la roma di petroselli - Castelvecchi Editore

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la roma di petroselli - Castelvecchi Editore
Ella Baffoni e Vezio de Lucia
LA ROMA DI PETROSELLI
Il sindaco più amato e il sogno
spezzato di una città per tutti
ISBN: 978-88-7615-591-8
I edizione: ottobre 2011
© 2011 Alberto Castelvecchi Editore Srl
Via Isonzo, 34
00198 Roma
Tel. 06.8412007 - fax 06.85865742
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Cover layout: Laura Oliva
Tutte le foto dell’inserto sono di proprietà dell’autrice
Premessa
Luigi Petroselli è stato certamente il miglior sindaco di Roma nel dopoguerra. Ha anticipato il sindaco eletto direttamente, che risponde alla città e non a interessi privati, alle segreterie o alle dinamiche dei partiti. Aveva un’idea di Roma e seppe trasmetterla a tutti. Morì giovane
ed è entrato nella leggenda.
Spesso è ricordato accanto all’altro grande sindaco di Roma, Ernesto Nathan. Nato inglese, ebreo, mazziniano, massone, estraneo alla
lobby dei proprietari fondiari e del Vaticano, Nathan governò dal novembre 1907 al dicembre 1913. Trasformò Roma da capitale della
Chiesa a capitale dello Stato. Pose al centro della sua azione l’istruzione, la cultura, l’educazione. Varò il piano regolatore e grandi progetti,
costruì nuovi quartieri. Nacquero allora l’azienda per l’energia elettrica e quella per i tram, la centrale del latte, il mattatoio, l’acquario e i
mercati generali. Fece aprire le scuole materne con refezione e ambulatori di medicina preventiva, avviò la formazione professionale. L’insegnamento era laico (e anche anticlericale).
A parte la comune appartenenza alla Sinistra, altri accostamenti sono difficili. Petroselli non aveva nulla dell’intellettuale cosmopolita, era
un funzionario del Pci, per di più viterbese, e «sembrava un edile». Le
cose che ha portato a termine sono pochissime rispetto al lungo elenco
delle realizzazioni di Nathan. È vero che Petroselli è stato sindaco solo due anni, esattamente 741 giorni, dal 27 settembre 1979 al 7 ottobre
1981, giorno della sua improvvisa scomparsa. Ma dal 1970 era l’autorevolissimo segretario della federazione del Pci di Roma, che in larga
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misura determinava, anche dall’opposizione, le decisioni del Campidoglio. Ancora di più fu evidente il suo potere negli anni dal 1976 al 1979
quando fu sindaco Giulio Carlo Argan dopo la clamorosa vittoria elettorale dei comunisti. E dopo la morte Petroselli ha continuato a essere
un riferimento, anche quando, nel 1993, il Centrosinistra è tornato al
Campidoglio per quindici anni
Qual è la ragione del mito di Petroselli, che resta vivo ancora oggi a
trent’anni dalla sua scomparsa? In larga misura il nostro lavoro è una
risposta a questa domanda. Questo libro non è la biografia del sindaco
ma una raccolta di vicende e di riflessioni soprattutto intorno all’urbanistica della capitale, prima, durante e dopo la sua amministrazione.
Noi siamo convinti che la memoria persistente di Petroselli dipenda
dalla sua idea di Roma. Credeva in quell’idea, si capiva che ci credeva,
e seppe trasmetterla con forza e in profondità a milioni di cittadini romani, e non solo romani. La sua idea, la sua idea-obiettivo, era l’unificazione di Roma. L’unificazione culturale dei borgatari che si avvicinano ai borghesi, e l’unificazione territoriale delle borgate che si accostano al centro. Un’unificazione, questo è un punto da chiarire bene, che
era l’esatto contrario dell’omologazione consumistica denunciata da
Pier Paolo Pasolini. Non l’annullamento delle differenze, non la rinuncia alle radici e alla storia, ma un obiettivo primario di uguaglianza,
l’égalité del 1789.
Petroselli portò avanti con risolutezza le azioni intraprese dalla Sinistra per Roma – demolizione dei borghetti, risanamento delle borgate,
Estate Romana, salvaguardia della residenza popolare in centro storico
– ma spese il meglio della sua energia per il Progetto Fori: un progetto
«sublime», lo ha definito Leonardo Benevolo, notissimo storico dell’architettura. L’eliminazione della via dei Fori, mettendo la Storia al posto delle automobili, avrebbe obbligato a un diverso rapporto fra centro e periferia, a una più razionale distribuzione delle funzioni direzionali e dell’accessibilità. Una Roma moderna grazie all’archeologia.
In scala diversa, lo stesso obiettivo dell’unificazione Petroselli intendeva perseguirlo con l’intervento di Tor Bella Monaca. Che doveva essere un lodevole segmento di città pubblica – sinonimo di città moderna – nella periferia orientale. Ma più ancora che in questo, l’importanza dell’operazione stava nel rapporto che il sindaco aveva stabilito con
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la categoria dei costruttori (a Roma vasta e influente). Voleva trasformarli in autentici imprenditori, schiodandoli dall’atavica subordinazione alla rendita fondiaria, e perciò fu decisiva l’intesa con Carlo Odorisio, esponente illuminato della categoria e regista di Tor Bella Monaca.
Non si nuoce alla figura di Petroselli se si ricorda che commise anche errori, per esempio nella composizione della giunta, e nel non aver
affrontato – come avrebbe dovuto, e con la risolutezza propria del suo
modo di governare – quell’impresa che pure sarebbe stata decisiva per
l’unificazione della città: mettere fine all’abusivismo (anche se il peggio
comincerà con le leggi di condono, dal 1985 in poi). Non capì – e in
questo non c’è differenza con i sindaci prima e dopo di lui – la dimensione drammatica dell’edilizia illegale, immane palla al piede della città e dell’area metropolitana, impressionante fattore di arretratezza e di
corruzione.
