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RASSEGNA STAMPA
mercoledì 1 luglio 2015
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
WELFARE E SOCIETA’
DIRITTI CIVILI E LAICITA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Left del 27/06/15, pag.
CECINA, SUMMER SCHOOL CONTRO IL
RAZZISMO
M are aperto è il titolo della ventunesima edizione del Mia, il Meeting antirazzista dell'Arci
dall' l al 5 luglio a Marina di Cecina. Mare aperto contro il Mediterraneo chiuso e fonte di
morte per migliaia di migranti. «Mare aperto perché "in mare aperto" si trovano ·1a società
italiana e tutta la società europea, da decenni al centro di un processo sociale di
trasformazione in cui si incrociano una molteplicità di culture», afferma il neo responsabile
Immigrazione dell'Arci Walter Massa. Nella località toscana cinque giorni ricchi di incontri,
dibattiti ma anche di eventi e spettacoli per ribadire con forza il "no al razzismo". «È molto
importante analizzare il contesto che si sta vivendo sia in Italia che in Europa», afferma
Massa. «Oggi è necessario aggiornare la strategia sul tema dell'antirazzismo, che è, tanto
quanto l'antifascismo, fra i valori identitari dell'Arci. Dobbiamo individuare gli strumenti per
affrontare questa nuova fase caratterizzata da odio e razzismo. È una battaglia di tutta
l'associazione e non solo di chi, da anni e con grandi risultati, si occupa d'immigrazione e
asilo», prosegue. Proprio per questo motivo «al Mia abbiamo lanciato una Summer school
sul tema dell'antirazzismo, per ridefinire una strategia della nostra associazione e per
individuare nuovi e più efficaci strumenti di contrasto a quest'ondata razzista», ribadisce
Massa. Dopo la manifestazione del 20 giugno "Fermiamo la strage" e dopo il rilancio della
campagna "L'Italia sono anch'io", l'Arci sta lavorando alla seconda edizione di Sabir, il
festival delle culture del Mediterraneo, a Lampedusa. Il programma completo del Meeting
antirazzista dell'Arci lo si può trovare sul sito www.meeting.arcitoscana.it
DA Volontariatoggi del 29/06/2015
Arci: migranti, una vergogna senza fine
Lettere Alla Redazione
Associazioni
ROMA. I ministri degli Esteri UE, all’unanimità, hanno ufficialmente dato il via libera alla
prima fase della missione militare contro gli scafisti. Il ministro italiano Gentiloni,
commentando la decisione, ha dichiarato solennemente “la solidarietà non è un optional”.
Ci sarebbe da sorridere di fronte a parole usate così a sproposito, se la situazione non
fosse davvero tragica. Perché è difficile capire dove stia la solidarietà verso i migranti nel
varo di un’operazione che ne metterà ulteriormente a rischio la vita. Che altro effetto può
infatti avere schierare nel Mediterraneo 5 navi militari, 2 sottomarini, 3 aerei da
ricognizione, 2 droni e tre elicotteri con un migliaio di militari per “distruggere le barche
degli scafisti”? Si eserciteranno, questi militari, nelle tristemente famose ‘operazioni
chirurgiche’ che in altri scenari di guerra hanno provocato migliaia di morti fra i civili? E
quante risorse verranno impiegate per un simile dispiegamento di forze – a cui peraltro
l’Onu ha interdetto operazioni in acque e sulle coste libiche? Risorse che l’Italia e l’Europa
hanno rifiutato di impiegare (e ne sarebbero servite molte meno) per attivare
un’operazione di avvistamento e salvataggio in tutta l’area del Mediterraneo, l’unica che
avrebbe consentito – come Mare nostrum ha dimostrato – di salvare vite umane.
Lo scopo vero è quello di impedire che profughi e richiedenti asilo raggiungano le nostre
coste, altrimenti si sarebbe ricorso – come da tempo e non da soli chiediamo – all’apertura
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di canali di ingresso umanitari, l’unico strumento che avrebbe consentito di stroncare alla
radice il traffico di esseri umani.
