Der Hauptmann - Funzione Pubblica Cgil

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Der Hauptmann - Funzione Pubblica Cgil
Caro Sandro,
nel tempo ho messo da parte qualche appunto sulla storia del ‘Capitano di Köpenick’, uno
sventurato che finì nella trappola prussiana di sicurezza e legalità (anno 1906). E' una vicenda che
mi piacerebbe descrivere per «Quale Stato».
La storia è questa: Friedrich Wilhelm Voigt, figlio di un calzolaio, finisce adolescente in galera per
un piccolo furto/truffa, deve abbandonare la scuola e l'apprendistato con il padre, esce, sopravvive
di espedienti, è di nuovo condannato, cumula condanne per quasi venti anni di reclusione. A 57
anni, finalmente libero, si stabilisce con la sorella e inizia il mestiere di calzolaio di condominio.
La polizia gli intima l'espulsione perché è persona pericolosa per la sicurezza. Dovrebbe
raggiungere il villaggio di nascita ma il "passaporto" di viaggio (tra gli Stati regionali della
Germania) gli è negato a causa dei precedenti giudiziari. E' espulso, ma non può allontanarsi.
Probabilmente per tentare una ennesima truffa (non è mai stato chiarito), acquista al mercato degli
stracci, pezzo a pezzo, una divisa da capitano dell'esercito. La indossa e scopre che l'abito
catalizza rispetto e timore, che la società guglielmina si apre in soggezione al suo passaggio.
Incontra una pattuglia di soldati, ordina che lo seguano al municipio di Köpenick, intima al sindaco
di predisporre un passaporto, ma in cassaforte non ci sono documenti in bianco. Allora "arresta" il
sindaco, che invia in caserma con i soldati, trattiene per sé il denaro della cassa e fugge. Il clamore
è tale che, forse per guadagnarci
qualcosa, Voigt si consegna spontaneamente. E' una storia di forme senza sostanza, di severità al
ribasso e riverenza con le gerarchie.
Hans Kelsen e Adolf Merkl citano l'episodio come modello di legalità formale. Cento anni non
fanno grande differenza.
In ogni caso, buon lavoro e un abbraccio.
Giampiero Golisano
11 luglio 2007
Contributi on line
(Bozza non corretta)
Giampiero Golisano*
IL CAPITANO DI KOPENIK
“I poveri, ci vuol poco a farli comparir birboni".1
1. Der Hauptmann von Köpenik
Friedrich Wilhelm Voigt, (1849-1922) aveva quattordici anni quando fu condannato a due
settimane di prigione per un piccolo furto. Espulso dalla scuola in seguito alla condanna, figlio di un
calzolaio e costretto a vivere di espedienti, Voigt finisce intrappolato nell'inflessibilità prussiana: tra
i quindici anni (1864) e i quarantadue (1891) colleziona un quarto di secolo di prigione per piccoli
reati.
Nel febbraio del 1906 è rilasciato dopo 15 anni di reclusione per furto aggravato. Wilhelm Voigt ha
adesso 57 anni, raggiunge la sorella a Berlino e cerca di lavorare come calzolaio da cortile, ma il
24 agosto 1906 la polizia lo espelle come indesiderabile e ‘persona pericolosa per la sicurezza e
moralità’. La foto segnaletica mostra un uomo con lo sguardo rassegnato, il capo coperto da una
bombetta nera, una giacca consumata e troppo grande che cade sulla maglia bianca di lana con i
bottoni davanti.
L'impero tedesco è formato di piccoli regni (Prussia, Bavaria, Würtemburg, Hanover) e principati
(Hesse Cassel, Baden) che obbligano a richiedere un permesso speciale per viaggiare dall'uno
all'altro, ma il documento (il passaporto imperiale) è negato a quanti sono stati detenuti.
Voigt è caduto in una aporia giuridica: è espulso da Berlino ma non può tornare a Tilsit, la città
(adesso Sovetsk, in Russia) dove è nato e di cui è cittadino; ha scontato la condanna, ma non è
libero. La comunità perbene pretende di averne completato la rieducazione, ma non lo emenda dal
passato. Il calzolaio diventa ciò che il diritto romano definiva un homo sacer, un reietto, nel suo
disgraziato caso una entità corporea sotto l’autorità della Legge, della Moralità, della Sicurezza e
tuttavia una eccezione alla norma.
La società tedesca lo respinge, negandogli un lavoro, eppure non gli consente di abbandonarla.
Voigt si trova nella zona morta della civiltà: né prigioniero, né libero; né protetto, né respinto. Non è
* Tecnologo di ricerca, specialista in Diritto del lavoro.