Il 7 ottobre 1981 Luigi Petroselli fu stroncato da un infarto al termine di un intervento al comitato centrale del Pci. Con la morte di Petroselli muore la sua visione di Roma. A mano a mano, come raccontiamo
nelle pagine seguenti, anche se mai rinnegati, il Progetto Fori e Tor Bella Monaca sono stati svalutati, immiseriti, abbandonati. Il carattere
esemplare di Tor Bella Monaca è stato travolto dalla sciatteria al momento delle assegnazioni e dall’ordinaria negligenza della gestione. Fino all’infame proposta di Alemanno di demolire il quartiere, restituendo il primato alla speculazione fondiaria.
Intanto opportunismi, piccole e grandi viltà hanno fermato il Progetto Fori. Il colpo di grazia è stato inferto nel 2001 quando un decreto del governo ha attribuito valore monumentale alla strada fascista.
Che da allora è intangibile. E così, l’immagine ufficiale della Roma moderna resta quella voluta da Benito Mussolini.
Mentre la cultura democratica tace.
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Le conseguenze del Sessantotto
«Un calvario di sudore e di ansie»
Quando Luigi Petroselli venne a Roma all’inizio degli anni Settanta,
prima come segretario del Pci, poi come sindaco, la città era stata appena attraversata dai movimenti del Sessantotto e ne viveva ancora le conseguenze. Era stato un gran vento di novità che aveva spazzato il Paese.
Il Sessantotto era espressione di un’esigenza di cambiamento radicale,
nel costume e nella politica. L’Italia uscita faticosamente dal dopoguerra aveva sì ottenuto buoni risultati nell’industria – e anche nelle scienze,
nel cinema, nelle arti – ma a costo di fermare e schiacciare ogni altra esigenza. Era un’Italia piccina, mediocre. Avvinta a una Democrazia cristiana propensa a lasciarsi dietro le spalle la Resistenza e a farsi trascinare dalle pratiche clientelari e lottizzatrici. A dire no, a proporre e praticare nuovi stili di vita furono gli studenti, gli intellettuali e un movimento sindacale fortissimo. Gli avvenimenti internazionali, e anche l’esplodere di contestazioni e movimenti in tutto il mondo, entravano sempre
di più, sprovincializzandola, nella vita italiana. Erano gli anni del Vietnam, il piccolo Paese dell’Indocina che si batteva coraggiosamente contro l’invasione Usa, assurto a simbolo dalla contestazione studentesca.
Del Sessantotto chi l’ha vissuto ricorda la rabbia, la critica dura allo
statu quo, la sete di giustizia e di speranza, la ricchezza di rapporti con
strati sociali di cui nemmeno si conosceva l’esistenza.
Anche a Roma. Il 27 novembre 1969 – pochi giorni dopo il grande
sciopero per la casa e l’urbanistica – l’Autunno Caldo portò centomila
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metalmeccanici in piazza, fiancheggiati dal movimento studentesco.
Che nello stesso tempo occupava l’università e si scontrava con i fascisti. Poi fu l’occupazione delle fabbriche a rendere visibile quel che molti ignoravano, la dimensione industriale della capitale. Operai della
Fatme, Apollon, Pantanella, Coca-Cola, Autovox presidiarono piazza
di Spagna: lo documenta La tenda in piazza di Gian Maria Volonté, che
mostra le cariche violente della polizia contro operai e troupe. Non solo i lavoratori delle poche fabbriche, ma anche quelli dei livelli più bassi del terziario, dagli autisti Atac ai netturbini, dai bidelli alle commesse dei grandi magazzini. Gli studenti invadevano intanto i quartieri popolari e le borgate, cercando di organizzare le lotte zona per zona e facendo ricerca sociale sul campo.
Mentre in Italia centri di potere più o meno occulti impiantano la
Strategia della Tensione con la bomba di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, prima di altre tredici impunite stragi, a Roma il dopo Sessantotto è caratterizzato soprattutto dalla tensione provocata dal disagio
abitativo nelle periferie. Il punto di partenza è un episodio di cronaca
nera: un bimbo di due anni mutilato di entrambe le gambe dal treno al
Fosso di Sant’Agnese, dove le baracche erano contigue ai binari senza
alcuna protezione. Uno scandalo che, legato alle epidemie di epatite virale che avevano colpito le scuole romane – 130 delle quali non avevano una rete fognaria ancora nel 1967 e 65 non avevano l’acqua – mostra l’insopportabile arretratezza della capitale. Uno scandalo che esce
dalle pagine di cronaca locale per arrivare in prima e che la città condivide con molti altri centri del Paese.
A Roma i baraccamenti c’erano da anni. Mussolini cercò di nasconderli dietro paratie di cartone e gesso, e ordinò di «baraccare per sbaraccare»: in sintesi, spostare le baracche in luoghi meno visibili, e cercare di espellere più persone possibile. Esattamente la ricetta che usano oggi i sindaci più populisti per risolvere «il problema nomadi».
Che cos’erano i borghetti, infami ammassi di capanne costruite di lamiera, cartone, legno e materiali di recupero, lo ha descritto Pier Paolo
Pasolini mentre Ettore Scola vi ha girato Brutti, sporchi e cattivi. Niente
acqua, sporcizia ovunque, catinelle in cui ammollare i panni o raccogliere la pioggia che penetra dal tetto, una distesa di letti che accoglie decine di persone, nessuna intimità, una miriade di bambini moccicosi e pi-
docchiosi, la pancia gonfia per i vermi, destinati in larga parte ad essere
falciati da dissenteria o influenza. Sì, era forte la solidarietà tra i reietti,
ma essere indicati come «quelli del borghetto» era uno stigma sociale.
Uscire di lì voleva dire, solo per questo, diventare cittadini normali. Li
chiamavano «inurbati»: chi viveva lì erano i migranti di allora, gli uomini del nostro Sud (Sicilia, Campania, Calabria, Abruzzo, Basilicata e Puglia), ma anche del Nord-Est, divisi dai romani persino dall’uso del dialetto stretto, come oggi i migranti dagli impacci della lingua. Scaricavano cassette ai mercati generali, facevano gli edili, erano manovalanza
della piccola mala, spesso preda di truffe. Molte le prostitute, moltissime le ragazze madri. Pochi i vecchi, la speranza di vita era bassissima.
