Allianz Bank Financial Advisors S.p.A. Metodologie utilizzate per la

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Allianz Bank Financial Advisors S.p.A. Metodologie utilizzate per la
Allianz Bank Financial Advisors S.p.A.
Metodologie utilizzate per la produzione delle raccomandazioni
INDICE
1. INTRODUZIONE ...................................................................................................... 3
2. PRINCIPI GENERALI............................................................................................... 3
3. METODI BASATI SUI FLUSSI................................................................................... 3
3.1. DCF UNLEVERED (FREE CASH FLOW TO FIRM - FCFF) ....................................................... 6
3.2. ECONOMIC VALUE ADDED (EVA) ................................................................................. 7
3.3. ADJUSTED PRESENT VALUE (APV) ............................................................................. 10
3.4. DCF LEVERED (FREE CASH FLOW TO EQUITY - FCFE) ...................................................... 12
3.5. EARNINGS METHOD (EM) ....................................................................................... 15
3.6. DIVIDEND DISCOUNT MODEL (DDM) .......................................................................... 16
4. METODI PATRIMONIALI ....................................................................................... 18
4.1. METODI PATRIMONIALI SEMPLICI ................................................................................ 20
4.2. METODI PATRIMONIALI COMPLESSI ............................................................................. 21
5. METODI BASATI SUI MULTIPLI ............................................................................ 23
5.1. SCELTA E CALCOLO DEI MULTIPLI................................................................................ 24
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1. Introduzione
Il presente documento riassume, in termini generali, le metodologie utilizzabili dagli
analisti finanziari del Servizio Research Department di Allianz Bank Financial Advisors
S.p.A. per valutare uno strumento finanziario o un emittente di strumenti finanziari o
per fissare un obiettivo di prezzo.
Il Servizio Research Department si riserva il diritto di modificare od ampliare il
presente documento in qualsiasi momento.
2. Principi generali
Le metodologie di valutazione aziendale utilizzate dal Servizio Research Department si
rifanno essenzialmente ai seguenti tre approcci:
1. metodi basati sui flussi (valutazioni assolute)
2. metodi patrimoniali (valutazioni assolute)
3. metodi basati sui multipli (valutazioni relative)
3. Metodi basati sui flussi
I metodi basati sui flussi forniscono valutazioni di tipo assoluto, che cioè prescindono
dai valori effettivamente espressi dal mercato per aziende simili a quella oggetto di
valutazione.
I metodi basati sui flussi determinano il valore delle attività attualizzando i flussi attesi
ad un determinato tasso. Alla base di questo approccio vi è l’idea che il valore di
un’azienda derivi dai risultati economici o finanziari che essa è in grado di generare.
In estrema sintesi i metodi basati sui flussi si fondando sul principio che la valutazione
di un investimento sia funzione della consistenza e della periodicità dei flussi di cassa
che esso genera, attribuendo al tempo il corretto valore finanziario. Questo principio
può essere espresso nei termini della semplice relazione tra Valore Attuale e Valore
Futuro secondo la quale:
Valore Futuro = Valore Attuale * (1 + Tasso di Rendimento)
oppure
Valore Attuale = Valore Futuro / (1 + Tasso di Rendimento)
L’applicazione di questa relazione come metodo di valutazione implica un passaggio
ulteriore, in quanto il tasso di rendimento, oltre a tenere conto del valore temporale
della moneta, dovrà anche incorporare un adeguato premio per il rischio legato al
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fatto che i flussi attesi sono incerti. L’impiego di questi metodi richiede dunque due
passaggi fondamentali:
1. una previsione dei flussi attesi
2. una stima appropriata del tasso di attualizzazione dei flussi
L’approccio basato sui flussi viene considerato quello più razionale, in quanto esso
rispetta tutti i principi di valutazione economica, secondo i quali il valore di un
investimento è legato alla capacità di generare flussi, alla distribuzione nel tempo dei
flussi attesi ed al grado di incertezza associato ai flussi medesimi. Conseguenza
pratica dell’applicazione di questi principi è che imprese che generano maggiori flussi
dovrebbero valere più di quelle che generano flussi minori, o che imprese che
crescono più velocemente dovrebbero valere più di quelle che crescono più
lentamente, oppure che imprese che presentano un grado di incertezza più basso sulle
attese dei flussi futuri dovrebbero valere più di quelle che presentano un grado di
incertezza più elevato.
Nei metodi basati sui flussi tutte queste relazioni sono esplicite, cosa che non accade
per i metodi basati sui multipli, in cui le relazioni sono implicite e spesso costringono a
ricorrere ad approssimativi aggiustamenti per rendere le aziende comparabili.
Infine, i metodi basati sui flussi sono i soli che consentono una effettiva, coerente ed
esplicita valutazione degli effetti di diversi scenari alternativi di rischio e di attese sui
flussi futuri.
I metodi basati sui flussi che vengono utilizzati dal Servizio Research Department di
Allianz Bank Financial Advisors S.p.A. sono i seguenti:
•
DCF Unlevered (Free Cash Flow to Firm - FCFF)
•
Economic Value Added (EVA)
•
Adjusted Present Value (APV)
•
DCF Levered (Free Cash Flow to Equity - FCFE)
•
Earnings Method (EM)
•
Dividend Discount Model (DDM)
Le prime quattro metodologie rappresentano gli standards generalmente adottati
come sistemi di valutazione. Queste determinano il medesimo risultato se vengono
mantenute certe ipotesi di coerenza, relative in particolare alla struttura finanziaria ed
a come questa si riflette sui diversi costi del capitale impiegati per attualizzare i flussi;
infatti l’evoluzione della struttura finanziaria dell’azienda ha effetti sul grado di rischio
e quindi sul tasso di remunerazione del capitale.
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I principali aspetti che riguardano la struttura implementativa dei modelli sono i
seguenti:
•
FCFF & EVA » Si ipotizza una struttura finanziaria fissa nella quale il
livello di indebitamento finanziario netto ogni anno risulta implicitamente
collegato al valore d’azienda;
•
APV
»
L’indebitamento
finanziario
netto
risulta
determinato
esogenamente e segue un andamento che è il risultato delle previsioni
esplicite dell’analista e viene determinato l’effettivo beneficio fiscale
legato agli oneri finanziari netti ed all’eventuale presenza di perdite
pregresse;
•
FCFE
»
L’indebitamento
finanziario
netto
risulta
determinato
esogenamente e segue un andamento che è il risultato delle previsioni
esplicite dell’analista; il costo dell’equity viene determinato ogni anno
sulla base della struttura finanziaria determinata dal rapporto
Indebitamento Finanziario Netto / Valore Residuo dell’Equity di quell’anno
calcolato come rapporto tra il valore contabile dell’indebitamento
finanziario netto ed il valore residuo implicito della valutazione;
•
DDM » La struttura finanziaria viene mantenuta fissa per tutti gli anni di
previsione esplicita.
La scelta di utilizzare diversi modelli di valutazione è finalizzata a dare la possibilità
all’analista di poter effettivamente scegliere il modello o i modelli che nelle specifiche
circostanze risultano più coerenti al contesto applicativo in cui ci troviamo.