1
A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XXIV, Torino, (1995), Einaudi, p. 358.
2
indifferente osservare che questo meccanismo di scissione tra ente (astratto e immateriale) e
vivente (corporeo), tipico della religione, analizzato e descritto superbamente da Giorgio
Agamben2, si presenta spesso nella storia quando si tenta di assegnare alla persona umana il
ruolo di un oggetto sottoposto a un ordine di valori insindacabile (‘sicurezza nazionale’, ‘ordine
pubblico’, ‘decoro urbano’).
Voigt merita il sospetto borghese anche sotto un'altra prospettiva: egli appartiene a quella schiera
di artigiani, «[...] i ben noti intellettuali-operai e dissidenti, i calzolai»,3 nelle cui botteghe si
divulgano, si apprendono e si discutono i fondamenti del socialismo, idee non meno insidiose dei
piccoli crimini urbani.
Il 16 ottobre 1906, Voigt il calzolaio indossa una divisa da capitano che ha messo insieme
recuperandone le parti in differenti botteghe di abiti usati. Sale sul treno e scende nel sobborgo di
Köpenik, incrocia una squadra di granatieri guidata da un sergente, che invia al comando per
allontanarlo, ferma altri sei soldati e con due squadre ai suoi ordini occupa il municipio, dove
arresta il segretario comunale Rosenkranz e il borgomastro Langerhans, accusandoli di avere
alterato i registri contabili per appropriarsi del denaro pubblico. In un certo senso, ‘il capitano’
ritorce le armi del pregiudizio e del sospetto di cui è vittima contro il babau del perbenismo, la
classe politica, adulata, temuta e tuttavia disprezzata. Voigt ha in mente di prelevare un
passaporto imperiale ma il sobborgo di Köpenik è un municipio minore e nella cassa comunale c'è
solo una piccola somma di denaro. A Köpenik non c'è un ufficio passaporti. Il capitano Voigt ordina
alla pattuglia di scortare il segretario comunale e il borgomastro in caserma, preleva il denaro,
riprende i panni civili e si dilegua.
La beffa produce indignazione negli apparati della burocrazia e dell'esercito ed entusiasmo tra il
pubblico. I giornali vorrebbero conoscere chi sia il capitano’, i lettori si appassionano per la
canzonatura della classe militare, altro spauracchio simbolico della buona società, pronta all'uso e
intimamente disdegnata, come dimostreranno negli anni seguenti le schiere naziste. Si cerca il
capitano di Köpenik in tutta la Nazione. Voigt forse comprende di poter sfruttare l'evento, forse ha
paura che gli umori popolari mutino in suo danno, si presenta alla polizia e domanda un
passaporto in cambio della rappresentazione di se stesso, l'irregolare, ‘il reietto’ infine punito.
Il calzolaio è arrestato e condannato, ma non si vuole che divenga una allegoria permanente dei
guasti del corpo sociale, un martire per marxisti e socialisti radicali. Il ‘capitano’, un tempo galeotto
e prima ancora adolescente, piccolo apprendista calzolaio figlio di calzolaio è graziato ed ottiene
finalmente il passaporto purché se ne vada e renda libera la società guglielmina dalla sua
presenza.
2. La Legge e la Commedia
La vicenda del capitano di Köpenik ha costituito per i giuristi un paradigma della autoqualificazione
del materiale sociale. Hans Kelsen (1881-1973) chiarisce i termini della questione: «[Occorre]
distinguere il significato soggettivo da quello oggettivo di un atto. Il significato soggettivo può, ma
non deve coincidere col significato oggettivo che spetta a quest’atto nel sistema di tutti gli atti
giuridici, cioè nel sistema del diritto. Ciò che fece il celebre capitano von Koepenik era un atto che,
nel suo significato soggettivo, voleva essere un ordine amministrativo. Oggettivamente però non lo
era; era invece un delitto.»4
Eppure, il calzolaio Voigt trova il diritto esattamente nell'origine da cui esso è prodotto, norma
sociale o atto di forza. Ciò che minaccia il diritto appartiene già al diritto, al diritto del diritto,
all'origine del diritto.5
2
G. Agamben, Che cos’è un dispositivo?, Roma, (2006), Edizioni Nottetempo, pp. 15-28; G. Agamben, Homo sacer (Il
potere sovrano e la nuda vita), Torino, (1995), Einaudi, p. 21.
3
E. J. Hobsbawm, Gente che lavora (Storie di operai e contadini), Milano, (2001), Rizzoli, p. 60.
4
H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Torino, 2000, Einaudi (trad. R. Treves), p. 49. Sul tema della
componente soggettiva e della componente oggettiva del diritto: A. Merkl, Il duplice volto del diritto (Il sistema kelseniano
e altri saggi), a cura di C. Geraci, Milano, (1987), Giuffrè, pp. 99-128 (in particolare, per il capitano di Koepenik, p. 114).
