'economia mondiale, con l'aiuto delle istituzioni di Bretton Woods, ha cacciato dalle campagne
milioni e milioni di persone, ha distrutto il loro modo di vita ancestrale, soppresso i loro mezzi di sussistenza, per
gettarli e stiparli nelle bidonvilles e nelle periferie Terzo mondo, l'alternativa è spesso una condizione di
sopravvivenza. I "naufraghi dello sviluppo", abbandonati a loro stessi, condannati nella logica dominante a
scomparire, non hanno scelta per restare a galla che organizzarsi secondo un'altra logica. Devono inventare, e
almeno alcuni inventano effettivamente, un altro sistema, un'altra vita.
Questa seconda forma dell'altra società non è totalmente separata dalla prima, e ciò per due ragioni. Innanzitutto,
perché l'autorganizzazione spontanea degli esclusi del Sud non è mai totalmente spontanea. Ci sono aspirazioni,
progetti, modelli, o anche utopie che informano più o meno questi "fai da te" della sopravvivenza informale. Poi,
perché, simmetricamente, gli "alternativi" del Nord non sempre hanno possibilità di scegliere. Anch'essi sono
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spesso degli esclusi, degli abbandonati, dei disoccupati o candidati potenziali alla disoccupazione, o semplicemente
degli esclusi per disgusto… Ci sono dunque possibilità di contatto tra le due forme che possono e devono
fecondarsi reciprocamente. Questa coerenza d'insieme realizza un certo modo, certi aspetti che François Partant
attribuiva alla sua proposta centrale:
dare a dei disoccupati, a dei contadini rovinati e a tutti coloro che lo desiderano la possibilità di vivere del loro
lavoro, producendo, al di fuori dell'economia di mercato e nelle condizioni da loro stessi determinate, ciò di cui
ritengono di aver bisogno.
Rafforzare la costruzione di tali altri mondi possibili passa per la presa di coscienza del significato storico di queste
iniziative. Numerose sono già state le riconquiste da parte delle forze dello sviluppo delle imprese alternative
isolate, e sarebbe pericoloso sottovalutare le capacità di recupero del sistema. Per contrastare la manipolazione e il
lavaggio del cervello permanente a cui siamo sottoposti, la costruzione di una vasta rete sembra essenziale per
condurre la battaglia del buon senso.
Vi propongo la recensione di un testo, realizzata poco meno di vent'anni fa per la rivista Il Sofista. Lo scritto è, tutto sommato,
ancora valido sia nella parte che sintetizza i problemi della biosfera, sia nell' analisi della proposta di Holdren per venirne a
capo. Quanto meno pone delle chiare basi di partenza per discussioni più aggiornate.
Stefano Paoli
PAUL R. EHRLICH e ANNE H. EHRLICH,
Per salvare il pianeta: come limitare l'impatto dell'uomo sull'ambiente, Muzzio, 1992
Avendo ceduto una certa quantità d'uva al mio vicino in cambio di vino da lui stesso prodotto, egli mi ha assicurato sulla
qualità del medesimo: "non ci metto assolutamente niente dentro; sarà veramente un vino ecologico". In un primo
momento l'uso di questa espressione mi rassicurò circa le sorti generali dell'umanità (molto meno per quelle del vino). Il
fatto che l'uso di espressioni di questo genere sia così diffuso, cioè che alcune preoccupazioni legate a problematiche
ecologiche siano ormai decisamente comuni non significa però necessariamente che si percepisca altrettanto
comunemente la reale portata della questione e soprattutto se ne abbia una corretta impostazione. Se è vero infatti che
siamo abbastanza attenti a mettere da parte le bottiglie e ad usare prodotti riciclabili, che ci preoccupiamo vivamente
della sopravvivenza del panda e del rinoceronte africano, è altrettanto vero che tutto ciò non servirà a niente. Intendo dire
che non è in questo modo che noi potremo salvare il pianeta; non che sia inutile avere il nostro bravo comportamento da
boyscout dell'ecologia: è invece necessario ma anche insufficiente; un po' come curare la tubercolosi solo con lo
sciroppo: la tosse si attenua ma il paziente muore ugualmente.
Ciò di cui forse i nostri vicini non sono ancora pienamente coscienti è che da un po' di tempo l'umanità ha posto sotto
stress tutti i grandi ecosistemi del pianeta; essi stanno ormai mostrando numerosi segnali di allarme rosso. Questi grandi
ecosistemi forniscono alle società umane una serie di servizi, gratuiti e non surrogabili. Nello sfruttare questi servizi noi
siamo già andati ben oltre le quantità che gli ecosistemi periodicamente rinnovano ed abbiamo intaccato pesantemente le
scorte. In questo caso la metafora economica è particolarmente chiara e significativa: anche negli ecosistemi naturali
esistono i capitali (che si rinnovano dinamicamente ma che devono essere quantitativamente stabili) e gli interessi che
possono essere consumati senza alterare funzionalmente il sistema. consumando però anche una parte del capitale oltre
gli interessi, questi diminuiranno ancora con il risultato che per mantenere costante il prelievo dovremo aumentare il
consumo del capitale con un meccanismo di feedback positivo che accelera velocemente verso la fine inevitabile.
Quali sono questi servizi forniti dalla natura di cui noi usufruiamo non troppo consapevolmente?
-La composizione della miscela di gas che costituisce l'atmosfera è mantenuta stabile da centinaia di milioni di anni
attraverso molti fenomeni interagenti che vanno dalla crescita dei coralli negli oceani tropicali all'attività fotosintetica
delle foreste pluviali. Gli effetti rilevanti di un'alterazione anche modesta della composizione dell'atmosfera
(avvelenamenti, riscaldamento globo, crollo produzione agricola) ormai credo siano chiari a tutti. Eppure disboscando al
ritmo attuale le foreste equatoriali non solo aumentiamo la CO2 nell'aria ma eliminiamo il capitale naturale che
dovrebbe, consumando la stessa CO2 con la fotosintesi, produrre il servizio.
-L'acqua potabile è un bene della cui disponibilità siamo così assuefatti che a fatica ci rendiamo conto quale importanza
abbia tanto per l'agricoltura quanto per l'industria. Se pensate che gli uomini arriveranno a farsi guerra per l'acqua, vi
sbagliate: già lo hanno fatto; diverse guerre regionali degli ultimi decenni ebbero come movente fondamentale, appena
camuffato, la contesa di alcuni territori ricchi di acqua.
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Il ciclo idrogeologico dipende fortemente dalla copertura vegetale del territorio. Intaccata questa, il flusso idrico percorre
velocemente il territorio, lo dissesta, non mantiene in equilibrio le falde che si esauriscono. Meno piante meno acqua,
meno acqua meno piante: altro feedback positivo dagli esiti catastrofici che noi attualmente non siamo in grado di
contrastare.
-Il suolo agricolo di cui noi abbiamo assoluto bisogno (la popolazione umana cresce di circa l'1,8% ogni anno e di
conseguenza la produzione agricola, come minimo, deve fare altrettanto), non è un bene perpetuo dato una volta per
tutte. Anch'esso è il risultato di processi lenti e delicati che possono alterarsi, anch'esso è un servizio che gli ecosistemi
danneggiati possono essere impossibilitati a fornirci. Avete presente quei bei documentari sui paesi tropicali e equatoriali
dove si vedono grandi fiumi dalle acque perennemente limacciose? Bene quel fango è terreno fertile perduto per sempre
e con esso la possibilità da parte di quei paesi di sfamare in modo autonomo la loro popolazione in rapida crescita.
-Lo smaltimento dei rifiuti organici o comunque biodegradabili non è possibile senza l'azione delle grandi schiere di
organismi demolitori degli ecosistemi. Noi acquistiamo i prodotti biodegradabili e ci sentiamo a posto: dovere compiuto.
Ma chi degraderà mai questi prodotti se non rispettiamo le proporzioni di scala? Un'unità di territorio non può riciclare
quantità illimitate di prodotti anche se perfettamente biodegradabili.
-La stabilità dei grandi cicli biogeochimici è un altro fondamentale servizio che viene reso dagli ecosistemi naturali.
Solo un piccolo esempio: enormi quantità di azoto atmosferico vengono fissate ogni anno dai batteri azotofissatori e
convertito in sali minerali che costituiscono poi la fonte di azoto di praticamente tutte le piante e quindi di tutti gli esseri
viventi. L'agricoltura intensiva attuale impoverisce moltissimo i terreni di azoto, quindi noi lo fissiamo artificialmente e
distribuiamo i sali sui terreni (concimi inorganici). La quantità annuale di azoto che fissiamo è ormai circa uguale a
quella fissata da tutti gli ecosistemi naturali del pianeta! (Ciò dovrebbe dare una misura efficace delle dimensioni ormai
raggiunte dall'impresa umana in relazione al pianeta). I sali azotati artificiali vengono dilavati in buona parte e quindi
vanno ad alterare pesantemente gli ecosistemi fluviali, lacustri e marini, oltre che le falde.