Se ad esempio ci troviamo in una situazione in cui riteniamo attendibile che la
struttura finanziaria dell’azienda rimanga sostanzialmente stabile nel tempo o tenda
verso una struttura obiettivo, e che sia coerente che la capacità di indebitamento
dell’impresa sia legata all’evoluzione nel tempo del valore dell’impresa stessa, allora la
metodologia più adatta è quella classica del DCF Unlevered, con un Costo Medio
Ponderato del Capitale (Weighted Average Cost of Capital – WACC) costante che
consente di neutralizzare gli effetti della politica finanziaria dell’impresa, nel senso che
non sono necessarie previsioni esplicite sulla struttura finanziaria, intesa come
composizione del capitale investito in termini di indebitamento finanziario netto e
capitale proprio. Tutte le volte, invece, che si ritiene che l’evoluzione della politica
finanziaria dell’azienda possa giocare un ruolo importante nella determinazione del
suo valore, sia in termini di flussi attesi che di rischio, il modello che è più adatto a
cogliere valutazioni puntuali di questi aspetti è l’APV. Naturalmente l’applicazione di
questo modello richiede da parte dell’analista uno sforzo maggiore in termini di analisi
delle prospettive finanziarie dell’impresa, essendo necessaria una previsione esplicita
di quella che sarà l’evoluzione futura dell’indebitamento finanziario netto, fino ad
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arrivare a quantificare gli eventuali costi “nascosti” derivanti da un elevato livello di
leverage. I diversi modelli rispondono quindi ad esigenze diverse.
3.1. DCF Unlevered (Free Cash Flow to Firm - FCFF)
L’approccio del Free Cash Flow to Firm è quello di un Discounted Cash Flow Unlevered,
che consente di stimare il valore degli assets dell’impresa (Enterprise Value – EV)
come somma del valore attuale dei flussi di cassa disponibili di pertinenza dell’azienda
nel suo complesso, ovvero di tutti coloro che hanno apportato risorse finanziarie
all’azienda sia a titolo di capitale di rischio che di debito.
Il valore dell’Equity viene poi ottenuto per differenza tra il valore dell’Enterprise Value
ed il valore dell’Indebitamento Finanziario Netto. Il tasso di attualizzazione è pari al
WACC, che esprime il costo opportunità delle diverse forme di finanziamento a lungo
termine in proporzione del loro contributo al totale dell’EV.
Il Free Cash Flow to Firm rappresenta la differenza tra i flussi finanziari in entrata e
quelli in uscita generati dalla gestione operativa. Può essere altresì definito come il
flusso di cassa netto prodotto o assorbito dalle attività operative dell’impresa,
disponibile in quanto al netto dei fondi investiti per la crescita. Il valore dell’azienda in
un dato momento può essere dunque rappresentato dal valore attuale della
sommatoria dei FCFF generati dall’impresa nell’arco della sua vita, al netto dei debiti
finanziari in essere.
In termini più precisi e seguendo un approccio di tipo operativo, il FCFF è definito dalla
seguente espressione:
FCFFoperativo = Risultato Operativo + Ammortamenti – Variazione del Capitale Circolante Netto - Nuovi Investimenti
Il FCFF può tuttavia essere calcolato anche tramite un approccio di tipo finanziario nel
modo seguente:
FCFFfinanziario = Oneri Finanziari – Proventi Finanziari – Variazione Indebitamento + Dividendi + Aumenti di Capitale +
Variazione Liquidità e Disponibilità Finanziarie
Le due espressioni sono del tutto equivalenti e determinano esattamente lo stesso
risultato. La prima espressione evidenzia come il FCFF corrisponda al valore netto dei
flussi di cassa generati dall’azienda. La seconda, invece, evidenzia come il FCFF
corrisponda anche alla somma di tutte le transazioni monetarie tra l’azienda ed i suoi
investitori.
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Un’azienda che investe meno risorse di quante ne produce genera un FCFF positivo. Le
risorse in eccesso prodotte dall’attività operativa possono essere impiegate per pagare
interessi passivi, rimborsare debiti, distribuire dividendi, acquistare azioni proprie o
aumentare lo stock di disponibilità finanziarie. Un’azienda che investe più risorse di
quante ne genera determina un FCFF negativo. Questo flusso negativo deve essere
finanziato tramite un utilizzo delle disponibilità finanziarie, un aumento dei debiti o un
aumento del capitale proprio.
L’attualizzazione del FCFF al WACC implica che nel calcolo del valore attuale del flusso
di cassa operativo si sconti una remunerazione per tutti coloro che hanno apportato
capitali nell’azienda.
Il FCFF è il metodo tradizionalmente più utilizzato e conosciuto ed è anche per questo
motivo che quando si parla genericamente di metodo DCF si intende il FCFF o DCF
Unlevered. Uno dei principali vantaggi di questo metodo è che, essendo un modello
basato su una logica puramente finanziaria, consentente non solo di quantificare il
valore complessivo dell’iniziativa, ma anche di evidenziare quando si manifestano i
guadagni.
Uno dei limiti del FCFF consiste nel fatto che la creazione/distruzione del valore
dell’azienda viene evidenziata solo dal valore finale dell’azienda o del progetto di
investimento, mentre non è possibile verificare anno per anno quale sia il contributo
del singolo esercizio alla determinazione del valore finale.
Il FCFF risulta particolarmente adatto in situazioni in cui la struttura finanziaria
dell’azienda tende a rimanere abbastanza stabile nel tempo. Risulta invece poco
adatto in tutte quelle circostanze in cui si prevede che la struttura finanziaria rivestirà
un ruolo rilevante per la sua dimensione ed avrà un andamento particolarmente
variabile e difficilmente rappresentabile tramite un WACC costante; come ad esempio
nel caso in cui la politica di finanziamento non segua delle regole fisse ma venga
considerata come una variabile strategica stabilita in modo discrezionale dal
management a seconda degli obiettivi. In questi casi è preferibile utilizzare il metodo
dell’APV, che permette di valutare in modo più accurato gli effetti della struttura
finanziaria sul valore dell’azienda.
3.2. Economic Value Added (EVA)
Le tradizionali metodologie di valutazione derivate dall’approccio del DCF non riescono
ad evidenziare nel tempo quanto valore viene aggiunto al capitale inizialmente
investito. La misurazione del valore di un investimento tramite l’attualizzazione dei
flussi di cassa che l’investimento genererà nel futuro rappresenta un aggregato che
non è riconducibile con precisione ad un concetto di performance aziendale.
L’approccio dell’Economic Value Added (EVA) consente di valorizzare periodo per
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periodo la capacità dell’impresa di creare valore e al tempo stesso è uno strumento
per l’assunzione di decisioni di capital budgeting.
L’EVA è un indicatore di misurazione del valore creato da un’azienda e può essere
definito come il reddito che residua una volta che al Risultato Operativo al Netto delle
Tasse sia stato sottratto il Costo del Capitale Investito, ovvero dopo aver remunerato
a condizioni di mercato il capitale di debito e quello azionario. L’EVA evidenzia come
l’azienda crei nuovo effettivo maggior valore solo qualora sia in grado di produrre un
reddito operativo al netto delle tasse superiore ai costi necessari per ricompensare
tutti coloro che hanno apportato risorse finanziarie all’azienda, sia a titolo di capitale
di rischio che di debito. L’EVA è definito nel modo seguente:
EVA = NOPAT – WACC * Capitale Investito
Oppure alternativamente:
EVA = (ROCE – WACC) * Capitale Investito
Dove:
NOPAT = Net Operating Profit After Tax (Risultato Operativo al Netto delle Tasse)
ROCE = Return On Capital Employed (Tasso di Rendimento del Capitale Investito) =
NOPAT / Capitale Investito
Quindi l’EVA è quel profitto economico generato dopo aver remunerato in modo
sufficiente il capitale investito ovvero l’insieme di risorse fornite dai finanziatori sia a
titolo di debito che di capitale di rischio. In termini molto semplici potremmo dire che
l’EVA viene determinato sulla base di un conto economico che aggiunge agli oneri
finanziari il costo opportunità del capitale degli azionisti, in modo da considerare il
costo complessivo del capitale investito.
