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RASSEGNA STAMPA mercoledì 1 luglio 2015 L’ARCI SUI MEDIA ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE WELFARE E SOCIETA’ DIRITTI CIVILI E LAICITA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Left del 27/06/15, pag. CECINA, SUMMER SCHOOL CONTRO IL RAZZISMO M are aperto è il titolo della ventunesima edizione del Mia, il Meeting antirazzista dell'Arci dall' l al 5 luglio a Marina di Cecina. Mare aperto contro il Mediterraneo chiuso e fonte di morte per migliaia di migranti. «Mare aperto perché "in mare aperto" si trovano ·1a società italiana e tutta la società europea, da decenni al centro di un processo sociale di trasformazione in cui si incrociano una molteplicità di culture», afferma il neo responsabile Immigrazione dell'Arci Walter Massa. Nella località toscana cinque giorni ricchi di incontri, dibattiti ma anche di eventi e spettacoli per ribadire con forza il "no al razzismo". «È molto importante analizzare il contesto che si sta vivendo sia in Italia che in Europa», afferma Massa. «Oggi è necessario aggiornare la strategia sul tema dell'antirazzismo, che è, tanto quanto l'antifascismo, fra i valori identitari dell'Arci. Dobbiamo individuare gli strumenti per affrontare questa nuova fase caratterizzata da odio e razzismo. È una battaglia di tutta l'associazione e non solo di chi, da anni e con grandi risultati, si occupa d'immigrazione e asilo», prosegue. Proprio per questo motivo «al Mia abbiamo lanciato una Summer school sul tema dell'antirazzismo, per ridefinire una strategia della nostra associazione e per individuare nuovi e più efficaci strumenti di contrasto a quest'ondata razzista», ribadisce Massa. Dopo la manifestazione del 20 giugno "Fermiamo la strage" e dopo il rilancio della campagna "L'Italia sono anch'io", l'Arci sta lavorando alla seconda edizione di Sabir, il festival delle culture del Mediterraneo, a Lampedusa. Il programma completo del Meeting antirazzista dell'Arci lo si può trovare sul sito www.meeting.arcitoscana.it DA Volontariatoggi del 29/06/2015 Arci: migranti, una vergogna senza fine Lettere Alla Redazione Associazioni ROMA. I ministri degli Esteri UE, all’unanimità, hanno ufficialmente dato il via libera alla prima fase della missione militare contro gli scafisti. Il ministro italiano Gentiloni, commentando la decisione, ha dichiarato solennemente “la solidarietà non è un optional”. Ci sarebbe da sorridere di fronte a parole usate così a sproposito, se la situazione non fosse davvero tragica. Perché è difficile capire dove stia la solidarietà verso i migranti nel varo di un’operazione che ne metterà ulteriormente a rischio la vita. Che altro effetto può infatti avere schierare nel Mediterraneo 5 navi militari, 2 sottomarini, 3 aerei da ricognizione, 2 droni e tre elicotteri con un migliaio di militari per “distruggere le barche degli scafisti”? Si eserciteranno, questi militari, nelle tristemente famose ‘operazioni chirurgiche’ che in altri scenari di guerra hanno provocato migliaia di morti fra i civili? E quante risorse verranno impiegate per un simile dispiegamento di forze – a cui peraltro l’Onu ha interdetto operazioni in acque e sulle coste libiche? Risorse che l’Italia e l’Europa hanno rifiutato di impiegare (e ne sarebbero servite molte meno) per attivare un’operazione di avvistamento e salvataggio in tutta l’area del Mediterraneo, l’unica che avrebbe consentito – come Mare nostrum ha dimostrato – di salvare vite umane. Lo scopo vero è quello di impedire che profughi e richiedenti asilo raggiungano le nostre coste, altrimenti si sarebbe ricorso – come da tempo e non da soli chiediamo – all’apertura 2 di canali di ingresso umanitari, l’unico strumento che avrebbe consentito di stroncare alla radice il traffico di esseri umani. Ancora una volta, invece, l’UE, con assoluto cinismo, interviene con la forza delle armi per affrontare nel modo peggiore una grande questione che riguarda la salvaguardia dei diritti umani, a cominciare dal diritto alla sopravvivenza. Una operazione che sa di neocolonialismo, e che spiega meglio di tante parole quale è l’idea di Europa dei governi e dei burocrati europei. Il presidente del consiglio Renzi ne elogia il senso di responsabilità, che è però francamente difficile intravedere sia nella scelta di questa operazione, sia nelle polemiche ancora non risolte sulla distribuzione dei profughi nei vari paesi UE. Una vergogna senza fine. Da parte nostra, continueremo a denunciare questo atteggiamento cinico e miope, insistendo sulle soluzioni proposte sabato scorso a Roma alla manifestazione “Fermiamo la strage!” e nelle tante città dove si è celebrata la giornata mondiale del Rifugiato. Proteggere le persone e non i confini. Salvare vite umane e non il proprio consenso elettorale. Arci Nazionale http://www.volontariatoggi.info/arci-migranti-una-vergogna-senza-fine/ del 01/07/15, pag. 1 La scommessa di Tsipras Luciana Castellina Nonostante l’amichevole gesto con cui Matteo Renzi, regalandogli una cravatta, accolse la prima volta il neo eletto primo ministro greco, è proprio lui che, arrivati al dunque, ha ora reso il peggior servizio a Alexis Tsipras. Dicendo che il referendum di Atene avrà per oggetto un pronunciamento a favore dell’euro o della dracma. Proprio il contrario di quanto il governo greco si è sforzato di spiegare. E cioè che non intende affatto optare per un ritorno alla moneta nazionale e uscire dall’eurozona, e invece aver più forza per imporre una discussione– che fino ad ora non c’è stata mai — su quale debba essere in materia la politica europea. Finalmente qualcuno che, anziché cercare riparo dietro la fatidica affermazione “ce lo chiede Bruxelles”, come ci hanno abituato i governanti europei, pretende di dire la sua sulle scelte lì compiute. E’ certo vero che nella stessa Grecia, come del resto altrove in Europa e anche da noi, c’è chi vorrebbe dire tout court che l’Unione è morta ed è meglio così, ma non è questo l’oggetto della consultazione. Tsipras chiede più forza per negoziare ancora e il ritorno alla dracma è solo il possibile eventuale e deprecato esito di un fallimento definitivo del negoziato. Un’eventualità che in queste ore sembra forse scongiurata, sebbene il signor Tusk, il più rude delle istituzioni, abbia all’ultimo appuntamento buttato fuori dal tavolo i negoziatori greci, dichiarando che “the game is over”.(Perché così sono andate le cose e non il contrario). E’ una speranza flebile, ma già dimostra che rifiutare i ricatti è giusto. Purtroppo tutta la lunga trattativa è stata accompagnata da un frastuono mediatico che ha creato grande confusione. E così la gente meglio intenzionata continua a chiedere se è proprio vero che i greci hanno una pletora di dipendenti pubblici, quando invece ne hanno, proporzionalmente, la metà della Germania. Se è vero che vanno tutti in pensione nel pieno delle loro forze, e invece la media degli anni di lavoro nel paese è superiore a quella dell’Unione europea e la spesa pubblica per il 3 pensionamento, sempre proporzionalmente, metà di quella francese e un quarto di quella tedesca. La produttività è bassa ma è cresciuta assai di più che in Italia e persino che in Germania. Se poi si guardano nei dettagli i punti sui quali la squadra greca ha trattato e si è rifiutata di accogliere le proposte delle istituzioni europee è difficile rimanere insensibili alle sue ragioni: rifiutare un aumento dell’Iva sui generi di prima necessità (cibo, prodotti sanitari, elettricità), e quello a carico delle isole che vivono del solo turismo; respingere la richiesta di varare una legge che consenta licenziamenti di massa. Rifiuto, anche, a cancellare i prepensionamenti esistenti, ma bisogna ben tener conto che una quantità di gente è stata licenziata e non ha altre fonti di sostentamento. E invece è Bruxelles che ha rifiutato la richiesta greca di un aumento del 12 % di tasse sui profitti che superano i 500.000 milioni. Si continua a ripetere ossessivamente che la Grecia deve fare le riforme, ma, come del resto in Italia, non si dice mai esattamente di quali riforme si tratti e in che modo quelle proposte, o attuate (vedi job act o Italicum da noi) possano in qualche modo aiutare una ripresa economica. L’austerità, è forse una riforma, o non invece una politica tanto miope da impedirla? Questa è la lezione che viene dalla Grecia: se invece di insistere su questa come sola ricetta già dal 2010 si fossero invece sacrificati pochi soldi per consentire gli investimenti necessari alla modernizzazione del paese non saremmo a questo punto. I greci oltre che fannulloni sarebbero anche imbroglioni perché hanno preso i soldi e non li restituiscono. Se qualcuno avesse memoria, un bene che sembra ormai raro, ci si ricorderebbe di quanto divenne chiaro, e forse a noi stessi per la prima volta, quando scoppiò il dramma del debito accumulato dai paesi del terzo mondo da poco arrivati all’indipendenza. Erano gli anni ’80 ed emerse che quei paesi erano stati vittime di quelli che allora non si ebbe timore di chiamare “spacciatori”. Perché è così che si indebitarono oltre il ragionevole: per l’insistente offerta di accedere a un modello di consumo superfluo e dannoso, per il quale non c’erano risorse e che fu indotto perché così conveniva ai prestatori che poi passarono a chiedere il conto. La Grecia non è l’Africa, ma gran parte del suo debito è stata accumulata proprio così, per colpa di banche e di imprese senza scrupoli. Che peraltro sono state oggi — erano tedesche sopratutto ma non solo — felicemente ripagate con danaro pubblico europeo. Quando, poco dopo l’ingesso della Grecia nella Comunità Europea, nell’81, si arrivò al semestre di presidenza affidato per la prima volta ad Atene, l’allora ministro degli esteri del governo di Andreas Papandreu, Charampopulos, dichiarò: «Non possiamo restare silenziosi di fronte a una linea politica che non prende in considerazione il fatto che un’Europa a nove era un’Unione fra nove paesi ricchi, e un’Unione a dieci, e ancor più quando saranno dodici con il prossimo ingresso di Spagna e Portogallo, soffrirà di un drammatico gap nord-sud per affrontare il quale sarà necessario un vasto trasferimento di risorse pubbliche e di un piano statale inteso a condizionare le selvagge regole del mercato». Si trattò di una saggia previsione. Di cui tuttavia anche il governo socialista greco finì per dimenticarsi, sicché anche quando i governi socialisti furono in maggioranza nel Consiglio europeo non ci fu alcuna modifica sostanziale nella linea politica dell’Unione. Fu proprio allora che fu decisa la libera circolazione dei capitali senza che alcuna misura di controllo e di unificazione fiscale fosse assunta. Renzi avrebbe avuto una buona occasione per riprendere il discorso e far valere le ragioni dei paesi europei del Mediterraneo, contro la logica assurdamente e falsamente omologante che pretende di adottare linee di politica economica analoghe per realtà così diverse. Fa comodo, naturalmente. A meno non si pensi ad una nuova Unione senza gli straccioni del sud. Per di più comunisti. «Un’Europa senza il Mediterraneo sarebbe — 4 come ha scritto Peredrag Matvejevitch — un adulto privato della sua infanzia». Cioè un mostro. Quando l’altro giorno ho sentito nel corso di un medesimo giornale radio che le ultime notizie da Bruxelles riguardavano un formaggio senza latte, un cioccolato senza cioccolata, e sopratutto un territorio senza immigrati, mi è venuta voglia di dire andate tutti al diavolo. Ma non si può. Con la globalizzazione abbiamo perduto quel tanto di sovranità che gli stati nazionali ci consentivano. A livello mondiale è quasi impossibile costruire istituzioni che ce ne restituiscano almeno una parte. La sola speranza è di ricostruirle ad un livello più ampio del nazionale e più limitato del globale, quello di grandi regioni in cui il mondo possa articolarsi. L’Europa è una di queste. Ma il discorso vale solo se lo spazio comune non è solo un pezzo di mercato, ma una scelta, un modello di produzione e di consumo diversi, una rivisitazione positiva di una comune tradizione. Il negoziato di Atene ci aiuta, in definitiva, ad andare in questa direzione. Ed è per questo che va sostenuto. Da Ansa del 01/07/15 Espace populaire compie 10 anni, week-end di festa Concerti, appuntamenti enogastronomici e dj set per ballare (ANSA) - AOSTA, 1 LUG - L'Espace Populaire compie 10 anni di attività e li festeggia con un fine settimana all'insegna di musica e cucina. Il programma prevede per venerdì 3 luglio musica dal vivo dalle 22,30 con Boj & Good People, Il Tusco, I Fischi, Autoscatto. A seguire dj set con Bob Sinisi, Arma, Musashi, Mr.B. Il giorno seguente pranzo sociale aperto a tutti dalle 13 e alla sera concerto di Beppe Barbera Duo, Jazz Jam dell'Espace, Kafersound, Taverna Sound System, Sago e Mr Riggae. L'Espace Populaire, che si trova in via Mochet 7, dal 2005 ad oggi ha proposto oltre 200 eventi musicali, decine di incontri pubblici, cabaret, spettacoli di magia, teatro, conferenze e presentazioni di libri, cineforum, sede di corsi, di associazioni, di Gruppi d'acquisto solidale e serate ludiche, "quartier generale per battaglie ambientali e sociali, buon cibo a prezzi popolari e tante altre cose". "In questi anni - si legge in una nota - migliaia di persone hanno partecipato alle nostre iniziative, mentre decine di volontari le hanno rese possibili, contribuendo all'autogestione di questo spazio comune". Espace Populaire aderisce alla rete Arci "ma dal 2014, per aprirci alla città, l'ingresso è consentito anche ai non soci". (ANSA). 5 ESTERI Del 01/07/2015, pag. 2 Ultimo spiraglio, Atene e Ue tornano a trattare. Ma gli aiuti sono scaduti Offerta di Juncker sul debito e Tsipras chiede terzo salvataggio No dell’Eurogruppo. Oggi nuova riunione con proposte dei greci ANDREA BONANNI BRUXELLES . Dalla mezzanotte di ieri la Grecia è insolvente nei confronti del Fondo monetario internazionale, e dunque entra in procedura di default. Inoltre, sempre dalla mezzanotte, è scaduto anche il programma di assistenza che i suoi creditori avevano già prorogato nel febbraio scorso fino alla fine di giugno. E quindi Atene ha perso la possibilità di rivecere i dodici miliardi di euro dell’ultima tranche del prestito collegato al programma e alla ricapitalizzazione delle banche greche. E’ questa l’amara conclusione di una giornata frenetica, in cui le parti hanno fatto estremi tentativi per trovare un accordo che evitasse al Paese di sprofondare ancora di più nel baratro. Senza riuscirci. A meno che Tsipras non decida di accettare le condizioni dei creditori e di cancellare il referendum, le residue possibilità che la Grecia riesca a riprendere il treno europeo sono adesso legate all’esito della consultazione di domenica. Oggi poi si riunirà il direttivo della Bce che dovrà decidere se mantenere aperto il programma di rifinanziamento degli istituti di Atene, che ieri Standard & Poor’s ha declassato al rating di «default selettivo». L’unico serio tentativo di evitare la catastrofe in extremis è stato compiuto dal presidente della Commissione Jean-Claude Juncker nella notte tra lunedì e martedì. Dopo aver duramente criticato Tsipras in conferenza stampa e aver invitato i cittadini greci a votare “sì” al referendum, Juncker ha comunque preso il telefono e ha chiamato il premier greco, che poche ore prima in televisione aveva riconosciuto le sue «buone intenzioni » nella gestione della crisi. Parlando a nome della Troika di creditori, Juncker ha fatto ad Atene un’ultimissima offerta la cui parte più allettante era la disponibilità ad aprire una discussione sulla «sostenibilità » del debito greco, cioè sulla possibilità di rivedere ulteriormente scadenze e interessi, già perlatro molto favorevoli. Se Tsipras avesse accettato, Juncker si era detto disposto a convocare in giornata un Eurogruppo straordinario per decidere una proroga del programma di assistenza almeno fino alla data del referendum. Ma la condizione essenziale era che il governo greco ribaltasse la sua posizione sul quesito referendario, schierandosi in favore dell’Europa e del “sì”. I greci hanno prima respinto l’offerta, abbastanza seccamente. Poi, secondo fonti di stampa ateniesi, l’hanno ripresa in considerazione. Il premier maltese ha perfino riferito in Parlamento che Tsipras aveva considerato di annullare il referendum. Il ministro delle finanze Varoufakis avrebbe avanzato la proposta di modificare i termini del quesito referendario. Alla fine da Atene è partita una richiesta di proroga del programma di assistenza, associata alla domanda di un nuovo programma biennale che avrebbe previsto una rinegoziazione del debito greco e ulteriori finanziamenti per almeno 30 miliardi di euro fino al 2017, ma senza specificare in dettaglio sulla base di quali impegni di riforme e di risanamento dei conti. Il presidente dell’Eurogruppo Dijsselbloem, a cui la richiesta era indirizzata, ha convocato una riunione in teleconferenza dei ministri dell’Eurozona. Ma prima ancora che questi potessero parlarsi ci ha pensato Angela Merkel a gelare le 6 aspettative. « Berlino non prenderà in considerazione l’ipotesi di un terzo salvataggio per la Grecia prima dell’esito del referendum di domenica prossima. Naturalmente anche dopo mezzanotte non taglieremo fili del dialogo, o non saremmo l’Unione europea », ha spiegato la Cancelliera parlando ai deputati del suo partito. E’ infatti così è stato. L’Eurogruppo ci ha messo meno di un’ora per respingere l’ennesima proposta greca. Ma si riunirà di nuovo questa mattina per esaminare i dettagli mancanti che i greci si sono impegnati inviare nella notte. In ogni caso, hanno fatto sapere diversi ministri presenti all’incontro, dopo la scadenza del vecchio programma bisognerebbe negoziarne uno ex novo. «Nessun programma sarà approvato prima del referendum di domenica. E in ogni modo si tratta di una procedura complessa — ha spiegato Dijsselbloem al termine dell’incontro— nel frattempo la situazione dell’economia greca e delle banche greche si è ulteriormente deteriorata, quindi sarà un percorso difficile da concordare. L’unica cosa che può cambiare è l’attenggiamento politico del governo greco che ha portato a questa infelice situazione» . Come dire che Tsipras è ancora in tempo per annullare i referendum, o schierarsi in favore del “sì”. Del 01/07/2015, pag. 6 Cure mediche gratis e Borsa dei cibi di scarto così gli Angeli anti-crisi provano a salvare Atene Un mini esercito di eroi per caso sostituisce lo Stato e fa a gara di solidarietà per salvare i più bisognosi ETTORE LIVINI ATENE. L’armata degli angeli anti-crisi di Atene si è regalata un nuovo iscritto di peso. «Ci stavamo pensando da un po’» ammettono alla sede dell’Associazione dei medici ellenici. Poi domenica scorsa, davanti alle immagini in tv delle code ai bancomat e agli allarmi sulle scorte di medicine nelle farmacie, hanno rotto gli indugi. «Crisi o non crisi una cosa non cambia: i greci non hanno perso il vizio di ammalarsi», scherza Eirini Vathis, infermiera all’Evangelismos. E così la mini-Confindustria dei