-Altro grande servizio poco riconosciuto è il controllo di tutti gli organismi nocivi. L'agricoltura intensiva moderna
comporta una modificazione ed un impoverimento rilevanti dell'agroecosistema; in particolare gli organismi che vivono
a spese delle specie coltivate tendono a espandersi moltissimo; gli ecosistemi naturali però forniscono all'agroecosistema
tutta una serie di predatori e parassiti che, a conti fatti, tengono sotto controllo il 99% delle specie nocive. Le grandi
quantità di insetticidi utilizzate hanno, come non secondario effetto certo, quello di colpire i predatori e parassiti naturali
delle specie nocive (più resistenti) rendendo sempre più debole il servizio di controllo delle specie nocive reso dagli
ecosistemi.
-Gli ecosistemi naturali ci forniscono cibo in grande quantità con la pesca. Molte popolazioni hanno un'alimentazione a
base di pesce.
-In natura esiste qualcosa di paragonabile ad un'immensa biblioteca genetica. Il grano, il riso , il mais (la base
dell'alimentazione umana) e con essi tutte le piante coltivate e tutti gli animali domestici sono variazioni di specie
selvatiche naturali, cioè provengono da quest'immensa biblioteca; la penicillina, così come un quarto di tutti i medicinali,
anche. Le potenzialità future di questa biblioteca sono enormi, in gran parte sconosciute. Ad esempio la possibilità
straordinariamente importante di ottenere piante per l'alimentazione che possano essere coltivate su terreni salati
potrebbe forse contribuire a risolvere il problema alimentare dei paesi poveri. Infatti molti di questi con clima caldo
hanno terreni resi salati da improvvide irrigazioni (vedi Sahel). Ora, alcune delle piante che naturalmente crescono in
terreni simili, dette alofite, forse potranno, opportunamente selezionate, rispondere allo scopo. Ebbene noi provochiamo
l'estinzione annuale di un numero stimato tra diecimila e centomila specie, volumi cancellati per sempre dalla biblioteca
della vita.
Tutti i tentativi umani di sostituire completamente su grande scala i servizi resi dagli ecosistemi naturali sono falliti.
Facciamo grandi sforzi per combattere cancro e AIDS ma anche quando avessimo completamente debellato queste
malattie la speranza di vita nei paesi ricchi aumenterebbe solo di tre anni mentre " la mancata protezione della salute
degli ecosistemi potrebbe portare a un abbreviamento della speranza di vita di decenni e alla morte di centinaia di milioni
di bambini".
Solo considerando che attualmente, se escludiamo gli oceani, il 40% circa della produzione primaria netta (tutta l'energia
prodotta per fotosintesi sulla terra meno quella necessaria alle piante stesse per i loro processi biologici: cioè l'insieme
delle risorse di tutti gli animali, funghi e gli altri eterotrofi) viene consumata dall'uomo possiamo ben renderci conto a
quale stress gli ecosistemi sono sottoposti. Insomma di tutto il cibo a disposizione per molti milioni di specie il 40% va a
una solamente: come pensate che se la passino le altre? Come pensate che se la passeranno quando gli uomini saranno
dieci miliardi o più?
Questi sono i veri problemi che abbiamo dinnanzi. Certo dispiace anche per il panda ma se solo pensiamo che
potrebbero essere centomila ogni anno le specie che scompaiono allora dobbiamo renderci conto che il buon
comportamento da boyscout dell'ecologia non basta in frangenti come questi. La soluzione è una sola e gli autori del
libro sono chiarissimi in proposito: OCCORRE RIDURRE LA SCALA DELL'IMPRESA UMANA.
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Forse a questo punto penserete che gli autori siano ecologisti estremisti, poco affidabili: niente di più sbagliato e, per chi
non li conoscesse per fama e per l'alta reputazione guadagnata in più di due decenni di impegno e di produzioni
scientifiche di alto livello, la lettura della parte propositiva convincerà del loro pragmatismo. Nessun improponibile e
irrealizzabile ritorno alle palafitte ma la determinazione a vivere in una società avanzata e la consapevolezza che le
alternative alle scelte drastiche ma indispensabili, uniche in grado di affrontare i nodi prima esposti, sono la barbarie e
l'estinzione.
Per affrontare in modo semplificato ma incisivo la parte propositiva e gli inevitabili calcoli ad essa connessi gli autori
ripropongono l' equazione I=PxAxT , che permette di quantificare grossolanamente l'impatto che le attività umane
complessive hanno sugli ecosistemi del pianeta: Gli autori per primi sono consapevoli dei limiti della formuletta e ne
avvertono il lettore ma ritengono giustamente che la comprensibilità e l'immediatezza della relazione proposta abbiano
indiscutibili vantaggi. I sta dunque per l'impatto, P per il numero di abitanti del territorio esaminato (quelli del pianeta per
calcolare l'impatto totale); A, che deriva da affluence, può essere efficacemente tradotto con merci (intendendo la
quantità di beni materiali utilizzati da ciascun individuo in un anno) e T, iniziale di tecnologia, rappresenta la misura del
danno causato dalle tecnologie impiegate per produrre ciascuna unità indicata da A (quindi tecnologie ecologicamente
migliori sono rappresentate da indici più bassi).
La relazione ha una buona efficacia dimostrativa e un valore accettabile, dato che i calcoli a fini dimostrativi e non
operativi non necessitano di grande precisione. Per esempio se, mantenendo inalterate le attuali tecnologie, riuscissimo a
ridurre, con sforzi straordinari, A del 10% basterebbero cinque anni all'attuale tasso di crescita della popolazione
mondiale perché, aumentando P del 10%, tutto ritornasse come prima, vanificando gli sforzi precedenti e rendendo
imbelle chi, avendoli compiuti, aveva pensato sarebbero stati risolutivi. Da questo esempio banale prorompe con forza
l'esizialità del controllo demografico, in assenza del quale tutto sarebbe inutile.
Data la estrema difficoltà per l'attuale ricerca economica di stimare T con sufficiente precisione, è possibile sostituire al
prodotto AxT, che misura il danno per unità di popolazione, il consumo pro capite di energia (qui occorrerebbe chiarire
difetti e approssimazioni di questa operazione; basti dire che, entro certi limiti, essa funziona). Nuovo esempio: dato che
un abitante medio degli Stati Uniti consuma 11 Kw-anno mentre un sahariano ne consuma 0,165, ogni abitante degli
Stati Uniti danneggia gli ecosistemi come 70 abitanti del Sahara. Al di là di questo esempio estremo, altri semplici
calcoli possono esser fatti che rendono giustizia di molti falsi convincimenti. Il consumo medio pro capite dei paesi
ricchi (PNL pro capite di 4000 dollari o più) nel 1990 era di 7,5 Kw-anno e gli abitanti 1,2 miliardi. Di contro per i paesi
poveri il consumo medio pro capite era di 1,0 Kw-anno per 4,1 miliardi di persone; se ne deduce che l'impatto globale
dei paesi ricchi era di 9 Tw-anno e quello dei paesi poveri 4,1 Tw-anno. Con buona pace di chi pensa che il controllo
demografico riguardi solo i paesi poveri.
Ma oltre questi semplici esempi, cosa può esser fatto, quali obiettivi concreti l'umanità può porsi per sperare di affrontare
la situazione con possibilità di successo?
Gli autori propongono come obiettivo concreto, considerato un compromesso forse accettabile e probabilmente
realizzabile, lo scenario di Holdren.
