Al seguito degli dei felici

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Al seguito degli dei felici
Gianpietro Torresani
Al seguito degli dei felici
Lettura di un sarcofago di epoca
romana conservato a Baltimore,
nella Walters Art Gallery
OraSesta
Dedicato a mia madre il giorno del suo
novantaquattresimo compleanno.
Cremona, 20 settembre, 2014
In una data che non conosco, furono rinvenuti a Roma, nel sepolcreto
della famiglia dei Calpurni Pisoni, dieci importanti sarcofagi databili,
secondo gli esperti, tra la metà del II e il III secolo dell’era volgare.
Essi, o soltanto alcuni di essi, finirono all’estero, a Baltimore, comperati
ed esposti al pubblico dalla Walters Art Gallery.
Due studiosi se ne occuparono: K. Lehmann e E. C. Olsen, i quali nel
1942 pubblicarono su di essi un testo intitolato Dionysiac sarcofagi in
Baltimore.
Secondo Karl Kerényi, in un suo importante saggio dedicato a Dioniso
(1), per quanto molti dei sarcofagi presentino scene con la figura del
dio, non si può sostenere con fondatezza che la famiglia dei Calpurni
Pisoni rappresentasse, in Roma, una comunità cultuale dionisiaca e
dunque ci si troverebbe di fronte ad adesioni cultuali, nel migliore dei
casi, soltanto individuali; nel peggiore, a un fenomeno di moda, del
resto abbastanza scontato in una metropoli culturalmente assai
variegata come la Roma di quel tempo. Nel suo saggio, lo studioso ha
pubblicate le fotografie di due di codesti sarcofagi ed è appunto su
quella di uno di essi che ho svolta questa mia indagine.
La fotografia, nel testo italiano edito in Milano nel 1992, è contrassegnata dal numero 141 e porta la seguente didascalia: Dioniso e
Arianna a Nasso.
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La foto è piccola, misura cm. 13,5 per cm.7 ed è abbastanza nitida, ma
non tale da permettere una lettura chiara e incontrovertibile di tutti i
particolari.
A complicare ulteriormemte le cose, è intervenuto il tempo che ha resa
parzialmente mutila la lastra frontale del sarcofago: mancano infatti le
teste di due dei numerosi personaggi che la affollano e la cosa, almeno
per me, rende del tutto impossibile l’identificazione di uno di essi.
Sempre secondo il Kerényi, l’opera in questione apparterrebbe a uno
stile particolare: lo studioso lo definisce “barocco dionisiaco“ e rappresenterebbe, secondo lui, una forma di sincretismo tardo romano in cui
l’antica struttura attica della raffigurazione del mito di Dioniso sarebbe
stata decostruita e poi ricomposta in forme spurie, tali da far sospettare
che tanto l’autore dell’opera, quanto lo stesso committente non fossero
più in grado di intendere gli antichi misteri. Da qui, il sospetto già
riferito, che la famiglia dei Calpurni Pisoni non fosse una vera e
propria comunità cultuale dionisiaca, ma fosse attratta invece, più che
altro, da stimoli di natura antiquaria.
Si capisce che l’ipotesi è di importanza decisiva per intendere il significato dell’opera, ma la discuterò più avanti; per il momento ritengo
necessario descrivere il sarcofago in tutti i particolari che mi sono
accessibili.
La fotografia presenta del sarcofago soltanto la lastra frontale e la metà
anteriore del coperchio. Comincio con la prima.
LA LASTRA FRONTALE
I
La zona centrale
La lastra è affollatissima: 26 figure in tutto, compresi alcuni animali e
diversi oggetti.
All’estrema sinistra di chi guarda si trova inoltre la alquanto
sorprendente immagine di una lesena dotata di basamento e di
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capitello e sostenente l’accenno, solo l’accenno, di un arco ribassato che
nelle intenzioni dell’autore avrebbe dovuto, probabilmente, avere la
funzione di collocare l’intera scena della lastra all’interno di una specie
di portico. Un tentativo di spazializzazione che però non è stato
portato a conclusione, cosicchè le figure appaiono collocate prevalentemente in primo piano, fatte salve alcune teste occhieggianti alle loro
spalle ed emergenti dunque da un piano secondo appena suggerito.
La lesena porta al suo interno una delle immagini canoniche più
diffuse del tema dionisiaco: da un vaso collocato in basso cresce una
vertiginosa pianta di vite, colma di grappoli d’uva, sulla quale si
stanno arrampicando alcuni putti.
Nell’angolo superiore, formato dal capitello e dall’accenno dell’arco,
sta una zona piatta nella quale è raffigurato un animale, un
quadrupede, accovacciato che non riesco a identificare con sicurezza:
potrebbe trattarsi di un cerbiatto, un’altra immagine canonica del mito.