Il processo di determinazione del valore di un’azienda tramite l’EVA può essere
espresso come la somma del Capitale Investito e del valore che sarà creato da tale
capitale, ovvero il valore attuale degli EVA futuri attesi. Più in particolare, per
determinare il valore di un’azienda, occorrerà aggiungere al Capitale Investito Iniziale
la somma dei valori attuali degli EVA futuri, e sottrarre i debiti finanziari netti in
essere. Il valore ottenuto dovrebbe esprimere ciò che in un dato momento è racchiuso
nel capitale di un’azienda, pari alla somma del valore contabile del Capitale Investito
Iniziale più le prospettive attese di creazione di valore.
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L’approccio dell’EVA è stato sviluppato negli USA nel corso degli anni ottanta da Joel
Stern e Bennett Stewart (www.sternstewart.com). La metodologia viene denominata
spesso anche come Economic Profit Model.
Come rilevano Copeland, Koller, Murrin (2000) il concetto di EVA o Economic Profit
non è in realtà un concetto nuovo, e può essere fatto risalire ad Alfred Marshall
(1820), il quale sosteneva che il valore creato da un’impresa è legato a ciò che
residua dai profitti dopo aver detratto un interesse legato al costo opportunità del
capitale. Successivamente, con il contributo di Miller e Modigliani (1963) fu
evidenziato, tramite una formula di valutazione basata sul DCF, che le opportunità di
crescita di un’azienda sono legate proprio al fatto di avere un ritorno sul capitale
maggiore del costo del capitale.
Il metodo dell’EVA non costituisce neanche una nuova teoria di valutazione, in quanto
è in realtà una rivisitazione ed un adattamento del metodo DCF Unlevered. Il criterio
dell’EVA è perfettamente equivalente, in termini di risultati ottenuti, alla metodologia
del DCF Unlevered. Infatti, come facilmente dimostrabile, se vengono mantenute certe
ipotesi di coerenza, il valore ottenuto sommando il valore attuale degli EVA attesi al
Capitale Investito corrisponde al valore attuale della somma dei flussi di cassa attesi.
Ciò tuttavia non deve indurre a sottovalutare l’ingegnosità e l’originalità di questo
approccio, che, mantenendosi coerente con la logica del FCFF, riscostruisce un
meccanismo teorico in grado di evidenziare una misura di performance sintetica legata
non solo alla redditività aziendale, ma anche al grado di rischio aziendale, in assoluta
coerenza con i principi della teoria della finanza; a differenza di altre tradizionali
misure contabili quali ROI (Return On Investments), ROE (Return On Equity), EPS
(Earnings Per Share), che non sono in grado di trovare alcun tipo di collegamento con
l’andamento del valore delle azioni. Ciò non perché siano misure inadeguate a
determinare la redditività aziendale, ma perché sono misure che si limitano a
considerare solo l’aspetto contabile, che preso a sé stante non è sufficiente per
stabilire se un’azienda crea o meno valore per gli azionisti.
In quest’ottica risulta illusorio, oltre che sbagliato, considerare che una crescita
contabile corrisponda necessariamente ad una crescita in termini di valore. La realtà è
più complessa; in quanto qualsiasi misura di performance che si ponga l’obiettivo di
evidenziare la massimizzazione del valore per gli azionisti non può fare a meno di
incorporare un concetto di rischio. La metodologia dell’EVA, pur con i limiti ad essa
connaturati, rappresenta un importante passo avanti in questa direzione, ed ha il
merito di aver posto l’attenzione sui reali value drivers, in funzione dei quali il
management dovrebbe impostare delle decisioni aziendali volte a creare valore per gli
azionisti sulla base delle quali poter valutare anche il management stesso.
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Ai fini dell’applicazione pratica del metodo EVA vengono spesso utilizzate delle
semplificazioni. In particolare, quello che viene comunemente definito come modello
EVA semplificato è una variante dell’EVA che viene normalmente utilizzata nella
valutazione delle banche o delle assicurazioni. Poichè in questi due settori il concetto
di leva finanziaria perde di significato, il modello EVA semplificato consente di non
dovere fare riferimento al WACC ed all’indebitamento per individuare il valore creato,
permettendo di calcolare direttamente l’Economic Profit sottraendo all’Utile Netto il
costo relativo alla remunerazione del solo capitale di rischio. Sinteticamente,
l’applicazione del modello EVA semplificato si basa sulla seguente relazione:
EVA = Utile Netto – ke * Patrimonio Netto
Oppure alternativamente:
EVA = (ROE – ke) * Patrimonio Netto
Dove:
ke = Cost Of Equity (Tasso di Remunerazione richiesto dal Capitale di Rischio)
ROE = Return On Equity (Tasso di Rendimento del Capitale di Rischio) = Utile Netto /
Patrimonio Netto
La semplificazione consiste nel fatto che non è necessario calcolare il WACC, in quanto
l’Utile Netto già sconta la remunerazione del capitale di debito, per cui il calcolo
dell’EVA richiede in questo caso di determinare solo la remunerazione del capitale di
rischio (k).
3.3. Adjusted Present Value (APV)
Il metodo dell’APV prende spunto direttamente dalle implicazioni derivanti dal teorema
di Modigliani e Miller. L’azienda viene valutata scontando i flussi di cassa al costo del
capitale che l’azienda avrebbe in assenza di debito, ed aggiungendo poi a tale valore il
Tax Shield derivante dal livello di indebitamento dell’azienda.
Secondo tale metodo, quindi, l’Enterprise Value di un’azienda è pari al valore attuale
dei FCFF scontati al costo unlevered del capitale (Unlevered Cost of Capital – UCC),
ovvero il valore operativo dell’azienda, più il valore attuale degli scudi fiscali, ovvero il
valore derivante dalla leva finanziaria. Per determinare il valore dell’Equity occorrerà
poi sottrarre all’Enterprise Value i debiti ed aggiungere la liquidità. Sinteticamente:
Enterprise Value = Unlevered Enterprise Value + Tax Shield – Financial Distress & Covenants Costs
Equity Value = Enterprise Value – Net Debt
Il metodo dell’APV, separando il valore di un’azienda in due componenti, evidenzia il
ruolo svolto dal Tax Shield nel processo di creazione del valore.
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Nel DCF si considera il Tax Shield in modo implicito nel calcolo del WACC. E’ agevole
dimostrare che da un punto di vista teorico, mantenendo coerenti le ipotesi alla base
dell’applicazione delle due metodologie, si perviene al medesimo valore dell’azienda.
Nella realtà, tuttavia, le valutazioni ottenute con i due metodi possono dare risultati
diversi.
Infatti il DCF viene applicato di consuetudine utilizzando un WACC calcolato secondo
un approccio finanziario e mantenuto costante, ipotizzando una struttura finanziaria
fissa che implica un andamento del debito correlato al valore dell’azienda. In questo
caso, per ottenere il medesimo valore dell’azienda con l’APV è necessario che la
determinazione del Tax Shield avvenga ipotizzando una struttura finanziaria
altrettanto fissa. Ogni volta che per la determinazione del Tax Shield con l’APV si
ipotizza che l’evoluzione del debito non avvenga esattamente secondo la logica del
mantenimento di una struttura finanziaria fissa, si determinerà un valore dell’azienda
diverso da quello determinato con il DCF.