Partiamo da una premessa: l'attuale (1990) impatto mondiale sugli ecosistemi equivale a 2,5 Kw-anno x 5,3 miliardi di
abitanti = 13,1 Tw-anno e consideriamo pacifico che buona parte degli abitanti del pianeta debba migliorare in modo
consistente le proprie condizioni di vita, cioè aumentare i beni consumati. Dato che è ormai inevitabile che la
popolazione complessiva del pianeta raggiunga nel 2050 i dieci miliardi di individui prima di stabilizzarsi (questa è
l'ipotesi più favorevole, che presuppone sforzi considerevoli, coronati da successo, nel controllo della popolazione; ne
esistono di realistiche assai più pessimistiche che non permettono alcun scenario accettabile), se noi diamo l'attuale
consumo dei paesi ricchi a tutti gli abitanti del pianeta per quell'epoca (non lontana: ci separano solo 56 anni!) otteniamo:
7,5 Kw-anno x 10 miliardi = 75 Tw-anno. Sei volte l'impatto attuale: nessun ecologo che conosca la propria disciplina
può pensare che il mondo se la cavi. John Holdren (University of California, BerKeley) ha elaborato uno scenario
alternativo, ottimistico. Il punto centrale della proposta è una scommessa tecnologica che la nostra società deve accettare:
riuscire a ridurre il consumo medio pro capite da 7,5 a 3,0 Kw-anno entro un secolo, grazie soprattutto al miglioramento
delle tecnologie (riduzione del parametro T dell'equazione). In effetti ampi margini di miglioramento dell'efficienza
energetica esistono in molti campi dell'industria umana. In questo caso l'impatto globale sugli ecosistemi diverrebbe 3,0
Kw-anno x 10 miliardi = 30 Tw-anno, 2,3 volte l'impatto del 1990: il pianeta potrebbe ancora farcela, a patto che
l'energia non fosse più basata sulla combustione di carbone o petrolio ma fosse energia decisamente più "pulita".
Dovrebbero comunque realizzarsi compiutamente le seguenti condizioni:
1 - La popolazione globale del pianeta dovrebbe crescere "in frenata" non oltre i 10 miliardi di persone da raggiungere
nel 2100. Per realizzare questa condizione occorre un successo alle politiche di controllo demografico; in particolare la
crescita demografica nei paesi ricchi non dovrà complessivamente essere superiore al 10% .
2 - Le migliori tecnologie dei paesi ricchi dovrebbero permettere di ridurre di ben 2,5 volte l'impatto ambientale per
unità di prodotto (T). In questo caso la quantità di prodotti pro capite (A) potrebbe rimanere inalterata ma non aumentare.
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Necessità di grandi investimenti che non aumenterebbero la disponibilità di beni materiali (A). In linea teorica un
ulteriore riduzione di T oltre le 2,5 volte il valore attuale permetterebbe una complementare crescita di beni materiali.
3 - La crescita economica dei paesi poveri dovrebbe progressivamente integrarsi ad un travaso di tecnologie sofisticate
dai paesi ricchi verso i primi in modo tale che man mano che A dei paesi poveri sale, T diminuisce fino a che A x T si
attesti su 3,0 Kw-anno pro capite, analogamente ai paesi ricchi. (Naturalmente, giunti a questo punto, non ci sarebbero
più motivi, oltre quelli storici, per parlare di paesi ricchi e paesi poveri).
Discutiamo brevemente le tre condizioni. La prima forse sarebbe la meno difficoltosa da attuare, se fosse ben sostenuta
dalla terza. In presenza di una decisa crescita economica e di un economicamente conveniente travaso di tecnologie, i
paesi poveri dovrebbero essere nelle condizioni migliori per realizzare con successo il contenimento demografico
necessario. Il secondo punto presenta grandi difficoltà: si tratta di avviare grandi investimenti per - migliorare
decisamente l'efficienza energetico/produttiva in ogni settore - mettere a punto nuove fonti energetiche decisamente più
"pulite" e chiudere con i combustibili fossili. Tutto questo evitando di aumentare il numero dei beni materiali consumati
pro capite. Il terzo punto è il più impervio da realizzare: la comunità mondiale che agisce con obiettivi unitari per il bene
comune. Una parte dei paesi che travasano tecnologia agli altri forse in cambio di forza-lavoro, forse in cambio di
migliori prospettive a medio termine.
Pensate a ciò che succede oggi nel mondo e immaginate quale cambiamento culturale e politico deve essere prodotto.
Il nuovo scenario della politica, perse le ideologie, inefficaci nelle previsioni e superate dagli sviluppi del reale, è
rappresentato dai problemi; ma non dai problemi di categoria o di corporazione che ancora da noi vanno in scena bensì
dai grandi problemi planetari, tra loro strettamente interconnessi, possibili da sciogliersi solo attraverso profondi
cambiamenti culturali che ci conducano a pensare il biota come un'unica comunità, con gli stessi interessi.
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MANIFESTO DEL MOVIMENTO PER LA DECRESCITA FELICE
MAURIZIO PALLANTE
Un vasetto di yogurt prodotto industrialmente e acquistato attraverso i circuiti commerciali, per arrivare sulla tavola
dei consumatori percorre da 1.200 a 1.500 chilometri, costa 10 euro al litro, ha bisogno di contenitori di plastica e
di imballaggi di cartone, subisce trattamenti di conservazione che spesso non lasciano sopravvivere i batteri da cui
è stato formato.
Lo yogurt autoprodotto facendo fermentare il latte con opportune colonie batteriche non deve essere trasportato,
non richiede confezioni e imballaggi, costa il prezzo del latte, non ha conservanti ed è ricchissimo di batteri.
Lo yogurt autoprodotto è pertanto di qualità superiore rispetto a quello prodotto industrialmente, costa molto di
meno, non comporta consumi di fonti fossili e di conseguenza contribuisce a ridurre le emissioni di CO2, non
produce di rifiuti.
Tuttavia questa scelta, che migliora la qualità della vita di chi la compie e non genera impatti ambientali, comporta
un decremento del prodotto interno lordo: sia perché lo yogurt autoprodotto non passa attraverso la mediazione del
denaro, quindi fa diminuire la domanda di merci, sia perché non richiede consumi di carburante, quindi fa
diminuire la domanda di merci, sia perché non fa crescere i costi dello smaltimento dei rifiuti.
Ciò disturba i ministri delle finanze perché riduce il gettito dell'IVA e delle accise sui carburanti; i ministri
dell'ambiente perché di conseguenza si riducono gli stanziamenti dei loro bilanci e non possono più sovvenzionare
le fonti energetiche alternative nell'ottica dello «sviluppo sostenibile»; i sindaci, i presidenti di regione e di
provincia perché non possono più distribuire ai loro elettori i contributi statali per le fonti alternative; le aziende
municipalizzate e i consorzi di gestione rifiuti perché diminuiscono gli introiti delle discariche e degli inceneritori; i
gestori degli inceneritori collegati a reti di teleriscaldamento, perché devono rimpiazzare la carenza di combustibile
derivante da rifiuti (che ritirano a pagamento) con gasolio (che devono comprare).
Ma non è tutto.
I fermenti lattici contenuti nello yogurt fresco autoprodotto arricchiscono la flora batterica intestinale e fanno
evacuare meglio. Le persone affette da stitichezza possono iniziare la loro giornata leggeri come libellule. Pertanto
la qualità della loro vita migliora e il loro reddito ne ha un ulteriore beneficio, perché non devono più comprare
purganti. Ma ciò comporta una diminuzione della domanda di merci e del prodotto interno lordo. Anche i purganti
prodotti industrialmente e acquistati attraverso i circuiti commerciali, per arrivare nelle case dei consumatori
percorrono migliaia di chilometri. La diminuzione della loro domanda comporta dunque anche una diminuzione dei
consumi di carburante e un ulteriore decremento del prodotto interno lordo.
Ciò disturba una seconda volta i ministri delle finanze e dell'ambiente, i sindaci, i presidenti di regione e di
provincia per le ragioni già dette.
Ma non è tutto.
La diminuzione dei rifiuti e della domanda di yogurt e di purganti prodotti industrialmente, comporta una riduzione
della circolazione degli autotreni che li trasportano e, quindi, una maggiore fluidità del traffico stradale e
autostradale. Gli altri autoveicoli possono circolare più velocemente e si riducono gli intasamenti. Di conseguenza
migliora la qualità della vita. Ma diminuiscono anche i consumi di carburante e si riduce il prodotto interno lordo.
Ciò disturba una terza volta i ministri delle finanze e dell'ambiente, i sindaci, i presidenti di regione e di provincia
per le ragioni già dette.
Ma non è tutto.
La diminuzione dei camion circolanti su strade e autostrade diminuisce statisticamente i rischi d'incidenti. Questo
ulteriore miglioramento della qualità della vita indotto dalla sostituzione dello yogurt prodotto industrialmente con
yogurt autoprodotto, comporta una ulteriore diminuzione del prodotto interno lordo, facendo diminuire sia le spese
ospedaliere, farmaceutiche e mortuarie, sia le spese per le riparazioni degli autoveicoli incidentati e gli acquisti di
autoveicoli nuovi in sostituzione di quelli non più riparabili.
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Ciò disturba una quarta volta i ministri delle finanze e dell'ambiente, i sindaci, i presidenti di regione e di provincia
per le ragioni già dette.