Al lato opposto, all’estrema destra di chi guarda, nessuna lesena e
nessun arco ribassato, cosicché non si può sapere se la lastra sia mutila
oppure continui con altre figure sul lato adiacente.
E veniamo ora alle figure dell’interno.
Al centro esatto della lastra si vede l’immagine di Dioniso. È in piedi,
mostrato con tutto il corpo pressoché nudo, fatta salva la spalla sinistra
coperta in parte dalla pelle di un animale che il dio tiene saldamente
sul fianco, afferrandola con la mano. È con evidenza la pelle slabbrata
di una zampa: sono visibili infatti alla sua estremità i rigonfiamenti dei
polpastrelli:
“Con pelle di cerbiatto come sacra veste.”
Euripide, Baccanti, 137
La figura del dio è lievemente inclinata verso la sinistra di chi guarda e
appare statica, con tutto il peso del corpo affidato alla gamba sinistra.
La destra invece è piegata e sopravanza l’altra come nell’atto di un
breve, ma illusorio, passo in avanti.
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L’aspetto complessivo del dio è virile, ma non pienamente tale. Confrontato con altri nudi d’uomo presenti nella lastra, appare un po’
femmineo nei fianchi leggermente pingui e nella muscolatura rilassata
e poco tonica.
È fallico, ma non itifallico. I testicoli e il pene floscio sono un po’ più
minuscoli del dovuto:
“...lo straniero dalle forme femminili...”
Euripide, Baccanti, 353.
I suoi capelli sono folti e ricciuti:
“Fragrante nelle chiome di riccioli biondi”
Euripide, Baccanti,235.
Il suo volto è disteso in un ampio sorriso gioioso:
“Vieni, o Bacco, con volto che ride”
Euripide, Baccanti,1020.
Il dio tende per intero il braccio destro e la mano abbandonandoli
mollemente sul braccio energico e vigoroso di Pan che gli sta accanto,
alla sua destra. È un gesto assai perspicuo e molto significativo: su di
esso sarà necessario tornare a riflettervi più avanti.
Accanto a Dioniso, non più nel centro esatto della lastra, ma leggermente spostata verso la destra di chi guarda, si vede una figura
chiaramente virile, ma acefala, la quale, con un gesto di sorprendente
confidenzialità, avvolge il suo braccio destro intorno al collo di
Dioniso.
Il braccio sinistro di questa figura, anch’esso parzialmente mutilo, è
piegato a toccarsi la sommità del capo, esprimendo con ciò uno stato
d’animo di felice abbandono al contatto fisico con il dio.
La posizione decentrata e l’inclinarsi del corpo verso quello dell’altro,
l’incrociarsi delle gambe in una esibita staticità, sottolineano l’importanza secondaria del personaggio, confermandone comunque la complementarietà: se Dioniso è il protagonista, costui è la sua spalla.
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Anche questa figura è mostrata nuda, un po’ meno dell’altra però,
perché una pelle di animale gli copre parte del ventre, passando poi
sulla spalla destra. Un drappo gli avvolge una coscia, lasciando però
pienamente visibile il sesso. È una mossa sicuramente intenzionale,
perché il sesso in questo caso, ha una particolarità del tutto sorprendente: i testicoli sono ben sviluppati, ma manca il pene. La figura è
afallica.
La pelle d’animale fa pensare si tratti di un cacciatore; la mancanza del
pene a una evirazione; la normalità dei testicoli a una piena virilità
precedente, confermata del resto dal gesto con cui egli abbraccia il collo
di Dioniso, gesto tipicamente maschile, di possesso.
Tutto fa pensare si tratti di Adone, evirato dal cinghiale di Ares
durante un’avventura di caccia.
Dioniso e Adone furono, secondo il mito, amanti (2).
L’atteggiamento dei due lascia intendere che tra i due ci sia una
amicizia intensa, del tipo che oggi chiameremmo “particolare”. È da
notare però che non si può parlare di omosessualità, ma solo, semmai,
di omoerotismo: se Dioniso è femmineo, l’altro è evirato, il che esclude
la possibilità di un rapporto sessuale.
C’è in Dioniso, secondo i racconti mitologici che lo riguardano, un
totale distacco dalla sessualità: egli non vuole che il desiderio dei suoi
invasati giunga a compimento. Il culto del dio prescriveva la castità:
“... purificato ebbi il nome di Bacchos.
E indossando vesti bianchissime fuggo
la nascita dei mortali...”
Euripide, Cretesi, fr. 3
“E costoro sono i primi ad aver prescritto come norma
religiosa il divieto di congiungersi sessualmente con donne
nei luoghi sacri...”
Erodoto, 2, 64.
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“lo straniero dalle forme femminili, che porta una nuova
malattia tra le donne e oltraggia i matrimoni.”
Euripide, Baccanti, 353-354.