dottori – davanti al rischio dell’ennesima emergenza sanitaria - ha acceso il pc e mandato una mail a tutti i suoi iscritti: «Questa settimana, almeno fino al referendum, vi preghiamo di curare gratuitamente chiunque ne avesse davvero bisogno». Un fiore nel deserto? Tutt’altro. Tsipras, Merkel e i tecnocrati della Troika sono i primattori mediatici della tragedia della Grecia. Dietro le quinte però, lontano dai riflettori, a scrivere il lato B dell’austerity sono altri protagonisti: un piccolo esercito di eroi per caso che in questi cinque anni passati come uno tsunami sul paese si è rimboccato le maniche e ha sostituito uno stato senza soldi, aprendo un ombrello di solidarietà sulla parte più debole della società. «Platone dice che la comunità si costruisce quando la gente non è più autosufficiente » è il mantra di Xenia Papastravou, laurea alla London School of Economics e anima della Ong Boroume. Lei è uno dei primi angeli della capitale: nel 2011 - mentre era dal panettiere verso l’ora di chiusura - ha adocchiato 12 torte di formaggio che due ore dopo sarebbero finite come avanzi in pattumiera. E, con l’ok del fornaio, le ha portate alla mensa della chiesa locale, dove ogni sera si allungava una fila di persone che non avevano i soldi per la cena. L’economista che c’è in lei ha fiutato il business. A fin di bene. E oggi quelle torte di formaggio si sono moltiplicate come i pani e i pesci. Boroume 7 ha distribuito lo scorso anno in tutta la Grecia 1,3 milioni di pasti strappati alla spazzatura (il 400% in più del 2013). Donano gli avanzi gli alberghi di lusso, regalano i cibi vicini alla scadenza le catene di supermercati. «Il telefono non smette mai di squillare» racconta uno dei 60 volontari che ruotano attorno al piccolo ufficio nel cuore della vecchia Atene, dove un data base hi-tech incrocia la domanda (purtroppo ancora in aumento) e l’offerta, pilotando a destinazione qualcosa come 4mila pasti al giorno. A 100 metri dal quartier generale della geniale Borsa degli scarti alimentari di Alexandra c’è la clinica gratuita di Doctors of the world, che dal 2012 a due mesi fa – quando il governo Syriza ha reintrodotto il concetto di copertura sanitaria per tutti - è stata uno dei pochissimi punti di riferimento per quel milione di greci che dopo un anno di disoccupazione ha perso il diritto all’assistenza medica gratuita. «Pensavamo di aver visto tutto, ma di fronte al rischio del default del paese ci stiamo preparando al peggio» racconta Dimitris nel suo camice blu, uno dei pediatri volontari che la mattina visitano i bambini. «La nostra clinica mobile lo scorso anno ha assistito 80mila persone» racconta Nikitas Kanakis, l’anima di questa oasi di solidarietà in uno dei quartieri più problematici della capitale. E ogni mattina davanti all’ospedale c’è una fila di un centinaio di persone in attesa «tra cui i greci – ammette sconsolato -sono sempre di più». L’Europa si sta sfaldando in diretta in queste ore in un ping-pong tra Atene, Berlino e Bruxelles. I suoi valori, per fortuna, resistono ancora in queste strade strette e spesso un po’ malandate sotto il Partenone.Ogni venerdì a Ermou, davanti ai negozi delle griffe, si piazza la cucina mobile di O Allos Anthropos sotto il cartello “Cibo gratis per tutti” a servire pasti gratuiti. Manna in un paese (dati Ocse) dove la percentuale di chi non può permettersi un pasto è raddoppiata dal 2008 al 18%. Ci sono gli psicologi di Klimaka che aiutano le persone in difficoltà neurologica (i suicidi nel paese sono aumentati del 35 per cento), la Kyada che ha organizzato centinaia di posti letto per i senza tetto. In questi giorni, da Salonicco ad Atene, si stanno moltiplicando le iniziative spontanee per aiutare le centinaia di migranti che ogni giorno passano qui nel corso dell’Odissea per fuggire dalle guerre. Al Pireo, nel cuore della vecchia base americana, lavorano i volontari della Metropolitan Clinic of Helliniko. Il governo ha tagliato i fondi agli ospedali – scesi da 640 milioni a 43 nei primi quattro mesi dell’anno – e molti arrivano qui, di fronte al vecchio campo di baseball dei militari a stelle e strisce, per farsi curare o prendere medicinali. «Siamo a quota 1.100 visite al mese» dice Christos Sideris, uno dei coordinatori dell’iniziativa appena premiata dal Parlamento europeo con un riconoscimento («un premio ipocrita – dice Christos – senza l’imposizione della loro austerity di noi non ci sarebbe bisogno»). L’università di Atene calcola che nel paese – in questi cinque anni d’austerity - siano spuntate almeno 500 iniziative spontanee di solidarietà come queste. Il Pil scende, la Troika taglia le pensioni. Ma il numero degli angeli di Atene, almeno quello e per fortuna, continua a crescere. Del 01/07/2015, pag. 1-28 Quando l’errore è nella diagnosi MARIANA MAZZUCATO IL MOTIVO per cui non si è riusciti a raggiungere un accordo con la Grecia è che la diagnosi era sbagliata fin dal principio: questo ha finito per far ammalare il paziente ancora di più, e oggi il paziente vuole interrompere la cura. Questa triste storia rappresenta un fallimento di immani proporzioni per la Ue. COME Yanis Varoufakis ripete fin dall’inizio, la 8 Grecia non aveva una crisi di liquidità, ma una crisi di solvibilità, originata a sua volta da una crisi di “competitività”, aggravata dalla crisi finanziaria. E una crisi di questo tipo non può essere risolta con tagli e ancora tagli, ma solo con una strategia di investimento seria accompagnata da riforme serie e non pro forma per ripristinare la competitività. La vera cura. Invece, fingendo che la Grecia avesse solo una crisi di liquidità ci si è concentrati troppo su pagamenti del debito a breve termine e condizioni di austerity sfiancanti imposte per poter ricevere altri prestiti, che sarà impossibile rimborsare in futuro se non torneranno crescita e competitività. E non torneranno se la Grecia non potrà investire. Un circolo vizioso senza fine. La realtà è che è impossibile avere un’unione monetaria con competitività tanto differenti. E finora non c’è stata una comprensione chiara di come e perché queste differenze di competitività siano nate. Se da un lato è corretto mettere l’accento sulle riforme fiscali e sulle modifiche all’età pensionabile per riportarle in linea con il resto d’Europa, dall’altro lato si è parlato molto di quello che bisognava buttare non si è parlato per nulla di quello che bisognava costruire. Come in Italia, si è puntato solo a ridurre le pensioni, gli stipendi dei dipendenti pubblici, le rigidità del mercato del lavoro ( eufemismo che sta per diritti dei lavoratori!), partendo dal presupposto che sbarazzandosi delle inefficienze sarebbe arrivata la crescita. Ma nulla è più lontano dalla verità. C’è molto da costruire, non solo da eliminare, e fin quando non si farà questo la Grecia non arriverà a nulla. E il rapporto debito/Pil aumenterà perché il denominatore (il Pil) rimarrà al palo, anche se il numeratore (il deficit) resterà basso. La Grecia deve fare quello che la Germania fa (investire), non quello che la Germania dice (tagliare)! Molti criticano la Germania perché investe poco, ma la verità è che negli ultimi decenni la Germania ha investito in tutte le aree decisive non solo per aumentare la produttività, ma anche per creare una crescita trainata dall’innovazione. Aziende come la Siemens, che vince appalti pubblici nel Regno Unito, sono il risultato del dinamismo dell’ecosistema pubblico/privato in Germania, con forti investimenti pubblici sui collegamenti fra scienza e industria; la presenza di una banca pubblica grossa e strategica (la KfW), che offre alle imprese tedesche capitali “pazienti”, impegnati sul lungo termine; un modello di governo d’impresa incentrato sugli stakeholders (i portatori di interesse) e focalizzato sul lungo periodo, invece del modello anglosassone incentrato sugli shareholders (gli azionisti) e focalizzato sul breve periodo, che l’Europa meridionale ha copiato; un rapporto ricerca e sviluppo/Pil superiore alla media; investimenti sulla formazione professionale e il capitale umano; una strategia mission- oriented che punta a rendere “verde” l’intera economia. Immaginate che risultato diverso (“compromesso”) avremmo avuto se le trattative avessero puntato a far digerire alla Grecia una strategia di investimenti, invece che altri tagli: va bene, noi vi salviamo, ma voi riformate il vostro Paese e mettete in moto investimenti pubblici (del tipo su elencato) per essere pronti per la sfida dell’innovazione del 2020! Invece, insistere sul proseguimento dello status quo, con abbondanza di altre misure di austerity, ha prodotto una Grecia sempre più debole, più disoccupazione e più perdita di competitività. Alla Grecia bisognava sì somministrare la medicina tedesca, ma quella vera, non quella ideologica. E non dimentichiamo ciò che tanti hanno ripetuto: dopo la seconda guerra mondiale il 60 per cento dei debiti tedeschi fu cancellato. È un altro esempio di come la Germania abbia beneficiato di una medicina, ma ne prescriva una diversa per tutti gli altri. Tra l’altro è anche vero che questa medicina la Grecia l’ha ingoiata in questi ultimi, dolorosi mesi, ma pochissimi glielo hanno riconosciuto: ha ridotto il disavanzo, tagliato il numero di dipendenti pubblici e alzato l’età pensionabile. Se gli avessero dato maggior respiro, avrebbe potuto fare di più. Se la Grecia dovesse uscire, l’unica speranza è che l’insistenza di Varoufakis per un programma di investimenti a livello europeo possa almeno trovare una soluzione nazionale. Forse si potrebbe partire dalla creazione di una banca per lo sviluppo come la KfW e usarla per mettere in moto una 9 strategia di investimenti a lungo termine. L’Italia deve trarre gli insegnamenti giusti da questa tragedia greca. La competitività dell’Italia è scadente quasi quanto quella della Grecia, e fino a questo momento la strategia di investimenti è stata alquanto deficitaria: qualche misura pro forma sull’istruzione, tagli al settore pubblico e tanta attenzione a quello a cui i lavoratori devono rinunciare. Perciò, se ci sarà la Grexit – e l’Europa non si deciderà a portare nella stanza un vero dottore – preparatevi per l’exItalia il prossimo anno. Del 1/07/2015, pag. 2 Dai negoziati segreti all’inchino alla Troika. Quando il Fondo accettò di affossare Atene Cinque anni dopo - L’istituto di Washington ha guadagnato 2,5 miliardi dai prestiti di Carlo Di Foggia Sabato, quattro ore prima che Alexis Tsipras facesse saltare i piani dei creditori, Dominique Strauss-Kahn ammetteva su Twitter: “Sulla Grecia, il Fmi ha fatto degli errori, sono pronto a prendere la mia parte di responsabilità: basta prestiti, serve una riduzione massiccia del debito”. L’ex direttore generale dell’Fmi pensava la stessa cosa anche nel 2010, quando era alla guida dell’istituzione di Washington. Da ieri la Grecia è in default verso il Fondo monetario internazionale. La Ong inglese Jubilee debt campaign ha sottolineato come finora il Fmi abbia ricavato 2,5 miliardi di profitti netti dai suoi prestiti alla Grecia (che salirebbero a 4,3 miliardi entro il 2024), il suo più grande debitore. Fino al 2010, quando esplose la crisi di Atene, a Washington vigeva la regola “basta nuovi casi Argentina”: nel 2001 il default di Buenos Aires fu catastrofico. Il principio era: “I prestiti vanno solo ai Paesi in crisi di liquidità, quelli insolventi devono prima ristrutturare i debiti per far sì che gli aiuti servano”. Nel 2010, con un debito pubblico al 130% del Pil, in mano estera, un deficit/Pil al 15% e un passivo oltre l’11 della bilancia dei pagamenti i dubbi che la Grecia potesse ripagare i prestiti erano forti nello staff tecnico del Fondo, quello che dovrebbe fornire le analisi “indipendenti” sulla base delle quali il board (l’organo esecutivo) prende le decisioni. Così non avvenne. In un report, Paul Blustein, del Centre for International Governance Innovation (Cigi) ha svelato che nei giorni che precedettero la firma del memorandum, membri di primo piano dello staff tecnico incontrarono in gran segreto in un hotel di Washington funzionari dei ministeri delle Finanze di Germani e Francia. Per negoziare una ristrutturazione del debito greco. Fu Strauss-Kahn a trascinare il Fmi nell partita greca, desideroso di far uscire il Fondo dall’irrilevanza seguita al crac Argentino. E accettò tutte le condizioni imposte dai riluttanti Paesi europei: l’istituto si trasformò – scrive Blustein – in un “junior partner” della Troika. I suoi negoziatori non potevano trattare direttamente con i funzionari greci, e nei tavoli erano costretti “a sedere al fianco della Bce, di fronte agli sherpa di Atene, quando invece il Fondo aveva sempre trattato con le banche centrali dei Paesi in difficoltà”. Strauss-Kahn mise la firma così su un piano di austerità “assolutamente irrealistico”, che ha poi costretto i creditori ad accettare un pesante taglio del debito nel 2012, “quando però gran parte di quelli privati, le banche, erano già rientrati dei loro crediti”. Alla vigilia del 10 prestito, il board dell’Fmi cambiò al volo, con una delibera “ad personam”, le sue stesse regole: anche se l’insolvibilità di un Paese era “alta”, gli si potevano prestare soldi se il suo default avrebbe avuto effetti “sistemici”. Non bastava. Per oliare il tutto, lo staff “addomesticò” le previsioni sull’impatto disastroso dei pesanti tagli di spesa voluti dalla Troika. Il board approvò così il secondo “caso Argentina”. Salvo poi ammettere il bluff nel 2013: il famoso “ci siamo sbagliati sull’austerità in Grecia”. Per Blustein non vi fu errore, ma una scelta deliberata sotto la pressione degli europei. Nella primavera del 2010, quando Jürgen Stark, membro del comitato esecutivo della Bce sostenne in una riunione che il debito della Grecia era “insostenibile”, e quindi i creditori privati dovevano rimetterci almeno un po’, il presidente Jean-Claude Trichet “esplose”: “Siamo un’unione monetaria, non ci devono essere ristrutturazioni del debito!”. “Urlava”, ricorda Stark. I negoziati segreti saltarono, e si arrivò a maggio alla firma del memorandum. Il Fmi prestò 30 miliardi. Al momento del voto, Paulo Nogueira Batista, il rappresentante del Brasile al Fmi salutò così la decisione: “Questo non è un salvataggio della Grecia, ma un salvataggio dei suoi creditori privati, prevalentemente europei”. Così è stato. Del 01/07/2015, pag. 4 Il default non scatta prima di un mese Il mancato pagamento ieri di 1,56 miliardi di euro al Fondo monetario non provocherà la immediata dichiarazione di insolvenza: la procedura è lunga. Grecia messa in arretrato insieme a Sudan e Zimbabwe EUGENIO OCCORSIO ROMA. Il primo mancato pagamento ( non si può chiamare ancora default) della Grecia si è materializzato ieri alle 18 ora di Washington, l’una di notte ad Atene. Ed è un “predefault” pesante. Al Fondo Monetario, che attendeva il saldo di una rata da 1,56 miliardi di euro, non è arrivato nemmeno un centesimo. Atene deve in tutto 21 miliardi di euro all’Fmi, il maggior finanziamento nella storia dell’istituzione. Anche se la Grecia ha chiesto ufficialmente una proroga, sono scattate le misure automatiche. Atene è stata messa in arrears (arretrato) insieme a una poco raccomandabile compagnia di Paesi morosi: Sudan, Somalia, Cuba e Zimbabwe, l’ultimo ad unirsi al gruppo quando nel 2001 mancò una rata da 112 milioni di dollari. La Grecia è il primo Paese industrializzato a essere insolvente con il Fondo (che come si ricorderà negli anni ’70 fece anche un prestito all’Italia). Ora Atene, come Harare o Mogadiscio, non può più accedere ad alcuna risorsa del Fondo stesso, finché ovviamente non paga i suoi debiti, e qualsiasi sua richiesta, si legge nel sito dell’Fmi, «non verrà più analizzata ». Anche se – puntualizza sempre il sito – Atene non perde il titolo di membro del Fondo (sono 188) e potrà usufruire dell’assistenza tecnica ove richiesta. Quella che è partita ieri è una procedura meticolosamente ritualizzata. Entro due settimane la direttrice Lagarde invia una comunicazione al governatore della Banca di Grecia ( nonché alla Bce) «sottolineando la gravità della situazione » e chiedendo ufficialmente il pagamento. Se nulla accade, entro un mese il managing director (sempre Lagarde) notifica l’accaduto all’Executive Board. Ma la stessa Lagarde, per quanto sia stata sollecitata personalmente nientemeno che da Obama ad aver un approccio morbido alla vicenda (o forse proprio per questo) ha già detto che si avvarrà della sua facoltà di abbreviare questo passaggio. Che è cruciale perché è il momento in cui tecnicamente si parla di default, con un’avvertenza ulteriore: questo non comporta automaticamente il default verso altri creditori, l’Esm o la Bce, e non comporta 11 neanche automaticamente la cancellazione del rating, per quello che può valere dopo il ridimensionamento del potere di Standard & Poor’s e Moody’s sancito dal Dodd-Frank Act del 2010 con esplicito riferimento ai creditori “ufficiali” come l’Fmi. Come dire, facciano quello che vogliono ma noi non ne saremo influenzati. La procedura comunque, a meno che non venga interrotta a suon di banconote, prosegue: dopo ancora due settimane il managing director e il board si consultano, e nel frattempo inviano a tutti i rappresentanti degli Stati e ai governatori centrali una lettera accusando di “non collaborazione” il Paese in questione. Allo scadere del secondo mese parte un’altra nota di protesta ufficiale sempre dall’ufficio del direttore generale. Al terzo mese, ennesima nota di biasimo nonchè divieto di accesso ai diritti speciali di prelievo, una sorta di valuta di riserva del “tesoretto” del Fondo alimentata dai contributi degli Stati membri. Fra il sesto e il dodicesimo mese un’altra scadenza importante: dopo l’ennesimo scambio di lettere di protesta, scatta la declaration of ineligibility: la Grecia non potrà mai più avere soldi dall’Fmi. Al 15° mese si bloccano anche le “assistenze tecniche” di cui si diceva, al 18°viene messa ai voti del board l’espulsione della Grecia. Del 01/07/2015, pag. 9 E anche Grillo vola in soccorso di Alexis IL LEADER 5STELLE DOMENICA IN GRECIA CONTRO L’EURO.CI SARÀ PURE UNA PARTE DELLA SINISTRA ITALIANA,DA VENDOLA A FASSINA ALBERTO CUSTODERO ROMA . Politici italiani ad Atene, domenica prossima, per il referendum. Un pezzo di sinistra e Grillo. E’ una mini carovana multicolore quella che domenica porterà sostegno dall’Italia al fronte del no al referendum in Grecia voluto da Tsipras. Da Beppe Grillo a Niki Vendola, passando dal fuoriuscito Pd Stefano Fassina all’esponente della minoranza dem Alfredo D’Attorre, partiranno sabato in aereo per la Grecia. Maurizio Landini, leader di Coalizone Sociale, invece, non ci andrà: «E’ inutile — ha detto ai suoi il segretario Fiom — l’importante che ognuno faccia la sua parte per questa battaglia di democrazia». Lo slogan della sinistra è “Oxi”,(no), l’hastag il nome della città dove si terrà un presidio seguito da “...con Atene”. A “Roma con Atene”, venerdì 3 luglio, partirà da Piazza Farnese una fiaccolata che si snoderà per le vie del centro. A “Milano