Si moriva presto nelle baracche, dove i medici si rifiutavano di andare
per le visite e le autoambulanze non riuscivano a passare nei vicoli di
fango. Nel 1968 le stime ufficiali contavano oltre 62mila baraccati, quasi 17mila famiglie. Una stima, naturalmente, per difetto.
Povero come un gatto del Colosseo,
vivevo in una borgata tutta calce
e polverone, lontano dalla città
e dalla campagna, stretto ogni giorno
in un autobus rantolante:
e ogni andata, ogni ritorno
era un calvario di sudore e di ansie.
Così Pier Paolo Pasolini ne Le ceneri di Gramsci.
Nonostante tutto, accanto ai baraccati qualcuno c’era. C’erano i doposcuola autogestiti dalle associazioni e dagli scout, magari ospitati nelle
parrocchie o nei prefabbricati d’emergenza, per aiutare i ragazzi a fare i
compiti e seguirli nell’andamento scolastico, quasi tutti erano inseriti nelle classi differenziali, quelle dei reietti. C’erano i militanti del Pci, che facevano alfabetizzazione agli adulti. C’erano le comunità cristiane di base,
come quella di San Paolo guidata da dom Giovanni Franzoni; c’erano alcuni preti di frontiera, come don Gerardo Lutte a Prato Rotondo o don
Roberto Sardelli, che andò a vivere all’Acquedotto Felice e lì fondò la
scuola 725, sullo stile di quella di don Milani a Barbiana. Dal lavoro dei
ragazzi e degli insegnanti della scuola nacque la Lettera al sindaco:
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Il luogo dove viviamo è un inferno. L’acqua nessuno può averla in casa. La luce illumina solo un quarto dell’Acquedotto. Dove c’è la scuola si va avanti con il gas. L’umidità ci tiene compagnia per tutto l’inverno. Il caldo soffocante l’estate. I pozzi neri si trovano a pochi metri dalla nostre cosiddette abitazioni. Tutto il quartiere viene a scaricare ogni genere di immondizie a 100 metri dalle baracche. Siamo in
continuo pericolo di malattie. Quest’anno all’Acquedotto due bambini sono morti per malattie, come la broncopolmonite, che nelle baracche trovano l’ambiente più favorevole per svilupparsi.
Accanto alle baracche, le borgate: ammassi di casette autocostruite (come nel film Il tetto di Vittorio De Sica) ma non meno segregate e abbandonate delle più misere baracche.
Borghetti e borgate formano un’unica cintura rossa, con un fortissimo legame con il Pci. È il volto, «unico forse al mondo, di una cintura
rossa in una città senza grandi fabbriche», scrivono Piero Della Seta e
Giovanni Berlinguer, fra i primi, fin dal 1960, ad aver accuratamente
studiato le borgate di Roma. Costruite lungo le vie consolari dagli immigrati provenienti dal Lazio o dal Sud, le borgate – racconta Aldo Natoli, allora segretario della federazione romana – «furono per una quindicina d’anni (approssimativamente tra il 1945 e il 1960) il teatro principale nella città di Roma, della lotta degli strati più poveri della popolazione, proletari e semiproletari in massima parte immigrati; una lotta
che non si limitò all’affermazione del diritto all’abitazione, ma che pose insistentemente e in modo anche avanzato il problema del lavoro in
un quadro di aspro scontro con la politica centrista della Dc».
Accanto alle tradizionali associazioni culturali e sportive, ai partiti,
ai sindacati, alle associazioni degli inquilini e dei borgatari, si formano
decine di comitati di quartiere, di rione o di borgata che raccolgono
cittadini di ogni ceto sociale, cattolici e laici: un fronte eterogeneo ma
compatto nella denuncia e nel rifiuto del modo in cui la città è governata. Giuliano Prasca, dirigente dell’Unione italiana sport popolare, instancabile animatore dell’iniziativa dal basso, invita a «dare del tu» all’urbanistica e a «correre per il verde».
Anche dalla militanza di comunisti e di cattolici, dalla consapevolezza di quell’intollerabile sofferenza, è nato un cambiamento di clima
culturale e la coscienza della necessità di cambiare le cose.
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Intanto le periferie venivano massacrate da lottizzazioni abusive.
Non tanto e non solo le casette fai-da-te, ma intere palazzine senza strade, senza fogne. Negli anni Settanta, accanto alla villetta poveramente
autocostruita, comparve la palazzina tirata su dalle piccole imprese:
tutto al nero e a prezzi bassi, facendo concorrenza al mercato legale
delle case, e in alleanza con i proprietari di aree magari agricole o destinate a verde pubblico. Interi quartieri che il condono ha poi «sanato», costringendo il Comune a onerose urbanizzazioni che hanno segnato e condizionato per sempre lo sviluppo della città. In Roma moderna – indispensabile e appassionante ricostruzione della storia urbanistica di Roma dall’età napoleonica ad oggi che ha avuto, dalla prima
uscita del 1962, una decina di ristampe e di nuove edizioni fino all’ultima, recentissima, del 2011 – Italo Insolera scrive che l’abusivismo
è una delle più colossali truffe in atto in questi anni a Roma. Nella periferia, nelle borgate, tra i baraccati e gli immigrati esiste tutto un «giro» di trafficanti in aree e in immobili che offrono di organizzare e
costruire in economia condomini a tariffe differenziate secondo
un’abile scelta di termini: «col piano regolatore», «senza piano regolatore», «con vincolo archeologico». Che ne sa la povera gente di piano e di vincolo? È forse capace di andare il mercoledì e il venerdì
mattina in un ufficio comunale sito alla lontanissima Eur che si chiama XV ripartizione, e una volta lì capirci qualcosa tra piano, variante, piano particolareggiato?