Il Movimento per la Decrescita Felice si propone di promuovere la più ampia sostituzione possibile delle merci
prodotte industrialmente ed acquistate nei circuiti commerciali con l'autoproduzione di beni. In questa scelta, che
comporta una diminuzione del prodotto interno lordo, individua la possibilità di straordinari miglioramenti della
vita individuale e collettiva, delle condizioni ambientali e delle relazioni tra i popoli, gli Stati e le culture.
La sua prospettiva è opposta a quella del cosiddetto «sviluppo sostenibile», che continua a ritenere positivo il
meccanismo della crescita economica come fattore di benessere, limitandosi a proporre di correggerlo con
l'introduzione di tecnologie meno inquinanti e auspicando una sua estensione, con queste correzioni, ai popoli che
non a caso vengono definiti «sottosviluppati».
Nel settore cruciale dell'energia, lo «sviluppo sostenibile», a partire dalla valutazione che le fonti fossili non sono
più in grado di sostenere una crescita durevole e una sua estensione a livello planetario, ne propone la sostituzione
con fonti alternative. Il Movimento per la Decrescita Felice ritiene invece che questa sostituzione debba avvenire
nell'ambito di una riduzione dei consumi energetici, da perseguire sia con l'eliminazione di sprechi, inefficienze e
usi impropri, sia con l'eliminazione dei consumi indotti da un'organizzazione economica e produttiva finalizzata
alla sostituzione dell'autoproduzione di beni con la produzione e la commercializzazione di merci.
Questa prospettiva comporta che nei paesi industrializzati si riscoprano e si valorizzino stili di vita del passato,
irresponsabilmente abbandonati in nome di una malintesa concezione del progresso, mentre invece hanno ampie
prospettive di futuro non solo nei settori tradizionali dei bisogni primari, ma anche in alcuni settori
tecnologicamente avanzati e cruciali per il futuro dell'umanità, come quello energetico, dove la maggiore efficienza
e il minor impatto ambientale si ottengono con impianti di autoproduzione collegati in rete per scambiare le
eccedenze.
Nei paesi lasciati in stato di indigenza dalla rapina delle risorse che sono state necessarie alla crescita economica
dei paesi industrializzati, un reale e duraturo miglioramento della qualità della vita non potrà esserci riproducendo
il modello dei paesi industrializzati, ma solo con una crescita dei consumi che non comporti una progressiva
sostituzione dei beni autoprodotti con merci prodotte industrialmente e acquistate. Una più equa redistribuzione
delle risorse a livello mondiale non si potrà avere se la crescita del benessere di questi popoli avverrà sotto la forma
crescita del prodotto interno lordo, nemmeno se fosse temperata dai correttivi ecologici dello «sviluppo
sostenibile». Che del resto è un lusso perseguibile solo da chi ha già avuto più del necessario da uno sviluppo senza
aggettivi.
Per aderire al movimento è sufficiente
- autoprodurre lo yogurt o qualsiasi altro bene primario: la passata di pomodoro, la marmellata, il pane, il succo di
frutta, le torte, l'energia termica e l'energia elettrica, oggetti e utensili, le manutenzioni ordinarie;
- fornire i servizi alla persona che in genere vengono delegati a pagamento: assistenza dei figli nei primi anni d'età,
degli anziani e dei disabili, dei malati e dei morenti.
L'autoproduzione sistematica di un bene o lo svolgimento di un servizio costituisce il primo grado del primo livello
di adesione. I livelli successivi del primo grado sono commisurati al numero dei beni autoprodotti e dei servizi alla
persona erogati. L'autoproduzione energetica vale il doppio.
Il secondo grado di adesione è costituito dall'autoproduzione di tutta la filiera di un bene: dal latte allo yogurt; dal
grano al pane, dalla frutta alla marmellata, dai pomodori alla passata, dalla gestione del bosco al riscaldamento.
Anche nel secondo grado i livelli sono commisurati al numero dei beni autoprodotti e la filiera energetica vale il
doppio.
La sede del Movimento per la Decrescita Felice viene stabilita presso... (preferibilmente un'azienda agricola, o un
laboratorio artigianale, o un servizio autogestito, o una cooperativa di autoproduzione, una bottega del commercio
equo e solidale, ecc.).
09-09-2004
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URBANISMO ECOCOMPATIBILE E DECRESCITA
SERGE LATOUCHE
Professore emerito di economia all’Université d’Orsay, obiettore di crescita
ROMA, CONGRESSO EUROSOLAR MAGGIO 2011
Riassunto: Il disastro urbano che ciascuno può constatare, è il risultato di logiche che sfuggono palesemente agli
architetti ed agli urbanisti. Tuttavia questi ne sono stati i complici e al medesimo tempo hanno cercato di porvi
rimedio. Tuttavia, l’architettura è corresponsabile e l’habitat bioclimatico non è la soluzione, al meglio costituisce
un elemento ipotetico della soluzione. Questi tentativi onorevoli degli architetti e degli urbanisti di porre rimedio
alla crisi urbana e sociale proponendo schemi ingegnosi sono condannati allo scacco per mancanza di un’analisi
globale del fallimento della società della crescita. La crisi è politica e dunque il rimedio deve anche essere politico.
È questa la ragione per cui il progetto della decrescita passa necessariamente attraverso una rifondazione del
politico e quindi della polis, la città e del suo rapporto con la natura. Il progetto urbano è necessariamente secondo
rispetto al progetto sociale, e il progetto architettonico è secondo rispetto al progetto urbano. Il “disastro” urbano
non è il risultato di una mancanza degli architetti né degli urbanisti, è il risultato di una crisi di civiltà. La città
decrescente dovrebbe essere una città con una impronta ecologica ridotta, trattenendo un rapporto forte con
l’ecosistema (una bio-regione). In un primo tempo, la città decrescente, potrebbe essere la città attuale dalla quale
sarebbero stati eliminati la pubblicità, le automobili e la grande distribuzione e dove sarebbero stati introdotti i
giardini condivisi, le piste ciclabili, una gestione pubblica dei beni comuni (acqua, servizi di base) e anche la
coabitazione e le “botteghe di quartiere”. Una riconversione sarà necessaria ma anche una certa
deindustrializzazione. In sintesi, la città decrescente, primo passo verso una società di abbondanza frugale,
preserverà l’ambiente che è in ultima analisi la base di tutta la vita, aprirà a ciascuno un accesso più democratico
alla vita sociale ed economica, ridurrà la disoccupazione, rafforzerà la partecipazione (e dunque l’integrazione) e
anche la solidarietà, fortificherà la salute dei cittadini grazie alla crescita della sobrietà e alla diminuzione dello
stress.
Introduzione: Il disastro urbano della società della crescita.
Il disastro urbano che ciascuno può constatare, è il risultato di logiche che sfuggono palesemente agli architetti ed
agli urbanisti. Abbiamo una quantità di architetti e urbanisti di ottima qualità (compresi quelli del campo
dell’abitare ecologico) ma questo non impedisce il caos urbano e paesaggistico attuale nel quale il mondo è
rinchiuso. Il problema è che questa architettura è spesso molto seducente quando si tratta di ville individuali o di
palazzi prestigiosi, ma è molto deludente nell’insieme. Essa fallisce “a fare città” e sopratutto ha fallito
nell’impedire la decomposizione del tessuto urbano, le mitage du paysage (tarmatizzazione del paesaggio), la
cementificazione del territorio, la crescita dello squallore del quadro della vita e la distruzione del’ambiente, per
non parlare dello scacco nel ridurre il consumo di energia e l’impronta ecologica. Tuttavia questi architetti e
urbanisti ne sono stati i complici e al medesimo tempo hanno cercato di porvi rimedio. Siamo di fronte a una forma
di schizofrenia. Questo disastro urbano è stato costatato anche dal grande architetto portoghese, Alvaro Siza. “La
cosa più grave è la devastazione del territorio, lo scacco di questa disciplina è l’uso della terra… Noi assistiamo alla
fine di un ordine delle cose che prefigura forse un’altra cosa, che noi non conosciamo ancora. E, senza dubbio
questa era inevitabile. Ma nell’immediato, la qualità è emarginata e siamo di fronte ad un disastro”1
Noi viviamo ancora nella città produttivista, pensata e strutturata in funzione dell’automobile sotto forme che
pretendono di essere razionali (Basta pensare alla città radiosa di Le Corbusier) con le sue segregazioni degli spazi,
le sue zone industriali, i suoi quartieri residenziali senza vita2. Marinetti, nel 1909 nel Manifesto del Movimento
Futurista anticipando il progetto di Le Corbusier di demolire Parigi, propone la distruzione di Venezia nel nome del
progresso: “Sviate il corso dei canali, per inondare i musei ! (…) Impugnate i picconi, le scuri, i martelli e demolite
senza pietà le città venerate !».Ceocescu l’ha realizzato a Bucarest, Pompidou è morto troppo presto per avallare il
progetto di Le Corbusier, ma Bruxelles è divenuta l'esempio del massacro congiunto della speculazione e della
modernizzazione. Si è potuto parlare giustamente della distruzione delle città in tempo di pace3 con l’esplodere dei
vecchi centri storici, la speculazione immobiliare sfrenata che caccia i ceti inferiori e medi verso le periferie, il
proliferare dei centri commerciali, l’estensione delle zone residenziali, l’emergere dei grattacieli, la lacerazione
dello spazio attraverso le autostrade e la proliferazione dei non-luoghi (stazioni, aeroporti, ipermercati, ecc.)4
1
Entretien avec Dominique Machabert in Techniques et Architecture, 2003.