con Atene” l’iniziativa sarà ai Navigli. Ma manifestazioni analoghe si svolgeranno in tutta Italia organizzate da una rete di partiti movimenti sindacati e associazioni studentesche che, per scelta, non hanno voluto esprimere sigle. Ma solo l’adesione all’appello europeo lanciato sabato scorso ad Atene. La prima città dove s’è svolto, in modo spontaneo, uno dei primi sit-in pro referendum, è Napoli: sul Municipio il sindaco Luigi De Magistris ha autorizzato l’esposizione di uno stricione con la scritta # Napoli con Atene. Niki Vendola ha confermato ieri in serata la sua presenza ad Atene, mentre la delegazione dei parlamentari di Sel sarà decisa oggi durante la riunione del gruppo. Al momento è confermata la presenza del deputato Nicola Fratoianni e del capogruppo Arturo Scotto, per nulla imbarazzato che Sel si trovi su posizioni analoghe della destra. «Le differenze tra Meloni, Salvini e Grillo e Sel — spiega Scotto — è che per noi l’euro va salvaguardato e difeso. Occorre tuttavia evitare che si parli esclusivamente di rigore e parametri economici, ma di riequilibrio sociale». Ma come vive il deputato D’Attorre il suo sostegno al no, che va contro la linea pd tracciata dal segretario Matteo Renzi? «Provo un 12 grande disagio e imbarazzo — ammette l’esponente della miniranza dem — per il fatto che, dopo Scuola e Lavoro, su un altro tema fondamentale come l’Europa e la Grecia Renzi collochi il Pd dalla parte sbagliata». «La posizione di Renzi — aggiunge D’Attorre — non è nemmeno di una mediazione, ma è di coloro che stanno provandao a stringere Tsipras in un angolo, e stanno lavorando per un cambio di governo in Grecia». «Non è solidarietà — ci tiene a precisare Stefano Fassina — ma è una questione di attenzione al nostro interesse nazionale». «Noi siamo per il no — dice ancora il deputato ex Pd — ma l’Ue ha proposto alla Grecia condizioni capestro inaccettabili che prolungano e acuiscono l’agonia della Grecia, non servono per sollevarla dalla crisi. Fatte le proporzioni con il nostro Pil, è come se all’Italia imponessero una manovra da 70 miliardi, il doppio di quella fatta da Monti». Anche Grillo sarà ad Atene con alcuni deputati tra cui Alessandro Di Battista per festeggiare, spera il leader M5S, l’esito del referendum chiesto da Alexis Tsipras. Del 1/07/2015, pag. 3 D’Alema, Stiglitz e Piketty: “Cara Europa, evita questa brutta pagina e aiuta i greci” “Chiediamo ai leader europei di evitare di scrivere una brutta pagina di storia”. È il nuovo appello del gruppo di economisti, tra cui il premio Nobel Joseph Stiglitz, Thomas Piketty e l’ex premier italiano Massimo D’Alema, che all’inizio di giugno dalle pagine del Financial Times aveva auspicato un compromesso per risolvere la crisi greca. Nel giorno in cui scade il piano di aiuti per la Grecia e il premier Alexis Tsipras fa i conti con la proposta arrivata in extremis dal presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker gli stessi firmatari – tra cui anche James Galbraith, professore all’University del Texas, e D’Alema, che presiede la Foundation for Europen progressive studies – tornano a scrivere al quotidiano finanziario. “Occorre mettere la Grecia in grado di pagare 1,6 miliardi di euro al Fmi“, si legge nell’appello, che prosegue: “Bisogna permettere uno swap del debito con titoli della Bce dovuti in luglio e agosto in cambio di bond dal fondo di salvataggio, con scadenze più lunghe e tassi di interesse più bassi, che riflettano gli inferiori oneri finanziari dei creditori”. L’intervento esorta a ricominciare le trattative “tenendo, in primo luogo, in considerazione che le politiche restrittive di austerità richieste alla Grecia sono state screditate dallo stesso dipartimento di ricerca del Fmi. In secondo luogo, non bisogna dimenticare che i leader di Syriza si sono impegnati a intraprendere in Grecia riforme di ampia portata, se avranno lo spazio di manovra per farlo”. Del 01/07/2015, pag. 11 L’analisi. La cultura nata all’ombra del Partenone fa parte del mito fondativo del Vecchio continente. E i singoli Stati non devono ignorarlo se non vogliono disfarsi tra nazionalismi e calcoli economici 13 Siamo tutti figli del logos Ecco perché la Grecia resterà sempre la miglior patria d’Europa MASSIMO CACCIARI Può l’Europa fare a meno della Grecia? Se la domanda fosse stata rivolta a uno qualsiasi dei protagonisti della cultura europea almeno dal Petrarca in poi, questi neppure ne avrebbe compreso il significato. La patria di Europa è l’Ellade, la “migliore patria”, avrebbe risposto, come verrà chiamata da Wilhelm von Humboldt, fondatore dell’Università di Berlino. Filologia e filosofia si accompagnano, magari confliggendo tra loro, nel dar ragione di questa spirituale figliolanza. Non si tratta affatto di vaghe nostalgie per perdute bellezze, né di sedentaria erudizione per un presunto glorioso passato, coltivate da letterati in vacua polemica con il primato di Scienza e Tecnica. Oltre le differenze di tradizione, costumi, lingue e confessioni religiose che costituiscono l’arcipelago d’Europa, oltre l’appartenenza di ciascuno a una o all’altra delle sue “isole”, si comprende che il logos greco ne è portante radice, che non si intende il proprio parlare, che si sarà parlati soltanto, se non restiamo in colloquio con esso. Quel logos ci raccoglie insieme e ha informato di sé la storia,il destino di Europa. Ciò vale per pensatori e movimenti culturali opposti, per Hegel come per Nietzsche.Vale per scienziati come Schroedinger, Heisenberg, Pauli. Vale anche per coloro che si sforzano di pensare ciò che nella civiltà europea resterebbe non-pensato o in-audito: anche costoro non possono costruire la propria visione che nel confronto con quella greca classica. Per la cultura europea, dall’Umanesimo alle catastrofi del Novecento, la memoria della “migliore patria” è tutta attiva e immaginativa: non si dà formazione, non può essere pensata costruzioneeducazione della persona umana nella integrità e complessità delle sue dimensioni senza l’interiorizzazione dei valori che in essa avrebbero trovato la più perfetta espressione. Un grande filosofo, Edmund Husserl, li ha riassunti in una potente prospettiva: nulla accogliere come quieto presupposto, tutto interrogare, procedere per pure evidenze razionali, regolare la propria stessa vita secondo norme razionali, volere che il mondo si trasfiguri teleologicamente in un prodotto della vita di questo stesso sapere. Una follia? Forse — ma una follia che ha veramente finito col dominare il mondo. Eurocentrismo? Certamente — ma autore dell’occidentalizzazione dell’intero pianeta. La Grecia non assume più per noi alcun rilievo culturale e simbolico? Possiamo ormai contemplarla come l’Iperione di Hölderlin dalle cime dell’istmo di Coritno: «lontani e morti sono coloro che ho amato, nessuna voce mi porta più notizie di loro»? Come è spiegabile un simile sradicamento? L’anima bella “progressista” risponde con estrema facilità: quell’idea di formazione che aveva la Grecia al suo centro era manifestamente elitaria, anti-democratica; la sua fine coincide con l’affermazione dei movimenti di massa sulla scena politica europea. Io credo che la risposta sia ancora più semplice, ma estremamente più dolorosa. Tra l’ora attuale( noi, i “moderni”!) e la “patria migliore” c’è il suicidio d’Europa attraverso due guerre mondiali. L’oblio dell’Ellade è il segno evidente della fine d’Europa come grande potenza. Si badi: grande potenza è anche lo Stato o la confederazione di Stati che intendano diventarlo. Essi dovranno, infatti, dotarsi tanto di armi politiche ed economiche quanto di una strategia volta alla formazione di classe dirigente e di una cultura egemonica. Sempre così è stato e sempre così avverrà. Quando vent’anni fa scrivevo Geofilosofia dell’Europa e L’Arcipelago ancora speravo che questo arduo cammino si potesse intraprendere. E ci si risparmi la fatica di ripetere che non è affatto necessario che ciò si realizzi nel senso di una volontà di potenza sopraffattrice. L’Europa può ora pensare di dimenticare la Grecia, perché rinuncia a svolgere una grande 14 politica, la quale può fondarsi soltanto sulla coscienza di costituire un’unità di distinti, aventi comune provenienza e comune destino. Se questa coscienza vi fosse stata, avremmo avuto una politica mediterranea, piani strategici di sostegno economico per i Paesi dell’altra sponda, un ruolo attivo in tutte le crisi mediorientali. E avremmo avuto grandi interventi comunitari per la formazione, gli investimenti in ricerca, l’occupazione giovanile. Tutto si tiene. Una comunità di popoli capace di svolgere un ruolo politico globale non può non avere memoria viva di sé, memoria di ciò che essa è nella sua storia, e non di un morto passato. Tutti miti — diranno gli incantati disincantati dell’economicismo imperante. So bene — l’Europa attuale è quella costruita sulla base delle necessità economico- finanziarie. Gli staterelli europei usciti dalla seconda Guerra non avrebbero potuto sopravvivere senza l’unità del denaro. Oggi la Grecia grida al mondo che una tale unità non produce di per sé alcuna comunità politica. Se pensiamo all’Europa come a un colossale Gruppo finanziario, allora è “giusto” che una delle sue società di minore peso( magari mal gestita, da un management inadeguato) possa tranquillamente essere lasciata fallire. L’importante è solo che non contagi le altre. Ma se l’Europa vuole ancora esistere in quanto tale,e non disfarsi in egoismi, nazionalismi e populismi, deve sapere che la Grecia appartiene al suo mito fondativo, e che nessuna credenza è più superstiziosa di quella, apparentemente così ragionevole e “laica”, che ritiene il puro calcolemus senso,valore e fine di una comunità. del 01/07/15, pag. 5 Renzi con Merkel «ma serve la terza via» Governo. Telefonata con Atene, oggi il premier all’Università di Berlino. «Alexis sbaglia ma l’austerity è un errore». Malumori nel Pd. Bersani: «Vogliamo spezzare le reni alla Grecia?». D’Attorre: «Ci siamo schierati contro gli interessi nazionali». Oggi il premier all’Università di Berlino a parlare dei «valori dell’Europa». Padoan va al senato. Le opposizioni: «Il premier difende le burocrazie europee» Daniela Preziosi Una telefonata da Atene. Arriva nel primo pomeriggio a Palazzo Chigi. È una richiesta di aiuto da parte di Alexis Tsipras nell’ultimo, esilissimo, filo di trattativa srotolato dalla Grecia fino a Bruxelles. Il primo ministro greco tenta tutte le strade per convincere la cancelliera Angela Merkel ad accettare l’ultima proposta per evitare i «terreni sconosciuti» di una rottura totale. E chiede a Renzi una mano. Ma in realtà in questi drammatici giorni Renzi non è stato tenero con il collega greco e niente autorizza a pensare che voglia spendersi per far ragionare la cancelliera. Lunedì ha lanciato in rete un tweet pesante: «Il referendum non è derby Ue-Tsipras, ma euro-dracma»: un concetto rifiutato da Atene e che anche il falco tedesco Schäuble ha fin qui evitato. Poi l’intervista al Sole 24 Ore, ancora duro con Tsipras: «Dare la colpa alla Germania è un comodo alibi ma non corrisponde alla realtà». Tsipras, da politico di razza, nel discorso in tv, non ha polemizzato con il collega italiano, anzi. «Renzi è un amico, e mi aspetto da lui che prenda un’iniziativa il giorno dopo la vittoria dei ’no’». Ma il realtà l’«iniziativa» che Tsipras avrebbe voluto dall’Italia era finalizzata all’eurogruppo di ieri sera, e riaggiornato a oggi. In assenza di alleati, il premier greco prova la strada di Roma. 15 Il premier italiano oggi sarà proprio a Berlino, alla Humboldt Universität, quella che ha laureato Marx ed Engels. Il titolo del discorso che terrà sarà «Ritorno al futuro», ma a dispetto della citazione pop, il celebre film di Bob Zemeckis, ha intenzione di fare un discorso ambizioso. Così ha spiegato ai suoi. Sulla Grecia, per esempio: «Tsipras sbaglia, ma l’Europa dell’austerity ha fallito», è il concetto. «Questo è il momento migliore per ragionare di una terza via nella terza fase dell’Europa, dopo quella dei padri fondatori e la stagione Kohl-Mitterrand». Renzi parlerà anche della lotta al terrorismo e dell’immigrazione. Ma il tema chiave sarà l’Europa e la cultura che anche in questi giorni sta esprimendo. «La ragione del nostro stare insieme non può essere solo la Champions League o l’eurofestival, ma i nostri valori culturali oggi minacciati da ondata demagogica e populista», ha ripetuto ieri prima di entrare nel consiglio dei ministri. E se l’Europa si difende alzando muri, reali o metaforici, deve sapere che un muro «comincia per difenderti, ma finisce per intrappolarti». Discorsi che vorrebbero scavare un ruolo per l’Italia di ponte fra l’Europa a trazione tedesca e la Grecia. Ma che non cancellano le parole pronunciate contro Tsipras e la Grecia. Fra le più dure di quelle che provengono dalla famiglia del socialismo europeo. E che cominciano a suscitare malumori dentro il Pd. Pier Luigi Bersani, all’inaugurazione di un circolo a Marina di Ravenna, senza tanti giri di parole — riferisce l’Huffington post — si schiera con Tsipras e usa una citazione forte: «Siamo allo spezzeremo le reni alla Grecia. Io non ci sto. Il piano era irricevibile». Massimo D’Alema al Tg3 parla di «spirito punitivo» contro la Grecia e di «accanimento terapeutico dei teorici dell’austerità», «oggi rischiamo una drammatica sconfitta politica dell’Europa, le cui conseguenze nessuno può calcolare. Sarebbe necessario un atto lungimirante che introduca una proposta ragionevole dell’ultimo minuto, una proposta che fosse accettabile e che non faccia perdere la faccia a nessuno, neppure alla Grecia. Ma questo non c’è. Anzi, c’è il divieto a farlo. Questo è del tutto inaccettabile. È la sconfitta della politica». Cesare Damiano critica la ricetta che la Ue vuole imporre alla Grecia sulle pensioni, che «produce una riforma che a noi ha lasciato come regalo gli esodati». Alfredo D’Attorre, che con l’ex pd Stefano Fassina domenica sarà ad Atene a fianco dei dirigenti di Syriza, spiega di aver chiesto «un confronto con Renzi, nei gruppi parlamentari o in direzione», ma di aver ottenuto l’invio del sottosegretario Gozi in una riunione che oggi si terrà fra deputati Pd a Montecitorio: a suo parere un chiaro segno di sottovalutazione di un tema cruciale. Renzi si è collocato, spiega, alla destra dell’Europa: «La scelta del nostro governo è tutta sbagliata: non solo abbiamo lasciato solo Tsipras di fronte al ricatto, ma abbiamo scelto una linea contro i nostri interessi nazionali: abbiamo difeso gli interessi delle potenze creditrici e non il cambiamento delle regole che interessano innanzitutto l’Italia». Renzi non ha fretta di confrontarsi neanche con il parlamento. Forse perché, tornato a Roma con un pugno di mosche sul tema dei migranti e poi anche escluso dal gruppo della trattativa, stavolta dovrebbe ammettere la scarsezza del ruolo italiano nella vicenda. Intanto, dopo le richieste delle opposizioni, oggi pomeriggio al senato arriverà il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. «Il ministro ci deve dire perché il nostro paese non si è schierato nettamente contro le politiche di austerità che stanno impoverendo il popolo greco», annuncia Arturo Scotto (Sel). «Ci deve dire da che parte sta il governo italiano. Se dalla parte del popolo greco o quella delle burocrazie europee», quelle che Renzi attacca ogni volta che può. A parole. 16 Del 1/07/2015, pag. 8 Renzi va a Berlino. E Grillo sarà ad Atene Il premier oggi nella capitale tedesca. Al telefono con Tsipras insiste perché ammorbidisca la sua posizione Padoan: governo assente nel negoziato? Falso. Il leader dei 5 Stelle vuole un referendum anche in Italia ROMA Convinto che l’Italia sia «già fuori dalla linea del fuoco» in caso di default greco, Matteo Renzi vola a Berlino per incontrare Angela Merkel. Un bilaterale in agenda da tempo, ma che alla luce della crisi di Atene assume un altro peso specifico. Ieri, quando Tsipras gli ha telefonato, il premier ha provato a scalfire l’«ostinazione» del leader di Syriza. «Noi vogliamo salvare la Grecia» va ripetendo Renzi, però la Grecia deve «rispettare le regole». La linea adesso è più netta. «Una cosa — ha detto il premier al Sole 24 Ore — è chiedere flessibilità nel rispetto delle regole, un’altra è pensare di essere il più furbo di tutti». Renzi non rinuncia alla battaglia contro l’austerity, ma nella sfida Merkel-Tsipras si schiera con la cancelliera. «Dare la colpa alla Germania è un comodo alibi», spiega. La Merkel «ha provato davvero a trovare una soluzione», restando però «spiazzata» dal referendum di Tsipras. E adesso? Se vincono i no, Renzi teme che la Grecia uscirà dall’euro e gli «scenari globali di difficoltà che si potrebbero aprire» ovviamente lo preoccupano. Ma sull’Italia si sente tranquillo grazie all’ombrello della Bce, alla crescita che riparte e al «percorso coraggioso di riforme strutturali» che ritiene di avere avviato. Domenica i greci sceglieranno il loro destino. Un derby tra l’euro e la dracma? «È una buona definizione», risponde Pier Carlo Padoan. E Renzi invita Bruxelles a rispettare la scelta del popolo, perché «democrazia è parola inventata ad Atene». D’Attorre, Fassina e Vendola hanno le valigie pronte. Domenica e lunedì in piazza Syntagma ci sarà anche Grillo, per gridare «potere al popolo, non alle banche» e annunciare un analogo referendum sull’euro da sottoporre agli italiani. Massimo D’Alema denuncia l’«accanimento terapeutico dei teorici dell’austerità» e attacca la cancelliera, giudicando «inappropriato» che la Merkel abbia preso la parola prima dell’Eurogruppo «pregiudicandone probabilmente l’esito». Le opposizioni fanno asse, tifano Tsipras contro Renzi e seminano il dubbio che l’Italia non abbia inciso nelle trattative per scongiurare il default. Accuse che il ministro dell’Economia smentisce: «Il governo assente dal negoziato? Falso. È sicuramente assente dall’apparizione pubblica». Come dire che contano i risultati, non la visibilità. Con Brunetta che gli rimprovera di «nascondersi sotto le gonne della Merkel» e la sinistra che vorrebbe spingerlo tra le braccia di Tsipras, Renzi a Berlino vuole giocare da mediatore, convinto com’è che l’Italia non sia più un problema per l’Europa ma un «problem solver». La giornata tedesca del premier inizierà al mattino alla Humboldt, il più antico ateneo della Capitale. Nell’università di Marx e Marcuse, Renzi terrà un discorso «alto», intitolato «Ritorno al futuro». Ribadirà che Tspiras sbaglia, ma che la Ue dell’austerity ha fallito, quindi indicherà la sua «terza via». Meno rigore e più crescita. Serve uno scatto, anche sul piano dell’identità: «La ragione del nostro stare insieme non può essere solo la Champions o l’Eurofestival, ma i nostri valori culturali minacciati da una ondata demagogica e populista». Discorso ambizioso, che toccherà anche terrorismo e immigrazione. E guai a pensare che una barriera fisica sia la soluzione, perché quel muro che «comincia per difenderti, finisce per intrappolarti». Monica Guerzoni 17 Del 1/07/2015, pag. 8 La scelta di stare con