La capitale è un baraccone, un magma fluttuante, dice Federico Fellini, che pure la ama e le ha dedicato nel 1972 un film, Roma: è «una metropoli che permette di rimanere infantili con il beneplacito della Chiesa». «Come si fa a voler bene a Roma, città socialmente spregevole, culturalmente nulla, storicamente sopravvissuta a furia di retorica e turismo?». L’invettiva è di Alberto Moravia, pubblicata il 28 maggio 1971
su «l’Espresso». Nel 1975, in Contro Roma, lo scrittore sostiene che
questa città, sporca, maltenuta e maltrattata, cinica e volgare «non è diventata una grande capitale come Parigi o Londra né una megalopoli
come Rio de Janeiro o il Cairo. È una via di mezzo tra le due cose e ha
i difetti così della megalopoli come della capitale senza averne i pregi».
A Moravia risponde Luigi Petroselli, segretario della federazione romana del Pci, che apre un dibattito su «Rinascita» del dicembre ’75.
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Con quelle osservazioni, sostiene il futuro sindaco, bisogna pure confrontarsi. E sul terreno «che Moravia, in particolare, ha scelto: il rapporto tra Roma capitale e il Paese».
Noi assumiamo per intero i mali di Roma, muoviamo dalla consapevolezza della vastità e della profondità di vecchi e nuovi guasti materiali e morali che le scelte del blocco politico e sociale dominante
hanno procurato. Vediamo con lucidità i rischi attuali di ulteriore decadenza economica, sociale, politica, morale. Vediamo però, al tempo stesso, con pari coraggio, le possibilità non residue, ma anch’esse
nuove e grandi, di opporre ai processi di degenerazione e di dissoluzione un cammino di salvezza e di rinnovamento, nel governo della
cosa pubblica non meno che nei rapporti tra gli uomini.
Guardiamo dentro Roma, suggerisce Petroselli: dentro «l’ambiguità di
questo magma c’è un duro scontro di classe e politico», c’è «umanità e
passione civile» della parte «fondamentale e decisiva del popolo e delle nuove generazioni». Nello scritto di Moravia – continua – c’è «il fallimento storico del blocco politico e sociale dominante» dal 1947 ad
oggi, il sistema di potere e di alleanze della Dc.
Ora il processo è di nuovo aperto, ragiona il segretario del Pci romano; c’è una «nuova idea per Roma, capitale di uno Stato laico, né religioso né ateo, democratico, pluralista».
Cosa sono il voto del 12 maggio [1974, referendum sul divorzio,
nda], il voto del 15 giugno [elezioni amministrative del ’75, nda], lo
stesso primato politico del Partito comunista a Roma se non la prova che alla crisi attuale la città ha reagito e reagisce, di fronte a prove assai dure, affermando la possibilità di far prevalere le forze della
ragione? […] Come passa la cultura dalla testimonianza all’impegno
di trasformazione della società, da contro Roma – che può essere poi
un modo di stare fuori Roma – a dentro questa Roma, per una Roma
diversa?
Ineludibile il nodo dei rapporti con la Chiesa. Più che una guerra tra laici e cattolici, «confronto, convergenza, intesa tra forze di ispirazione ideale diversa non solo sul tema dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa, ma sul
destino stesso della civiltà umana nella presente fase storica». Anche
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il buon governo di Roma sarebbe, in definitiva, un fattore di rapporti nuovi e più elevati tra le istituzioni pubbliche e la Chiesa, tra tutte
le istituzioni e la società. È vero che la nuova crociata aperta dal cardinal Poletti, e fatta propria ormai da una grande parte della gerarchia cattolica italiana, sembra una conferma clamorosa della tesi di
Moravia circa la identificazione tra Chiesa e Italia. Di fronte alla crisi sconvolgente di tutti i vecchi assetti economici, sociali, politici
mondiali, crisi che si riflette così acutamente nel suo seno, la Chiesa
sembra «italianizzarsi» al punto di fare dell’argine conservatore alla
crisi e al malgoverno della Dc quasi la misura principale della sua
missione agli occhi stessi del mondo.
Ma «il nuovo che è sorto non potrà più essere esorcizzato». È un nuovo umanesimo senza integralismi.
Nuovi valori di libertà e di tolleranza, di rispetto e di sviluppo della
persona umana si affermano nella lotta e attraverso il confronto tra
uomini reali di ispirazione ideale diversa, uniti da un comune progetto di risanamento, di riscatto e ripresa economica, civile, morale. Non
solo non vedo alternative a questa via nella battaglia per una Roma
diversa, ma sono convinto che, su questa via, Roma può parlare al
Paese e percorrere, insieme ad esso, un nuovo cammino.
Un impegno programmatico, e non solo sui rapporti – cruciali a Roma
– con il Vaticano. Ma con tutto il mondo della cultura, e sulla necessità di un impegno concreto, reale, di tutti i progressisti alla costruzione
di una nuova società che sappia allargare a tutti il diritto di cittadinanza. Un cammino di uguali.
Mentre gli intellettuali stigmatizzavano, nasceva il movimento per la
casa. Il Comitato di agitazione borgate (Cab) lanciò tra il 1968 e il 1969
una miriade di occupazioni. Prima edifici pubblici abbandonati o inutilizzati, poi anche edifici privati. A volte anche case popolari, ancora
non assegnate per le lungaggini burocratiche o, più spesso, per l’uso
clientelare che ne faceva l’Iacp (Istituto autonomo case popolari). Non
sempre le occupazioni si consolidarono, ma servirono a portare in evidenza una situazione intollerabile: la casa è un diritto che tocca sempre
agli altri. Tra gli occupanti, moltissimi erano muratori: emblematico fu
nel novembre del 1969 lo sciopero nazionale per la riforma della casa,
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che vide sfilare a Roma un corteo imponente. Come nel film di Fellini,
i diseredati dicevano: «Mio nonno fava mattoni, mio babbo fava mattoni, faccio mattoni anche me, ma la casa mia dov’è?».