II
La metà di sinistra
Occorre ora spostare lo sguardo ai lati della scena centrale e visitiamo
dunque la parte sinistra della lastra centrale.
Qui è raffigurato un affollato e variegato corteo di Dioniso, un tìaso per
la verità del tutto canonico, una sorta di processione cultuale, con la
particolarità però che qui le discrepanze con le corrispondenti antiche
raffigurazioni attiche si fanno oltremodo evidenti.
All’estrema sinistra, accanto alla parasta e sotto l’arco ribassato, stanno
ritte in piedi due figure maschili quasi del tutto nude, fatta salva la
spalla di uno dei due, appena coperta dalla pelle di un animale
scuoiato: se ne vede chiaramente la lunga coda pendere tra le sue
gambe.
Questi due giovani uomini hanno entrambi folte e ispide capigliature
che continuano in corte barbe sul mento. Il loro aspetto è questa volta
inequivocabilmente virile, visibile chiaramente non solo nel sesso, ma
anche nella muscolatura robusta e tesa. Sono fallici, ma anch’essi non
itifallici.
Quello sulla destra impugna uno strumento musicale fatto di brevi
canne legate fra loro, un flauto rudimentale, una siringa di Pan,
strumento tipico dei pastori. Va notato però che nelle raffigurazioni
dionisiache più antiche del tìaso, il flauto non è usato dagli uomini, ma
dalle donne, le menadi invasate dal dio:
“quando il sacro flauto melodioso
mormora lamentoso sacri giuochi, in accordo
con le vaganti follemente di montagna in montagna”
Euripide, Baccanti, 160-164.
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Le due figure sono colte, è una sorpresa, mentre discorrono fra loro,
completamente distratte da quanto si svolge attorno ad esse: due attori
indisciplinati sul palcoscenico di una rappresentazione venuta a noia,
assai diversi dai satiri antichi raffigurati nell’atto di danzare freneticamente al suono dei flauti suonati dalle menadi.
Un particolare attira con prepotenza l’attenzione di chi guarda: il
giovane in secondo piano, quello che sta alle spalle dell’altro, impugna
con la destra qualcosa; si direbbero due lunghi tralci di vite, spogliati
delle foglie, con i quali egli lega a se stesso il braccio sinistro dell’altro.
Difficile interpretare il gesto: è una sorta di comunione dionisiaca
espressa attraverso la vite? È l’allusione all’abbraccio delle due figure
centrali? Oppure un segnale di intimità omoerotica? Non so scegliere.
Subito dopo queste due figure, procedendo nella ricognizione verso il
centro, si nota in secondo piano il busto di una donna che si tocca la
fronte con le dita, in un gesto di stanchezza stordita: è l’unica, tra tutte
le compassate figure di sinistra, a esprimere fisicamente una emozione.
Si tratta però di un particolare di poco conto, perché è soltanto un
riempitivo: l’autore era, con tutta evidenza, afflitto da un inguaribile
“horror vacui”che lo costringeva a non lasciare spazi vuoti.
Ed ecco ora due figure femminili occupare con la loro figura intera un
bel pezzo del primo piano.
Sono due distinte giovani signore romane che per la recita in corso
hanno indossate, lunghe fino ai piedi, pesanti vesti fatte con pelli di
animali scuoiati; la vita è alta, segnata da una cintura dello stesso
materiale e non manca il vezzoso particolare della testolina d’animale,
priva di mandibola, occhieggiante sulla coscia d’una di esse, la stessa
che impugna il tirso, un’asta con una pigna infilata sull’estremità:
“E prendendo il tirso, una baccante percuote una roccia,
onde sgorga una rugiadosa fonte di acqua...
Euripide, Baccanti, 704-705.
Entrambe hanno i piedi prudentemente calzati, uniche tra tutti i
personaggi della lastra, ed interpretano la loro parte, che dovrebbe
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essere di menadi sfrenatamente folli, con sovrano ed elegante distacco.
Subito dopo le due signore, emerge dal secondo piano, come il solito
riempitivo, un mezzo busto maschile, senza storia però questa volta.
Ma poi ecco balzare dentro la scena la vera sorpresa di tutta quanta la
lastra, quella che alla fine potrebbe essere in grado di fornirci la chiave
per intendere il significato dell’intera composizione: il dio Pan in
persona.
Si sa che negli antichi testi dionisiaci pervenuti fino a noi non c’è
traccia della presenza di questa divinità nelle cerimonie cultuali,
benché si sappia invece da altre fonti che della sua nascita tutti gli dei
si rallegrarono, ma ne fu proprio Dioniso il più felice. C’era dunque un
legame tra i due.
Minuscolo di statura, agile e leggero, si è infilato, stando a mezz’aria,
tra una delle due nobili dame di prima e la solida corporatura di un
terzo cacciatore misterioso, intento ad osservare qualcosa che tiene
stretto tra le dita di una mano.