Merkel: senza la linea dura si favoriscono i populisti ROMA Matteo Renzi, che oggi vedrà Angela Merkel (un incontro più dovuto alle circostanze che ad altro) è preoccupato per quello che sta avvenendo in Grecia. Soprattutto per i riflessi che questa vicenda potrebbe avere sul nostro Paese. E non si sta parlando solo degli effetti economici di una eventuale fuoriuscita di quel paese dalla Grecia. Il premier contava di poter allargare le maglie strettissime della Ue rispetto al nostro debito e di rinegoziarlo già nel 2016. Certo il prossimo anno non avrebbe tentato di rimettere in discussione il fiscal compact . Quello era fuori discussione. Ma l’avrebbe fatto sicuramente l’anno dopo ancora. Ora il quadro è cambiato e il premier si deve adeguare. Con un punto che resta fermo: mantenere l’asse faticosamente costruito con la Germania. Dal giorno in cui Renzi ha capito che Hollande, pur stando con lui nel partito socialista europeo, non gli avrebbe mai fatto da sponda contro il rigore dei tedeschi, ha compreso che avrebbe dovuto prendere un’altra strada per ottenere quel risultato. Ma adesso la vicenda greca rischia di rovinare tutta la sua opera diplomatica. E non solo per questo. Già, perché se Tsipras ricatta l’Europa in nome di un referendum antieuro e alla fine ottiene qualcosa, Renzi ha perso anche la sua partita politica. E questo significherebbe che i suoi spazi di manovra si restringerebbero ulteriormente. Su questo fronte il ragionamento del presidente del Consiglio, in soldoni è questo, e lo ha fatto a ministri, collaboratori e fedelissimi: «Se in Europa passasse la linea dettata da Tsipras e Varoufakis, per il governo italiano sarebbe la fine. E non solo per quello italiano, perché dovrebbero cominciare a preoccuparsi anche gli spagnoli, tanto per fare un esempio vicino a casa nostra. «A quel punto — è la riflessione che il presidente del Consiglio ha fatto ad alta voce davanti ai fedelissimi, chiuso in una stanza di Palazzo Chigi — qualsiasi forza estremista senza progetto di cambiamento o di governo potrebbe essere avvantaggiata in un duello elettorale. Quindi, «in Spagna vincerebbe Podemos e qui in Italia salirebbero alle stelle le quotazioni di Grillo e Salvini». È chiaro che in questa fase il premier preferisce non giocare all’attacco, ma, piuttosto, stare in difesa e cercare di capire che cosa succede altrove. «Noi abbiamo una nostra dignità da difendere, ma questa svolta dovrà difenderla tutta l’Europa» Fin dove si spingerà la minoranza interna del Pd, giacché una fetta di quel partito preferisce invece andar via dal Nazareno e gestirsi in proprio, guardando a Tsipras, è un altro fronte aperto in questo momento per Renzi. Forse il meno preoccupante. Perché le immagini di una Grecia in ginocchio, causa euro (anche se non è così, continua a ripetere il premier), non portano voti alla sinistra del Pd, ma a Grillo e Salvini, per l’appunto, come ha spiegato bene lo stesso Renzi ai fedelissimi e ai parlamentari a lui più vicini. La partita greca che si gioca nell’italica sinistra non lo preoccupa per niente. Il presidente del Consiglio non fa altro che ricordare alla minoranza interna che vorrebbe partire per la Grecia per dare una mano Tsipras che «sarà un’eterna perdente finché non capirà che occorre sfondare al centro». Esattamente ciò che Renzi ha fatto in Italia. E sta facendo in Europa, dopo aver imparato la lezione di Hollande. Una volta ebbe a dire: «So bene che lui, alla fine della festa, si schiera sempre con la Merkel». E allora perché non batterlo sul tempo e affiancarsi prima lui alla cancelliera tedesca? Prima di perdere quel piccolo ruolo che l’Italia mantiene ancora nello scenario internazionale? Quindi, se non «avanti 18 tutta»con Merkel, almeno seguirla anche in questa intricatissima vicenda greca. Finché non sarà chiaro a tutti i partner europei che l’Italia, al contrario di altri, le sue riforme, le ha fatte, e ora può negoziare, senza ricatti o referendum stile Tsipras. Perché è questo quello che preme più al premier, che la Grecia non rovini il lavoro che ha fatto in questo anno e più per allentare le maglie della Ue nei confronti del nostro Paese. del 01/07/15, pag. 5 In piazza contro la «mordacchia» di Rajoy Spagna. Podemos, Iu e i movimenti autonomisti mobilitati al fianco di Syriza Jacopo Rosatelli Lo sanno tutti: le classi dirigenti europee vogliono a ogni costo evitare che Madrid segua le orme di Atene. La vittoria di Syriza dello scorso gennaio deve rimanere un caso isolato: alle elezioni spagnole del prossimo autunno deve essere scongiurato con ogni mezzo il successo di Podemos. È una delle ragioni fondamentali che spiegano l’andamento della «trattativa» fra la ex trojka e il governo Tsipras: mettere in chiaro che all’austerità non c’è alternativa. È il messaggio che in Spagna viene diffuso dall’esecutivo guidato dal premier Mariano Rajoy: «Abbiamo fatto “i compiti a casa” e ora possiamo stare tranquilli» afferma ieri il ministro delle finanze Cristobal Montoro. I compiti a casa sarebbero ovviamente le «riforme» che hanno impoverito il Paese e depresso ancora di più l’economia (la disoccupazione è al 23%, il rapporto debito/pil al 100%). Ma la narrazione ufficiale è un’altra: la cura somministrata dai conservatori del Partido popular (Pp) sotto dettatura di Berlino, Francoforte e Bruxelles ha portato ottimi risultati. Come a Roma, anche a Madrid suona lo stesso refrain: «Un’eventuale uscita della Grecia dall’euro non avrà effetti negativi per noi. Siamo al sicuro». Non la pensano così i socialisti del Psoe, che accusano Rajoy di immobilismo in Europa: «Il governo dovrebbe aiutare a trovare una soluzione alla crisi e invece fa solo campagna elettorale», ha attaccato Jordi Sevilla, «ministro dell’economia» nel governo-ombra del leader socialista Pedro Sánchez. Il Psoe, tuttavia, non solidarizza con Atene, accusata di «alterare le regole del gioco»: «Il referendum – ha affermato Sevilla – è una scelta irresponsabile». Toni tutto sommato morbidi se confrontati con quelli del quotidiano socialliberale El País, da sempre filo-Psoe, che nell’editoriale (non firmato, quindi della direzione) apparso ieri si è schierato «senza se e senza ma» contro il governo greco. Non deve stupire: in chiave interna, l’influente giornale madrileno fa apertamente il tifo per una Grosse Koalition iberica che tenga Podemos ben lontano dalla stanza dei bottoni. Per fortuna, lo stesso El País in questi giorni è «costretto» a ospitare voci di storici collaboratori «fuori-linea»: gli economisti (premi Nobel) Paul Krugman e Joseph Stiglitz, ma anche il veterano Iñaki Gabilondo, icona del giornalismo progressista spagnolo e non certo sospettabile di tendenze «estremiste». Dalla parte del governo greco sono Podemos (che l’ultimo sondaggio dà alla pari con il Psoe al 23%, 3 punti al di sotto del Pp), Izquierda unida (Iu) e i movimenti regionalisti o nazionalisti di sinistra, come Compromís nella Comunidad di Valencia, Iniciativa per Catalunya e gli indipendentisti baschi. Per il partito di Pablo Iglesias «in Europa ci sono due fronti contrapposti: l’austerità o la democrazia, il governo del popolo o il governo dei mercati e dei poteri non eletti. Noi stiamo con la democrazia». E di «alternativa fra democrazia e dittatura» parla l’eurodeputata di Iu Marina Albiol a Bruxelles insieme al 19 vicepresidente dell’Europarlamento Dimitrios Papadimoulis (Syriza). In tutta la Spagna molte iniziative in solidarietà con il popolo greco, che si intrecciano a quelle contro la vergognosa «ley mordaza», la «legge anti-proteste» voluta dal governo Rajoy, ufficialmente in vigore da oggi. Del 01/07/2015, pag. 8 Obama contro l’austerity alza gli stipendi IL CASO/SARANNO PAGATI GLI STRAORDINARI ANCHE A CHI GUADAGNA OLTRE 50 MILA DOLLARI ARTURO ZAMPAGLIONE NEW YORK. «Troppi americani lavorano per lunghe ore al giorno senza guadagnare quel che si meritano »: Barack Obama ha spiegato così, in un articolo pubblicato sull’Huffington Post, la sua decisione di estendere a circa 5 milioni di lavoratori americani il diritto al pagamento degli straordinari. Subito attaccata da settori repubblicani e da associazioni imprenditoriali, la nuova misura servirà, secondo la Casa Bianca, a rafforzare i ceti medi e a contrastare le crescenti ineguaglianze di reddito. Le leggi americane sugli straordinari risalgano al 1930, quando fu fissata la settimana di 40 ore lavorative e fu stabilito che, oltre quel limite, il salario sarebbe stato di una volta e mezzo quello normale. Ma gli straordinari si applicano soltanto per chi guadagna meno di una certa soglia, che da decenni è di soli 23mila 660 dollari lordi all’anno, cioè al di sotto dei salari minimi di molte categorie. Senza dover ricorrere a nuove leggi, Obama ha dato mandato al ministero del Lavoro di raddoppiare quel tetto, portandolo a 50.440 dollari all’anno ed estendendo così il diritto al pagamento extra a milioni di lavoratori. La svolta non sarà immediata. Come è consuetudine, il governo raccoglierà per qualche settimana i commenti delle organizzazioni coinvolte, a cominciare da imprenditori e sindacati, prima di emettere il decreto. Si prevede che il nuovo regime possa entrare in vigore nel 2016, anche se non mancheranno azioni giudiziarie per bloccare l’iniziativa. D’altra parte, sarà una misura gradita da molti americani, e contribuirà sicuramente a rafforzare la popolarità di Obama, che nelle ultime settimane è risalita a sorpresa. Dopo molti mesi bui, in cui la Casa Bianca si è sentita criticata e attaccata, anche da tanti elettori democratici, l’ultimo sondaggio Cnn/Org mostra che il tasso di popolarità del presidente è in netta risalita. Dopo due anni è tornato sopra al 50%, mentre il tasso dei contrari è sceso a 47%. La ragione? Oltre che alla buona situazione economica e al miglioramento della occupazione, hanno influito, secondo i politologi, le due decisioni della Corte suprema, che la settimana scorsa ha avallato la riforma sanitaria di Obama e i matrimoni gay. Dai dati forniti dalla Casa Bianca, si vede come la quota di lavoratori americani con diritto al pagamento degli straordinari sia crollata dal 65% del 1975, al 18% del 2004 e al 12% dell’anno scorso. Il motivo è semplice: all’aumento dei prezzi e dei salari, non ha coinciso un adeguamento proporzionale della soglia minima. Di qui la decisione di Obama. «Non posso pensare ad alcun’altra misura che possa avere un effetto così immediato per migliorare la situazione economica dei ceti medi», ha osservato Jared Bernstein, un ex-economista della Casa Bianca e autore di un rapporto sul tema degli straordinari. Di opinione opposta al Federazione dei commercianti, secondo cui «aumenteranno i costi del lavoro, si danneggerà il servizio i clienti e si moltiplicheranno le cause giudiziarie». 20 Del 01/07/2015, pag. 18 Le indagini. Gli inquirenti hanno passato al setaccio oltre 4mila intercettazioni ricostruendo i movimenti di uomini, armi, esplosivi e fiumi di denaro che collegano i jihadisti operativi nel nostro paese con Francia, Pakistan e Afghanistan. A partire dagli eredi di Bin Laden arrestati in Sardegna, fino alla barbara decapitazione di una ragazza colpevole di aver fatto il bagno in costume Soldi, kalashnikov ed esecuzioni Ecco la rete del terrore di Al Qaeda in Italia PAOLO BERIZZI ANCHE Al Qaeda uccide in spiaggia. Non solo d’estate. Poi sotterra le sue vittime nel bresciano e rende omaggio a Allah. «Abbiamo fatto una cosa santa... Dio ci ha donato questa vita per ammazzare», esulta il capo al telefono coi suoi sathi , gli “affiliati”. In questo caso sono killer alle prese con il cadavere di una ragazza nel cofano dell’auto. «Se esce fuori la salma, se ci fermano in un controllo i carabinieri...». Questa è una storia di bombe e di preghiere, di kalashnikov e di moschee, di stragi, omicidi, esecuzioni. E di soldi. È una storia (anche) italiana, e a leggerla adesso — quattro anni dopo l’uccisione di Osama Bin Laden, e pochi giorni dopo l’eliminazione del suo erede, Nasir al Wuhayshi, il delfino “yemenita” — aggiunge un capitolo nuovo alla “narrativa” di Al Qaeda. Repubblica è in grado di raccontare questa sorta di ‘Codice Al Qaeda Italia’ attraverso documenti esclusivi del nostro Antiterrorismo. Lo scenario descritto dal materiale investigativo — è il “sottopancia” dell’inchiesta della Procura di Cagliari che in aprile ha sgominato una cellula qaedista con base in Sardegna (11 arrestati, 20 indagati) — porta in superficie fatti inediti. DA LODI ALLA VAL TROMPIA Partiamo da Lodi. Non da Islamabad o da Karachi. Da Lodi. Settembre 2012: due giovani «dai tratti indo-pachistani» si presentano in uno studio fotografico. Chiedono l’estrazione di alcune immagini da un cellulare. Solo dopo avere consegnato ai clienti le fotografie, il titolare dello studio si accorge del contenuto: il cadavere di una ragazza distesa su una branda. «Il volto — annota la Digos — è tumefatto e amputato all’altezza del collo; le braccia amputate all’altezza dei gomiti; le gambe all’altezza delle ginocchia». Gli arti mutilati sono posizionati vicino al busto. È la tecnica talebana per punire chi viola il Corano. Anche chi va al mare con il costume. La ragazza — «sotterrata assieme al marito nella zona di Brescia» — si è macchiata di questa colpa. Troppo per un «guardiano della morale» — si definisce così — come Muhammad Hafiz Zulkifal. È l’imam di Bergamo e Brescia finito dietro le sbarre (ora è nel supercarcere di Rossano calabro). Gli inquirenti lo ritengono il capo dell’organizzazione responsabile, tra le altre cose della strage di Peshawar (28 ottobre 2009: un’autobomba esplode nel mercato di Peepal Mandi falciando oltre 100 persone e ferendone 200, ndr). Tra febbraio e maggio 2011 l’omicidio dei “bagnanti” è ancora in fase progettuale. Zulkifal a Ajmal Khan: «Ho incaricato alcuni affiliati della zona di Gardone val Trompia di trovare l’uomo e la moglie. Ho dato anche una loro foto mentre fanno il bagno ». I sicari? «Arrivano dalla Francia, li portiamo a Brescia». Estate 2011: l’esecuzione si compie. Zulkifal: «Dio ci ha protetto ». Quasi. Un tale Ishaq Mohammad con-fessa: «Se questa cosa esce fuori dal cofano, allora quella ragazza». È il corpo fatto a pezzi. Quello delle foto sviluppate a Lodi. I COMPLICI DI OSAMA 21 «A casa tutto bene?». Il marito di Ayesha Khan, pakistana di Swabi, non è un terrorista qualunque. Imitias Khan, 40 anni, un bazar a Olbia. Secondo i nostri 007 Imitias è uno dei cinque attentatori di Peshawar. Era sul posto. «La terra tremava dall’esplosione! Gli ho detto “ringraziate che siete salvi», confida al telefono un complice. L’attentato, organizzato a Olbia, avviene a poche ore dall’arrivo a Islamabad di Hillary Clinton. 16 marzo 2010: Imitias chiama dunque la moglie dalla Sardegna. Lei: «È stato ferito Osama... Si è rotto il femore, ma è fuori pericolo». «Dove lo avete portato?». «A Nowshehra (villaggio vicino a Abbottabad dove il capo di Al Qaeda viene ucciso il 1 maggio 2011, ndr ) ». JIHAD, ARMI E MILIONI Muovono denaro i qaedisti italiani. Lo spremono dalle comunità islamiche e lo spediscono in Pakistan e Afghanistan con l’hawala, il sistema informale di trasferimento di valori. I soldi finanziano la jihad «Questa cosa non finisce fino al giorno del giudizio universale... La Jihad parte da qui...», ringhia l’“olbiese” Muhammad Siddique. «Io odio Israele, India, Inghilter- ra. India e Israele hanno diffuso l’immondizia nel mondo». Per pulire servono soldi. «Per favore manda 50 milioni». È l’sms inviato nel 2011 all’imam bergamasco Muhammad Zulkifal da un connazionale. Segue resoconto delle «commissioni eseguite in Pakistan». Tutti attentati. «Spedito tre persone all’inferno». «Fatto saltare una scuola in Bannu. I militari li abbiamo ammazzati!». Sahadi , martiri. Jihad, soldi, armi. In un appartamento di Roma - registra la Digos - è custodito 1 milione di dollari. È il “forziere” della cellula qaedista sparsa tra la Capitale, la Sardegna, Milano, Brescia, Bergamo, Novara, Civitanova Marche e Caltanisetta. In un’altra casa il gruppo tiene le armi: kalashnikov, granate. «Ho comprato il top di tutte le armi! Sono per la guerra...». Parla Sultan Khan, 8 gennaio 2010. I terroristi islamici considerano un alleato la legge italiana. Ancora Sultan. «Qui non c’è l’impiccagione, se uccidi qualcuno fai soltanto 3 anni di carcere. Neanche l’ergastolo». LA FUGA DI HAYAT BOUMEDIENNE «Il mio desiderio è il tuo sangue... puliamo la gente con la guerra santa», posta su fb uno dei soldati italiani di Bin Laden. Erano pronti a aiutare Hayat Boumedienne, la compagna di Hamedy Coulibaly, autore della strage del Kosher-market e della sparatoria di Montrouge a Parigi. «Appartengo all’Is», rivendicò l’attentato lui in un video postumo. La “vecchia” Al Qaeda e il “nuovo” Is dialogano. Informativa allegata alle carte sarde. Due membri del gruppo di qaedisti italiani accennano a un «supporto logistico» fornito a Hayat. IL PAPA E LO ZAINETTO DA FARE ESPLODERE «È importante eliminare il loro plar (“capo”), ricordatelo». Il 19 settembre 2010 il telefono dell’imam Zulkifal squilla e dall’altra parte c’è un uomo, «Umar Khan dal Pakistan». Gli parla di un attentato eccellente da compiere. «Ci sono tanti soldi sul loro papa. Stiamo facendo una grande jihad contro di lui». Zulkifal interrompe la telefonata. È proprio il Vaticano l’obiettivo? Sentite il pakistano-romano Niaz Mir mentre il suo cellulare aggancia la cella di via della Conciliazione, a 150 metri da San Pietro. «Roma era piena, quando arriverà a 4 milioni di persone. Se lui (riferito a un kamikaze “appena arrivato a Roma”) entrerà dentro, in mezzo fra le persone...». Cosa succederà? «C’è un borsello che hai tu», dice Muhammad Siddique a un tipo. «Se ci fosse già stata l’esplosione si sarebbe disintegrato». L’attentato, forse, è stato solo rimandato. del 01/07/15, pag. 6 Attacco a Sana’a, rivendica l’Isis 22 Yemen. Altro attacco dello Stato Islamico contro il movimento ribelle a Sana'a. Ban Ki-moon chiede un'inchiesta sul raid di Riyadh contro un compound dell'Onu Chiara Cruciati Un altro attacco dello Stato Islamico scuote la capitale dello Yemen, Sana’a. Nella notte tra lunedì e martedì un’autobomba è esplosa dietro l’ospedale militare, durante la commemorazione funebre di un parente di due leader del movimento ribelle Houthi, Faycal e Hamid Jayache. Ventotto morti, tra cui otto donne. Un’esplosione terribile che ha sventrato la strada dove si teneva la commemorazione e subito rivendicata online dall’Isis. L’intensificarsi delle attività di gruppi che si richiamano al califfato generano preoccupazione: seppur non sia ancora possibile stabilire se si tratti di gruppi simpatizzanti o gestiti direttamente dal califfo, è chiaro che chi compie tali stragi in nome dello Stato Islamico abbia dei contatti con miliziani attivi all’esterno. Nel mirino resta il movimento Houthi e i suoi simboli, le moschee sciite della capitale, colpite il 20 marzo, il 17 giugno (primo venerdì di Ramadan) e di nuovo il 20 giugno. L’avanzata dello Stato Islamico nel paese è la palese conseguenza del caos provocato dalla guerra civile e dall’operazione militare saudita. L’assenza dello Stato e la frammentazione dello Yemen in autorità rivali garantisce maggiore libertà di manovra sia al sedicente califfato che ad Al Qaeda nella Penisola Arabica (Aqap), che ha nello Yemen la propria base operativa. Un nuovo conflitto interno, quello tra Isis e al Qaeda, che si aggiunge ai tanti strati di guerre regionali e globali il cui campo di battaglia è il più povero del paesi del Golfo. I due gruppi (di cui il primo è costola del secondo) stanno ampliando il proprio raggio d’azione con obiettivi e strategie diversi. Se l’Isis in Yemen opera per attrarre nuovi adepti e per indebolire la resistenza Houthi, trasformandosi indirettamente in braccio armato di Riyadh, al Qaeda – che occupa oggi buona parte della storica provincia est di Hadramaut – intende radicare la propria presenza presentandosi come potere amministrativo e politico oltre che militare. Ed ecco che ad Hadramaut, nelle comunità occupate dai qaedisti, il gruppo ha intessuto profittevoli alleanze con le tribù locali, istituendo con loro consigli municipali condivisi e presentandosi come “resistenza popolare” contro l’avanzata degli sciiti, protezione militare alla minaccia Houthi. L’obiettivo è chiaro: non quello di dare vita ad una società nuova (ovvero il target del califfato nel resto del Medio Oriente, concretizzato nelle comunità irachene e siriane occupate nell’ultimo anno), ma entrare a far parte della società esistente alla quale imporre la Sharia, sì, ma anche la propria autorità amministrativa dalla quale deriverà ovviamente il controllo delle risorse naturali. Per questo al Qaeda è tra le prime organizzazioni a condannare gli attacchi dell’Isis: Aqap non opera mettendo bombe nelle moschee ma come un vero e proprio esercito che combatte sul campo il movimento Houthi. Facendo un grosso favore all’Arabia saudita che da tre mesi evita chiaramente di colpire le postazioni qaediste e boicotta i negoziati sponsorizzati dall’Onu per portare lo Yemen fuori dalla crisi. E mentre la diplozia fallisce, il paese vive una delle peggiori crisi umanitarie della propria storia: oltre un milione di rifugiati, 2.800 morti e 13mila feriti, 21 milioni di persone (l’80% della popolazione) senza accesso regolare a acqua e cibo. Le infrastrutture idriche, elettriche, i servizi di comunicazione, le strade, i porti e gli aeroporti sono ridotti in macerie. Ma nonostante gli appelli dell’Onu, l’ingresso degli aiuti è ancora oggi impedito dall’embargo imposto dall’Arabia saudita. Dall’inizio dell’operazione “Tempesta decisiva”, Riyadh blocca lo Yemen via cielo e via terra. Non entra nulla, né cibo né acqua né carburante, necessario al funzionamento degli ospedali. 