Ancora una volta, invece, l’UE, con assoluto cinismo, interviene con la forza delle armi per
affrontare nel modo peggiore una grande questione che riguarda la salvaguardia dei diritti
umani, a cominciare dal diritto alla sopravvivenza. Una operazione che sa di
neocolonialismo, e che spiega meglio di tante parole quale è l’idea di Europa dei governi e
dei burocrati europei.
Il presidente del consiglio Renzi ne elogia il senso di responsabilità, che è però
francamente difficile intravedere sia nella scelta di questa operazione, sia nelle polemiche
ancora non risolte sulla distribuzione dei profughi nei vari paesi UE.
Una vergogna senza fine. Da parte nostra, continueremo a denunciare questo
atteggiamento cinico e miope, insistendo sulle soluzioni proposte sabato scorso a Roma
alla manifestazione “Fermiamo la strage!” e nelle tante città dove si è celebrata la giornata
mondiale del Rifugiato. Proteggere le persone e non i confini. Salvare vite umane e non il
proprio consenso elettorale.
Arci Nazionale
http://www.volontariatoggi.info/arci-migranti-una-vergogna-senza-fine/
del 01/07/15, pag. 1
La scommessa di Tsipras
Luciana Castellina
Nonostante l’amichevole gesto con cui Matteo Renzi, regalandogli una cravatta, accolse la
prima volta il neo eletto primo ministro greco, è proprio lui che, arrivati al dunque, ha ora
reso il peggior servizio a Alexis Tsipras. Dicendo che il referendum di Atene avrà per
oggetto un pronunciamento a favore dell’euro o della dracma. Proprio il contrario di quanto
il governo greco si è sforzato di spiegare. E cioè che non intende affatto optare per un
ritorno alla moneta nazionale e uscire dall’eurozona, e invece aver più forza per imporre
una discussione– che fino ad ora non c’è stata mai — su quale debba essere in materia la
politica europea.
Finalmente qualcuno che, anziché cercare riparo dietro la fatidica affermazione “ce lo
chiede Bruxelles”, come ci hanno abituato i governanti europei, pretende di dire la sua
sulle scelte lì compiute.
E’ certo vero che nella stessa Grecia, come del resto altrove in Europa e anche da noi, c’è
chi vorrebbe dire tout court che l’Unione è morta ed è meglio così, ma non è questo
l’oggetto della consultazione. Tsipras chiede più forza per negoziare ancora e il ritorno alla
dracma è solo il possibile eventuale e deprecato esito di un fallimento definitivo del
negoziato.
Un’eventualità che in queste ore sembra forse scongiurata, sebbene il signor Tusk, il più
rude delle istituzioni, abbia all’ultimo appuntamento buttato fuori dal tavolo i negoziatori
greci, dichiarando che “the game is over”.(Perché così sono andate le cose e non il
contrario). E’ una speranza flebile, ma già dimostra che rifiutare i ricatti è giusto.
Purtroppo tutta la lunga trattativa è stata accompagnata da un frastuono mediatico che ha
creato grande confusione. E così la gente meglio intenzionata continua a chiedere se è
proprio vero che i greci hanno una pletora di dipendenti pubblici, quando invece ne hanno,
proporzionalmente, la metà della Germania.
Se è vero che vanno tutti in pensione nel pieno delle loro forze, e invece la media degli
anni di lavoro nel paese è superiore a quella dell’Unione europea e la spesa pubblica per il
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pensionamento, sempre proporzionalmente, metà di quella francese e un quarto di quella
tedesca. La produttività è bassa ma è cresciuta assai di più che in Italia e persino che in
Germania.
Se poi si guardano nei dettagli i punti sui quali la squadra greca ha trattato e si è rifiutata di
accogliere le proposte delle istituzioni europee è difficile rimanere insensibili alle sue
ragioni: rifiutare un aumento dell’Iva sui generi di prima necessità (cibo, prodotti sanitari,
elettricità), e quello a carico delle isole che vivono del solo turismo; respingere la richiesta
di varare una legge che consenta licenziamenti di massa. Rifiuto, anche, a cancellare i
prepensionamenti esistenti, ma bisogna ben tener conto che una quantità di gente è stata
licenziata e non ha altre fonti di sostentamento. E invece è Bruxelles che ha rifiutato la
richiesta greca di un aumento del 12 % di tasse sui profitti che superano i 500.000 milioni.