Pan possiede le regolari corna caprine, l’altrettanto regolare barbetta
da capro, le zampe pelose e il piede ungulato e fessurato. È fallico e,
questa volta, a differenza di tutti quanti gli altri personaggi maschili
della lastra, è itifallico: il pene è eretto, come si addice appunto alla sua
natura di stupratore di ninfe.
L’aspetto sorprendente però della sua figura è un altro: Pan è l’unico
personaggio della parte sinistra della lastra che si occupi direttamente
di Dioniso; col suo braccio destro sostiene infatti saldamente la mano e
il braccio che Dioniso gli sta mollemente abbandonando.
Pan, in tal modo, assume all’interno dell’opera un’importanza fondamentale: la sua presenza e i suoi gesti sono in grado di conferire al
tutto un significato preciso che il suo autore o il committente volevano
apparisse. Ma anche di ciò, più avanti.
Di questa parte della lastra non resta ora che esaminare la zona
inferiore.
Due personaggi sono in evidenza: un vecchio e un bambino. Il vecchio
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è curvo, parzialmente calvo, ma dotato di una lunga barba fluente; indossa un ampio mantello di stoffa (non è, e non è stato, palesemente un
cacciatore) e si appoggia con gesto greve a un rustico bastone. Col
braccio destro sostiene quello sinistro di un fanciullino nudo che gli sta
davanti. Il piccolo porta a tracolla una corona di fiori. Ma il gesto delle
due braccia ripete quello, identico, tra Pan e Dioniso raffigurato in alto,
sopra di essi.
Non mi è del tutto chiaro il significato della presenza di questi due, ma
è noto che alle cerimonie cultuali di Dioniso potevano partecipare persone di ogni età. Il gesto poi potrebbe indicare una sorta di invito del
vecchio al piccolo, perché acceda senza timore ai misteri che egli ben
conosce.
Per finire, uno sguardo al limite inferiore della scena.
Qui troviamo un piccolo assortimento di simboli dionisiaci: un serpente attorcigliato, una maschera da teatro, un capro e, infine, una pantera.
Per la serpe, è ancora Euripide, Baccanti, 99-104, la fonte scritta, mentre
sono assai numerose le fonti vascolari antiche:
“E Zeus generò – quando le Moire
lo concessero – il dio dalle corna di toro,
e lo incoronò con corone di serpenti:
perciò le menadi si pongono
attorno alle chiome la preda
che si nutre di bestie.”
Sempre Euripide, in Baccanti 135-140, scrive a proposito del capro:
“Lui è dolce, quando cade a terra tra le schiere
che corrono tumultuanti,
con pelle di cerbiatto come sacra veste,
assetato
del sangue di un capro ucciso,
afferrando la gioia di
carne vivente
divorata, affrettandosi verso i monti della Frigia, della Lidia...”
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Sulla maschera, mentre ancora le fonti vascolari, che non posso
riprodurre, sono numerose, non ho trovato fonti scritte antiche. Non
posso fare altro che accettare l’interpretazione che ne dà Giorgio Colli,
per il quale la maschera, simbolo legato intrinsecamente al culto di
Dioniso, significava l’infrazione del principium individuationis, il quale
viceversa era illustrato da Apollo. Del resto, la maschera veniva indossata dagli attori di teatro ed era in grado di occultare completamente
l’individualità dell’attore: l’interprete si annullava completamente a
favore del testo teatrale. Oggi l’attore non indossa più una maschera di
legno, ma diventa egli stesso una maschera, attuando in quel momento
una trasformazione dionisiaca di se stesso: ”Non è mostruoso che
quest’attore qui, solo in una finzione, in una passione immaginaria, possa
forzare la sua anima così al suo proprio concetto che per opera di quella tutto il
suo volto impallidisca; lagrime ne’ suoi occhi, smarrimento nel suo aspetto,
una rotta voce, e tutto il suo contegno rispondente nei modi al suo concetto?“
(Shakespeare, Amleto, atto II, scena II).
Lo stesso devo fare per la pantera, per la quale vale forse la pena di
citare il capitolo primo, verso la fine, della Nascita della tragedia di
Nietzsche: “Sotto l’incantesimo del dionisiaco non solo si restringe il legame
fra uomo e uomo, ma anche la natura estraniata, ostile o soggiogata celebra di
nuovo la sua festa di riconciliazione col suo figlio perduto, l’uomo. La terra
offre spontaneamente i suoi doni, e gli animali feroci delle terre rocciose e
desertiche si avvicinano pacificamente. Il carro di Dioniso è tutto coperto di
fiori e di ghirlande: sotto il suo giogo si avanzano la pantera e la tigre”.
Si conclude così l’esame della parte sinistra della lastra ed è tempo di
passare a quella di destra.