5
J. Derrida, Forza di legge (Il "fondamento mistico dell'autorità"), a cura di F. Garritano, Torino, 2003, Bollati Boringhieri,
p. 101; L. Mengoni, Le aporie decostruttive del diritto secondo Jacques Derrida, in Rivista trimestrale di diritto e
procedura civile, 1999, 1 (marzo), pp. 353-359.
3
Il diritto è sempre una forza autorizzata, una forza che si giustifica o che è giustificata ad applicarsi,
anche se questa giustificazione può essere giudicata d'altra parte ingiusta o ingiustificabile. La
forza è implicata nel concetto stesso della giustizia come diritto, della giustizia in quanto diventa
diritto, della legge in quanto diritto.6 Non c'è legge senza applicabilità, e non c'è applicabilità della
legge senza forza, che questa forza sia diretta o no, fisica o simbolica, esterna o interna, brutale o
sottilmente discorsiva (vale a dire ermeneutica), coercitiva o regolativa. L'ordinanza del
borgomastro che vieta un mestiere girovago può essere inapplicabile e restare inapplicata tanto
quanto gli ordini amministrativi del capitano di Köpenik.
Jacques Derrida (1930-2004) scriveva: «Abbandonata a se stessa, l'idea incalcolabile e donatrice
della giustizia è sempre prossima al male, ovvero al peggio poiché il calcolo più perverso può
sempre riappropriarsene.»7 Le leggi non sono giuste in quanto leggi. Non si obbedisce loro perché
sono giuste, ma perché hanno autorità. Fra la giustizia e il diritto esiste una distinzione difficile e
instabile, da una parte la giustizia (infinita, incalcolabile, ribelle alla regola, estranea alla simmetria,
eterogenea ed eterotropica) e dall'altra parte l'esercizio della giustizia come diritto, legittimità o
legalità, dispositivo stabilizzabile, statutario e calcolabile, sistema di prescrizioni regolate e
codificate. Sarebbe ancora tutto semplice se questa distinzione fra giustizia e diritto fosse una vera
distinzione, una opposizione il cui funzionamento restasse logicamente regolato e controllabile. Ma
il diritto pretende di esercitarsi in nome della giustizia e la giustizia esige di prendere posto in un
diritto che deve essere messo in opera (costituito e applicato) con la forza.8
Il germe della disgregazione è spesso annidato nell'applicazione stessa delle norme, anche le più
rigide, in una interpretazione distorta dal condizionamento dei contesti culturali, economici, politici,
sociali o psicologici. Si tratta quindi di una frantumazione, per così dire, dall'interno.9
Alla minuziosa dissezione del materiale giuridico, che appassiona il giureconsulto, si affianca
spesso la rappresentazione dell'artista, che sa considerare i fatti della vita umana nella realtà
grottesca in cui sono immersi. Il capitano di Köpenick divenne anche la principale opera del
commediografo Carl Zuckmayer (Der Hauptmann von Köpenick, 1931), una amara satira della
burocrazia e del militarismo, che anticipò i temi della implosione ‘borghese’ nella ferocia nazista.10
Carl Zuckmayer (1896-1977), il figlio di un ricco industriale tedesco, fu vittima della bellicosa,
devastante ottusità che aveva preconizzato: nel 1938 emigrò in Svizzera, quindi negli Stati Uniti,
per tornare in patria solo dopo il crollo del nazismo e la conseguente scomparsa di tutto ciò intorno
a cui la buona società tedesca si era organizzata prima del conflitto, che era stato anche una
guerra interna della Germania contro una parte del suo stesso corpo sociale.
6
J. Derrida, Forza di legge (Il "fondamento mistico dell'autorità"), a cura di F. Garritano, Torino, 2003, Bollati Boringhieri,
p. 52.
7
J. Derrida, Forza di legge (Il "fondamento mistico dell'autorità"), a cura di F. Garritano, Torino, 2003, Bollati Boringhieri,
p. 83.
8
J. Derrida, Forza di legge (Il "fondamento mistico dell'autorità"), a cura di F. Garritano, Torino, 2003, Bollati Boringhieri,
pp. 48-85.
9
G. Rossi, Il gioco delle regole, Milano, (2006), Adelphi, p. 108.
10
In Italia, Il capitano di Köpenick di Carl Zuckmayer è andato in scena al Teatro Stabile di Trieste, nel 1973, per la regia
di Sandro Bolchi.
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