Vi sono tuttavia anche altri fattori che possono portare ad una valutazione differente
con i due metodi. In particolare l’utilizzo di un WACC costante, che incorpora in modo
implicito il Tax Shield nel costo del debito, comporta l’ipotesi che nel DCF il Tax Shield
sia sempre pienamente utilizzato, cioè che l’impresa sia in grado in ogni periodo di
dedurre gli interessi passivi dal reddito imponibile. E’ evidente che un’applicazione
rigorosa dell’APV che escluda questa ipotesi può determinare valutazioni differenti.
Analogamente, anche la presenza di una normativa fiscale che consenta di dedurre le
perdite di esercizio dalle imposte future determinerebbe uno sfasamento dei flussi tra
DCF e APV, con conseguenti effetti sul valore finale.
I vantaggi nell’uso del metodo dell’APV sono riassumibili nella sua capacità di riuscire
agevolmente, senza dover ricorrere ad assunzioni restrittive, a tener conto
dell’effettiva incidenza della struttura finanziaria del capitale nella valutazione
d’azienda, e nell’evidenziazione delle diverse componenti di valore dell’azienda,
distinguendo in particolar tra valore realizzato dall’attività operativa e valore derivante
dalla leva finanziaria.
Il metodo dell’APV risulta dal punto di vista dell’applicabilità pratica preferibile quando
la struttura del capitale varia sensibilmente nel corso del periodo dell’analisi, o qualora
il livello di indebitamento negli anni venga stabilito in modo indipendente dal valore
dell’azienda (ad esempio qualora si fissi un valore assoluto stabile di debito). Qualora
invece il livello di indebitamento sia stabilito in funzione del valore dell’azienda, risulta
più semplice e immediato applicare il metodo del DCF utilizzando un WACC costante.
Il problema nell’utilizzo dell’APV risiede invece nel fatto che il metodo necessita per la
sua applicazione del Costo del Capitale Unlevered, che non è direttamente osservabile
e richiede pertanto una sua stima in modo indiretto, che può essere soggetta ad
errori.
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Il metodo, inoltre, richiede la previsione esplicita del debito finanziario. Questo aspetto
risulta cruciale per una valutazione non distorta dell’azienda. Si richiede quindi
particolare attenzione da parte dell’analista nel ricostruire una struttura del capitale
credibile sia dal punto di vista dei fabbisogni finanziari futuri dell’azienda, che da
quello delle possibili scelte in tema di politica finanziaria che il management
dell’impresa può intraprendere; inoltre occorre tenere in considerazione gli effetti
derivanti dalla presenza di eventuali normative fiscali. Sarà compito dell’analista
raccogliere tutte le informazioni necessarie in merito a tali variabili per impostare un
corretto processo di valutazione.
In conclusione è possibile affermare che la metodologia dell’APV è sicuramente un
utile strumento di valutazione che può essere l’unica strada percorribile per una
valutazione non distorta delle aziende o dei progetti di investimento in tutti quei casi
in cui il debito gioca un ruolo particolarmente rilevante. Ad esempio può risultare
molto utile nelle operazioni di LBO (Leverage Buy Out), che sono in genere
caratterizzate da un elevato livello di indebitamento iniziale che segue poi un piano di
rimborso concordato con i finanziatori, o nelle operazioni di Project Financing, che
sono in genere regolate da piani predeterminati di rimborso dei debiti. Tuttavia,
rispetto alla classica metodologia DCF Unlevered, risulta di più complessa applicazione
e richiede la conoscenza di molte più informazioni, necessitando quindi di un lavoro e
di una cura da parte dell’analista certamente maggiori.
3.4. DCF Levered (Free Cash Flow to Equity - FCFE)
A differenza dell’approccio FCFF, dove il valore dell’Equity viene ottenuto per
differenza tra il valore dell’azienda, dato dall’attualizzazione dei FCFF, ed il valore del
debito finanziario e delle altre passività finanziarie, nell’approccio del Free Cash Flow
to Equity (FCFE) il valore dell’Equity viene ottenuto direttamente attualizzando i FCFE.
Infatti il FCFE è costituito dal flusso di cassa generato dall’azienda al netto di tutti i
costi operativi, delle tasse, degli investimenti, delle variazioni del capitale circolante,
degli interessi passivi e dei rimborsi del debito finanziario, e quindi rappresenta le
risorse finanziarie che genera l’azienda disponibili agli azionisti.
Il FCFE, pertanto, è uguale al FCFF al netto degli interessi sul debito e di rimborsi del
debito. E’ possibile quindi immaginare di determinare il FCFE sia da un punto di vista
operativo che finanziario.
Secondo l’approccio operativo vale la seguente relazione:
FCFE = FCFF + Interessi Attivi – Interessi Passivi + Variazione Debiti
Mentre secondo l’approccio finanziario risulta:
FCFE = Dividendi + Variazione Cassa non Operativa + Variazione Riserve – Variazione Capitale
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Da quanto detto risulta chiaro, quindi, che secondo questo approccio un rimborso del
debito riduce il FCFE, mentre l’erogazione di un nuovo finanziamento l’aumenta, ed un
aumento della liquidità non operativa è da considerarsi ugualmente come
incrementativa delle risorse finanziarie a disposizione degli azionisti.
Per la determinazione del valore dell’Equity è sufficiente sommare il valore attuale di
tutti i FCFE attesi; la liquidità dell’azienda non deve essere aggiunta in quanto il suo
valore attuale è già scontato nei FCFE.
Il tasso di attualizzazione dei FCFE è il costo dell’Equity. La procedura di calcolo del
costo dell’Equity deve prevedere un costo che varia ogni anno in funzione del rischio
finanziario dell’impresa, e deve essere determinato in funzione dell’effettiva struttura
finanziaria che ogni anno viene a crearsi. In pratica, per ogni anno di previsione
esplicita, è necessario determinare il rapporto Debt / Equity rapportando il valore
(contabile) dei debiti dell’anno al valore residuo dell’Equity, ovvero il valore
dell’azienda in quell’anno calcolato sulla base dei flussi di cassa previsti futuri. Una
volta determinato il rapporto di leverage e dato il costo del capitale unlevered (UCC),
il costo dell’Equity viene determinato sulla base della nota formula di Modigliani &
Miller:
ke = UCC + (UCC – ki) * D / E * (1 – Tax rate)
Dove:
Ki = Costo opportunità del capitale di debito
Il FCFE è il metodo di valutazione che richiede maggiori informazioni e previsioni da
parte dell’analista. Infatti, avendo in mente le variabili alla base del calcolo del FCFE
evidenziate in precedenza, risulta del tutto evidente che questo flusso ha una natura
ancora più residuale rispetto, ad esempio, al FCFF, in quanto nel calcolo del FCFE
rientrano anche tutti i flussi legati a variazioni dei debiti, del capitale, distribuzioni di
dividendi, ecc. Pertanto, ai fini di una corretta valutazione, sarebbe necessario che
l’analista fosse in grado di prevedere esplicitamente ed in modo corretto anche
l’andamento di tali variabili. Infatti, aumenti del debito, distribuzioni di dividendi e
contributi in conto capitale effettuati da soggetti terzi rispetto agli azionisti
determineranno effetti positivi sui FCFE; mentre aumenti di capitale e rimborsi di
debiti avranno un effetto negativo.