III
La metà di destra e il coperchio del sarcofago
La metà di destra del sarcofago è quella di più dificile lettura: delle
dieci figure presenti in essa, solo tre sono chiaramente e inequivo-
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cabilmente leggibili; per le restanti sette non posso che avanzare
congetture.
Paradossalmente però, il significato complessivo di questa metà è
sicuro: vi si raffigura la morte di Arianna.
“Chi sa… cosa è Arianna?”si domandava già Nietzsche, e ciò rende
conto della difficoltà che si incontra nel parlare di questo personaggio.
Gli antichi racconti mitologici si frammentano in numerose versioni
diverse, spesso contraddittorie, e le interpretazioni degli studiosi vi
hanno aggiunto ulteriori complicazioni, rendendo il tutto un groviglio
inestricabile.
Ho la necessità di scegliere per semplificare, consapevole di impoverire, anche di molto, il significato del personaggio.
Arianna dunque, secondo i racconti che la riguardavano, era figlia di
Minosse, re di Creta, e di sua moglie Pasifae. Era anche, in qualche
modo, sorella del Minotauro, perché sua madre aveva concepito
quest’ultimo accoppiandosi con un toro, mediante il famoso stratagemma ideato per lei da Dedalo. Il Minotauro venne rinchiuso nel
Labirinto e Arianna ebbe il soprannome di “Signora del Labirinto”.
Secondo alcune versioni del mito, il Minotauro era lo stesso Dioniso:
Euripide, nei versi 99-100 delle Baccanti scrive infatti, lo si è citato
sopra, che Zeus, quando le Moire lo concessero, generò il dio dalle
corna di toro.
Quando Teseo entrò nel Labirinto per uccidere il Minotauro, fu aiutato
nell’impresa da Arianna con la famosa faccenda del filo. Ella poi fuggì
da Creta insieme con Teseo e fu da costui crudelmente abbandonata
nell’isola di Nasso, mentre dormiva.
Nel seguito dei racconti mitologici, a questo punto gli avvenimenti
divergono: secondo Diodoro Siculo (V, 51, 4) Dioniso apparve a Teseo
in sogno, lo scacciò con minacce, e nella notte condusse Arianna sul
monte. Là scomparvero, egli per primo, poi anche Arianna.
Secondo Omero invece (Odissea, XI, 321-325) Dioniso punì con la morte
la sorella assassina, facendosi aiutare in questo da Artemide da lui
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invocata, perché riparasse con una delle sue frecce mortali il torto che
egli aveva subìto. Secondo Omero questo non accadde a Nasso, ma
nella piccola isola di Dia, poco lontano da Creta.
“In Dia coronata dal mare, per le accuse di Dioniso”
È fondamentale comunque, per il nostro sarcofago, ricordare che
Arianna fu assunta in cielo e ottenne dal dio la corona che riluce tra le
stelle come “corona di Arianna“, la corona borealis: una vera apoteosi
finale per una donna mortale.
Tornando all’opera che stiamo esaminando, Arianna vi è raffigurata
morta o soltanto dormiente? Si trova sull’isola di Nasso o su quella di
Dia?
Secondo Karl Kerényi, nell’opera citata all’inizio, si tratterebbe di
Nasso e Arianna sarebbe dunque solo dormiente: la didascalia del
sarcofago che egli riproduce in fotografia nel libro su Dioniso, recita:
“Dioniso e Arianna a Nasso”.
Ma credo che Kerényi si sia sbagliato. Accanto alla figura distesa e
seminuda di Arianna, Eros sta spegnendo una fiaccola: il particolare
non lascia dubbi, Arianna è morta, il dio si è vendicato.
Eros, in questa metà destra della lastra è identico nella figura al
fanciullino che il vegliardo col bastone guidava verso Dioniso nella
metà di sinistra. Porta a tracolla la stessa corona di fiori, ma qui è
fornito di ali: non è dunque un mortale, ma il dio in persona.
Nell’immagine del sarcofago, l’autore suggerisce che in un primo
tempo il corpo morto di Arianna sia stato coperto da un vasto drappo,
ma successivamente mostrato da Pan, qui, nella metà di destra, convocato di nuovo perché adempia questo ufficio sollevando il sudario
che occultava i suoi resti mortali.
Pan è dunque presente nelle due metà dell’opera: questo suggerisce la
sua importanza fondamentale per capire le intenzioni dell’autore. A
sinistra accompagna e sostiene Dioniso, a destra rivela la morte di
Arianna: è lui la chiave di tutto. Vedremo fra poco come e perché.
Sopra la figura di Eros, un personaggio acefalo del quale mi è del tutto
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oscura l’identità. Più oltre, in secondo piano due figure seminude, un
uomo e una donna, anch’essi misteriosi. La donna però impugna il
ramo di un albero, per metà secco e per metà frondoso: potrebbe
alludere alla morte di Arianna e alla sua successiva vita immortale; ma
è solo una congettura.