Vasta risonanza ebbe la vicenda della Magliana, zona costruita illegittimamente sei metri al di sotto del livello del Tevere per poterne ricavare due piani in più. Un’illegalità che ebbe molti complici: da chi redasse il piano particolareggiato, con l’ipocrita raccomandazione di portare
il pianterreno a filo dell’argine, al ministero dei Lavori Pubblici che nel
1954 lo approvò, al Comune che continuò a rilasciare licenze fino al
1971 senza controllare nulla, anzi. I costruttori ottennero la possibilità
di realizzare altri due piani per «compensare» il mancato introito dovuto a un interramento fantasma già previsto nel piano e mai realizzato.
Alla Magliana – quartiere senza fognature, strade di fango, servizi inesistenti: nei primi due piani, quando il Tevere si gonfiava i gabinetti vomitavano ondate di acque nere, le epidemie erano di casa, l’epatite virale endemica – si formò uno dei più creativi comitati di quartiere. Nato
nel 1971, la prima iniziativa fu l’autoriduzione degli affitti. Poi fu avviata la procedura (caso forse unico in Italia) per l’«azione popolare», cioè
la sostituzione dei cittadini alla pubblica autorità inadempiente.
Drammatico fu l’esito invece dell’occupazione di San Basilio, gestita
da Lotta continua, nel settembre del 1974, la più clamorosa di una seconda ondata di occupazioni. Nel tentativo di sgomberare le case, dopo due
giorni di scaramucce tra polizia e occupanti (150 famiglie che vivevano lì
da un anno) e nonostante la solidarietà non solo del quartiere ma anche
di consigli di fabbrica e di altri comitati e associazioni, la polizia lancia la
battaglia finale contro il sit-in nella piazza centrale della borgata: candelotti lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo. E non solo: è raggiunto da un
colpo d’arma da fuoco Fabrizio Ceruso, diciannovenne militante del comitato proletario di Tivoli. Caricato su un taxi, giungerà senza vita in
ospedale. Ed è subito rabbia. Durissima e violenta la reazione del quartiere, al buio perché erano stati divelti i pali della luce. Otto poliziotti restano feriti. Il giorno dopo iniziano le trattative per le assegnazioni di case agli occupanti di San Basilio, Casalbruciato e Bagni di Tivoli. Nessun
poliziotto verrà mai condannato per l’omicidio di Fabrizio.
Intanto, ignorati dai grandi giornali, nascevano e crescevano i comitati anche nei quartieri borghesi. Non per chiedere case o per rivendi-
care migliori condizioni abitative, ma per bloccare la speculazione edilizia e le lottizzazioni selvagge, per chiedere con decisione la salvaguardia delle residue aree verdi, a volte di gran pregio storico e artistico. A
loro e alle battaglie di Italia Nostra si deve la ricchezza dei sistema dei
parchi, da Villa Torlonia a Villa Blanc, da Villa Leopardi a Villa Chigi,
fino a Villa Carpegna e Villa Strohl-Fern. «Paese Sera» offrì loro una
rubrica, curata da Alfonso Testa, che diventò una palestra, una sorta di
scuola di controinformazione.
Emblematica la vicenda del Pineto, la grande valle a Nord del Vaticano. Fino agli anni Trenta tra le ville e i casali dell’aristocrazia nera –
Sacchetti, Braschi, Carpegna, Torlonia – era tutta vigne e pascolo, poi i
piani regolatori del 1931 e del 1962 vi consentirono l’espansione edilizia: nel 1970 della valle dell’Inferno restavano liberi meno di 250 ettari
chiusi fra gli scempi di Monte Mario e dell’Aurelio. Lì, dove fu eretta la
Villa Sacchetti disegnata nel Seicento da Pietro da Cortona – di cui non
resta quasi nulla se non i disegni e l’influsso che quella costruzione barocca ebbe per le ville di cui fu seguitissimo modello – la Sep (Società
edilizia Pineto, controllata dalla Società generale immobiliare allora diretta da Michele Sindona) cercò in tutti i modi di far approvare un progetto per l’edificazione dei 120 ettari di cui era proprietaria insieme alla famiglia Torlonia. Ma si oppose la XVIII circoscrizione e scesero in
campo i comitati di quartiere Aurelio, Balduina, Primavalle, S. Onofrio,
Monte Mario, Torre Vecchia e Forte Braschi, che organizzarono migliaia di cittadini per impedire ogni ulteriore edificazione. Il braccio di ferro fra la Sep e i comitati di quartiere fu lungo e a lungo incerto. Il 16 dicembre 1973, migliaia di persone occuparono il Pineto, eliminando le
recinzioni che ne impedivano l’accesso. Solo il 30 marzo 1976, nel corso dell’ultima seduta prima dello scioglimento per le elezioni amministrative, il consiglio comunale approvò una variante di piano regolatore
che vincolava a verde pubblico tutti i 248 ettari del Pineto.
Il sacco di Roma
L’analisi dei guasti della rendita fondiaria e l’intreccio fitto dei proprietari di aree e dei costruttori con gli esponenti democristiani ha sto-
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ria lunga, a Roma. Negli anni Cinquanta protagonista indiscussa dell’urbanistica romana fu la Società generale immobiliare, che il Vaticano controlla dal 1935 grazie ai due miliardi di risarcimento ottenuti
dallo Stato italiano dopo il Concordato. Nel 1958 possiede a Roma 963
ettari, che diventano 1.200 se si contano quelli delle società collegate.
E oltre cinquemila sono quelli degli enti religiosi. All’Immobiliare si
deve la costruzione di quartieri di lusso e senza qualità come la Balduina, Vigna Clara, Olgiata e Casal Palocco. E lo sviluppo della città verso le aree da valorizzare. Su «Il Mondo» del 26 giugno 1956, Antonio
Cederna scrive:
Distruzione di monumenti antichi e rovina del loro ambiente, sventramento di antiche città, trasformazione in sordidi agglomerati di cemento di colli, parchi e campagna, tali e non altri sono i risultati dell’attività della Società generale immobiliare. Ad essa manca qualunque principio urbanistico, che sia minimamente organico e unitario:
suo unico scopo, al pari di qualunque piccolo affarista, è di sfruttare
al massimo i propri terreni: un po’ poco, se si pensa alla prosopopea
con cui essa presenta i suoi progetti, alla rispettabilità cui essa tiene e
alla grande considerazione in cui è tenuta dai più. Guardiamo Roma.