L’approccio FCFE, quindi, è consigliabile ogni qualvolta l’azienda sia interessata da
variazioni rilevanti nella struttura finanziaria o da operazioni di finanza straordinari, in
quanto il FCFE è la grandezza flusso in grado di catturare l’impatto di queste variazioni
sulla valutazione. Pertanto questo metodo risulta particolarmente adatto per valutare
casi di operazioni di buy-back, leverage buy-out, progetti con finanziamenti a fondo
perduto o sussidi pubblici in conto capitale, politiche di dividendi debt-financed ed
altre operazioni straordinarie sul capitale legate, ad esempio, ad M&A, joint ventures e
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project finance, o, inoltre, situazioni in cui l’azienda beneficia di consistenti proventi
finanziari derivanti dall’impiego della liquidità in eccesso.
E’ bene ribadire, tuttavia, che l’utilizzo del FCFE in questi casi è opportuno solo
qualora l’analista sia effettivamente in grado di prevedere con una certa precisione ed
in modo analitico tali operazioni ed i loro effetti sul rischio finanziario dell’azienda.
Diversamente, qualora ciò non sia possibile, l’utilizzo del FCFE non è consigliabile, in
quanto essendo i risultati fortemente condizionati dai flussi di cassa legati a variazioni
delle variabili finanziarie, errori nelle loro previsioni rischiano di inficiare sensibilmente
la valutazione. Si consideri, ad esempio, che previsioni di aumento dell’indebitamento
nel periodo di previsione esplicita determinano un aumento del FCFE e quindi un
effetto positivo sulla valutazione a meno che non sia prevista anche un’opportuna
correzione del grado di rischio o il rientro del debito nell’ambito del periodo di
previsione; inoltre, l’eventuale previsione di incremento del debito deve
necessariamente essere limitata da considerazioni circa la sostenibilità del leverage ed
il livello massimo di indebitamento raggiungibile dall’azienda.
Nei casi in cui l’analista non disponga di sufficienti informazioni e non sia in grado di
effettuare previsioni sufficientemente affidabili, può essere preferibile utilizzare altre
metodologie, quali il FCFF, che, adottando ipotesi implicite di neutralizzazione della
posizione finanziaria, consentono quanto meno di evitar eccessive distorsioni nella
valutazione, dovute ad errori da parte dell’analista nella previsione delle variabili
relative alla struttura del capitale.
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3.5. Earnings Method (EM)
Il presupposto su cui si basa l’Earnings Method (EM) o Metodo Reddituale è che il
valore di un’azienda dipenda dai risultati attesi, per cui la misurazione che risulta più
appropriata è il reddito piuttosto che i flussi di cassa, in quanto questo risultato finale
sintetizza l’intera gestione aziendale e rappresenta la grandezza flusso che misura
l’incremento di ricchezza generato dall’attività produttiva di cui l’azienda si appropria
in modo definitivo. Naturalmente, come noto, questa grandezza non misura la
disponibilità finanziaria del flusso, ma solo la sua competenza economica. Il metodo,
quindi, pone l’enfasi non sulle risorse finanziarie generate dall’azienda, ma sui risultati
economici contabilmente registrati.
Vale la pena ricordare che, come sostiene Massari (1998), i metodi reddituali analitici
tendono ad essere nei fatti dominati dai metodi finanziari, i quali, a parità di
informazioni necessarie, conducono a misurazioni maggiormente precise del valore del
capitale.
Il Metodo Reddituale, tuttavia, è un modello spesso applicato nella pratica valutativa
dell’Europa Continentale e viene utilizzato in tutti quei casi in cui si intende basare la
valutazione unicamente sul reddito netto dell’azienda. In questo sento, a differenza
del DDM, questo approccio non necessita di prevedere l’evoluzione della distribuzione
di dividendi, e quindi il pay-out aziendale.
Secondo il Metodo Reddituale il valore dell’Equity viene determinato dal valore attuale
del flusso di Reddito Normalizzato atteso, scontato al costo dell’Equity.
Il processo di normalizzazione del reddito è una delle fasi più rilevanti del Metodo
Reddituale e consiste nel rettificare il risultato netto di tutte quelle componenti di
reddito e di costo non pertinenti ai fini della valutazione in quanto:
•
straordinarie o non ripetibili, e quindi estranee alla gestione caratteristica
dell’azienda;
•
distorsive di una corretta rappresentazione dell’effettivo reddito generato
dall’azienda, generalmente legate alle politiche di ammortamento, di
accantonamento al fondo rischi, di valutazione delle rimanenze, al
trattamento di beni immateriali.
Il tasso di attualizzazione del reddito è dato dal Costo dell’Equity. Alla sommatoria dei
valori attuali degli Utili Netti di tutti gli anni di previsione esplicita, viene aggiunto un
valore terminale. L’Utile Netto Rettificato Terminale deve essere opportunamente
stimato dall’analista e rappresenta in genere il fattore che impatta maggiormente sulla
valutazione.
15
3.6. Dividend Discount Model (DDM)
Il Dividend Discount Model (DDM) è il primo modello di analisi fondamentale e
prospettica storicamente sviluppato, ed ipotizza che l’Intrinsic Value di un’azione sia
dato dalla somma del valore attuale dei dividendi attesi e dal valore attuale del prezzo
di cessione al termine del periodo considerato.
Se ipotizziamo un periodo di tempo pari all’anno, il rendimento atteso connesso alla
detenzione di un titolo azionario comprende i dividendi pagati nell’anno e l’incremento
di valore di mercato delle azioni (capital gain) alla fine dell’anno.
Il tasso di rendimento atteso per un dato periodo (r) può quindi essere calcolato ne
seguente modo:
r = (D1 + (P1 – P0)) / P0
Dove:
D1 = Dividendi attesi
P1 = Prezzo atteso alla fine del periodo
P0 = Prezzo all’inizio del periodo
Se supponiamo che un’azione abbia un Dividend per Share atteso di 4 euro, un prezzo
a inizio anno di 48 euro e un prezzo atteso alla fine dell’anno di 52 euro, il rendimento
atteso in tale periodo annuale (holding period) è:
r = (4 + (52 – 48)) / 48 = 16.7%
Il rendimento atteso può anche essere visto come la somma di Dividend Yield +
Capital Gains, ovvero:
r = (D1 / P0) + (P1 – P0) / P0
Analogamente, se si conoscono le previsioni degli investitori relativamente a dividendi
e prezzo attesi ed al tasso di rendimento offerto da azioni simili sotto il profilo del
rischio (ke), è possibile determinare l’Instrinsic Value corrente come:
V0 = (D1 + P1) / (1 + Ke)
Utilizzando il Capital Asset Pricing Model (CAPM) è noto che quando i prezzi di mercato
delle azioni sono ad un livello di equilibrio, il rendimento richiesto dagli azionisti (ke) è
collegato al rischio sistematico, ovvero al beta. Se l’azione è prezzata correttamente, il
tasso di rendimento atteso coinciderà con il tasso di rendimento richiesto. Se l’azione
è sottovalutata, il tasso di rendimento atteso sarà maggiore di quello richiesto.
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A questo punto è lecito domandarsi se risulta possibile determinare il prezzo futuro di
un’azione. Se la formula per determinare l’Intrinsic Value corrente è valida, dovrebbe
risultare valida anche per gli anni successivi. Quindi il livello del prezzo alla fine
dell’anno 1 può essere definito come:
V1 = (D2 + P2) / (1 + ke)
A questo punto se si assume che al primo anno l’azione verrà venduta al suo Intrinsic
Value, ovvero V1 = P1, è possibile definire V0 come:
V0 = D1 / (1 + ke) + (D2 + P2) / (1 + ke)2
Questa equazione rappresenta il valore attuale dei dividendi più il prezzo di vendita
per un periodo di due anni. Seguendo questa logica è possibile ottenere le stime dei
prezzi per n periodi futuri:
V0 = D1 / (1 + ke) + (D2 + P2) / (1 + ke)2 + .. + (Dn + Pn) / (1 + ke)n = ∑t = 1 ..n Dt / (1 + ke)t + (Pn) / (1 + ke)n
Questa espressione rappresenta il Dividend Discount Model (DDM) del prezzo di
un’azione.