Cochet Yves: Antimanuel d’écologie, Éditions Bréal, 2009. P. 247.
3
Secondo l’espressione di Jean-Claude Michea, L’enseignement de l’ignorance et ses conditions modernes, Micro-Climats, Castelnau-le- Lez 1999.Bruxelles
è l’esempio caricaturale di questo fenomeno. Si parla di “bruxellizzazione”.
4
Cfr. Marc Augé e Marco Revelli.
2
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L’asfissia del traffico automobilistico è uno dei sintomi di una crisi più ampia generata dalla “super” o “iper”
modernità (parola che trovo più giusta di “post”- modernità). Questo è il trionfo della bruttezza.
Per poter abbozzare ciò che potrebbe essere l’urbanismo e l’architettura in una società della decrescita, bisogna
capire prima che cos’è la società della decrescita e le suoi implicazioni architettoniche e urbanistiche, poi si potrà
precisare a che cosa somiglierebbe la città decrescente.
Il progetto della decrescita e le sue implicazioni urbane.
Che cosa è la decrescita? La parola d’ordine della decrescita ha soprattutto lo scopo di sottolineare con forza la
necessità di abbandonare il progetto insensato dello sviluppo per lo sviluppo, della crescita per la crescita. Si può
definire la società di crescita come una società dominata da una economia di crescita e che tende a lasciarsene
assorbire. La crescita per la crescita diventa così l’obiettivo principale, se non l’unico, della vita. Il cancro della
Crescita (con la "C" maiuscola) non distrugge soltanto la città, ma distrugge anche il senso dei luoghi lacerando il
territorio. Questo è l’esplosione del’urbano,secondo la sociologa Tiziana Villani5. Si tratta di un processo di
artificializzazione della vita. L’uomo pretende di ricreare il mondo meglio di Dio e della Natura. Gli OGM, le
nanotecnologie, la clonazione, l’allevamento industriale dei pesci, ecc. ne sono una illustrazione. L’esito finale
sarebbe il cyber man, l’uomo artificiale. Ora, il risultato più visibile è la trasformazione del mondo reale, del
mondo nel quale siamo condannati a vivere, in discarica o pattumiera.
Il fallimento di Dubai e della sua torre di 800 metri inabitata, costituisce un simbolo del fallimento del sogno
americano e del suo urbanismo. Il progetto della torre di 1 km di altezza non sarà probabilmente mai costruito. La
città produttivista appartiene probabilmente al passato, ma la distruzione del mondo prosegue.
Ovviamente il fine della società della decrescita non è un capovolgimento caricaturale consistente nel predicare la
decrescita per la decrescita. Soprattutto la decrescita non è la crescita negativa. Si sa che il semplice rallentamento
della crescita fa cadere le nostre società nello sconforto a causa della disoccupazione e dell’abbandono dei
programmi sociali,culturali ed ambientali che assicurano un minimo di qualità della vita. Si può ben immaginare
quale catastrofe costituirebbe un tasso di crescita negativo! Così come non c’è niente di peggio che una società
fondata sul lavoro senza lavoro, niente è peggio di una società di sviluppo senza sviluppo. Rigorosamente parlando,
più una a-crescita (come si parla di a-teismo) che una de-crescita. Si tratta precisamente dell'abbandono di una fede
e di una religione: quella dell'economia.
Il cambiamento reale di prospettiva necessario per costruire una società autonoma di decrescita può essere
realizzato attraverso il programma radicale, sistematico, ambizioso delle otto “R”: rivalutare, ridefinire,
ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Questi otto obiettivi interdipendenti scatenano
un circolo virtuoso di decrescita serena, conviviale e sostenibile6. Non si tratta di un programma, siamo al livello
della concezione.
Il progetto della società della decrescita si articola dunque intorno al circolo virtuoso delle otto “R”. Si può dire
delle otto “R” che sono tutte altrettanto importanti. Mi sembra comunque che tre abbiano un ruolo più “strategico”
delle altre: la rivalutazione, perché dà origine a tutti cambiamenti, la riduzione perché tiene in sé tutti i
comandamenti pratici della decrescita e la rilocalizzazione perché ha a che fare con la vita quotidiana e il lavoro di
milioni di persone7.
Il problema della città e del territorio ormai distrutti è tutto da ripensare e si inscrive nel contesto più ampio del
mondo lacerato, della perdita dei punti di riferimento e della crisi del locale. Il disastro urbano è al medesimo
tempo un disastro rurale e paesaggistico. Ma, nell’ottica della costruzione di una serena società di decrescita, la
rilocalizzazione non può essere solo economica. Sono la politica, la cultura, il senso della vita che debbono
ritrovare il loro ancorarsi territoriale. La parola chiave è l’autonomia.
La rilocalizzazione svolge quindi un ruolo centrale nell’utopia concreta e feconda della decrescita, e si articola
quasi subito in un programma politico. La decrescita sembra rinnovare la vecchia formula degli ecologisti: pensare
globalmente,agire localmente. Rilocalizzare l’economia e la vita è una condizione non trascurabile della
sostenibilità. Se l’utopia della decrescita implica un pensiero globale, oggi la si realizza solo partendo dai territori.
Si tratta di Riterritorializzare (Alberto Magnaghi), ritrovare un sito e ri-abitarlo.
Tuttavia, l’architettura é corresponsabile e l’habitat bioclimatico non è la soluzione, al meglio costituisce un
elemento ipotetico della soluzione. La “città sostenibile” promossa dalla Carta d’Aalborg (1994) è più una forma di
modernizzazione ecologica del capitalismo (greenwashing) che un vero rimedio al disastro del produttivismo. Gli
eco quartieri (quartiere Vauban a Fribourg-nel-Brisgau (Allemagne), Houten (periferia d’Utrecht, 40 000 abitanti) e
5
Tiziana Villani, La décroissance à l’âge de la révolution urbaine: écologie politique et hyperpolis, Entropia, N°8, printemps 2010.
Si potrebbe allungare la lista delle “R” con: radicalizzare, riconvertire, ridefinire, ridimensionare, rimodellare, riabilitare,reinventare, rallentare, restituire,
rendere, riscattare, rimborsare, rinunciare, ripensare, rieducare ecc., ma tutte queste “R”sono più o meno incluse nelle prime otto.
7«Quattro tematiche possono strutturare lo spazio in divenire delle società di sobrietà, sottolinea Yves Cochet:
l’autosufficienza locale e regionale, il decentramento geografico dei poteri, la rilocalizzazione economica e il protezionismo,la pianificazione concertata e il
razionamento» (Yves Cochet, Pétrole apocalyse, Fayard, Paris 2005, p. 208
6
55
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di Bedzed (Beddington zero energy development) nella città di Sutton a sud di Londra) sono alla fine delle isole di
sostenibilità dentro un mare di inquinamento urbano, e non riusciranno a trasformarlo. Il fallimento e lo scacco
clamoroso delle “eco città” cinesi sono sintomatiche. I rari progetti, lanciati con trombe e fanfare come
Chongming, sono nel’impasse. L’eco città di Dongtan a Chongming di fronte a Shanghai è stata promossa con
forza dal 2006-2008 per fare da vetrina ecologica all’Esposizione Universale. Il padrino del progetto è stato
eliminato nel 2008 per corruzione dopo di che il progetto, mal concepito, è stato abbandonato. Gli altri progetti
(Huangbaiyu e Tianjin) non vanno bene. L’economia ha vinto sull’ecologia8.
In questi progetti si tratta sempre di abitare meglio ma non di cambiare il rapporto con la natura, il paesaggio e con
il consumismo.