I mille tentacoli di questa piovra agiscono indipendentemente da
qualunque visione generale: sia che si costruisca a Monte Mario, sulla Trionfale, sulla Camilluccia, sulla Cassia, sulla Casilina, sulla Tuscolana, sull’Appia Antica, sull’Ardeatina o sulla Cristoforo Colombo, l’Immobiliare non fa che stirare ciecamente Roma in tutti i punti
cardinali, e quindi realizzare trionfalmente l’espansione della città a
macchia d’olio, incrementando paurosamente e rendendo cronica
l’anarchia, stabile il caos e il fallimento dell’urbanistica romana.
I gangster dell’Appia è il titolo dell’articolo che Antonio Cederna scrive sul «Mondo» dell’8 settembre 1953, dando il via a una campagna di
denuncia che porterà avanti per tutta la vita. Gangster erano nobiluomini, intellettuali, nuovi ricchi, costruttori. Tutti a ricercare l’esclusivo,
il meraviglioso, ritagliando per sé una fettina, costellando nuovi muri e
recinzioni di antichi marmi rapinati alle tombe, alle rovine lasciate come denti cariati tra villa e villa.
Per tutta la sua lunghezza per un chilometro e più da una parte e dall’altra, la via Appia era un monumento unico da salvare religiosamen-
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te intatto, per la sua storia e per le sue leggende, per le sue rovine e
per i suoi alberi, per la campagna e per il paesaggio, per la vista, la solitudine, il silenzio, per la sua luce, le sue albe e i suoi tramonti. [...]
Andava salvata religiosamente perché da secoli gli uomini di talento
di tutto il mondo l’avevano amata, descritta, dipinta, cantata, trasformandola in realtà fantastica, in momento dello spirito, creando
un’opera d’arte di un’opera d’arte: la via Appia era intoccabile, come
l’Acropoli di Atene.
In consiglio comunale, tra il 1953 e il 1954, fu durissima la battaglia
dell’opposizione guidata da Aldo Natoli, capogruppo Pci e segretario
della federazione romana comunista, e da Leone Cattani, liberale. Lo
scontro per il piano regolatore sfociò in un intervento fiume, che occupò ben quattro sedute di consiglio comunale. Nel Sacco di Roma Natoli riporta la documentata ed efficace analisi della simbiosi tra i costruttori e gli uffici comunali che teneva solidamente in pugno il volano della città, definendone lo sviluppo; una simbiosi che mortificava l’interesse pubblico a favore di quello privato. Un j’accuse al sindaco Salvatore
Rebecchini, che consentiva e garantiva gli interessi della proprietà fondiaria usando la leva degli interventi pubblici e delle lottizzazioni private e persino dell’abusivismo, come poi fecero Urbano Cioccetti,
Amerigo Petrucci e Clelio Darida dopo di lui. Negli anni seguenti, almeno finché Natoli restò alla guida della federazione, i comunisti furono l’avanguardia della denuncia e dell’analisi, come testimoniano gli archivi de «l’Unità» e di «Rinascita».
Da questo clima nacque la famosa battaglia Capitale corrotta = Nazione infetta de «l’Espresso», che ebbe una lunga coda nel processo
Immobiliare-«l’Espresso». Così Eugenio Scalfari la racconterà su «la
Repubblica», il primo ottobre 1989:
Correva l’anno 1956. Il settimanale «l’Espresso» era nato da pochi
mesi e dette inizio a una campagna di stampa contro i vergognosi
abusi edilizi consentiti dal Comune di Roma. Il meccanismo del malaffare era molto semplice: anziché rispettare il piano regolatore che
prevedeva l’espansione della città a Sud e a Est, si approvavano varianti che favorivano i proprietari di aree amici, grandi società immobiliari, istituti ecclesiastici, famiglie patrizie legate al Vaticano. Era
sindaco Salvatore Rebecchini, cui seguì Urbano Cioccetti e di segui-
LA ROMA DI PETROSELLI 21
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to una lunga sfilata di notabili democristiani, intrinseci di Curia e di
Vicariato. Il Concilio era ancora in mente Dei e la Chiesa era quella
temporalistica di Papa Pacelli e dei baschi verdi di geddiana memoria. Naturalmente ci fu un processo. Naturalmente noi de «l’Espresso» lo perdemmo. La grande stampa nordista sempre pronta a tuonare contro Roma per dritto e per rovescio ci lasciò assolutamente soli, anzi ci trattò con sufficienza e addirittura ci fece la lezione in nome della deontologia: non si spara contro i potenti a palle incatenate,
che diamine! Fu il primo episodio d’una lunga storia. Roma continuò
ad affondare nella melma del malgoverno e del non-governo; i palazzinari continuarono ad arricchirsi; i clan a spolpare l’osso; i cittadini
a subirne le angherie.
Nel 1954 Aldo Natoli, lasciando la federazione, tenne la sua ultima relazione al congresso del Pci romano trattando dello sviluppo urbano e
della riforma urbanistica. Argomenti che non piacquero a Togliatti: roba da intellettuali, la liquidò. Ciò che era chiaro in federazione, ma anche nei comitati di quartiere «borghesi» – il collegamento stretto tra
condizioni di vita urbane e «sviluppo di classe» dei nuovi quartieri – veniva trattato con sufficienza dai vertici del Pci. La critica radicale alla gestione della cosa pubblica era apprezzata per il valore propagandistico,
di proselitismo e di effetto mediatico, molto meno nella sostanza.
Il lavoro che noi facemmo – rivendicò nel 1978 Aldo Natoli, ormai
un «comunista senza partito», su «La critica sociologica» – servì da
una parte a demistificare la cultura urbanistica del tempo, tutta fondata sui miti olivettiani della presunta razionalità propria della pianificazione; dall’altra valse a rimettere sui piedi, cioè sulla proprietà
privata dei terreni, i modelli astratti di gestione del territorio. Avevamo posto le premesse per una analisi di classe dello sviluppo della città, per svelarne la storia occulta. Bisogna semmai criticare che quel lavoro non fu ripreso in altre città dove erano a disposizione del Pci
strumenti di conoscenza e di intervento ben più efficaci di quelli di
cui disponevamo a Roma in quegli anni.