E di congetture si alimenta ahimè la mia lettura delle ultime quattro
figure all’estrema destra della lastra: un uomo e tre donne.
È forse Minosse la solenne figura maschile seduta, sulle ginocchia della
quale si è accasciata Arianna morta?
E chi sono le tre figure femminili che, piene di pathos, contemplano
tristemente il corpo senza vita della Signora del Labirinto?
È forse Pasifae, la “su tutto splendente”, l’ultima della scena?
Resta da leggere ora il coperchio del sarcofago, che non è avaro di
notizie importanti.
Intanto, questa parte del sarcofago appare stilisticamente molto diversa
dalla lastra frontale: due mani distinte hanno lavorato a comporre
l’insieme.
Lastra e coperchio sono ambedue assai affollate di figure, sicuramente
secondo il gusto dell’epoca, ma mentre la prima è incisa in profondità,
con figure estremamente nitide, cristalline nella precisione dei particolari più minuti, la seconda presenta un segno più grossolano e figure
con forme approssimative, talvolta sgraziate o goffe.
Forse appartengono non solo a due autori diversi, ma anche a due
momenti diversi: preparata la prima in vista di una sepoltura remota,
rimediata forse la seconda all’atto di questa.
Al centro del coperchio appare la figura a mezzobusto dell’ospite, in
questo caso una donna giovane, così parrebbe, indossante la stola di
rito, sopra la veste, come era in uso si facessero ritrarre le dame devote
e pudiche dell’epoca imperiale: la famiglia dei Calpurni Pisoni era del
resto nobile e ricca.
La donna non ha però il capo coperto e non si tratta dunque di una
sacerdotessa.
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Al pari della lastra sottostante, il tema sviluppato nelle immagini del
coperchio è strettamente dionisiaco: vi è raffigurata un’intera schiera di
piccoli eroti alati intenti alla raccolta e alla pigiatura dell’uva. Due eroti
invece sono occupati a stendere un drappo, un velum di riguardo,
dietro la figura della defunta.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Nelle pagine precedenti ho deliberatamente lasciati alcuni fili slegati; è
venuto il momento di collegarli e di trarre le conclusioni.
Scrivo le righe che seguono con molto imbarazzo, perché in esse sarò
costretto a smentire, almeno in parte, quanto ha scritto sul sarcofago in
esame il grande studioso Karl Kerényi, autore di fondamentali studi
sulla religione del mondo classico e da me sempre considerato con
grande stima e citato in diverse mie pubblicazioni con totale fiducia.
Ebbene, Kerényi nell’esaminare il sarcofago non si è accorto che, nella
parte destra di esso, Eros sta spegnendo la fiaccola e che dunque
Arianna non sta dormendo, ma è morta, non si trova raffigurata
nell’isola di Nasso, ma in quella di Dia e che la fonte dell’immagine è
Omero e non altri.
La morte di Arianna cambia molte cose nell’interpretazione dell’insieme, a cominciare dall’atteggiamento gioioso e spensieratamente
beato mostrato al centro della scena da Dioniso, atteggiamento che è
perfettamente giustificabile, come vedremo, ma che, nella tradizione
più antica, sarebbe più coerente con Arianna solo addormentata e non
morta; atteggiamento poi che stride assai con la nostra mentalità di
matrice cristiana, mentalità che immagina una divinità compassionevole, tale che, “sulla deserta coltrice” possa addirittura ”posare”
accanto al defunto.
Del resto l’epoca del sarcofago, tra la seconda metà del II secolo e il III,
vede già una importante diffusione in Roma del Cristianesimo:
significa dunque che tanto il committente dell’opera, quanto il suo
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autore dovevano essere totalmente estranei alla nuova mentalità
religiosa. Erano perfettamente pagani, senza indecisioni e forse addirittura in esibito contrasto col Cristianesimo nascente.
E questo ci introduce alla discussione delle righe che Kerényi dedica
all’opera, quando scrive: ”A Roma, nel recinto sepolcrale della nobile e ricca
famiglia dei Calpurni Pisoni, furono trovati dieci importanti sarcofagi databili
tra la metà del II e il III secolo d.C., su molti dei quali sono rappresentate scene
dionisiache. Tali raffigurazioni non sono certo sufficienti per affermare che la
famiglia fosse una comunità cultuale dionisiaca, in certo qual modo una setta
di iniziati. Esse costituiscono piuttosto un indizio della diffusione della religione dionisiaca, e offrono magnifici esempi di ciò che sopra ho chiamato
“barocco dionisiaco”(3).
Tutto accettabile, ma se andiamo a vedere cosa scriveva “sopra” circa il
barocco dionisiaco, leggiamo: (la religione dionisiaca cosmica e cosmopolita) ӏ la sostituzione della struttura attica, in concomitanza con la sua
dissoluzione e ricomposizione in un cosiddetto ‘sincretismo’, con un barocco
dionisiaco del quale non si può neanche dire con certezza che in esso fossero
ancora intesi gli antichi misteri” (4).