23 E così se i servizi sanitari sono al collasso, a peggiorare la situazione sono – ancora una volta – i raid della coalizione guidata dai monarchi sauditi: lunedì il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon ha chiesto l’apertura di un’inchiesta sul bombardamento saudita che domenica ha colpito un compound delle Nazioni Unite nella città meridionale di Aden. Il raid ha centrato la sede del Programma di Sviluppo Onu, ferendo una delle guardie e danneggiando la struttura. Un’accusa che giunge a poche ore dalla strage di Sarwah, nella provincia di Marib: secondo Press Tv l’aviazione di Riyadh ha colpito l’ennesima zona residenziale, sterminando una famiglia di nove membri. Proprio ieri Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto che classifica alcune delle violazioni di Riyadh in Yemen: durante i bombardamenti, i jet sauditi hanno colpito case, mercati cittadini, scuole. A dimostrare i crimini di guerra sono le immagini satellitari: nel solo mese di aprile i civili uccisi sono stati almeno 59, di cui 14 donne e 35 bambini. del 01/07/15, pag. 6 Decapitate due donne: “Streghe” Siria. L'Isis entra nella città liberata due settimane fa dai kurdi delle Ypg. Oltre 3mila le vittime degli islamisti in un anno Chiara Cruciati Sarebbero oltre 3mila le persone giustiziate dai miliziani del califfo al-Baghdadi in un anno di occupazione di Siria e Iraq. Uccisi con armi da fuoco, decapitati, crocifissi, lapidati. Ma finora a nessuna donna era stata tagliata la testa. Anche quel limite è stato superato: due donne accusate di stregoneria sono state decapitate in Siria a Mayadeen, nella provincia di Deir al-Zor. Lo ha riportato l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani: «Lo Stato Islamico ha giustiziato due donne, decapitandole. È la prima volta che l’Osservatorio documenta di uccisioni di donne in questo modo». Sarebbero state uccise insieme ai mariti (anch’essi accusati di possedere amuleti, usati come pratica religiosa e medica nelle campagne siriane). Nelle stesse ore veniva pubblicata la notizia della crocifissione di otto persone, tra cui due minorenni, puniti dallo Stati Islamico per non aver digiunato durante il mese sacro di Ramadan. Sono rimasti legati alle croci per un giorno e poi liberati, ancora vivi. Altre vittime che si aggiungono alle 3.027 uccise nel corso di un anno, secondo i dati dell’Osservatorio. Tra loro, oltre a ribelli e combattenti di gruppi rivali, si contano 1.787 civili, 86 donne, 74 bambini e 143 membri del califfato, accusati di essere spie straniere. Il caso della decapitazione delle due donne siriane rimette a nudo una delle peculiarità dello Stato Islamico: la misoginia, figlia di un’interpretazione folle ed errata dell’Islam. E quando sono le donne a combattere direttamente i miliziani dell’Isis, la vendetta diventa terrificante. Lo sa bene Kobane, città kurda a nord della Siria, che – dopo essersi liberata dall’assedio jihadista grazie al fondamentale apporto delle combattenti kurde dell’Ypj – ha subito la scorsa settimana un sanguinoso raid dell’Isis: oltre 150 civili sono stati massacrati nelle proprie case, per lo più donne e bambini, prima che le forze militari kurde riuscissero a respingere l’assalto islamista. E, come prima Kobane, ieri target del califfo è tornata ad essere Tal Abyad, città kurdosiriana liberatasi dalla morsa islamista due settimane fa, il 16 giugno. Secondo fonti locali, ieri pomeriggio i miliziani dell’Isis hanno compiuto un raid a sorpresa contro la comunità e occupato un quartiere a est, strappandola al controllo delle Unità di Protezione Popolare (Ypg) kurde. Una scuola vuota è ora usata dall’Isis come propria postazione principale. Gli 24 scontri sono ancora in corso: i combattenti kurdi stanno cercando di accerchiare i jihadisti per impedirgli di entrare in profondità nella città. Redur Khalil, portavoce delle Ypg, ha fatto sapere che «decine di miliziani» dell’Isis sono entrati in città, strategica perché via collegamento con il cantone di Kobane (e quindi via di trasferimento di armi e combattenti kurdi) e potenziale punto di partenza di un’offensiva kurda verso Raqqa, “capitale” del califfato. A preoccupare è il destino dei civili fuggiti in massa durante il precedente attacco dell’Isis verso la Turchia. Dopo la ripresa di Tal Abyad hanno cominciato a tornare in città. Lasciando quello stesso territorio da cui i miliziani dell’Isis hanno lanciato il primo brutale assalto: la Turchia. Ankara resta nell’occhio del ciclone, accusata da più parti di coprire da mesi le offensive dello Stato Islamico contro i comuni nemici kurdi. Ieri è giunta la reazione del presidente Erdogan alle voci riportate lunedì dalla stampa turca, secondo la quale avrebbe ordinato l’invio di 18mila soldati nel nord della Siria per imporre la creazione di una zona cuscinetto lungo il confine. Con tanti obiettivi: trasferirvi le migliaia di rifugiati siriani in Turchia, impedire il “contagio” del modello democratico della Rojava e la creazione di un’entità statale kurda alla frontiera, spezzare la continuità territoriale dei cantoni kurdi di Kobane, Afrin e Azez. Il consigliere di Erdogan, Ibrahim Kalin, in conferenza stampa ha rigettato le accuse affermando che ogni eventuale misura sarà presa in linea con gli obiettivi della comunità internazionale e avrà come unico scopo quello di mettere in sicurezza il confine turco. In sicurezza contro chi? Contro il confederalismo democratico kurdo e il nemico Assad. del 01/07/15, pag. 18 La guerra al terrorismo. Dalle alture del Golan l’esercito di Tel Aviv studia l’avanzata delle milizie dello Stato islamico in Siria Israele e l’Isis, l’altro nemico alle porte Ma per gli israeliani la «jihad globale» resta al quarto posto tra le minacce allo Stato MAJDAL AL-SHAMS Il confine con il caos è a un centinaio di metri dal villaggio. Oltre la barriera di filo spinato, la base dell’Onu è stata abbandonata dai caschi blu molto tempo fa e da allora è deserta: l’esercito siriano non avrebbe la forza per presidiarla e i qaedisti di Jabat al-Nusra non hanno intenzione di occuparla. Preferiscono stare a debita distanza dagli israeliani. Ma sono oltre la cresta delle colline e, più a Est, a Kuneitra. E ancora più a Nord, come ai tempi delle invasioni barbariche lungo il confine dell’impero, premono le milizie dell’Isis, più pericolose di al-Nusra. Anche d’estate l’ombra viene presto a Majdal al-Shams, questo villaggio druso delle alture del Golan occupate da Israele: non appena il sole muove verso Ovest, finisce dietro i quasi tremila metri del monte Hermon, il cui picco è irto di antenne e radar d’ascolto israeliani. Fino a quattro anni fa i drusi che abitavano il villaggio si sentivano siriani. Oggi un po’ meno, anche se continuano a esporre i ritratti di Bashar Assad: essere occupati dai “sionisti” adesso è un colpo di fortuna. Ogni vallo fra mondi ostili è pericoloso ma nasconde anche tacite e inimmaginabili intese, fedeltà viscose e qualche paradosso prodotto dalla Realpolitik. Il nemico è alle porte e per Israele non è un modo di dire: è una descrizione concreta. A Sud, nel Sinai che l’esercito egiziano non riesce a controllare, c’è la versione locale del califfato di al-Bagdadi. Anche 25 nella striscia di Gaza i salafiti insidiano il potere di Hamas il quale incomincia a essere un male minore. Qui a Nord la presenza dei qaedisti e la pressione dell’Isis creano un fatto nuovo nella definizione israeliana della sua sicurezza. Almeno sembra, anche se non è del tutto così. Il giorno prima a Gerusalemme un alto rappresentante della “comunità dell’intelligence” (c’è il Mossad esterno, lo Shin Bet interno, l’Aman militare e quello del ministero degli Esteri), aveva offerto la classifica israeliana delle minacce, in ordine d’importanza: l’Iran, Hezbollah, Hamas e solo poi l’arcipelago della “global jihad”. È un elenco piuttosto tradizionale. «Per noi gli iraniani ed Hezbollah non sono diventati i bravi ragazzi della regione solo perché c’è l’Isis», aveva spiegato la fonte. L’Iran continua a essere ideologicamente anti-israeliano ed è l’unico a possedere la massa critica per una mobilitazione militare di larga scala. «Osservando il comportamento di Putin in Crimea, l’Iran si è convinto che con la forza e la determinazione può fare ciò che vuole». I miliziani dell’Hezbollah libanese ora sono impegnati a combattere in Siria per la sopravvivenza del regime di Bashar e la loro. Ma al confine, nel Sud del Libano, hanno lasciato 105mila missili di varia potenza, molti dei quali capaci di raggiungere Tel Aviv. Quando torneranno dal fronte siriano avranno accumulato un’esperienza militare pericolosa. Il confronto interno all’apparato di sicurezza israeliano per decidere se la sopravvivenza di Damasco sia un bene o un male – un dibattito inimmaginabile fino a qualche tempo fa – non si è risolto a favore di Bashar Assad. «Non crediamo nella politica del male minore: è stato lui a creare Hezbollah e a portare l’Iran alle porte di casa nostra». Nessuno in Israele crede che il regime stia per cadere: probabilmente continuerà a controllare una parte del Paese. Ma la Siria non tornerà a essere lo Stato fino ad ora conosciuto: resterà divisa in zone etniche, qualcosa fra la Somalia e un medio evo nel quale ogni città avrà la sua milizia, la sua religione e i suoi commerci. Quanto alla “global jihad”, l’attenzione è evidentemente alta. Ma con Jabat al-Nusra in Siria c’è una specie di accordo di non belligeranza: sono state fissate alcune linee rosse e per ora i qaedisti le rispettano scrupolosamente. Riguardo all’Isis, forse significa qualcosa se la sua propaganda hi-tech dedica più spazio alla conquista di Roma che alla liberazione di Gerusalemme, terzo luogo più importante dell’Islam. Per questo il Sinai è considerato più pericoloso del Golan. Ci sarebbe anche la Cisgiordania palestinese: sia l’Autorità palestinese di Abu Mazen che Hamas sono molto deboli: non hanno consenso popolare e la Jihad potrebbe insinuarsi con una certa facilità. «Ma lì ci siamo noi, siamo noi a controllare le cose», aveva concluso l’uomo dell’intelligence israeliana. Ugo Tramballi 26 INTERNI Del 01/07/2015, pag. 12 Prescrizione,muro di Alfano dopo un anno riforma al palo IL VERTICE IL PD VUOLE TEMPI PIÙ LUNGHI SULLA CORRUZIONE LIANA MILELLA ROMA . Ennesima riunione in via Arenula, ennesimo rinvio. Non è bastato un anno per approvare la nuova legge sulla prescrizione. Renzi continua a promettere il raddoppio dei termini per la corruzione, ma il partito di Alfano punta i piedi e fa muro. Col testo passato alla Camera il 24 marzo si era arrivati a 22 anni, troppi per Ncd che vuole scendere al massimo a 16 o 17. Nessun compromesso, tant’è che ieri, davanti al Guardasigilli Andrea Orlando, i centristi non hanno accettato alcuna mediazione. Prendere o lasciare, o la prescrizione resta “breve”, oppure la legge salta. Per evitare il peggio, il ministro ha affidato a una mini commissione il compito di trovare un compromesso accettabile. Con il responsabile Giustizia del Pd David Ermini lavoreranno la dem Rosanna Capacchione, relatrice del testo al Senato e Nico D’Ascola, l’avvocato reggino di Ncd che ieri ha teorizzato il no al processo “lungo”. Il vice ministro della Giustizia Enrico Costa, anche lui del partito di Alfano, l’ha messa sull’istituzionale, «l’allungamento indiscriminato della prescrizione dilaterebbe i tempi dei processi e l’Italia, dal 1991, ha già pagato 600 milioni di euro a 23mila persone per ingiusta detenzione». Un braccio di ferro infinito, con lite alla Camera a marzo e ora “ricatto” politico per il Senato dove i voti di Ncd sono determinanti per la maggioranza. Sul campo le proteste di chi, come i parenti delle vittime della strage di Viareggio del 29 giugno 2009, già vedono il processo in fumo, mentre la nuova legge potrebbe salvarlo grazie allo stop della prescrizione per 2 anni dopo il primo grado e un anno dopo l’appello. Ma lo scoglio resta la corruzione. Alla Camera è passata la proposta della Pd Donatella Ferranti, il massimo della pena più la metà, ancorata all’articolo 157 del codice penale, che disciplina la prescrizione stessa. Ncd vuole cancellare tutto. David Ermini è stato chiaro: «Io ho un’asticella invalicabile, quella messa dal premier Renzi che ha promesso di raddoppiare i tempi di prescrizione per la corruzione». Due possibili compromessi tecnici farebbero scendere la prescrizione a 18 o 19 anni, ma al di sotto il Pd non va. Martedì prossimo il governo deve dare i pareri in commissione Giustizia al Senato. Preme il presidente forzista Nitto Palma. Molti senatori del Pd hanno chiesto di allargare la prescrizione anche a tutti i reati di corruzione. Lo scontro è inevitabile. A un anno esatto dalla prima promessa di Renzi in consiglio dei ministri - era il 30 giugno 2014 e a 10 mesi dal testo votato a palazzo Chigi, era il 29 agosto, la legge è ancora nel limbo. Come per la corruzione, merita ricordare che già il 15 marzo 2013, il primo giorno della legislatura, l’attuale presidente del Senato Piero Grasso aveva proposto nel suo ddl di allungare la prescrizione per la corruzione. Nel frattempo stiamo arrivando al traguardo dei mille giorni aspettando Godot, per citare Grasso. E ogni giorno aumentano i casi di corruzione che rischiano di andare prescritti. 27 LEGALITA’DEMOCRATICA del 01/07/15, pag. 21 Ecomafia, il business decolla Nel 2014 ha sfiorato i 22 miliardi di euro - Boom nel settore agroalimentare Il fatturato dell’ecomafia torna a salire dopo anni di stallo: nel 2014 ha sfiorato i 22 miliardi, sette in più dell’anno precedente. Il merito (si fa per dire) è del circuito illegale del settore agroalimentare che, tra sequestri e finanziamenti illeciti intercettati da inquirenti e investigatori, ha superato 4,3 miliardi (nel 2013 era di circa 500 milioni). L’impennata dimostra un’azione investigativa particolarmente mirata (oltre 8mila controlli nel 2014), soprattutto sul fronte della percezione illecita di contributi pubblici (principalmente europei) destinati all’agricoltura (quantificati in quasi 683 milioni; nel 2013 era di 28 milioni). Sono alcune delle conclusioni del Rapporto di Legambiente «Ecomafia 2015 - Corrotti, clan e inquinatori. I ladri di futuro all’assalto del Belpaese», presentato ieri a Roma alla presenza, tra gli altri, del presidente dell’associazione Vittorio Cogliati Dezza e del capo della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo Franco Roberti. L’anno scorso si è chiuso con 29.293 reati commessi e accertati in campo ambientale, circa 80 al giorno, poco meno di quattro ogni ora. Nel 2013 erano stati 29.274, confermando un trend che oscilla da diversi anni intorno ai 30mila ecoreati l’anno. Le illegalità ambientali È la Puglia la regione leader della classifica per infrazioni ambientali : 4.499, il 15,4% di quanto accertato su tutto il territorio nazionale. Alla Puglia anche il record di denunce (4.159) e di sequestri (2.469), mentre sono solo cinque le persone arrestate. Un grande contributo ai “primati pugliesi”, spiega il Rapporto, è dovuto al lavoro repressivo che si è concretizzato soprattutto nella provincia di Bari, dove le forze di polizia hanno messo a verbale 2.519 ecoreati. Cresce l’incidenza criminale nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa (Puglia, Sicilia, Campania e Calabria), che continuano a mantenere le prime quattro posizioni in classifica: più della metà del numero complessivo di infrazioni (14.736), con numeri altissimi di denunce (12.732), arresti (71) e sequestri (5.127). In controtendenza rispetto al 2013 il calo dei reati in Campania (-21% circa), in particolare nella provincia di Napoli, dove la riduzione è stata del 36%. «Forse i riflettori accesi di recente sulla Campania, soprattutto grazie alla moltiplicazione delle emergenze ambientali e sanitarie, che ha portato all’emanazione del decreto Terra dei fuochi - si legge nel rapporto - può, almeno in parte, spiegare questa riduzione del numero di reati». Nel ciclo del cemento, Campania e Calabria la fanno da padrone. Avellino ha il più alto numero di reati (257), subito dopo ci sono Napoli (238), Salerno (220), a seguire le province di Reggio Calabria (217) e Cosenza (210). Sempre su scala provinciale è da segnalare il dato di Genova, terza per numero di reati nel ciclo dei rifiuti (289), subito dopo Bari e Napoli e al decimo posto nell’illegalità complessiva. Il fatturato complessivo Il giro d’affari del settore agroalimentare è seguito a ruota da quello legato all’inquinamento ambientale (che comprende il valore dei sequestri delle strutture, dei beni e dei conti correnti nell’ambito di operazioni di polizia giudiziaria) che sale a 1,4 miliardi 28 (800 milioni nel 2013). Cresce anche il business dell’archeomafia (che include il valore dei beni archeologici recuperati, i falsi sequestrati e i sequestri effettuati), che con 500 milioni vede più che raddoppiato il mercato nero (nel 2013 era di circa 200 milioni). Stabili invece la gestione illegale dei rifiuti speciali, fermi a 3,1 miliardi e il racket degli animali, intorno ai 2,6 miliardi. L’unico calo si registra sul fronte dell’abusivismo edilizio, che risente della contrazione del numero dei nuovi immobili costruiti abusivamente (circa 18mila secondo le stime del Cresme, a fronte delle 26mila del 2013) e si riduce a 1,1 miliardi (nel 2013 era di 1,7 miliardi). Passando agli investimenti a rischio, si registra un’impennata degli appalti pubblici, stimati ancora dal Cresme per il 2014 in 7,9 miliardi (nel 2013 la cifra era di 5 miliardi), mentre rimangono stabili intorno al miliardo gli appalti a rischio per la gestione dei rifiuti urbani. Il totale arriva dunque a di 21,9 miliardi e sommando i fatturati dell’ecomafia dal 1992 a oggi si superano abbondantemente i 340 miliardi. La fotografia di Legambiente è completata da altre novità: cresce di quattro volte la superfice boschiva percorsa dagli incendi (anche se cala, seppure di poco, la quantità), nonostante una stagione molto umida, mentre si assiste alla drastica riduzione degli illeciti nel traffico internazionale dei rifiuti. Le indagini, inoltre, confermano che i traffici illeciti dei rifiuti urbani fioriscono dove il sistema di raccolta rispecchia i modelli antiquati dell’indifferenziato e della discarica, mentre per i rifiuti speciali è la collusione tra imprese ed ecomafie, con la mediazione dei colletti bianchi, a garantire gli affari illegali. Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, conferma la gravità della situazione. «Gli appalti pubblici nel settore dell’ambiente - si legge nel Rapporto sono tra quelli più esposti alla corruzione e alla criminalità organizzata. Gli appalti pubblici collegati alla gestione dei rifiuti sono uno dei settori più a rischio. Nel settore dell’ambiente rientra poi tutta una serie di attività diverse come la gestione del verde pubblico. Settori nuovi sui quali a oggi è difficile fare una valutazione anche se da alcune indagini come quella su Mafia Capitale sembrano intravvedersi cose preoccupanti». Roberto Galullo Del 01/07/2015, pag. 15 Pure Borsellino lascia Crocetta ha cambiato 35 assessori in 31 mesi Si è dimessa la responsabile Sanità: giunta nel caos Il Pd vuol sfiduciare il governatore. Idea voto nel 2016 EMANUELE LAURIA PALERMO. Il Pd, il “suo” partito che ora vuole farlo cadere senza sapere come, si trova costretto ad annotare che in una sola cosa di certo Rosario Crocetta ha battuto sinora i suoi predecessori Cuffaro e Lombardo: nel numero di assessori nominati. Trentacinque in trentuno mesi. Uno ogni 26 giorni. Cifra inesorabilmente destinata a crescere, dopo le dimissioni (annunciate) di Lucia Borsellino, la figlia del magistrato ucciso dalla mafia. Ovvero il simbolo di questa esperienza di governo che era nata sotto il segno della “rivoluzione” e che, a metà legislatura, appare già avviata verso il capolinea. Con poche parole, la Borsellino ha definito il suo disagio: «Non vedo più le ragioni che nel 2012 mi convinsero ad accettare la proposta di Crocetta ». Una frase pronunciata dopo l’arresto di Matteo Tutino, il chirurgo plastico amico del presidente che, secondo la Procura, faceva in 29 ospedale (a spese del sistema sanitario pubblico) interventi che si potevano eseguire solo in strutture private. Per l’ormai quasi ex assessore alla Salute, che ha ampiamente collaborato alle indagini su Tutino, l’arresto del primario è stato l’ultimo tassello di un mosaico di incomprensioni e amarezze nel rapporto con Crocetta. «Quest’esperienza è diventata un calvario», ha detto la Borsellino. Le indagini della magistratura, in queste ore, si orientano sui motivi per cui Giacomo Sampieri, l’ex commissario dell’ospedale Villa Sofia nominato da Crocetta, avrebbe insabbiato un procedimento disciplinare nei confronti di Tutino. E puntano pure sul poliambulatorio in cui il governatore si sottopose a gennaio a un intervento al naso e all’addome, effettuato sempre da Tutino. «Un’operazione - afferma Crocetta - fatta per ragioni di salute e non estetiche, per la quale ho pagato 3.700 euro. Il dottor Tutino ha prestato la sua opera gratuitamente ». Una precisazione fatta per allontanare qualsiasi sospetto di abusi e favoritismi. Ma la disavventura in cui è incappato il mago del bisturi che Crocetta lodava a ogni piè sospinto, portandolo al suo fianco in conferenza stampa, ha dato un ulteriore colpo ai rapporti già logori con gran parte del Pd. «Si stanno spegnendo le luci nella Regione siciliana», twitta Antonello Cracolici, potente deputato palermitano. Mentre il sottosegretario Davide Faraone, da tempo in rotta con Crocetta, dopo le dimissioni della Borsellino ha gioco più facile nell’invitare i colleghi alla linea dura. Diventa decisiva una direzione regionale del partito, convocata per sabato. La linea, gradita al Nazareno, sarebbe quella di “accompagnare” il governatore verso elezioni anticipate nella prossima primavera, che si terrebbero assieme alle amministrative di Napoli, Torino, Milano. Magari utilizzando come strumento di convincimento i fondi (quasi tre miliardi) che Roma deve concedere per evitare il default a una Sicilia che il centrodestra ieri ha paragonato alla Grecia. Ma il timore di molti, fra i democratici, è che Crocetta dica no a qualsiasi ipotesi di dimissioni e che una sfiducia nei suoi confronti non passi in aula per il timore dei deputati di andare a casa anticipatamente. È il rebus che tiene in vita un governo che ha fatto poche riforme (quella delle Province, annunciata in tv a inizio 2013, è ancora al palo) e consumato molti assessori, fra cui Battiato, Zichichi, il magistrato antimafia Nicolò Marino, la studentessa universitaria Nelli Scilabra. «La rivoluzione non si fa con gli uomini di Cuffaro e Lombardo », diceva Crocetta. Ma solo venerdì scorso il primo presidente comunista e omosessuale della Sicilia ha infranto l’ultimo tabù. Facendo entrare nel suo governo non un tecnico ma un politico, l’ex senatore Giovanni Pistorio: già assessore di Cuffaro e braccio destro di Lombardo. L’ultimo inganno di una stagione che pare ormai al tramonto. Del 1/07/2015, pag. 25 I collaudi milionari del Mose Soldi pubblici a 130 consulenti Nella lista sette ex manager Anas e 36 dirigenti del ministero Cinque miliardi e 493 milioni di euro: fa impressione soltanto a scriverla, la cifra. Ma nel conto astronomico del Mose di Venezia, il sistema delle dighe mobili concepito per difendere la laguna dall’acqua alta investito anch’esso dallo scandalo della corruzione, si trovano numeri ancora più strabilianti. Sapete quanti sono i collaudatori che sono stati impegnati nella difficile missione di verificare la bontà e la correttezza dei lavori? La lista completa messa a punto dai commissari che gestiscono ora il Consorzio Venezia nuova contiene 130 nomi. Avete letto bene: centotrenta. Se però a questi si sommano quanti per il medesimo Consorzio hanno collaudato lavori lagunari minori collegati al Mose, arriviamo 30 a 316. Trecentosedici, per compensi totali di 19 milioni 818.524 euro e 76 centesimi, dei quali 14,2 per il Mose e il resto per le opere in laguna. È bene precisare che si tratta di incarichi antecedenti scandalo e commissariamento. Alcuni dei nomi più vistosi, per giunta, erano già noti. Lo sguardo d’insieme, tuttavia, apre ora uno squarcio su una delle pratiche più raccapriccianti in voga nel mondo dei lavori pubblici. Tutto legale, s’intende. Ma non per questo meno sconcertante. E scorrendo l’elenco sterminato del Mose vengono in mente tante domande. La prima: perché nella lista dei collaudatori di una diga ci sono almeno sette persone che sono state ai vertici all’Anas, l’azienda pubblica che si occupa di strade? C’è l’ex amministratore Pietro Ciucci, accreditato di un compenso di 762 mila euro. C’è anche uno dei suoi predecessori: Vincenzo Pozzi, con un milione 127 mila euro. Ci sono poi Piero Buoncristiano (562 mila), Francesco Sabato (394 mila), Alfredo Bajo (244 mila), Massimo Averardi (242 mila) ed Eutimio Mucilli, nominato un paio d’anni fa amministratore delegato della società Quadrilatero Marche Umbria (223 mila). Senza contare l’architetto Mauro Coletta (321 mila), che all’Anas si occupava delle concessionarie autostradali e dal 2012 è passato in forza al ministero delle Infrastrutture. Circostanza che introduce la seconda domanda. Perché fra i collaudatori di un’opera pubblica sulla quale vigila quel ministero ci sono almeno 36 (trentasei) dirigenti dello stesso ministero? Tutto legale, anche qui. Ma come non vedere un conflitto d’interessi grande come una casa, anche alla luce dei 4 milioni 850.282 euro attribuiti a quell’esercito di burocrati? Conflitto non dissimile, peraltro, per gli ex dirigenti dell’Anas retribuiti da un Consorzio a cui partecipano imprese che hanno fatto anche lavori per l’azienda pubblica delle strade. Qualche nome dei collaudatori ministeriali? Marcello Arredi, ex capo del personale del ministero (259.697 euro il compenso previsto). Luigi Minenza (268.405 euro). Walter Lupi (195.209). Francesco Errichiello, nominato nel 2012 superconsulente per l’Expo 2015 di Milano (294.376). Francesco Musci, fresco di nomina a presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici (404.197). Bernadette Veca (405.654). Maria Pia Pallavicini (562.154). Nell’elenco figura pure l’attuale presidente del magistrato delle acque di Venezia, l’autorità che sovrintende al Mose, Roberto Daniele: 400.671 euro. Va detto che di quelle somme i dirigenti ministeriali ne percepiscono una parte. Il resto va in un fondo comune. Ma si tratta comunque di cifre considerevoli. Qualcuno di loro, inoltre, arrotonda con i collaudi delle opere minori in laguna. Per esempio Arredi, a cui spettano altri 48.703 euro. O Donato Carlea, che può sommare ai compensi per il Mose (179.853 euro) altri 50.219 euro. Oppure Saverio Ginetto Savio Petracca, con 61.068 euro dal Mose e 6.481 dai lavori lagunari. Nome, quest’ultimo, che evoca un interrogativo: sarà lo stesso Saverio Ginetto Savio Petracca dell’Udc che si è candidato con il centrodestra alla Provincia di Campobasso nel 2011 e con il centrosinistra al Comune di Campobasso tre anni dopo? Non che nella lista, sia chiaro, manchino i tecnici. Ci sono almeno un paio di espertissimi in materia ferroviaria, quali Carlo Villatico Campbell (565.549 euro) ed Emilio Maraini (94.117 euro): già altissimo dirigente delle Fs ai tempi di Lorenzo Necci, impegnato nella partita dell’alta velocità al fianco di Ercole Incalza, fino a qualche mese fa dominus del ministero delle Infrastrutture. E si trova perfino un geometra, Gualtiero Cesarali (301.004 euro). Fatto che aveva indotto la Corte dei conti a chiedere chiarimenti al predecessore di Daniele, quel Patrizio Cuccioletta travolto dall’inchiesta sul Mose e la corruzione. Sentendosi rispondere: «Vista la presenza degli altri due membri laureati non si ha motivo di dubitare sulla qualificata preparazione della Commissione». I dirigenti delle Infrastrutture non sono gli unici burocrati pubblici ad aver goduto di questo singolare beneficio. Ci sono per esempio due esponenti del Tesoro, come l’ex capo di 31 gabinetto dei ministero dell’Economia Vincenzo Fortunato (552.619 euro) e Mario Basili, revisore dell’Agenzia italiana del Farmaco (99.027). Si arriva così alla terza domanda: che cosa c’entrano un magistrato e un esperto di conti nel collaudo di una diga? Non è roba da ingegneri? Certo. Se non ci fosse però un trucco che consente di moltiplicare all’infinito il numero degli incarichi e i compensi. Legale, ovvio. Ma sempre un trucco è. Si chiama collaudo tecnico amministrativo: una invenzione della burocrazia per cui non si verificano soltanto la solidità e l’efficienza di un’opera, ma anche le procedure e i prezzi. Insomma, si collaudano le carte. Il più delle volte tutto si risolve in una firma sotto una relazione magari già scritta o assemblata con il copia-incolla. E qui ci fermiamo. Non prima però di aver raccontato l’ultima chicca. Arrivati al Consorzio Venezia nuova, i commissari hanno scoperto che era stata già costituita la commissione per il collaudo finale di tutta l’opera. E da chi era composta? Da tre persone: Fortunato, Ciucci e Pozzi. Un magistrato (Fortunato), un esperto di finanza (Ciucci) e un solo ingegnere (Pozzi). Le nomine sono state immediatamente revocate. Ma Fortunato non ha abbozzato. Per 15 anni magistrato del Tar, ha impugnato la revoca davanti al Tar, che l’ha rigettata indicando la competenza del giudice ordinario. 32 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 01/07/15, pag. 7 Il governo mette nei Cie anche i richiedenti asilo Migranti. Detenzione prevista se si ritiene che il migrante possa fuggire. La misura inserita nel decreto che attua due direttive europee in materia di accoglienza e protezione internazionale Carlo Lania ROMA Possibilità di trattenere i profughi negli hub regionali senza limiti di tempo e comunque fino al completamente dell’esame della domanda di asilo, ma anche di detenerli in un Centro di identificazione ed espulsione (Cie) per 12 mesi se si ritiene che esista un pericolo di fuga. Con il pretesto dell’emergenza immigrazione l’Europa vara norme più dure anche nei confronti di quanti fuggono da guerre e persecuzioni. E l’Italia si accoda senza protestare. Il giro di vite si sta preparando al Senato, dove in commissione Affari costituzionali è in discussione lo schema di decreto legislativo che recepisce due direttive europee proprio sull’accoglienza dei richiedenti asilo e sulle procedure per l’accesso alla protezione internazionale. Misure più severe che vanno ad aggiungersi alla creazione, prevista nell’Agenda europea per l’immigrazione, di hotspot nei principali punti di sbarco dove effettuare un primo screening dei migranti dividendoli tra quanti hanno diritto a presentare domanda di asilo e migranti economici, quindi irregolari per i 28, con la possibilità se necessario di detenere quest’ultimi anche per un anno e mezzo. Già approvato dalla Camera, il testo del decreto potrebbe essere licenziato in queste ore dal Senato, con un parere non vincolante della Commissione Affari costituzionali. «C’è un forte rischio di un indebolimento del sistema dei diritti», ha denunciato ieri il senatore Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani di Palazzo Madama in una conferenza stampa indetta con Caritas, Acli, centro Astalli e Tavola Valdese. Rischio reso ancora più evidente dalla possibilità che strutture come i Cie, che si sperava ormai superate, tornino improvvisamente in vita e vengano addirittura potenziate. «Il governo farà quello che vuole — ha spiegato il relatore del provvedimento, il senatore Francesco Palermo — ma nel passaggio parlamentare non potevamo non evidenziare una impostazione di fondo sbagliata. Secondo queste norme saranno i richiedenti asilo, che già hanno subìto una violazione dei loro diritti, a pagare per un sistema inefficiente». Il pericolo più grande riguarda proprio la possibilità che dopo essere fuggito da un conflitto che devasta il proprio Paese, un profugo si ritrovi alla fine rinchiuso in un Cie per un anno. Oggi la detenzione nella struttura è prevista solo in caso di pericolo per la sicurezza pubblica. Il testo del decreto estende invece questa possibilità anche a chi presenta domanda di asilo se esistono dubbi sulla sua identità e se il questore ritiene che possa sussistere un pericolo di fuga. Cosa molto probabile, visto che la stragrande maggioranza di quanti approdano sulle nostre coste non vuole rimanere in Italia ma trasferirsi in un paese del nord Europa. L’articolo 8 del provvedimento contiene invece una contraddizione. Mentre infatti si afferma di voler superare i Cara (Centri di accoglienza richiedenti asilo) allo steso tempo non si fissa un termine massimo entro il quale devono essere esaminate le richieste di asilo presentate dai profughi, che in attesa di una risposta da parte della commissione 33 esaminatrice restano ospitati nei nuovi hub regionali. «In sostanza in questo modo si ripropone la stessa logica dei Cara», ha spiegato Manconi lasciando intendere tempi di attesa per lo smaltimento delle domande che oggi possono superare anche un anno. Quello che il governo sta preparando è dunque un meccanismo inutilmente punitivo verso i profughi ed estremamente macchinoso. Basti pensare che nel 2014 su 170 mila migranti arrivati in Italia, 60 mila hanno presentato domanda di asilo. «Tutti gli altri dobbiamo considerare che sono fuggiti?» si è chiesto Bernardino Guarino del centro Astalli, il servizio rifugiati dei gesuiti. «Se è così allora dovremo trattenere nei Cie 100 mila persone e dov’è la copertura economica per poterlo fare?». Sarebbe un errore pensare che sia solo l’Italia a trattare l’ immigrazione come un questione di puro ordine pubblico. Sull’emergenza di questi mesi «occorre registrare il fallimento dell’Europa che non riesce a trovare un approccio comune», ha detto ieri il direttore della Caritas italiana, don Francesco Soddu. «È l’immagine di una Europa ripiegata su sé stessa, che difende strenuamente i confini che pensavamo superati». Per il direttore di Caritas «è necessaria una contro-agenda in cui si sottolinei che non è possibile aprire campi profughi nei Paesi nordafricani, in cui si rilevi che la ripartizione dei migranti decisa in Europa è insufficiente e si spinga per l’apertura di ingressi legali dei migranti in Europa». 