Allungando l’orizzonte di valutazione, diminuisce il valore attuale del prezzo di
cessione, dato dal secondo addendo della precedente espressione. Per n che tende ad
infinito, il prezzo finale attualizzato tende a zero; semplificando, quindi, è possibile
esprimere il valore dell’azione senza considerare il prezzo di cessione, come:
∑t = 1 ..∞ Dt / (1 + ke)t
Si noti che la presenza dei soli dividendi nell’espressione non implica che il DDM non
consideri anche il capital gain come componente del valore di un titolo azionario.
Infatti, il valore del capital gain è dato dal prezzo atteso al quale l’azione potrà essere
venduta in futuro, che secondo il DDM dipende dalla stima dei dividendi attesi dal
momento in cui l’azione è venduta. Allungando l’orizzonte di valutazione, il valore
attuale del prezzo di cessione diminuisce; per un numero di anni che tende ad infinito
il prezzo finale si annulla (in un orizzonte di 50 anni l’incidenza del prezzo finale sulla
valutazione si riduce mediamente intorno al 10% ed in un orizzonte di 100 anni
scende a circa l’1%); ciò consente di esprimere il valore dell’azione senza considerare
il prezzo di cessione. In sintesi, il DDM asserisce che i prezzi delle azioni sono
determinati dai cash flows di pertinenza degli azionisti, che sono i dividendi.
L’applicazione del DDM richiede una stima della serie di dividendi attesi. L’ipotesi più
semplice è quella di assumere che i dividendi crescano ad un tasso costante g per un
periodo indefinito. Sulla base di questa ipotesi il DDM può essere espresso nel modo
seguente:
V0 = D0 * (1 + g) / (1 + ke) + D0 * (1 + g)2 / (1 + ke)2 + D0 * (1 + g)3 / (1 + ke)3 + ... + D0 * (1 + g)∞ / (1 + ke)∞
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Se ke>g l’espressione può essere semplificata in questo modo:
V0 = D0 * (1 + g) / (ke - g) = D1 / (ke - g)
Questa espressione definisce il cosiddetto Constant-Growth DDM, meglio noto come
Gordon Model.
Come si può facilmente dimostrare, il modello in questa forma risulta molto sensibile
alla differenza tra Ke e g; anche piccole variazioni possono determinare modifiche
rilevanti nel valore dell’azione.
Spesso la relazione di Gordon viene anche impiegata per determinare il rendimento
atteso implicito che sconta il mercato. Infatti, dati i dividendi attesi, il tasso di crescita
g ed il prezzo di mercato, è possibile determinare Ke come:
ke = D1 / P0 + g
Questa relazione evidenzia che il tasso di rendimento di mercato è pari al Dividend
Yield (D1/P0), più il tasso di crescita atteso dei dividendi (g).
La stima di g può essere ottenuta o ricorrendo ad un’analisi sulle prospettive
dell’impresa e del settore in cui opera, o facendo riferimento alla redditività
dell’impresa ed al tasso di ritenzione degli utili:
g = ROE * (1 – D / EPS)
Questa equazione indica che g dipende dal prodotto tra ROE e tasso di ritenzione degli
utili, ovvero la frazione degli utili reinvestiti nell’impresa. Il tasso di ritenzione degli
utili non è altro che il completamento ad uno del rapporto di payout (1-D/EPS).
Qualora risulti poco realistico ipotizzare che i dividendi crescano in perpetuo ad un
tasso costante, è possibile utilizzare modelli a due stadi che prevedano, ad esempio,
una fase iniziale di crescita sostenuta a cui segue un periodo di steady state
caratterizzato da dividendi costanti; oppure un modello a tre stadi, mediante il quale è
possibile suddividere l’evoluzione del tasso di crescita degli utili e del payout in tre
periodi, di cui, ad esempio, il primo caratterizzato da forte espansione, seguito da un
periodo di graduale transizione verso il periodo finale caratterizzato da una situazione
di steady state.
4. Metodi patrimoniali
I metodi patrimoniali forniscono anch’essi valutazioni di tipo assoluto, ma le analogie
con i metodi basati sui flussi si fermano qui.
In base al criterio patrimoniale, la valutazione del capitale economico d’azienda si
riferisce a quell’insieme di beni e diritti di pertinenza degli azionisti che viene
sinteticamente indicato con il termine Patrimonio.
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Esso fa dunque riferimento alle cosiddette grandezze fondo dell’impresa e non richiede
quindi previsioni in ordine al suo andamento futuro.
Proprio per questo motivo il criterio patrimoniale è comunemente considerato il più
semplice da applicare ed il più oggettivo nei risultati. La nostra opinione, tuttavia, è
che tale semplicità e tale oggettività siano più apparenti che reali. Un’applicazione
rigorosa del criterio patrimoniale, infatti, richiede tutta una serie di stime relative ad
elementi materiali ed immateriali, che vanno al di là dei dati di bilancio e che sono
tutt’altro che semplici e oggettive.
Inoltre, la presunta oggettività non deve essere confusa con la correttezza dei
risultati. Il criterio in questione, infatti, può risultare adeguato per valutare società con
una elevata intensità patrimoniale, come ad esempio le holding di partecipazioni, le
società immobiliari, le compagnie di assicurazione e le aziende di credito; lo è meno
quando si tratta di valutare altri tipi di società. Questo semplicemente perchè,
ponendo l’enfasi sul patrimonio, il suo utilizzo non avrebbe molto senso per valutare
imprese in cui il fattore umano e organizzativo hanno un peso notevolmente superiore
rispetto al fattore capitale (basti pensare, a titolo di esempio, alle SGR o alle agenzie
pubblicitarie).
La configurazione di Patrimonio più semplice da determinare è il Patrimonio Netto di
Bilancio; tale grandezza, tuttavia, non esprime una misura del patrimonio effettivo
della società, benchè l’introduzione degli IAS, con il principio del fair value, abbia
contribuito a ridurre le differenze tra Patrimonio Netto Contabile e Capitale Economico.
Il Patrimonio Netto di Bilancio rappresenta ancora un valore relativamente grezzo che
deve essere opportunamente rettificato per ottenere una grandezza utilizzabile a fini
valutativi.
Luigi Guatri (1984) distingue tre classi di metodi riconducibili al criterio patrimoniale,
caratterizzati dal fatto di accogliere differenti gruppi di beni nella valutazione
dell’attivo aziendale. Dunque Guatri distingue:
•
metodi patrimoniali semplici, i quali considerano i soli beni che appaiono in
bilancio, vale a dire tutti i beni materiali oltre a quei beni immateriali che le
norme di legge consentono di contabilizzare (concessioni e licenze, brevetti,
ecc.);
•
metodi patrimoniali complessi di primo grado, i quali considerano anche i beni
immateriali non contabilizzati, purchè dotati di un valore di mercato (le licenze
commerciali ad esempio);
•
metodi patrimoniali complessi di secondo grado, che, oltre ai precedenti,
considerano anche i beni immateriali non contabilizzati e non dotati di un valore
di mercato disgiunto rispetto all’azienda nel suo complesso (quale il portafoglio
premi di una compagnia di assicurazione).