Questo è proprio il punto da discutere: va bene il “barocco dionisiaco”,
ma è possibile che committente e artista non sapessero bene quel che
facevano? Citavano Dioniso senza capirlo?
Temo che Kerényi sia stato vittima di un abbaglio, dovuto probabilmente alla sua predilezione per le antiche immagini del dio e della
schiera dei suoi seguaci, immagini che egli per altro studia e illustra
con invidiabile perizia. Non ha saputo, credo, o voluto, accettare che il
culto di Dioniso abbia potuto subire un’evoluzione significativa nel
corso dei secoli, contraddicendo in tal modo anche la manifesta mancanza di un qualsiasi antico canone religioso in grado di fissare
definitivamente e difendere una interpretazione religiosa corretta e
indiscutibile. Proprio lui che nei suoi studi non si è stancato mai di
declinare, in testi intricatissimi, le numerosissime versioni diverse
degli antichi miti.
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È pur vero che nel nostro sarcofago i satiri non hanno la coda, non
spingono le altalene con giovani donne sedute, non danzano, non
portano specchi... è vero che le menadi non suonano flauti dal suono
profondo, non vagano di montagna in montagna danzando follemente
balli frenetici muovendo con bruschi scarti le gambe e i piedi veloci...
ed è vero poi, è una vera stranezza, che Pan, il dio capro, vi abbia una
parte così importante, comparendovi ben due volte. Questo è però
l’indizio offertoci per capire il filtro attraverso il quale il mito di
Dioniso è passato, tanti secoli dopo la sua oscura nascita a Creta. Ed il
filtro, coerentemente con il tempo nel quale il sarcofago è stato
realizzato, è Platone e il neoplatonismo di epoca tardo antica, quello,
per intenderci, in voga nella Roma del II o III secolo dell’età volgare.
Cominciamo con Pan.
Platone, nei suoi dialoghi, attribuisce a Pan un ruolo importante in due
dialoghi: Fedro e Cratilo.
Vediamo, per primo il Cratilo che è più antico dell’altro. Siamo nella
terza parte del dialogo, nella quale Socrate si incarica di spiegare ad
Ermogene l’etimologia dei nomi.
In 408D Socrate dice: “Che però Pan, figlio di Ermete, abbia una duplice
natura, è verosimile, o amico”, e continua spiegando: ”Sai che il discorso
esprime il tutto, gira e si muove sempre, ed è duplice: vero e falso”. Ermogene
conferma e Socrate continua dicendo: ”Perciò la parte vera di esso è
levigata e divina e dimora in alto, tra gli dèi, mentre quella falsa abita in basso,
tra la moltitudine degli uomini, ed è ruvida e caprina: qui, nella vita tragica, si
trova, infatti, la maggior parte dei miti e delle menzogne.” Alla conferma di
Ermogene, Socrate continua e conclude: “Correttamente allora, colui che
esprime tutto e che si muove sempre sarà Pan capraio, figlio della duplice
natura di Ermete, liscio nella parte superiore, ruvido e caprino nella parte
inferiore. E Pan è certo discorso o fratello di discorso, se è veramente figlio di
Ermete: che un fratello assomigli a un fratello non è per nulla straordinario”.
Per riassumere, nel Cratilo Platone sostiene che Pan significa il logos
che indica il tutto, vero e falso.
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Nel Fedro poi, dialogo tra i più importanti, che Platone immagina si
svolga tra Socrate e il giovane Fedro all’ombra di un platano lungo
l’Ilisso, a Pan sono dedicate le ultime righe in una famosa preghiera di
Socrate che è stata assunta senz’altro a preghiera doverosa di ogni
filosofo, per ogni tempo.
Ecco dunque le parole della preghiera: ”O caro Pan e voi altri dèi che siete
in questo luogo, concedetemi di diventare bello di dentro, e che tutte le cose che
ho di fuori siano in accordo con quelle che ho dentro. Che io possa considerare
ricco il sapiente e che io possa avere una quantità di oro quale nessun altro
potrebbe né prendersi né portar via, se non il temperante. Abbiamo bisogno
ancora di altro, o Fedro? Per me, io ho pregato in giusta misura”.
Oro, in questo caso, significa “sapienza” e Socrate chiede di ottenere
tanta sapienza quanto il “temperante” (ossia colui che sa che solo dio
ha la totalità della sapienza) possa guadagnare.
Questo, io credo, voleva dire l’autore del sarcofago, o il suo committente voleva che egli esprimesse con immagini: se Pan è colui che dà la
sapienza attraverso il logos, è giusto che sia lui a sostenere Dioniso nel
suo cammino di vero sapiente, come mostra il suo gesto nella parte di
sinistra. Ed è altrettanto giusto che a lui sia dato, nella parte destra, di
mostrare a tutti la verità, che non è il sonno di Arianna abbandonata a
Nasso da Teseo, ma la sua morte.