I tentativi onorevoli degli architetti e degli urbanisti di porre rimedio alla crisi urbana e sociale proponendo schemi
ingegnosi - regioni urbane, città giardino, città totale, reti urbane, conurbazioni (Geddes), Broadacre city (Wright),
città compatta, città distesa, ecc., che cercano una nuova articolazione tra città e campagna, sono condannati allo
scacco per mancanza di un’analisi globale del fallimento della società della crescita.
Il funzionalismo formalizzato nella Carta di Atene da Le Corbusier (1943) che pretendeva di lottare contro il
“disordine urbano” ha generato alla fine un disordine più grande al prezzo di una esplosione dell’impronta
ecologica delle città. `
Secondo la profezia di Lewis Mumford, la megapolis si trasforma in tyrannopolis, poi finisce come nekropolis9.
Questo sembra essere il destino de l’iperpolis virtuale, costituita dalla finanza e dai media globalizzati.
La crisi è politica e dunque il rimedio deve anche essere politico. È questa la ragione per cui il progetto della
decrescita passa necessariamente attraverso una rifondazione del politico e quindi della polis, la città e del suo
rapporto con la natura. Il progetto urbano è necessariamente secondo rispetto al progetto sociale, e il progetto
architettonico è secondo rispetto al progetto urbano. Il “disastro” urbano non è il risultato di una mancanza degli
architetti né degli urbanisti, è il risultato di una crisi di civiltà.Solo con l’inserimento dentro il progetto di
costruzione di una società di decrescita il tessuto locale e urbano può essere ricomposto.
A che cosa somiglierà la città decrescente ?
La città decrescente dovrebbe essere una città con una impronta ecologica ridotta, trattenendo un rapporto forte con
l’ecosistema (una bio-regione). Piuttosto di sognare la costruzione di città nuove, bisognerà imparare a abitare le
città in modo diverso, questo al Nord come al Sud.
La città consuma bassa entropia (energia, risorse, cibo, ecc.) e esporta massicciamente alta entropia
(rifiuti,inquinamento). Si tratta di un predatore ecologico che consuma una superficie “fantasma” molto superiore
alla sua superficie reale.
“Nelle città spagnole, per ogni metro quadro di superficie urbana, ci vogliono 60 metri quadri di superficie rurale,
di foresta o di prato, per permettere agli allevamenti di produrre i beni ed i servizi richiesti dalla grande città.
L'impronta ecologica della grande città continua a crescere. Da 50 anni, le città per crescere di 1 metro quadro
avevano bisogno solo di 25 metri quadri di campagna. Si è calcolato che con questo trend nel 2050 ci vorranno 500
metri quadri per ogni metro quadro urbanizzato. L' impronta ecologica del cittadino spagnolo rappresenta 4 volte
l'impronta ecologica sostenibile (6ha 395/1, 8)”10.
Più la città è estesa, “funzionale” (Le Corbusier), più questa impronta è forte. Quello che non si vuole dire è che
bisogna verticalizzare le città. Le torri sono dei divoratori di energia e non accrescono veramente la densità.
Bisogna sicuramente reinventare una città più “compatta”. L’habitat individuale, isolato, anche pensato
ecologicamente bene, è una eresia urbanistica, dal punto di vista della decrescita, perché ogni anno spariscono ettari
di terre agricole sotto l’asfalto ed il cemento. La costruzione raggruppata e l’alloggiamento collettivo dimostrano
una efficacia energetica più alta.
Invece delle megalopoli attuali, bisogna immaginare una città ecologica, fatta di villaggi urbani dove ciclisti e
pedoni utilizzano una energia rinnovabile. Nella città decrescente, gli abitanti ritroveranno così il piacere di
gironzolare, come sognavano Baudelaire o Walter Benjamin. Riapprendere ad abitare il mondo è quindi un
imperativo!
Si può pensare a organizzare delle bio regioni urbane. La bio regione urbana, costituita da un insieme complesso di
sistemi territoriali e locali dotati di una forte capacità di auto sostenibilità, mira a ridurre il consumo di energia e le
diseconomie esterne (o esternalità negative, cioè i danni provocati dall’attività di un soggetto che ne fa pagare i
costi alla collettività). Politicamente, una bio regione potrebbe essere concepita come una città di città, città di
municipi, municipio di municipi o forse una città di villaggi, in breve una rete policentrica o multipolare.11 Si
8
Philippe Grangereau, Avec ses ecovilles, la Chine joue aux échecs. Libération du 17 mai 2010.
Thierry Paquot, Terre urbaine. Cinq défis pour le devenir urbain de la planète, La découverte, Paris 2006 e Utopies et
utopistes. Repères, La découverte, Paris 2007
10
Eugenio Reyes in Taibo Carlos (dir), Decrecimientos. Sobre lo que hay que cambiar en la vida cotidiana. Catarata, Madrid, 2010, 10 p. 57.
11
Alberto Magnaghi, Dalla città metropolitana alla (bio)regione urbana, in Anna Marson (a cura di), Il progetto di
9
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Frontiere - Liceo Vallisneri - a.s. 2011/2012
potrebbe considerare un’area metropolitana come una articolazione di quartieri autonomi che funzionano come dei
comuni giustapposti, secondo la proposta di Murray Bookchin.
“La città, che da secoli ha funzionato secondo la formula del ‘luogo dove tutto si scambia’, scrive Yona
Friedman,diventerà un’arca di Noè destinata ad assicurare la sopravvivenza della specie nonostante il diluvio. Una
grande autonomia,una grande autarchia saranno dunque necessarie” (p. 161).
Questa autonomia comunque non significa ancora un’autarchia completa. Si potrà stimolare il commercio con le
regioni che avranno fatto la stessa scelta e avranno abbandonato il produttivismo.
Si ricercherà anche l’autonomia energetica locale: le energie rinnovabili sono adatte alle società
decentralizzate,senza grandi concentrazioni umane. Questa dispersione ha il vantaggio che ogni regione del mondo
possiede un potenziale naturale per sviluppare una o più filiere di energia rinnovabile.12
“Saremo noi un giorno capaci, si chiede Christophe Laurens, architetto e paesaggista, di abitare poeticamente le
torri degli uffici, gli stadi, gli incroci, i centri commerciali, le discariche e tutti i parchi d’attrazione, tutto ciò che
l’architetto olandese Rem Koolhaas chiama i junkspace?”.13 La risposta viene forse da Yona Friedman: “Per
trasformare il male in bene, dice Friedman, dovremo disfarci del condizionamento che abbiamo subito”.14 Si tratta
di abitare diversamente la stessa città. Pensare alla Paris (Parigi/scommessa) della decrescita.
In un primo tempo, la città decrescente, potrebbe essere la città attuale dalla quale sarebbero stati eliminati la
pubblicità, le macchine e la grande distribuzione e dove sarebbero stati introdotti i giardini condivisi, le piste
ciclabili, una gestione pubblica dei beni comuni (acqua, servizi di base) e anche la coabitazione e le “botteghe di
quartiere”. Una riconversione sarà necessaria ma anche una certa deindustrializzazione. Il risultato di questa
deindustrializzazione realizzata,grazie a degli attrezzi sofisticati ma conviviali, sarebbe la prova che si può produrre
altrimenti. Anche se la parte autoprodotta non è totale, essa è almeno importante.15
Nel suo bel libro, Manifesto per la felicita. Come passare dalla società del ben-avere a quella del benessere(Donzelli, 2010), Stefano Bartolini presenta così la città “relazionale” che corrisponde quasi esattamente al
progetto della decrescita: “La città relazionale è uno degli aspetti cruciali della mia proposta di assegnare ai
bambini una priorità ben maggiore di quella attuale perché essi sono il paradigma dello stretto legame tra spazio e
mobilità nel determinare l’esperienza relazionale. I bambini devono disporre di spazi pedonali di qualità vicino a
casa e della possibilità di arrivarci da soli.Gli elementi chiave di una città relazionale sono: l’auto privata deve
essere drasticamente limitata come misura strutturale, per fare in modo che tutti i cittadini usino i trasporti pubblici;
la densità di popolazione deve essere alta; ci devono essere molte piazze, parchi, isole pedonali di qualità, centri
sportivi ecc.; le aree pedonali ideali sono nei dintorni del mare, di un lago, un fiume, un ruscello, un canale; devono
attraversare la città in modo da formare una rete pedonale e ciclabile; ci devono essere il più possibile marciapiedi
spaziosi e piste ciclabili; ampi terreni di proprietà pubblica devono circondare la città, per costruirvi parchi e
case.16“
E per il Sud ? Bisogna partire dalla realtà. Due miliardi di persone vivono nelle baraccopoli (bidonvilles) o nelle
favelas autocostruite e non accederanno mai alla città produttivista. La visione di Yona Friedman dell’architettura e
del’urbanismo di sopravvivenza è certamente più realista per il Sud, e inoltre in coerenza con la città decrescente al
Nord.