34 WELFARE E SOCIETA’ del 01/07/15, pag. 7 La tavola degli italiani sempre più povera Nuovi poveri. Secondo una ricerca presentata all'Expo dal Banco Alimentare, in Italia 14 famiglie su 100 non possono permettersi un'alimentazione equilibrata con cibo proteico ogni due giorni. A patire di più sono i minorenni, 1 milione e 300 mila soffrono di "povertà alimentare". Il dato è più che raddoppiato nel giro di otto anni. Per contrastare la povertà in via di cronicizzazione, scrivono i curatori della ricerca, bisognerebbe pensare a una misura strutturale per il reddito delle persone più povere Luca Fazio MILANO In cascina Triulza si parla di povertà alimentare. Di italiani sotto alimentati. Di nuovi poveri. E’ una di quelle iniziative virtuose per cui bisognerebbe ringraziare Expo, ma sarebbe come rallegrarsi per la presentazione delle opere di San Francesco in una boutique di Cartier. I dati presentati da Banco Alimentare però meritano di essere esaminati con cura — sono raccolti nel volume “Food poverty Food bank” a cura di Giancarlo Rovati e Luca Pesenti (Università Cattolica di Milano). Si tratta di un’indagine realizzata dopo la crisi, dunque con statistiche aggiornate al 2014 (il primo rapporto analogo è stato realizzato nel periodo antecedente il 2008). In questo lasso di tempo, dicono i relatori, la dimensione della povertà alimentare in Italia è raddoppiata: sono 5 milioni e mezzo le persone, di cui ben 1,3 sono minorenni, che non hanno la possibilità di assicurarsi un’alimentazione equilibrata. Significa che 14 famiglie su 100 non hanno soldi a sufficienza per garantirsi cibo proteico ogni due giorni (il dato è più che raddoppiato dal 2007, quando erano 6 su 100). Il confronto con altri paesi è disarmante: in Francia sono 7,3 e in Spagna 3,5 le famiglie altrettanto povere. “L’Italia – scrivono Rovati e Pesenti — sembra aver pagato più di tutti i paesi il prezzo amaro della crisi”, tanto che oggi soltanto i paesi dell’ex blocco sovietico presentano cifre più preoccupanti rispetto alla difficoltà di procurarsi una dieta equilibrata. C’è un altro dato urgente che il Banco Alimentare sottolinea. Le oltre 15 mila associazioni caritative che operano in Italia, grazie alle quali non ci sono (troppe) persone che vivono sotto i ponti, dicono di non essere in grado di aiutare un numero maggiore di persone. L’appello, con modi garbati, è rivolto al mondo politico, e ha tutta l’aria di una sfida che il governo non sembra intenzionato a raccogliere: “Appare auspicabile ora aggiungere il tassello, presente in quasi tutti i paesi europei, di una misura strutturale di sostegno al reddito dei più poveri”, si legge nell’introduzione del volume presentato ieri. Il ministro per le politiche agricole, Maurizio Martina, in video, però ha risposto picche al moderatore del dibattito che ha fatto riferimento anche alla proposta del Movimento 5 Stelle: “Sono per valutare qualsiasi strumento praticabile, ma questo mi sembra difficilmente sostenibile dal punto di vista finanziario. Mi sembra doveroso provare nuove sperimentazioni, ma senza fare una battaglia ideologica e senza appoggiare ipotesi velleitarie”. Alla luce delle statistiche però non si trovano tracce di battaglia ideologica tra quegli adulti italiani — persone disoccupate, indebitate o separate — che chiedono di ricevere un pacco alimentare (la principale causa di povertà nel 2014 è stata nell’80% dei casi la perdita del lavoro). Inoltre, sottolineano i ricercatori, “è proprio tra chi ha meno di 18 anni 35 che si nasconde il vero dramma della povertà in Italia”. Quasi 14 bambini su 100 tra i 6 e i 14 anni “sperimentano problemi” di mancanza di cibo. Nel sud le cifre sono ancora più “impressionanti”: 19,3 bambini della fascia 6–14 anni su 100 sono poveri “anche dal punto di vista alimentare”; e sono aumentati in modo “vertiginoso”, erano 3 ogni 100 prima della crisi. La ricerca, come sostiene il presidente del Banco Alimentare Andrea Giussani, rende ancora più persistente (e scandaloso) il paradosso dello spreco di alimenti nella filiera alimentare. L’incentivo alla riduzione e alla redistribuzione degli sprechi, probabilmente, sarà uno dei lasciti dell’Expo, grazie ad iniziative che sono già “sponsorizzate” da alcune grandi catene della distribuzione. La carità, in fondo, rende tutti più utili. Anche Expo, per esempio, combatte lo spreco grazie a un accordo stipulato con la cascina Triulza: nei primi due mesi sono stati recuperati oltre 5 mila chili di alimenti, poi distribuiti ad alcune delle 250 strutture caritative di Milano convenzionate con il Banco Alimentare (che assistono 54 mila persone). Anche il ministro Martina vanta un dato relativo al sostegno che il governo dà agli indigenti: “100 mila tonnellate di cibo distribuito quest’anno”. Una cosa giusta, anche se non è così che si affronta la povertà (anche alimentare). Ma oggi non si butta via niente. del 01/07/15, pag. 8 Reddito minimo alla friulana Lavoro. 550 euro al mese per non più di due anni: prima regione a sperimentarlo grazie al voto di Pd, Sinistra e libertà e M5S Ernesto Milanesi Minimo, garantito o di sostegno. Ognuno lo aggettiva a piacere, tuttavia il Friuli Venezia Giulia è la prima regione d’Italia a garantire reddito vero nell’epoca della Grande Crisi. Si tratta di 550 euro al mese per un massimo di due anni. Lo ha deciso l’aula del consiglio regionale con una maggioranza altrettanto significativa. Hanno votato a favore in 27: Pd, civica, Sel e pentastellati. Contrari gli otto consiglieri regionali di Forza Italia, Autonomia responsabile, Ncd, Fdi-An. La governatrice Debora Serracchiani (che è anche vice segretaria del Pd di Renzi) aveva inutilmente auspicato l’abbattimento di steccati: «Non ci sono bandierine da mettere, ci sono temi su cui nessuno può aggiungere i suoi colori politici. Ci sono famiglie per le quali 180 euro al mese fanno la differenza. Tutti insieme abbiamo messo dei tasselli, una piccola risposta assolutamente sperimentale. Sarebbe incomprensibile, illogico, improprio dividersi su questo tema». È comunque una scelta netta, di campo, perfino politicamente autonoma. Il «reddito alla friulana» non sarà sulla carta, com’è accaduto in Lazio. La giunta Serracchiani ha già stanziato 10 milioni e il provvedimento viene già esaltato come una vittoria dal M5S… In aula Stefano Pustetto (Sel), nel ruolo di relatore di maggioranza, ha isistito proprio sul «reddito minimo» per altro teorizzato nel 1942 dai liberali inglesi, prima che fosse realizzato dal governo laburista sei anni più tardi. E almeno il Friuli si allinea all’Unione europea che dalla bellezza di 23 anni raccomanda l’adozione di misure riguardanti il reddito minimo, che solo Italia e Grecia disattendono. Il «reddito alla friulana» funzionerà in base a precisi criteri, mentre la gestione sarà imperniata sui Centri per l’impiego (e, quindi, non sull’Inps) con l’obiettivo di collegare al territorio l’erogazione del sostegno economico. Fissati già i requisiti per ottenere i 550 euro al mese. Tanto per cominciare, occorre un reddito certificato Isee inferiore ai 6.000 euro all’anno. Poi l’assegno è stato legato a filo 36 doppio al «patto» che prevede formazione, ricerca lavoro e attività socialmente utili. Include anche i pensionati, che sono stati messi in ginocchio dalla recessione. Il M5S ha fatto poi scattare il vincolo fra reddito minimo e frequenza scolastica: se in famiglia si verifica un abbandono scolastico, cessa l’aiuto economico. Infine, occorre una residenza di almeno due anni in Friuli. Le interpretazioni politiche sono differenti. Gino Gregoris (Civica) ha scandito: «Non è reddito di cittadinanza né minimo garantito, ma una misura attiva di sostegno di tipo universalistico e selettiva». Ma Cristian Sergo del M5S ha insistito sulla versione Beppe Grillo: «Gli interventi tendono a contrastare povertà, disuguaglianza e l’esclusione sociale». Il Pd ha declinato così il provvedimento: «L’incremento della povertà assoluta diffusa e la diminuzione dell’occupazione sono all’origine della proposta di legge che mira a qualificare le misure di sostegno al reddito con azioni non solo di tipo assistenziale ma anche di sviluppo, di inserimento, promozione sociale e lavorativa». In linea di massima, il «reddito alla friulana» dovrebbe interessare circa 10 mila potenziali beneficiari in uno scenario con quasi il 9% di disoccupazione. Per di più, si tratta comunque di una misura «sperimentale»: tre anni in cui l’erogazione dei 550 euro al mese verrà controllata attraverso i Cpi e gli stessi uffici della Regione. Secondo l’assessore Maria Sandra Telescala, va inquadrata nella cornice ben più ampia del nuovo piano regionale del sociale: «Alla fine del percorso di riordino all’interno delle misure di sostegno al reddito avremo una parte delle politiche sociali, tra cui in particolare il fondo di solidarietà. Nonché la carta famiglia, la carta acquisti e altre misure». del 01/07/15, pag. 8 Cinque Stelle e Sel: a settembre il reddito minimo in aula al Senato Nuovo Welfare. «Grasso si prenda la responsabilità di calendarizzare la nostra proposta». La mediazione della campagna di Libera di don Ciotti e del Bin-Italia. Scriveranno un testo unico con la minoranza dem Roberto Ciccarelli Prove di convergenza tra Movimento 5 Stelle, Sinistra Ecologia e Libertà e la minoranza Pd guidata da Roberto Speranza per definire insieme una proposta di legge unificata sul reddito minimo garantito al Senato. Ieri a Roma, nella sala dei gruppi della Camera, su invito dei promotori della campagna per un «reddito di dignità», Libera di Don Ciotti e il Basic Income Network-Italia, Alessandro Di Battista ha garantito la «massima disponibilità del movimento per formulare una versione unica del Ddl in discussione in commissione Lavoro al Senato. Il reddito è una misura economicamente fondamentale anche per rilanciare la domanda interna, creare posti di lavoro e contro il voto di scambio». «Sel ritiene che un’intesa con il Movimento Cinque Stelle,e con le forze presenti in parlamento, sia non solo possibile ma necessaria contro la povertà e la precarietà. Necessaria è una legge che esiste in tutta Europa tranne che in Italia e in Grecia» ha risposto Nicola Fratoianni, coordinatore nazionale di Sel. Nei prossimi giorni inizieranno i lavori di un comitato ristretto composto dagli esponenti politici presenti in commissione. Obiettivo: arrivare a settembre pronti per calendarizzare il provvedimento in Senato. «Lavoreremo affinché al massimo entro due mesi arrivi in aula la proposta di legge sul reddito» ha detto Nunzia Catalfo, prima firmataria della proposta 37 dei Cinque Stelle. «Da mesi — ha aggiunto Loredana De Petris, presidente Sel del gruppo Misto al Senato — chiediamo la calendarizzazione nella capigruppo, senza però ottenerla, a differenza di quanto è avvenuto per altri provvedimenti come quello sulla scuola che è andato in aula senza relatori. Il presidente Grasso si assuma le sue responsabilità». I principi base sono quelli elencati dalla campagna per il «reddito di dignità» che svolge un prezioso ruolo di raccordo e mediazione tra le forze politiche e la società: «L’individualità dell’erogazione del reddito e non su base familiare — spiega Sandro Gobetti del Bin-Italia — La residenza, e non la cittadinanza italiana, per non escludere i cittadini stranieri dal beneficio di una misura universale; la congruità dell’offerta di lavoro rispetto alla formazione e alle competenze dei beneficiari. Questa è la principale differenza con una legge per i poveri e il paletto fondamentale contro l’esagerata condizionatezza delle misure che spingerebbero molte persone a non presentare domanda per evitare di essere sanzionati e puniti. Alla base bisogna riconoscere e valorizzare la persona, evitando di farla vivere sotto nuovi ricatti». «Al contrario di quanto pensa il presidente del Consiglio Renzi — ha aggiunto Giuseppe De Marzo, coordinatore della campagna «Miseria Ladra» di Libera — il reddito minimo garantito è costituzionale che rispetta gli articoli 3, 36 e 41 della Costituzione, oltre che la Carta di Nizza. Il suo principio è la dignità dell’uomo e della donna, un concetto che dovrebbe essere al centro delle politiche economiche e sociali ma viene messo a rischio dai dogmi dell’austerità». Come finanziarlo, considerato che secondo l’Istat la proposta dei cinque Stelle «costa» oltre 14 miliardi annui e quella di Sel oltre 23? «Con la fiscalità generale, i tagli alle spese militari, il recupero dell’evasione fiscale, la soppressione delle deroghe su appalti e grandi opere — ha risposto in maniera veemente Don Ciotti nel suo intervento — Il reddito di dignità non è una misura assistenziale. è una misura di giustizia sociale e anche un investimento nella speranza del paese». A Renzi, che ha liquidato il reddito «perché la sinistra dà lavoro» (con il Jobs Act, s’intende) Don Ciotti ha risposto: «Belle parole, ma nel frattempo cosa diciamo ai poveri e ai disoccupati, a chi vive in strada e razzola nei cassonetti? Ci vuole il reddito». La direzione è presa, e sembra che si voglia procedere spediti verso una misura universalistica, e non assistenzialistica per i poveri. A quella potrebbe pensarci il governo adottando il «Reis», o una sua parte, uno strumento sponsorizzato tra gli altri dai sindacati Cgil, Cisl e Uil e dalle Acli. 38 DIRITTI CIVILI E LAICITA’ del 01/07/15, pag. 9 Unioni civili, sarà la volta buona? Chiarito il punto più spinoso, si avvicina l’accordo tra favorevoli e contrari al ddl Cirinnà Non esiste più un testo blindato di Palazzo Chigi, ora il premier lascia la palla al Senato Giacomo Galeazzi Unioni civili tra persone dello stesso sesso e niente nozze gay. Al Senato la legge sembra incamminata verso un compromesso. In realtà, mentre il premier Matteo Renzi promette un’accelerazione, si annuncia un percorso parlamentare accidentato. «A settembre la riforma verrà approvata», assicurano a Palazzo Chigi. Sulla carta l’accordo tra favorevoli e contrari al ddl Cirinnà pare più vicino dopo la riformulazione dell’articolo 1 della norma da parte della senatrice Pd che ne è relatrice. Adesso è stato messo nero su bianco il punto più controverso. E’ stato chiarito, infatti, come quello delle unioni civili tra persone dello stesso sesso sia un istituto giuridico del tutto nuovo e non abbia nulla a che fare con il matrimonio. Fronti trasversali Non esiste più un testo blindato, quindi. Il governo ha deciso di non esprimersi: l’esecutivo in pratica, non dà un parere, si rimette alla commissione Giustizia di Palazzo Madama, cioè al libero gioco delle posizioni politiche nei gruppi (in particolare nel Pd, dove la componente cattolica preme per alcune modifiche) e tra i gruppi, sia di maggioranza sia di opposizione. Una svolta. Questa posizione del governo, se a prima vista può sembrare che indebolisca il consenso, in realtà favorisce la convergenza di 5 Stelle e di una parte di Forza Italia. Renzi non può spingersi fino a emarginare Ncd, la componente più sensibile alle critiche, ma ha comunque almeno due serbatoi aggiuntivi di consenso. Improbabile che si faccia in tempo entro l’inizio di agosto a votare la montagna di emendamenti e sub-emendamenti depositati in commissione, trecento dei quali a sola firma del teocon Carlo Giovanardi. Quasi sicuramente non si riuscirà prima della pausa estiva a licenziare il testo per l’aula e a dedicare sedute alla discussione. E a settembre, dopo la piazza gremita di San Giovanni, tornerà a riunirsi il Family Day. Adesso il terreno dello scontro è la commissione Giustizia del Senato. Sulle unioni civili si fronteggiano sensibilità diverse all’interno delle forze di maggioranza. Pioggia di emendamenti Gli emendamenti al testo, oltre quattromila, sono stati di fatto quasi dimezzati dopo il vaglio di ammissibilità, ma ancora non si è entrati nella fase di votazione. Se nella maggioranza non trovano l’accordo il testo non riuscirà ad uscire dalla commissione. O potrebbe andare in aula senza relatore. Una ferita. Il problema sembra però più di tempi che non di numeri, anche perché il fronte dei contrari, se si irrigidisce, potrebbe in realtà aprire la strada al matrimonio omosessuale, magari con qualche intervento giudiziario. Anche con cambiamenti di giurisprudenza da parte della Corte costituzionale visto anche il contesto internazionale, a cominciare dalla storica sentenza della Corte Suprema con cui sono stati legalizzati i matrimoni gay in tutti gli Stati Uniti. Alcuni tra i contrari hanno consapevolezza. Resta la spaccatura. Reversibilità e adozione 39 In discussione l’estensione (per le unioni gay dell’adozione del bambino già riconosciuto come figlio di uno solo dei due. Il capogruppo di Area Popolare, Maurizio Lupi ritiene «molto difficile» un voto prima dell’autunno. No all’adozione da parte del partner e all’estensione della reversibilità («creata come sostegno alla famiglia in cui il soggetto più debole era la donna che si occupava dei figli»). Ok a regolamentare i diritti individuali delle persone anche dello stesso sesso, ma no all’equiparazione con il matrimonio tra un uomo e una donna. Compromesso non impossibile. Del 1/07/2015, pag. 12 Nuovo Senato (e Ncd) frenano le unioni gay Il muro dei centristi su prescrizione e diritti. Cirinnà: aperture da Forza Italia, in Aula anche senza relatore Priorità alle modifiche della Carta con l’ipotesi dell’elezione diretta. A rischio pure il riordino della Rai ROMA Dei tre piatti forti previsti dal calendario parlamentare prima della pausa estiva, alla fine, ne potrebbe rimanere uno solo sul tavolo del Senato. La riforma costituzionale del bicameralismo paritario, che verrà incardinata giovedì in I commissione con l’obiettivo di essere approvata (terza lettura) entro il 7 agosto, rischia infatti di sbarrare il cammino per l’Aula a provvedimenti di rilievo per il governo come i ddl sulle unioni civili e sulla prescrizione, creando poi interferenze anche per la riforma Rai. Cinque settimane di lavoro, da qui all’interruzione di agosto, non consentono dunque di sbrogliare l’ingorgo che si è creato a Palazzo Madama. Ma non è solo una questione di calendario. La fretta di far fare il terzo passo in avanti alla riforma costituzionale del Senato nasconde anche le difficoltà politiche della maggioranza (Pd e Ap-Ncd in rotta di collisione) su fronti assai controversi: le unioni civili, che prevedono la reversibilità delle pensioni e le adozioni di figli naturali precedenti e dunque sempre «interne» alla coppia; la prescrizione raddoppiata per il reato di corruzione. Ieri la presidente della I commissione, Anna Finocchiaro (Pd), ha ufficializzato l’imminente partenza del dibattito sul ddl costituzionale anche se, rispetto a un anno fa, quando si votò per la prima volta sul testo Boschi, il clima sembra cambiato con qualche apertura del premier Matteo Renzi sulla composizione del nuovo Senato e sull’elezione diretta dei senatori: «Discutiamo con calma, senza considerare la data del 7 agosto come ultimativa», ha avvertito la presidente Finocchiaro. Mentre il bersaniano Miguel Gotor puntualizza che finora «non è stata avviata alcuna trattativa per modificare il testo». Se la riforma Renzi-Boschi si appresta a fare un passo in avanti, il testo sulle Unioni civili (relatrice Monica Cirinnà, Pd) rischia di andare a sbattere contro un muro di emendamenti eretto dal partito di Alfano: «Forse, e ripeto forse, solo a Natale si potrebbe arrivare in aula», avverte Carlo Giovanardi del Nuovo centro destra. Tradotto in numeri l’ostruzionismo del Ncd prevede più di mille emendamenti (su 1.446 totali) ai quali si sono aggiunti ieri sera altri 206 subemendamenti (su 286) dei centristi: «Senza un accordo tra Pd e Ncd sarà difficile andare in Aula con il mandato al relatore perché, per regolamento, si possono concedere anche 60 minuti per illustrare ogni singolo emendamento», fa sapere il presidente della commissione Giustizia Francesco Nitto Palma (FI). Eppure nel Pd, che ha pure i suoi problemi con il fronte cattolico interno, la relatrice Cirinnà è convinta che il testo base potrebbe andare in aula anche senza relatore: «Dentro Forza Italia, tra i fittiani e i socialisti ci sono molti liberi pensatori che voterebbero il 40 