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Questa classificazione può essere altresì considerata come un percorso logico che
deve essere seguito ai fini di una corretta valutazione patrimoniale. In effetti, a questo
scopo, il primo obiettivo deve essere rappresentato dalla stima del cosiddetto capitale
netto rettificato, effettuabile per mezzo del metodo patrimoniale semplice.
4.1. Metodi patrimoniali semplici
Il punto di partenza per le valutazioni patrimoniali è rappresentato da quel valore
relativamente grezzo che è il capitale netto contabile rilevabile direttamente dal
bilancio della società.
Il bilancio di esercizio rappresenta la fonte informativa più importante per l’analista,
tuttavia i dati da esso forniti devono essere sottoposti ad un’attenta analisi al fine di
ottenere valori reali, utilizzabili per considerazioni di natura economica e non
puramente tecnico-contabile.
Teoricamente il Capitale Netto Rettificato (Net Asset Value) si ottiene modificando il
Patrimonio Netto di Bilancio per:
•
sostituire al costo ammortizzato delle immobilizzazioni tecniche il valore
corrente loro attribuibile, considerando il loro costo di sostituzione ed il relativo
stato d’uso (rettifica che normalmente gli analisti esterni non sono in grado di
effettuare);
•
correggere il valore ammortizzato delle immobilizzazioni immateriali per tenere
conto di eventuali plus/minusvalenze (anche questa rettifica risulta di scarsa
realizzabilità per l’analista esterno);
•
sostituire al costo ammortizzato dei fabbricati civili il loro valore di mercato;
•
correggere il valore di carico delle immobilizzazioni finanziarie per tenere conto
di eventuali plus/minusvalenze;
•
correggere il valore dei fondi passivi che in realtà nascondono riserve occulte
oppure il cui ammontare non sia giudicato sufficiente per coprire i
corrispondenti rischi o spese future;
•
considerare l’effetto fiscale delle modificazioni sopra indicate; qualora, infatti, il
bilancio avesse riflesso i maggiori valori identificati, il relativo fondo imposte
avrebbe dovuto essere alimentato dai corrispondenti accantonamenti.
Le attività correnti, a seguito dell’applicazione degli IAS, non richiedono ulteriori
rettifiche, in quanto i valori contabili dovrebbero già riflettere il fair value di tali
assets.
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4.2. Metodi patrimoniali complessi
La valutazione patrimoniale del Capitale Economico di un’azienda non può limitarsi a
considerare solamente attività e passività che figurano in bilancio. Vi sono, infatti,
alcuni fattori di produzione che, pur essendo essenziali per la sopravvivenza e lo
sviluppo dell’impresa come unità economica capace di produrre redditi, non vengono
evidenziati in bilancio. Tali fattori di produzione sono assimilabili alla categoria dei beni
immateriali.
I beni immateriali non contabilizzati più comuni, relativi alle aziende industriali, sono: i
marchi ed i brevetti di produzione, l’immagine della società, il capitale umano, i
prodotti, la quota di mercato, la rete di vendita, le spese di ricerca. Per una
compagnia di assicurazione, un asset manager o un asset gatherer il bene immateriale
non contabilizzato per eccellenza è rappresentato dal valore del portafoglio vita o degli
asset under management.
L’assenza di tali poste dai bilanci delle società è facilmente spiegabile: le norme di
legge non ne consentono la capitalizzazione nei bilanci, oppure, pur essendo questa
ammessa, la particolare politica di bilancio seguita dall’impresa ha portato a spesarle
anzichè capitalizzarle.
Il problema, per l’analista, è senza dubbio di più facile soluzione qualora per il bene
immateriale da valutare siano disponibili delle stime espresse dal mercato. Non si
tratta comunque di un prezzo corrente per lo specifico bene da valutare (data la sua
unicità), bensì di informazioni relative a prezzi incassati o costi sostenuti per beni
simili a quello considerato. Si tratta dunque di un’applicazione analogica, in cui la
sensibilità dell’analista nell’accogliere e utilizzare tale genere di informazioni deve
essere tanto maggiore quanto minore è l’omogeneità tra il fattore di produzione
specifico da valutare ed i beni cui le indicazioni si riferiscono.
Qualora manchino valori di riferimento provenienti dal mercato, il problema diventa di
quasi impossibile soluzione per l’analista, in quanto, in un’ottica strettamente
patrimoniale, il criterio più adeguato per valutare i fattori in questione dovrebbe
essere la stima, a prezzi correnti, dei costi sostenuti in passato dall’azienda per dotarsi
di detti beni; valore che normalmente l’analista esterno non può essere in grado di
calcolare. Per fare un esempio, al fine di stimare il valore dell’immagine della società,
considerata quale la sua fame e l’insieme di opinioni positive suscitate attraverso la
pubblicità ed altri strumenti promozionali e di pubbliche relazioni, bisognerà fare
riferimento ai costi sostenuti per i vari mezzi adottati allo specifico scopo di diffondere
e migliorare l’immagine aziendale; si dovrà, in sostanza, capitalizzare tali costi e
rivalutarli per esprimerli a valori attuali.
Un secondo procedimento per la stima del valore di tali beni, le cui possibilità di
applicazione pratica risultano tuttavia ugualmente limitate, è quello di calcolarne il
costo di sostituzione o di riproduzione, vale a dire quanto costerebbe al momento
21
presente ricrearlo da zero. Ci si dovrebbe chiedere, per fare un esempio, quanto
costerebbe attualmente all’azienda realizzare daccapo una rete di vendita come quella
che già possiede, oppure addestrare il personale per ottenere i livelli di professionalità
e di specializzazione attualmente presenti in azienda.
Infine, un altro procedimento è quello di valutare il bene in base alla redditività attesa
da esso. Si potrebbe così stimare il valore di un brevetto di produzione, attualizzando i
flussi di utili futuri attesi strettamente collegabili con il brevetto stesso. Nell’ambito dei
comparti assicurativo e finanziario è proprio questo il procedimento che viene
utilizzato per la valutazione del portafoglio vita o degli asset under management.
Anche in questi casi l’analista esterno potrà effettuare solo stime piuttosto grossolane,
mentre solo un’analisi compiuta con l’utilizzo di informazioni aziendali riservate può
permettere di addivenire a stime più precise (un classico esempio è la valutazione del
Portafoglio Vita e dell’Embedded Value delle compagnie assicurative compiuta
annualmente dall’istituto specializzato Tillinghast). Tuttavia è evidente che, così
facendo, si sono già oltrepassati i confini delle valutazioni patrimoniali, in quanto la
logica sottostante è in questo caso quella basata sui flussi di reddito futuri.
In ogni caso, nel valutare i beni immateriali non contabilizzati, bisogna fare molta
attenzione ad evitare duplicazioni. In effetti, si tratta di condizioni produttive assai
meno oggettivamente definibili rispetto alle altre, con contenuti rilevanti di
complementarietà; così si presenta il rischio di valutare singolarmente fattori quali la
quota di mercato, la rete di vendita e l’immagine, non considerando che una parte
rilevante del valore attribuibile alla quota di mercato è spiegabile appunto in termini di
rete di vendita e di immagine aziendale, e che quindi, sommando i singoli valori, si
otterrebbe il risultato di valutare due o più volte lo stesso fattore, attribuendogli
semplicemente nomi diversi. Dunque, nel valutare tale categoria di beni, bisogna
sempre chiedersi se, e in che misura, il valore di ciascuno di essi non sia già contenuto
nel valore di qualche altro.