La città povera è fatta di un insieme di bidonvillages. «Il bidonvillage, dice Friedman, è la società anarchica dei
poveri e non ha a che fare con una scelta ideologica o politica; questo tipo di società si è costituito semplicemente
perché l’esperienza ha provato che questo assicura al bidonvillage le migliori probabilità di sopravvivenza”17.
Finalmente, “La risposta dell’architettura di sopravvivenza ai problemi correnti sarebbe dunque: costruire meno,
ma imparare ad abitare in un altro modo; sfruttare meno i nostri campi, e in compenso imparare a rivedere i nostri
criteri di ‘commestibilità”; vivere nelle città in cui abitiamo, ma organizzarci con minori spostamenti e vivere
all’interno del nostro villaggio urbano, isolato dagli altri villaggi urbani, non più frequentati da noi perché
lontani”18.
In attesa dei cambiamenti necessari della governance mondiale e della salita al potere di governi nazionali intonati
all’obiezione di crescita, numerosi sono gli attori locali che hanno implicitamente o esplicitamente imboccato la
strada dell’utopia feconda della decrescita.
Se il progetto locale comporta evidenti limiti, non si deve sottovalutare le possibilità di fare dei passi avanti nella
politica a questo livello. Si può menzionare: la rete del nuovo municipio, la rete delle città lenti (slow cities), le
territorio nella città metropolitana, Alinea, Firenze 2006, pp. 69-112.
12
Y. Cochet, op. cit., p. 140.
13
Dans Entropia n° 8 Territoires de la décroissance, p. 145. “Le junkspace, c’est ce qui reste quand la modernisation est à bout de course,ou, plutôt ce qui se
coagule au fur à mesure qu’elle se fait.
14
Yona Friedman, op. cit. p. 140.
15
I.Gransted, op. cit, p. 70. A la fin de sa vie, André Gorz a développé des idées proches (voir son article dans le N° 2 d’Entropia, 1ersemestre 2007.
16
Stefano Bartolini, Manifesto per la felicità, Donzelli, 2010, p. 42.
17
Yona Friedman, op. cit, p. 109.
18
Ibid. p. 139.
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città in transizione (transition towns), le città post carbone, le numerose esperienze di città virtuose come
l’esperienza del comune di Mouans Sartoux sotto l’impulso del suo sindaco André Aschieri19, le esperienze di
Barjac20 e di Correns, tutte collegate con iniziative più piccole (i GAS, Amap ecc). `
Il movimento delle città in transizione (transition towns) è forse la forma di costruzione dal basso che si avvicina di
più a una società della decrescita. Queste città secondo la carta della rete ricercano l’autosufficienza energetica
nella prospettiva della fine delle energie fossili; più generalmente ricercano la resilienza. Questo concetto, preso in
prestito dalla fisica, passando attraverso l’ecologia scientifica, può essere definito come la capacità di un
ecosistema di resistere ai cambiamenti del sua ambiente21. Per esempio, come i grandi agglomerati urbani potranno
affrontare la fine del petrolio,l‘aumento della temperatura, e tutte le catastrofe prevedibili ? La risposta
dell’esperienza ecologica è che se la specializzazione consente di migliorare le performance in un campo, rende più
fragile la resilienza dell’insieme. La diversità, al contrario, rinforza la resistenza e le capacità di adattarsi.
Reintrodurre gli ortaggi, la policoltura, l’agricoltura di prossimità,piccole unità artigianali, moltiplicare le sorgenti
di energia rinnovabile, tutto questo rinforza di conseguenza la resilienza.
Conclusione: Per concludere, si possono riprendere due citazioni di architetti:Enrico Frigerio (in Slow
Architecture): «L’architetto esteta, creatore di forme, credo sia oggi quasi anacronistico»22.
Yona Friedman: «Dopo tutto, stiamo forse riscoprendo che assicurarsi la sopravvivenza può anche essere la
Festa»23. In sintesi, la città decrescente, primo passo verso una società di abbondanza frugale, preserverà l’ambiente
che è in ultima analisi la base di tutta la vita, aprirà a ciascuno un accesso più democratico all’economia, ridurrà la
disoccupazione,rafforzerà la partecipazione (e dunque l’integrazione) e anche la solidarietà, fortificherà la salute
dei cittadini grazie alla crescita della sobrietà e alla diminuzione dello stress. L’impatto sul paesaggio, anche se non
fosse l’oggetto di una politica specifica, sarà necessariamente positivo.
19
Riapertura controcorrente della stazione e del collegamento ferroviario, moltiplicazione delle aziende statali autonome per i beni comuni (acqua, trasporti,
ma anche pompe funebri), creazione di piste ciclabili, di spazi verdi, mantenimento dei contadini locali e di piccoli negozi, rifiuto della speculazione
immobiliare e dell’installazione dei supermercati. Tutto questo ha permesso di evitare una
periferizzazione della città, considerata inevitabile trent’anni fa, e ha ridato senso al vivere localmente. L’organizzazione di un festival annuale del libro che
coinvolge tutta la popolazione e la cui risonanza aumenta è un simbolo forte di questo rinnovamento.
20
Devenue célèbre par le film de Jean-Paul Jaud, Nos enfants nous accuseront. si vede come l’introduzione di prodotti bio nelle mense scolari , decisa da un
sindaco coraggioso e creativo , può poco a poco modificare in profondità tutta la vita di un paese
21
Rob Hopkins, The Transition handbook. From Oil Dependancy to Local Resilience, Green Books Ltd, 2008. Le mouvement des villes en transition né en
Irlande (Kinsale près de Cork) et s’épanouit en Angleterre (à Totnes). La résilience désigne la permanence qualitative du réseau d’interactions d’un
écosystème, ou, plus généralement, comme la capacité d’un système à absorber les perturbations et à se réorganiser en conservant essentiellement ses
fonctions, sa structure, son identité et ses retroactions.
22
Slow Architecture. Istruzioni per l’uso. Da Enrico Frigerio, Libria 2009.
23
Yona Friedman L’Architettura di sopravvivenza. Una filosofia della povertà. Bollati Boringhieri, 2009. P. 167.
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CONCLUSIONE...?
Allora intendiamoci non c’è nulla di male nella crescita.
Quello che invece preoccupa sono le modalità che caratterizzano il processo di crescita e la strada che ormai ci
obbliga a percorrere questo modello.
Legati alla crescita troviamo infatti concetti come salute e sviluppo; un organismo che non cresce è un organismo
malato e malnutrito. Ma è anche vero che un organismo deve crescere in modo completo e armonioso,la crescita
fisica deve essere equilibrata,costante armonica e si deve accompagnare ad una crescita intellettiva e affettiva in
maniera che vi sia una corrispondenza tra il nostro corpo e come il nostro Io si racconta al mondo. (In poche parole
chi ci crediamo di essere.)
I Greci avevano inventato un progetto di senso racchiuso nella kalokaiagatia:non si possono separare il bello e il
buono. Eccellenza consiste nell’apparire del bello attraverso l’essere virtuosi. Ove virtù racchiude la tensione delle
forze positive dell’individuo. E non c’è niente di negativo in noi o nel mondo: il problema è costituito dal controllo
e dal limite. Anche il timore è positivo purché non degeneri nella codardia. Così pure la generosità si colloca in
maniera equidistante dai due estremi dell’avidità e della prodigalità. Nel continuo lavoro di negoziazione del nostro
io con gli altri non si doveva perdere di vista la centralità dei valori impostati sulla reciprocità.
Ma per la verità era lontana una visione ragionieristica dell’esistenza anche perché il nostro essere relazionale non
si esauriva nell’ambito della sola ragione e del conseguente calcolo tra bisogni e benefici tanto che lo stesso Platone
poteva affermare che i più grandi doni all’umanità erano arrivati dagli dei sotto forma di follia. (La poesia, l’eros,
la conoscenza e la veggenza. Fedro)
Solo quando si superava il confine dell’osare, dello sperimentare il proprio essere uomo,quando le potenzialità
umane iniziavano a rovesciarsi nel loro opposto mostrando la faccia cattiva e distruttiva allora si poteva cadere nel
peccato di ybris. (Che poi sarebbe una specie di segnale di pericolo da parte degli Dei del tipo “ da qui in poi non
possiamo garantire in nessun modo per voi.”)