testo....». Il terzo fronte oscurato dall’avanzata della riforma del Senato è quello della prescrizione. Al vertice di maggioranza il vice ministro Enrico Costa ha manifestato il suo disappunto contro il Pd che «si impunta su posizioni di bandiera: ma solo senza impuntature il dibattito potrà portare una soluzione ragionevole e condivisa». Dino Martirano Del 1/07/2015, pag. 19 Aborto, la Corte boccia il Texas La nuova sentenza sospende le leggi restrittive in vigore nello Stato conservatore Non saranno costrette a chiudere le cliniche che praticano l’interruzione di gravidanza È solo una decisione provvisoria che serve a tenere aperte una decina di cliniche per gli aborti in Texas in attesa di una sentenza definitiva sul caso, ma il pronunciamento della Corte Suprema di ieri segna anche sul delicatissimo tema dell’interruzione della gravidanza un cambio di rotta in senso progressista da parte di una magistratura suprema che ha ancora una maggioranza di giudici conservatori. La settimana scorsa il presidente della Corte, John Roberts, ha scelto di schierarsi coi magistrati democratici a difesa di «Obamacare», la riforma sanitaria di Barack Obama mentre subito dopo è stato un giudice conservatore nominato negli anni Ottanta da Ronald Reagan, Anthony Kennedy, a unirsi ai progressisti nella storica sentenza che ha stabilito il diritto delle coppie gay di unirsi in matrimonio in tutti i 50 Stati Usa. Anche sull’aborto in Texas l’ago della bilancia è stato Kennedy. Con una legge di due anni fa questo Stato del Sud ha introdotto standard molto restrittivi per le cliniche nelle quali si praticano aborti. La norma, mirante a ridurre al minimo il numero di questi centri, prevede che anche i presidi ambulatoriali specializzati abbiano la struttura di veri centri chirurgici con edifici, equipaggiamenti e organizzazioni del personale analoghi a quelli degli ospedali. Dal luglio del 2013, quando l’allora governatore Rick Perry promulgò la legge, in Texas hanno dovuto chiudere i battenti oltre metà delle 41 cliniche autorizzate a interrompere le gravidanze: oggi ne sono rimaste 19 in uno Stato con 27 milioni di abitanti e una superficie di 700 mila chilometri quadrati, più del doppio dell’Italia. E sono tutte concentrate in quattro aree urbane: Houston, San Antonio, Austin e Dallas. Il che significa che in tutta la parte occidentale dello Stato (San Antonio, la più a Ovest delle quattro città, è al centro del Texas) già oggi non c’è nessuna struttura che pratichi aborti. Altre 10 delle 19 cliniche superstiti che avevano ricevuto un’ingiunzione di chiusura avevano fatto ricorso in Appello. Hanno perso e allora si sono rivolte alla magistratura costituzionale che non ha ancora deciso se deliberare sul caso. Ma la decisione di lunedì sera — tecnicamente solo una sospensione dell’ordine di chiusura in attesa di ulteriori delibere — indica, implicitamente, che la Corte intende affrontare la questione. Se così sarà, vedremo un inasprimento e un’ulteriore politicizzazione del conflitto tra giudici supremi. I tre conservatori che hanno votato contro le deliberazioni di questi giorni, Clarence Thomas, Antonin Scalia e Samuel Alito, hanno criticato aspramente le decisioni della Corte. Soprattutto quella sulle nozze gay, giudicata da Scalia insensata e giuridicamente incoerente. Spaccature ce ne erano state tante in passato, ma mai fino al punto di mettere in dubbio la legittimità delle decisioni della Corte. Che, se affronterà gli aborti, lo farà tra un anno: cioè nel bel mezzo della campagna presidenziale. 41 Massimo Gaggi 42 BENI COMUNI/AMBIENTE Del 01/07/2015, pag. 30 Il 2015 sarà l’anno più caldo mai registrato. Parola della Nasa. Gli orsi polari cercano nuovo cibo. E gli Stati cominciano il balletto delle cifre. L’America si impegna a tagliare le emissioni entro il 2025, l’Italia prima del 2030 Ma per contenere le temperature lo stop va anticipato al 2020 La Terra appesa a 2 gradi MAURIZIO RICCI LA buona notizia, dicono gli scienziati norvegesi in missione alle isole Svalbard, è che gli orsi polari, assediati dallo scioglimento dei ghiacci che sta facendo emigrare le foche, si ingegnano a trovare altre fonti di cibo. La cattiva notizia è che questo cibo sono i delfini, che il riscaldamento dell’oceano spinge sempre più a Nord. Il 2015, prevede la Nasa, sarà, infatti, l’anno più caldo mai registrato: a livello globale, fra gennaio e maggio la temperatura non era mai stata così alta. Un decimo di grado più dell’anno scorso, che era il record precedente. Alcuni scienziati pensano che il riscaldamento immagazzinato in profondità dagli oceani negli ultimi anni stia per emergere in superficie, facendo fare alla temperatura sulla terraferma un balzo in avanti e spingendo i ghiacciai della costa dell’Antartide ancor più oltre la soglia critica dello scioglimento. Il processo è già in corso. Il New Scientist calcola che si è ormai innescato un innalzamento irreversibile di un metro del livello dei mari nei prossimi decenni e di cinque metri nel prossimo secolo: buona parte di New York, Londra e Venezia sono destinate comunque a finire sott’acqua. È troppo tardi per tornare indietro. È il segnale che c’è sempre meno tempo per fermare l’effetto serra e, anzi, comincia a non essercene più. Le emissioni di anidride carbonica hanno avviato una trasformazione del pianeta destinata a diventare sempre più inarrestabile. Gli impegni, a prima vista coraggiosi, che cominciano a prendere i governi di diversi paesi non bastano. Anche l’annuncio dei G7 di un obiettivo di riduzione delle emissioni vicino al 70 per cento, rispetto a cinque anni fa, entro il 2050 non basta. Il 2050 è troppo lontano. Se si vuole tenere aperto uno spiraglio alla possibilità di fermare l’aumento della temperatura, rispetto all’epoca preindustriale, a 2 gradi, come chiedono scienziati e governi, le emissioni vanno fermate subito. Nel 2020, cioè domani mattina. Come? Tagliando drasticamente carbone e petrolio. L’allarme e l’appello vengono da un angolo inaspettato. La Iea, International Energy Agency, è l’agenzia che si occupa di energia, per conto dell’Ocse, l’organizzazione che raccoglie i trenta paesi più industrializzati e più ricchi del pianeta. Incaricata di assicurare un ordinato rifornimento di energia ai paesi consumatori, la Iea va da sempre a braccetto con sceicchi e Big Oil. Ora, non più. Due terzi delle emissioni di CO2 sono legati alla produzione e all’uso di energia: si deve, dunque, cominciare di lì, dice il rapporto su “Energia e cambiamento climatico” che l’agenzia pubblica in questi giorni. Non partiamo da zero. L’anno scorso quasi metà di tutta la nuova capacità di produrre energia è venuta dalle rinnovabili e la rapida espansione delle fonti a basso contenuto di carbonio ha avuto come risultato che crescita economica e aumento delle emissioni di CO2 non vanno più di pari passo: l’economia mondiale è cresciuta del 3 per cento, ma le emissioni sono rimaste uguali all’anno prima. Su questo trend si innestano gli impegni nazionali di contenimento della CO2 che i governi stanno prendendo in vista della Conferenza di Parigi di fine anno. Paesi responsabili per un terzo delle emissioni globali hanno già presentato i loro impegni. Gli Stati Uniti ridurranno le emissioni fra il 26 e il 28 43 per cento (rispetto al 2005) entro il 2025. Più determinata l’Europa: meno 40 per cento, rispetto al 1990, entro il 2030. Anche Russia e Messico conterranno le emissioni e, soprattutto, si muove un grande inquinatore come la Cina che porrà un tetto alle emissioni nel 2030 o anche prima. Rispetto al 2009, quando il mondo, alla conferenza di Copenhagen, non riuscì a raggiungere un accordo sulle emissioni, lo scenario politico è completamente cambiato. Ma il risultato? Scarso, dice la Iea. Di fatto, serve solo a farci guadagnare non più di otto mesi. E ci proietta al di là del tetto dei due gradi. Nello scenario che si apre con gli impegni assunti finora per Parigi, infatti, le emissioni continuano a crescere anche dopo il 2030. Poco, magari: solo l’8 per cento fra il 2013 e il 2030, contro una crescita economia dell’88 per cento. Ma il legame non è rotto. Sulla base di quanto promettono i governi, l’investimento in solare ed eolico diventa dell’80 per cento più alto di oggi, ma le centrali a carbone continuano a sputare solo un po’ meno CO2. Che succede, allora? Diciamo che per avere almeno una possibilità su due di non sforare il tetto dei 2 gradi, il mondo può emettere non più di un tot di anidride carbonica. Sulla base degli impegni assunti finora dai governi, quel tot ce lo saremmo consumato tutto nel 2040. Cioè, sottolinea la Iea, otto mesi più tardi di quanto avverrebbe se i governi non avessero mai assunto impegni per Parigi. O si stringono le viti dell’austerità anti-Co2 o addio due gradi: con tanto di impegni sottoscritti, la temperatura salirebbe di 2,6 gradi entro il 2100 e di 3 gradi e mezzo dopo il 2200, quanto basta per friggere il pianeta. Ai governi che pagano i loro stipendi, gli esperti della Iea spiegano che, per sfuggire a questo destino, bisogna volerlo. Ma non c’è bisogno di fare salti mortali. La tecnologia c’è già e la crescita economica non ne risentirebbe affatto. I grandi dell’energia, del petrolio e del carbone, invece sì, ne sarebbero colpiti. L’obiettivo, infatti, è fermare le emissioni già al 2020: dopo dovranno scendere e non salire. Fermare le emissioni significa due cose, secondo la Iea: l’uso del carbone comincia a diminuire da subito, già prima del 2020. La domanda di petrolio continua a salire fino a quell’anno, ma lì si ferma. Le misure per arrivare a questi risultati sono relativamente semplici, ma costose. Anzitutto, dunque, aumentare l’efficienza energetica nell’industria, nei trasporti, negli edifici (gli effetti maggiori si avrebbero in Cina). Aumentare gli investimenti in rinnovabili dai 270 miliardi di dollari l’anno di oggi ad almeno 400 miliardi. Ridurre progressivamente l’utilizzo delle centrali a carbone più vecchie e bandirne la costruzione di nuove (i paesi più interessati sono Germania, Cina, India e Australia). Tagliare gradualmente i sussidi ai consumatori di benzina e gasolio (una misura che tocca, in particolare, i paesi emergenti). Ridurre le emissioni di metano nella produzione di gas e petrolio, ovvero, i fuochi in testa ai pozzi. L’idea che la domanda di petrolio possa arrestare la sua ascesa già nei prossimi anni, cozza contro tutte le previsioni ufficiali di Big Oil, da Exxon a Shell a Bp. In questo senso, è un cerino acceso quello che la Iea consegna ai governi, in vista del braccio di ferro che accompagnerà la conferenza di Parigi. E proprio ieri Barack Obama e la brasiliana Dilma Rousseff si sono impegnati a lavorare per un accordo “ambizioso ed equilibrato” sul cambiamento climatico, in dicembre a Parigi. 44 INFORMAZIONE del 01/07/15, pag. 14 Dove va l’Ansa? Ri-mediamo. L’agenzia nata nel gennaio del 1945 su proposta dei quotidiani delle maggiori forze della Resistenza si trova nel mezzo di un passaggio grave e cruciale Vincenzo Vita L’Agenzia nazionale stampa associata — più nota con l’acronimo Ansa — nacque nel gennaio del 1945 su proposta dei quotidiani delle maggiori forze della Resistenza. Vale a dire l’Unità, Il Popolo e l’Avanti, cui si associarono L’Italia libera, La Voce Repubblicana e Risorgimento Liberale. Prendeva autorevolmente il posto della vecchia agenzia Stefani, legatasi al regime. Non per caso, la scelta della governance, come si direbbe oggi, fu peculiare e coraggiosa: una cooperativa di giornali, indipendente dai governi e da questa o quella cordata finanziaria. Ecco, purtroppo la situazione di oggi non è affatto felice, essendo esplosa una crisi iniziata da qualche anno. Anzi. Proprio negli ultimi giorni — quattro dei quali segnati dallo sciopero — la situazione è precipitata. Infatti, la struttura di direzione ha deliberato 65 esuberi, con la ventilata richiesta della cassa integrazione. L’ultimo “pacchetto”, in verità, ha dei precedenti già consistenti, visto che nel volgere di pochi anni la redazione è passata da 400 a 316 persone. Non solo. I giornalisti si sono resi disponibili con impegno e serietà a stare pienamente nel ciclo produttivo crossmediale, dando vita — tra l’altro — ad un sito di eccellenza, cui nel 2014 è andato il riconoscimento del «Premio Ischia», e arrivato secondo nella classifica della Reuters. Famosa è la qualità delle fotografie, che sarebbe piaciuta a Walter Benjamin. Per dire. E, sempre nel 2014, i conti erano in pareggio. Mentre ora, a motivare la scelta delle eccedenze, si dice che l’esercizio in corso si chiuderà con un deficit di 5 milioni. Che è successo? Bastano a giustificare una simile condotta i tagli — 3 milioni — del Fondo dell’editoria nei riguardi dell’agenzia? Difficile, visto che sembra esservi un impegno a ripristinare la soglia precedente. C’è, almeno in apparenza, qualcosa che sfugge. Così, è legittimo sospettare che il problema stia altrove. Torniamo alla specificità dell’assetto dell’Ansa. Con l’eccezione del Sole24Ore, la maggior parte dei gruppi editoriali siede nella cabina di comando. Per un verso, forse, a fronte dell’ascesa inarrestabile della versione on line delle news, l’agenzia potrebbe persino essere vissuta come un concorrente; per un altro, è altrettanto probabile che la linea dura scelta sia una sorta di prova generale. Nel momento in cui servirebbe gestire con sagacia e lungimiranza la fase della transizione all’era digitale, il grosso degli editori preferisce la scorciatoia dell’abbattimento del costo del lavoro, amputandolo e svalorizzandolo. Insomma, mentre negli Stati uniti vi è un dibattito interessantissimo sulle prospettive della carta stampata nell’età di Internet e in Francia lo stato si fa carico di un surplus di finanziamento pubblico (280 milioni di euro, dieci volte quelli del Fondo italiano), qui i gruppi dirigenti — Fieg compresa — preferiscono prendersela con l’anello debole: vale a dire una categoria professionale impoverita e tendenzialmente precarizzata. Non è una strategia, bensì il contrario. Non solo la crisi non verrà fermata, ma — al contrario — si aggraverà senza sbocchi possibili. E’ un tema di prima grandezza, che dovrebbe costituire il cuore della annunciata riforma del settore. A meno che non ci si accontenti di un maquillage del Fondo pubblico, senza agire sui nodi strutturali. E’ augurabile che le 45 organizzazioni sindacali vogliano prendere in mano la questione, che attiene peraltro alla loro stessa forza di rappresentanza. Siamo nel mezzo di un passaggio grave e cruciale. L’Ansa è la fonte per eccellenza, l’ontologia dell’informazione. Anticipa il futuro. 46 ECONOMIA E LAVORO del 01/07/15, pag. 9 Jobs Act, ecco i numeri che sgonfiano la propaganda Istat. Quasi metà degli occupati guadagnati ad Aprile sono stati persi a Maggio. Il loro numero è sceso di 63mila unità, mentre è aumentato nel confronto con maggio 2014 (+60mila). La disoccupazione è stabile al 12,4%, mentre quella giovanile è ferma al 41,5%. La riforma del lavoro non produce nuova occupazione. E quella che c'è è precaria Marta Fana Quasi metà dell’apparente exploit dei nuovi occupati, segnato ad aprile di quest’anno, è stato perduto nel mese di maggio. I dati sull’occupazione pubblicati ieri dall’Istat sono un bagno di realtà per il governo Renzi che non passa giorno senza millantare l’efficacia delle proprie riforme. Rispetto al mese scorso il numero degli occupati è sceso di 63mila unità, mentre è aumentato nel confronto con maggio 2014 (+60mila). L’aumento annuale riguarda esclusivamente le donne, che però secondo gli ultimi dati del Ministero del Lavoro non rientrano tra gli assunti con il nuovo contratto a tutele crescenti. È la conferma che la nuova occupazione, oltre a non essere significativa dal punto di vista quantitativo, è caratterizzata da una buona dose di precariato. Quanto al tasso di disoccupazione relativo all’intera popolazione, rispetto ad aprile, non c’è stato alcun miglioramento, mentre su base annuale è sceso di 0.2 punti percentuali. Per i giovani tra i 15 e i 24 anni, il tasso di occupazione e quello di disoccupazione sono entrambi diminuiti dell’1% su base annuale, mentre il tasso di inattività ha registrato un aumento del 2,2%. Sono numeri che permettono di trarre un primo bilancio sul Jobs Act e gli sgravi alle imprese, i provvedimenti che alimentano il grande brusìo sulle riforme e sul loro ipotetico successo. Stando ai fatti, a maggio ci sono appena 10 mila occupati in più rispetto a fine dicembre, quindi i nuovi occupati rappresentano lo 0,3% dei disoccupati italiani (oltre tre milioni di individui). Nel confronto di genere, si nota che questi nuovi occupati riguardano esclusivamente le donne (più 96 mila contro una riduzione di 87 mila occupati uomini). Il numero di disoccupati aumenta di 5 mila unità, trainato anche dal calo del numero di inattivi nello stesso periodo (circa 87 mila). Restringendo l’analisi ai giovani, si nota che gli occupati diminuiscono (-19 mila) nei primi cinque mesi, mentre il numero di disoccupati diminuisce di mille unità. Nel frattempo sono aumentati anche i giovani inattivi. Il Ministro del Lavoro Giuliano Poletti non si rassegna all’evidenza e ieri ha dichiarato che siamo di fronte a «una situazione non ancora stabilizzata», ma che tuttavia «restano comunque validi i segnali positivi» relativi alla «maggiore stabilizzazione dei rapporti di lavoro e diminuzione delle ore di cassa integrazione» dei primi mesi dell’anno. Poletti ha fatto male i conti perché a guardare i primi tre mesi dell’anno– escludendo quindi le “destabilizzanti” variazioni tra aprile e maggio– si nota che tra la fine di dicembre 2014 e fine marzo 2015, i nuovi contratti a tempo indeterminato sono stati 76.811 a fronte di un calo del numero di occupati a tempo indeterminato di 79 mila unità. Per ogni nuovo contratto (escluse le trasformazioni) c’è (quasi) un occupato in meno a tempo indeterminato. Per l’ex ministro del lavoro Maurizio 47 Sacconi «è ragionevole supporre che senza una vera ripresa dei consumi interni non si produca una significativa occupazione aggiuntiva». Dunque uno dei più ferrei sostenitori del Jobs Act ne riconosce adesso l’inefficacia e si scaglia contro le tasse sulla casa– che sono alte, soprattutto distribuite molto iniquamente a sfavore dei ceti popolari– ma intanto nulla dice contro i redditi bassi, soprattutto quelli da lavoro. Nel nostro paese, va ricordato, che il 38% dei lavoratori con contratti precari percepiscono redditi sotto la soglia di povertà relativa, così come il 12% dei lavoratori standard. Un risultato al quale ha collaborato anche Sacconi che insiste nell’usare la delega del Jobs Act sulla semplificazione “incoraggiando la propensione ad assumere deregolando gli oneri burocratici sul lavoro”. In realtà l’Istat ha recapitato un altro messaggio a Renzi: gli effetti del Jobs Act sull’occupazione sono inesistenti con una disoccupazione che resta stabile al 12,4%, mentre quella giovanile resta al 41,5%. Le svalutazione di salari e diritti non garantisce la ripresa. In Italia, come in Grecia. 48