In conclusione, dall’analisi dei beni immateriali non contabilizzati, risulta ancor più
evidente quanto la presunta oggettività del criterio patrimoniale sia in verità più
apparente che reale. Per questo motivo l’utilizzo dei metodi patrimoniali risulta nella
pratica limitato alle valutazioni di società finanziarie (holding di partecipazioni,
compagnie di assicurazione, asset managers ed asset gatherers) o immobiliari,
mentre è del tutto assente nelle valutazioni di società industriali, per le quali risultano
senza dubbio più appropriate le metodologie basate sui flussi.
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5. Metodi basati sui multipli
I metodi basati sui multipli forniscono valutazioni di tipo relativo, che cioè hanno
l’obiettivo di determinare il valore dell’Equity di un’azienda o il valore di un titolo
azionario tramite l’utilizzo di valori medi dei prezzi di mercato di aziende simili a quella
oggetto di valutazione (PM); i prezzi vengono standardizzati rapportandoli ad un
particolare valore di bilancio, detto base (X), creando in tal modo i multipli.
Moltiplicando il multiplo di settore per la relativa base dell’azienda da valutare (Xa), si
ottiene il valore teorico dell’Equity o del singolo titolo (Pa) se la base è calcolata come
valore per azione.
PM / XM = Pa / Xa
Oppure alternativamente:
Pa = Xa * PM / XM
Pertanto il concetto alla base dei Metodi basati sui multipli può essere semplificato
nella seguente formula:
Valore dell’Equity = Moltiplicatore * Variabile Contabile Rappresentativa dell’Impresa
Con i metodi basati sui multipli il valore dell’azienda viene fatto derivare dal valore di
mercato di altra aziende a questa assimilabili. E’ un sistema di valutazione che ha
come obiettivo quello di fornire una stima del “prezzo probabile” dell’azienda sul
mercato (valore “estrinseco”) e non quello di stimare il valore “intrinseco”. L’idea,
sicuramente fondata, è quindi quella di basare la valutazione di un’azienda ricorrendo
direttamente al mercato per la stima delle prospettive di crescita e del rischio
dell’azienda stessa.
Le ipotesi implicite affinchè il metodo dei multipli fornisca una misura corretta del
valore di un’azienda sono:
•
presenza di un elevato grado di comparabilità tra l’azienda oggetto di
valutazione e il campione di aziende comparables, soprattutto in termini di
prospettive di crescita, ei redditività del capitale e di grado di rischiosità;
•
ipotesi che il valore dell’azienda vari in proporzione diretta con la variabile
contabile scelta come base, ovvero come parametro di performance;
•
il campione di aziende comparables è, in media, valutato correttamente dal
mercato.
Nella pratica è alquanto difficile che queste condizioni risultino verificate, il che porta a
concludere che l’applicazione di queste metodologie, nonostante la loro apparente
semplicità, richiedano molte precauzioni per ottenere valutazioni affidabili.
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5.1. Scelta e calcolo dei multipli
La scelta del tipo di multiplo da utilizzare è un’operazione particolarmente delicata e
rilevante che incide fortemente sul risultato finale, e deve essere effettuata di volta in
volta a seconda delle specifiche circostanze, in quanto non esistono regole precise e
consolidate al riguardo. Di seguito si riportano i multipli maggiormente utilizzati ed
alcune considerazioni di carattere generale come guida nella scelta dei multipli.
La scelta del multiplo deve essere finalizzata ad individuare quello che presenta
maggiore significatività; al riguardo possono valere le seguenti considerazioni:
•
scegliere il multiplo che presenta la base che ha maggiore rilevanza economica
in relazione alle caratteristiche del settore da analizzare;
•
scegliere il multiplo la cui base è meno soggetta a pratiche contabili e politiche
di gestione che possano renderla poco omogenea nel campione;
•
scegliere il multiplo che ha maggiore stabilità nel tempo;
•
scegliere il multiplo che presenta minore varianza tra le società comparables.
La corretta applicazione del metodo richiederebbe che il calcolo dei multipli aventi
come basi grandezze economiche riferibili ai soli azionisti (Multipli Levered) debbano
essere rapportate alla Capitalizzazione della società, mentre quelli aventi come basi
grandezze economiche riferibili all’intero capitale investito (Multipli Unlevered)
debbano essere rapportate all’Enterprise Value (EV), ovvero capitalizzazione più debiti
finanziari.
I principali Multipli Levered sono:
•
Dividend / Price (Dividend Yield)
•
Price / Earnings
•
Price / FCFE
•
Price / Book Value
•
Price / Sales
Mentre i principali Multipli Unlevered sono:
•
EV / NOPAT
•
EV / EBIT
•
EV / EBITDA
•
EV / FCFF
•
EV / Sales
24
Il calcolo dei Multipli Levered ed Unlevered avviene secondo i seguenti principi.
•
Calcolo dei Multipli Levered: avviene dividendo il Prezzo del titolo per la base
calcolata sulla singola azione; il calcolo del dato per azione deve essere
effettuato utilizzando il numero di azioni al netto di eventuali azioni proprie e
considerando tutte le categorie di azioni.
•
Calcolo dei Multipli Unlevered: avviene dividendo l’Enterprise Value per la base;
il calcolo dell’Enterprise Value avviene aggiungendo alla Capitalizzazione di
borsa, calcolata al netto delle azioni proprie ed opportunamente rettificata per
depurarla dallo sconto delle eventuali azioni di risparmio o privilegiate, il valore
di mercato del debito finanziario e di tutte le altre passività che contribuiscono a
finanziare il capitale investito dell’azienda, quali interessi di minoranza,
preference shares, warrants e diritti d’opzione, ecc.
I multipli possono essere distinti, in funzione del periodo a cui si riferisce la base, nelle
seguenti categorie.
•
Multipli Storici: si calcolano dividendo il Prezzo o l’Enterprise Value, avvalorati
a prezzi di fine anno o di chiusura di contabilità (o sulla base di una media dei
prezzi), per la base relativa al periodo storico preso come riferimento.
•
Multipli Trailing: si calcolano dividendo il Prezzo o l’Enterprise Value, avvalorati
a prezzi correnti, per la base ottenuta facendo riferimento ai risultati riferibili
alla stima per gli ultimi dodici mesi (media ponderata tra l’esercizio in corso ed
il precedente).
•
Multipli Leading (o Prospettici): ci calcolano dividendo il Prezzo o l’Enterprise
Value avvalorati a prezzi correnti per una base che fa riferimento a risultati
attesi nell’esercizio in corso o in un periodo futuro. Tra i Multipli Leading vi è la
sottocategoria dei Multipli Forward: si calcolano dividendo il Prezzo o
l’Enterprise Value, avvalorati a prezzi correnti, per la base ottenuta facendo
riferimento ai risultati riferibili alla stima per i successivi dodici mesi (media
ponderata tra l’esercizio in corso ed il successivo).
Esiste un problema di coerenza temporale tra la scelta della base e la scelta del
multiplo del campione di aziende utilizzato come riferimento. Ovvero, se ai fini della
valutazione si impiega una base che fa riferimento a dati correnti (ad esempio EPS
medio degli ultimi dodici mesi), in linea di principio sarebbe corretto impiegare un
multiplo trailing. Se invece la valutazione è ottenuta con una base che fa riferimento a
risultati attesi in futuro, bisognerebbe utilizzare un multiplo leading.
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