A livello di Palestra Ego potremmo dire che lo sviluppo fisico mostra delle potenzialità naturali finite oltre le quali
si giunge ad una esibizione muscolare sostenuta da anabolizzanti.
Forme che suscitano quell’attrazione un po’ morbosa che solitamente accordiamo a qualcosa di vagamente
mostruoso e raccapricciante (detto senza invidia s’intende).
Anche l’estensione del fare dell’individuo, quello che chiamiamo produzione,e che dà origine al mercato degli
scambi, conosceva dei limiti impliciti nell’essere .
Nei latini, medievali, addirittura negli uomini rinascimentali il controllo sull’avere permetteva l’espansione
dell’essere: l’amore,l’arte e la cultura,lo studio,il gioco,i tornei,la caccia,le danze hanno bisogno di tempo ed
energie che certo non sono da dedicare ai commerci.
L’idea era quella di accumulare passioni, esperienze,permettere alla vita di esprimersi in forme diverse e complete.
Avere cura insomma per tutto quello che dà senso ad una vita umana dove la curiosità (definita meraviglia da
Aristotele) guidava l’uomo e il sapere era tutto sommato gustare, assaporare le cose col palato e con l’intelletto
(Campanella).
Incontenibile costruttore di sogni, l’uomo non si è fatto mancare neanche la passione dell’infinito. Più volte sedotto
e qualche volta anche abbandonato l’uomo ha avvertito una vera e propria attrazione fatale da parte dell’infinito:
- dapprima si è scaldato i muscoli (intellettivi) in Grecia con - per esempio - Anassimandro, Anassagora ed
atomisti,
- si è poi commosso davanti ad un Dio infinito durante il Medio Evo,
- per poi tentare il volo nei cieli infiniti della rivoluzione astronomica (Bruno)
Infinito come grande sfida concettuale, lunga odissea della mente umana, l’Altro da noi, territorio delle negazioni:
senza fine, senza misura, senza limite (Cusano).
Finché ad un certo punto (COLPO DI SCENA) la inesauribile accumulazione delle passioni (sociali,umane,etiche,
politiche, estetiche, ecc.,) e l‘attrazione per l’infinito -sfida sempre aperta per intelligenze aperte, è stata sostituita
dalla inesauribile passione dell’accumulazione.
Procura brivido e adrenalina confrontarsi con un progressivo processo legato al possesso fine a se stesso, lo
smisurato fa breccia e si colloca dalla parte dell’avere, della conquista tramite acquisto. Quando è avvenuto e
perché?
Sarebbe bello sapere l’anno il giorno e l’ora. Non è possibile perché ovviamente si tratta di un processo lungo e
complesso ma sappiamo quali sono state le modalità. E se individuiamo le modalità possiamo ritornare alla storia e
cercare quando questa modalità hanno iniziato ad affermarsi. (Diciamo la verità, non è una procedura raffinata anzi
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può essere scolasticamente scorretta però può aiutarci lo stesso). E la modalità la descrive Marx che a sua volte
riprende Goethe.
“Eh,diavolo! Certamente mani e piedi, testa e sedere son tuoi! Ma tutto quel che io mi posso godere allegramente,
non è forse men mio? Se posso pagarmi sei stalloni, le loro forze non sono le mie? Io ci corro su, e sono
perfettamente a mio agio come se io avessi ventiquattro gambe”
(Goethe Faust ripreso da Marx in Manoscritti economico –filosofici del1844 Einaudi pag,152
Insomma: che mi importa di saper camminare quando posso comprare la forza dei cavalli che mi trasportano in
modo più veloce? Quello che io posso comprare sono io stesso. Sono brutto ma posso comprare la più bella delle
donne. Sono stupido ma il denaro è intelligente per me. Sono un essere finito ma posso moltiplicare all’infinito i
miei averi.
Così quando si inizia a scambiare moneta per tempo e forza lavoro (l’acquisto al posto della conquista) si compie
una mutazione genetica nel nostro rapporto con gli uomini e le cose. Le qualità umane si rovesciano in merce
acquistabile.
(A proposito potreste divertirvi a cercare questo passaggio-mutamento insieme ai vostri insegnanti.)
Tutto sommato potremmo anche accettare questa mutazione così come non ci si può opporre al processo evolutivo
che procede volenti o nolenti per conto suo.
Il problema si pone quando la crescita e il desiderio di possesso non lo provo più soltanto io ma si allarga anche
agli altri (ai Cinesi, agli Indiani, agli Africani, per es.).
Il desiderio di crescita diviene ossessivo, lo sfruttamento delle risorse aumenta in modo esponenziale ma gli stalloni
che abbiamo a disposizione,ormai stremati, stanno per finire.
Schematicamente, potremmo dire che per il futuro - ormai prossimo - ci sono tre prospettive:
A) Sviluppista: Non è vero nulla: i cavalli ci sono e sono infiniti (Economia classica). Dunque, posso andare
velocemente sempre dovunque.
B) Usiamo i pony: sono più piccoli e consumano meno (Sviluppo sostenibile). Arrivo dopo ma arrivo.
C) Ricostruiamo i nostri muscoli. (Decrescita) Perché devo correre dal momento che posso vivere bene qui?
Ognuno è libero di scegliere l’opzione per la propria vita. Qui presentiamo le diverse ipotesi, anche se un occhio di
riguardo - forse per pigrizia - lo avremo per l’opzione C.
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- Ricchezza ecologica, Manifestolibri, 2003.
- Metamorfosi di bios, 2003
- Un programma politico per la decrescita, 2008
- Scienza e ambiente. Un dialogo, Bollati Boringhieri, 1996.
- Tecnologie di armonia, Bollati Boringhieri, 1994.
- L’uso razionale dell’energia, 1997
- Decrescita e migrazioni, MDF Libelli, febbraio 2009
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- Shiva Vandana, Vacche sacre e mucche pazze. Il furto delle riserve alimentari globali, DeriveApprodi, 2004.
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impaginazione ferdinando passalia
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Frontiere - Liceo Vallisneri - a.s. 2011/2012
- INDICE -
Robert Kennedy, Il nostro benessere.............................................................................................
pg. 2
FRONTIERE ..................................................................................................................................
pg. 3
Presentazione del progetto Frontiere .............................................................................................
pg. 4
Qualche riflessione intorno all’idea di progresso...........................................................................
pg. 5
Intervista al Professor Remo Bodei ...............................................................................................
pg. 8
Bernard de Mandeville, La favola delle api..................................................................................
pg. 9
La mano invisibile. Adam Smith, La ricchezza delle nazioni .......................................................
pg. 13
L’ordine naturale di Mister Smith. Serge Latouche, L’invenzione dell’economia .......................
pg. 14
Sviluppo, crisi, rivoluzione. Marx e Engels, Il Manifesto del Partito comunista ..............................
pg. 16
Un’etica per la civiltà tecnologica. Hans Jonas, Il principio responsabilità.................................
pg. 18
La minaccia di sventura dell'ideale baconiano. Hans Jonas, Il principio responsabilità ..............
pg. 19
Critica dell’utopismo marxista. Hans Jonas, Il principio responsabilità ......................................
pg. 19
Intervista a Zygmunt Bauman.......................................................................................................
pg. 21
Lorenzo Sacconi, L’etica è causa o effetto della crescita economica? .........................................
pg. 22
Sviluppo, crisi, ristrutturazione. Schumpeter ...............................................................................
pg. 24
Sviluppo e libertà senza stato. Hayek............................................................................................
pg. 25
Sviluppo e libertà nello stato. Keynes ...........................................................................................
pg. 28
Karl Polanyi, Economia e democrazia ..........................................................................................
pg. 29
Intervista a Serge Latouche, La decrescita ai tempi della crisi ....................................................
pg. 32
Pier Paolo Pasolini, Sviluppo e progresso .....................................................................................
pg. 35
Il pensiero della decrescita a cura di Alberto Castagnola .............................................................
pg. 37
Marino Badiale e Massimo Bontempelli, Decrescita. Un progetto rivoluzionario ......................................
pg. 39
Guido Viale, Che cos'è la conversione ecologica..........................................................................
pg. 42
Serge Latouche, Manifesto del doposviluppo ...............................................................................
pg. 44
Paul R. Ehrlich e Anne H. Ehrlich, Per salvare il pianeta ..........................................................
pg. 48
Maurizio Pallante, Manifesto del Movimento per la Decrescita Felice........................................
pg. 52
Serge Latouche, Urbanismo ecocompatibile e decrescita ............................................................
pg. 54
Conclusione?..................................................................................................................................
pg. 59
Bibliografia e sitografia..................................................................................................................
pg. 61
Indice..............................................................................................................................................
pg. 64
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