Si continua a ripetere ossessivamente che la Grecia deve fare le riforme, ma, come del
resto in Italia, non si dice mai esattamente di quali riforme si tratti e in che modo quelle
proposte, o attuate (vedi job act o Italicum da noi) possano in qualche modo aiutare una
ripresa economica. L’austerità, è forse una riforma, o non invece una politica tanto miope
da impedirla? Questa è la lezione che viene dalla Grecia: se invece di insistere su questa
come sola ricetta già dal 2010 si fossero invece sacrificati pochi soldi per consentire gli
investimenti necessari alla modernizzazione del paese non saremmo a questo punto.
I greci oltre che fannulloni sarebbero anche imbroglioni perché hanno preso i soldi e non li
restituiscono. Se qualcuno avesse memoria, un bene che sembra ormai raro, ci si
ricorderebbe di quanto divenne chiaro, e forse a noi stessi per la prima volta, quando
scoppiò il dramma del debito accumulato dai paesi del terzo mondo da poco arrivati
all’indipendenza. Erano gli anni ’80 ed emerse che quei paesi erano stati vittime di quelli
che allora non si ebbe timore di chiamare “spacciatori”. Perché è così che si indebitarono
oltre il ragionevole: per l’insistente offerta di accedere a un modello di consumo superfluo
e dannoso, per il quale non c’erano risorse e che fu indotto perché così conveniva ai
prestatori che poi passarono a chiedere il conto.
La Grecia non è l’Africa, ma gran parte del suo debito è stata accumulata proprio così, per
colpa di banche e di imprese senza scrupoli. Che peraltro sono state oggi — erano
tedesche sopratutto ma non solo — felicemente ripagate con danaro pubblico europeo.
Quando, poco dopo l’ingesso della Grecia nella Comunità Europea, nell’81, si arrivò al
semestre di presidenza affidato per la prima volta ad Atene, l’allora ministro degli esteri del
governo di Andreas Papandreu, Charampopulos, dichiarò: «Non possiamo restare
silenziosi di fronte a una linea politica che non prende in considerazione il fatto che
un’Europa a nove era un’Unione fra nove paesi ricchi, e un’Unione a dieci, e ancor più
quando saranno dodici con il prossimo ingresso di Spagna e Portogallo, soffrirà di un
drammatico gap nord-sud per affrontare il quale sarà necessario un vasto trasferimento di
risorse pubbliche e di un piano statale inteso a condizionare le selvagge regole del
mercato».
Si trattò di una saggia previsione. Di cui tuttavia anche il governo socialista greco finì per
dimenticarsi, sicché anche quando i governi socialisti furono in maggioranza nel Consiglio
europeo non ci fu alcuna modifica sostanziale nella linea politica dell’Unione. Fu proprio
allora che fu decisa la libera circolazione dei capitali senza che alcuna misura di controllo
e di unificazione fiscale fosse assunta.
Renzi avrebbe avuto una buona occasione per riprendere il discorso e far valere le ragioni
dei paesi europei del Mediterraneo, contro la logica assurdamente e falsamente
omologante che pretende di adottare linee di politica economica analoghe per realtà così
diverse. Fa comodo, naturalmente. A meno non si pensi ad una nuova Unione senza gli
straccioni del sud. Per di più comunisti. «Un’Europa senza il Mediterraneo sarebbe —
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come ha scritto Peredrag Matvejevitch — un adulto privato della sua infanzia». Cioè un
mostro.
Quando l’altro giorno ho sentito nel corso di un medesimo giornale radio che le ultime
notizie da Bruxelles riguardavano un formaggio senza latte, un cioccolato senza
cioccolata, e sopratutto un territorio senza immigrati, mi è venuta voglia di dire andate tutti
al diavolo.