Eppure la battaglia contro la speculazione edilizia, che a Roma era fittamente intrecciata con gli interessi del Vaticano, aveva già ottenuto un
primo risultato: nella Populorum progressio del 1967, il Papa Paolo VI
scrisse che:
La proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo
ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario. In una parola, il diritto di proprietà non deve mai esercitarsi a detrimento dell’utilità comune, secondo la dottrina tradizionale dei padri della Chiesa e dei grandi teologi. Ove intervenga un conflitto tra
diritti privati acquisiti ed esigenze comunitarie primordiali, spetta ai
poteri pubblici adoperarsi a risolverlo, con l’attiva partecipazione
delle persone e dei gruppi sociali.
Teoria in stridente contraddizione con la politica degli amministratori vaticani e capitolini ma subito assorbita dalla pratica della doppia
morale.
Cronache dei primi anni Settanta
I bacilli della contestazione e della critica radicale travolsero anche
l’opposizione «classica», il Psi e soprattutto il Pci. Nel 1969 quel fermento esplose con il caso de «il manifesto». Un gruppo di seguaci di
Pietro Ingrao, che intravedeva i difetti se non le tragedie del socialismo
reale, si era raccolto attorno alla pubblicazione di una rivista extra-partito, «il manifesto» appunto. All’inizio tollerata a fatica, lo scandalo
esplode con quel Un anno dopo Praga è sola (sul secondo numero della
rivista): la critica radicale all’Unione Sovietica e ai suoi gruppi dirigenti.
Non è più possibile puntare su una loro autocorrezione, si è costretti a
puntare su una loro sconfitta e la loro sostituzione, per iniziativa e da parte di un nuovo blocco di forze sociali diretto dalla classe operaia, un rilancio socialista che investa le strutture politiche e sia capace di esprimere realmente le potenzialità immense uscite dalla Rivoluzione d’ottobre […]. Se
la crisi oggi aperta in Occidente si dovesse ancora una volta chiudere con
una sconfitta o con un nulla di fatto, dovremmo scontare un arretramento
grave su tutto il fronte internazionale. Vi è una perfetta coerenza tra chi
perdona la linea politica di Breznev e chi sollecita da noi una linea di compromesso. Se in Occidente i comunisti si inseriscono non c’è da attendersi che un congelamento conservatore nelle società socialiste. Sarebbe l’internazionalizzazione della rinuncia.
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Per il Pci erano espressioni intollerabili, soprattutto se pronunciate
da dirigenti autorevoli come Aldo Natoli, Rossana Rossanda, Luigi
Pintor. I sostenitori de «il manifesto» furono condannati in decine e
decine di congressi di sezione e federazione e poi radiati come «frazionisti». A Luciana Castellina, Lucio Magri, Valentino Parlato e altri non
fu rinnovata la tessera: una frattura e una ferita che ancora oggi i vecchi compagni ricordano. Poco più di un anno dopo nasceva il quotidiano, il primo davvero autofinanziato e autogestito, e poi il gruppo
politico.
Ai margini del movimento studentesco, o forse proprio per la prima
crisi di crescita, nacquero i movimenti extraparlamentari, connotati
tutti da una critica radicale all’opposizione. Negli anni Sessanta erano
già nati il Partito comunista marxista-leninista e altre formazioni marxiste-leniniste, che del Sessantotto cavalcano l’onda. Nel 1967 i primi
albori di Potere operaio, da cui scaturirà Autonomia operaia. Figli del
Sessantotto sono il Movimento studentesco e Avanguardia operaia.
Lotta continua nasce nel 1969. Nel 1972 si forma il Pdup (Partito di
unità proletaria) e nel 1975 Democrazia proletaria. Una galassia densa
di rivalità ma con alcuni tentativi di lavoro comune persino con il Pci
soprattutto sul campo: dalle occupazioni di case alle lotte di fabbrica,
dalle autoriduzioni al movimento antimperialista.
È il 13 maggio del 1974 e la richiesta di abolire la legge sul divorzio
viene seppellita da una valanga di «no» in tutt’Italia. Fece clamore il
fatto che a Roma i «no» raggiunsero il 68 per cento, nove punti di più
della media nazionale. Non è un risultato da poco nella città del Papa,
avvinta da una consuetudine di secoli al soglio di Pietro che si era vigorosamente e capillarmente speso per il «sì». È che il vento della contestazione soffiava anche nelle parrocchie, se non Oltretevere.
Emblematica la vicenda delle comunità cristiane di base. Schierato
con le lotte operaie dell’Autunno Caldo è l’abate di San Paolo fuori le
mura, uno dei più giovani padri conciliari, dom Franzoni con la sua comunità cristiana di base. Fu costretto a dimettersi da abate nel 1973,
dopo le durissime critiche allo Ior. E quando si schierò per la libertà di
coscienza dei cattolici sul divorzio fu sospeso a divinis, per essere spretato nel 1976, dopo la sua dichiarazione di voto per il Pci. Ma la sua comunità è ancora oggi protagonista della vita della città.
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Vinta la battaglia per il divorzio, comincia quella – vittoriosa – per
l’aborto e per il nuovo diritto di famiglia. L’avvia una grande manifestazione il 13 novembre 1974, punto di partenza del movimento femminista. È l’anno successivo all’orribile delitto del Circeo, il massacro
di due ragazze di modesta estrazione da parte di tre govani di buona
borghesia, ricchi neofascisti e deliranti, che le seviziarono per due giorni abbandonandole poi nel bagagliaio di un’auto in strada. Furono scoperti solo perché una delle ragazze era ancora viva, e i suoi lamenti attivarono i soccorsi. Due degli aguzzini furono arrestati – Gianni Guido e Angelo Izzo – l’altro, Andrea Ghira, riuscì a fuggire. Una vicenda
insanguinata che ebbe lunghi strascichi e che portò alla battaglia contro la violenza sessuale, che allora era solo un reato contro la morale,
non contro la persona.