È dunque attraverso il filtro del platonismo che va letta la lastra
centrale del nostro sarcofago: il Dioniso delle antiche raffigurazioni
vascolari mostra ora la sua vera natura sapienziale: come scrive
Giorgio Colli nel suo libro sulla sapienza greca, “con Dioniso, la vita
appare come sapienza, pur restando vita fremente... Dioniso nasce da
un’occhiata su tutta la vita... egli è vita e morte, gioia e dolore, estasi e
spasimo, benevolenza e crudeltà, cacciatore e preda, toro e agnello, maschio e
femmina, desiderio e distacco, giuoco e violenza, ma tutto ciò nell’immediatezza”(5).
E se le figure della sequela del dio ci appaiono, nella metà di sinistra,
stranamente quiete ed assorte, così distanti dall’ebbrezza dell’orgiasmo
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che accompagna comunemente il dio nelle sue immagini più antiche, è
ancora Colli che ci illumina quando scrive: ”se l’orgiasmo si esaurisse
nello scatenamento animale degli istinti, nulla parrebbe più lontano di esso
dalla conoscenza. Ma l’orgiasmo è anche danza, musica, giuoco, allucinazione,
stato contemplativo, trasfigurazione artistica, controllo di una grande emozione”. E ancora: ”Questo distacco conoscitivo si esalta in un distacco
vitale... Il massimo impulso di appropriazione, di volontà di potenza e di
volontà di vivere, lo slancio con tensione inaudita verso la pienezza, ecco che
giunto al culmine estatico si ribalta in un disdegno per la vita, nel distacco
supremo“. Per concludere con una considerazione sorprendente e,
riguardo al diffuso comune sentire circa il dionisiaco, del tutto inattesa:
“Questo disdegno e disgusto progressivo, si può anche chiamare un’improvvisa, lacerante intuizione pessimistica sulla vita”(6).
Ma perché dunque, di fronte alla morte di Arianna, il dio volta le spalle
e si incammina gioioso abbracciato amorosamente dal suo amico?
Questo risulta inaudito per i secoli cristiani che hanno voluto pensare
un Dio di misericordia. Ma era il sentire diffuso del paganesimo e qui,
nel nostro sarcofago, tanto più sottolineato quanto più vicino ed invadente era ormai il sentimento della nuova religiosità cristiana: gli dèi
consolavano gli antichi, non tanto per quel che donavano o promettevano,
quanto per il fatto che ERANO e grazie a quello che erano. Per il pagano nulla
era più confortante che il saper che gli eternamente beati erano: sapere questo
era già un essere umanamente partecipi della beatitudine divina (7).
Ed è Platone che ancora una volta ci soccorre nel capire la radice di
questo diffuso sentire.
Nel Fedro egli racconta (è il grande discorso di Socrate nella terza parte
del dialogo) di come le anime umane, nell’Iperuranio, volino al seguito
delle schiere degli dèi felici, ciascuna al seguito del proprio dio,
cercando di raggiungere la “Pianura della Verità“ e di come invece
cadano sulla terra trascinatevi dal secondo cavallo del loro carro,
quello “storto, grosso, mal formato, di dura cervice, di collo massiccio, di naso
schiacciato, di pelo nero, di occhi grigi iniettati di sangue, amico della
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protervia e dell’impostura, villoso intorno alle orecchie, sordo, che a stento
ubbidisce ad una frusta fornita di pungoli”. E continua raccontando come,
non essendo più in grado di seguire il dio, riempitasi di dimenticanza e
di malvagità, l’anima si appesantisca e, perdute le ali, cada sulla terra,
incarnandosi per molti anni via via in molti corpi mortali. Da questa
miserevole condizione, egli dice, si riscatterà col tempo, soltanto se
sarà capace, attraverso l’esperienza dell’amore, di ricordare il suo
antico passato glorioso, di riprendere le ali e di tornare quindi alata e
leggera, a volare nell’Iperuranio, al seguito degli dèi felici.
Note
(1) Karl Kerényi, Dionysos, Urbild des unzerstörbaren Lebens, Albert Langen - Georg
Müller Verlag, Munchen - Wien 1976. Traduzione italiana, 1992, Milano.
(2) Bernard Sergent, L’homosexualité dans la mytologie grècque, Paris, 1983,
traduzione italiana, 1986, Bari.
(3) Ibidem.
(4) Karl Kerényi, op. cit.
(5) Giorgio Colli, La sapienza greca, 1977, Milano.
(6) Ibidem.
(7) Walter Friedrich Otto, Theophania, Frankfurt am Main, 1975. Traduzione
italiana, 1983, Genova.
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