Le bombe fasciste erano ormai fittissime e nel 1973 – dopo il sanguinoso colpo di Stato militare (sostenuto dagli Stati Uniti) che in Cile
portò all’assassinio di Salvador Allende e all’insediamento di un governo fascista – Enrico Berlinguer lanciò il compromesso storico. Una
strategia che mirava ad avvicinare le grandi masse comuniste, cattoliche e socialiste e perciò all’alleanza tra comunisti e democristiani, per
impedire che le forze reazionarie determinassero condizioni di esasperata tensione aprendo la strada a soluzioni autoritarie, e per superare i
limiti dell’allora Centrosinistra.
Siamo agli anni dello shock petrolifero, quando le vicende del Medioriente – la guerra dello Yom Kippur e l’embargo dei Paesi arabi verso Europa e Usa – provocarono la penuria di benzina e gasolio. Da qui
– dalla fortissima limitazione alla circolazione stradale e dal controllo
degli impianti di riscaldamento, contingentato a 20 gradi – nacquero
una sensibilità pre-ambientalista sulle energie alternative (isolamento
delle case, divieto di tenere insegne luminose troppo energivore, trasmissioni Rai terminate alle 22:45, cinema chiusi alle 22) e le famose
domeniche a piedi. Il divieto assoluto di circolare con mezzi a motore
privati – eccezion fatta per i medici in servizio – ebbe l’inaspettato effetto di mostrare che cosa erano diventate intanto le città, intasate di
lamiere mobili o parcheggiate. E si riscoprì anche la bellezza del silenzio, interrotto solo da mezzi pubblici che, liberi dalla morsa del traffico, diventavano insolitamente veloci ed efficienti.
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Il rapporto di Italia Nostra su Roma sbagliata è del 1974: un fascicolo di 170 pagine con i contributi di una trentina di esperti. «Un’impressionante radiografia della capitale dopo un secolo di malgoverno urbanistico», scrisse Antonio Cederna. Tra le altre cose, si apprese: che a
Roma mancavano circa un migliaio di asili nido, circa 1.500 aule di
scuola materna e circa tremila della scuola dell’obbligo; che Roma non
disponeva neanche di un impianto di depurazione; che il tasso di monossido di carbonio era sei volte superiore ai limiti di sicurezza; che le
affezioni epatiche erano aumentate quattordici volte in dieci anni; che
il sessanta per cento dei bambini era affetto da parassiti intestinali e che
uno scolaro su due era affetto da malformazioni fisiche.
La battaglia per gli asili nido è durata anni. Così la racconta Franca
Prisco, all’epoca responsabile della politica delle donne del Pci romano: «Conquistata la legge regionale che li istituiva, grazie al Centrosinistra – racconta – cercammo di accelerarne l’apertura. Ci presentammo
dunque all’assessore al Personale, amministrazione Darida, con in mano l’elenco dei locali possibili, ottenuto dopo aver battuto ogni sezione, circoscrizione per circoscrizione. E l’assessore, che era pronto a dire: ci sono le aree da individuare, poi le licenze edilizie... si trovò spiazzato. Io me ne vado, disse, l’assessore al Patrimonio lo fa lei». Ma le
procedure per aprire gli asili nido furono intanto avviate.
Sempre nel 1974 si era mosso il Vicariato con un incontro nella basilica di San Giovanni in Laterano dal 12 al 17 febbraio 1974. La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di carità e di giustizia nella
diocesi di Roma: questo il tema dell’incontro accuratamente preparato
nei due anni precedenti anche da personalità come dom Franzoni e
don Luigi Di Liegro, direttore della Caritas. Confortati dal monito di
Paolo VI che nel 1970 disse: «Consentiteci di farci avvocati di questi
diseredati cittadini di Roma [...]. Sono poveri e sprovveduti; ma ormai
sono romani e sono cristiani; sono fratelli». La città era stata divisa in
cinque settori – Centro, Nord, Est, Sud, Ovest – ciascuno affidato a
una commissione istruttoria. I contributi furono numerosissimi: 320
documenti, per un totale di circa 4mila cartelle e 740 interventi in assemblea plenaria o nelle cinque commissioni territoriali. E i risultati furono certamente importanti. Il cardinale vicario Ugo Poletti, promotore e protagonista dell’iniziativa, nell’omelia conclusiva dichiarò che
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«partecipare attivamente alla vita politica significa partecipare a un impegno tra i più esaltanti e più degni dell’uomo».
Affermazione destinata ad aprire contraddizioni serie all’interno del
mondo cattolico. La Dc prese le distanze dal convegno. Pur non essendo stata inchiodata alle sue responsabilità storiche per i mali della città, era stata oggetto di critiche ripetute e motivate. Il sindaco Clelio Darida reagì attaccando: «Era tempo che la Chiesa romana desse questa
angolazione alla sua presenza spirituale». Don Di Liegro venne etichettato come prete rosso, fiancheggiatore delle giunte di Sinistra. Etichetta ingiusta, oltre che falsa: tenace e risoluto, don Luigi entrava nelle
stanze del potere a testa alta come fosse accompagnato dai suoi «ultimi», tossicodipendenti o malati di Aids, migranti o rom, bambini o anziani. Rifiutava la sussidiarietà, don Luigi, non voleva fare quel che il
Comune non faceva. Voleva che il Comune riconoscesse diritti negati e
li assumesse come doveri.
Nei mesi successivi, per dare continuità all’impegno cattolico nella
vita civile, si formò un movimento denominato Febbraio ’74 proprio
per ricordare l’incontro diocesano. Febbraio ’74 si trasformò poi nel
Movimento federativo democratico, organizzazione tuttora attivamente impegnata nel volontariato. All’Mfd si deve il Tribunale per i diritti
del malato, che denuncia scandali e soprusi nel mondo della sanità.