Ma non si può. Con la globalizzazione abbiamo perduto quel tanto di sovranità che gli stati
nazionali ci consentivano. A livello mondiale è quasi impossibile costruire istituzioni che ce
ne restituiscano almeno una parte. La sola speranza è di ricostruirle ad un livello più
ampio del nazionale e più limitato del globale, quello di grandi regioni in cui il mondo possa
articolarsi. L’Europa è una di queste. Ma il discorso vale solo se lo spazio comune non è
solo un pezzo di mercato, ma una scelta, un modello di produzione e di consumo diversi,
una rivisitazione positiva di una comune tradizione. Il negoziato di Atene ci aiuta, in
definitiva, ad andare in questa direzione. Ed è per questo che va sostenuto.
Da Ansa del 01/07/15
Espace populaire compie 10 anni, week-end
di festa
Concerti, appuntamenti enogastronomici e dj set per ballare
(ANSA) - AOSTA, 1 LUG - L'Espace Populaire compie 10 anni di attività e li festeggia con
un fine settimana all'insegna di musica e cucina. Il programma prevede per venerdì 3
luglio musica dal vivo dalle 22,30 con Boj & Good People, Il Tusco, I Fischi, Autoscatto. A
seguire dj set con Bob Sinisi, Arma, Musashi, Mr.B. Il giorno seguente pranzo sociale
aperto a tutti dalle 13 e alla sera concerto di Beppe Barbera Duo, Jazz Jam dell'Espace,
Kafersound, Taverna Sound System, Sago e Mr Riggae.
L'Espace Populaire, che si trova in via Mochet 7, dal 2005 ad oggi ha proposto oltre 200
eventi musicali, decine di incontri pubblici, cabaret, spettacoli di magia, teatro, conferenze
e presentazioni di libri, cineforum, sede di corsi, di associazioni, di Gruppi d'acquisto
solidale e serate ludiche, "quartier generale per battaglie ambientali e sociali, buon cibo a
prezzi popolari e tante altre cose". "In questi anni - si legge in una nota - migliaia di
persone hanno partecipato alle nostre iniziative, mentre decine di volontari le hanno rese
possibili, contribuendo all'autogestione di questo spazio comune". Espace Populaire
aderisce alla rete Arci "ma dal 2014, per aprirci alla città, l'ingresso è consentito anche ai
non soci". (ANSA).
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ESTERI
Del 01/07/2015, pag. 2
Ultimo spiraglio, Atene e Ue tornano a
trattare. Ma gli aiuti sono scaduti
Offerta di Juncker sul debito e Tsipras chiede terzo salvataggio No dell’Eurogruppo.
Oggi nuova riunione con proposte dei greci
ANDREA BONANNI
BRUXELLES . Dalla mezzanotte di ieri la Grecia è insolvente nei confronti del Fondo
monetario internazionale, e dunque entra in procedura di default. Inoltre, sempre dalla
mezzanotte, è scaduto anche il programma di assistenza che i suoi creditori avevano già
prorogato nel febbraio scorso fino alla fine di giugno. E quindi Atene ha perso la possibilità
di rivecere i dodici miliardi di euro dell’ultima tranche del prestito collegato al programma e
alla ricapitalizzazione delle banche greche. E’ questa l’amara conclusione di una giornata
frenetica, in cui le parti hanno fatto estremi tentativi per trovare un accordo che evitasse al
Paese di sprofondare ancora di più nel baratro. Senza riuscirci.
A meno che Tsipras non decida di accettare le condizioni dei creditori e di cancellare il
referendum, le residue possibilità che la Grecia riesca a riprendere il treno europeo sono
adesso legate all’esito della consultazione di domenica. Oggi poi si riunirà il direttivo della
Bce che dovrà decidere se mantenere aperto il programma di rifinanziamento degli istituti
di Atene, che ieri Standard & Poor’s ha declassato al rating di «default selettivo».
L’unico serio tentativo di evitare la catastrofe in extremis è stato compiuto dal presidente
della Commissione Jean-Claude Juncker nella notte tra lunedì e martedì. Dopo aver
duramente criticato Tsipras in conferenza stampa e aver invitato i cittadini greci a votare
“sì” al referendum, Juncker ha comunque preso il telefono e ha chiamato il premier greco,
che poche ore prima in televisione aveva riconosciuto le sue «buone intenzioni » nella
gestione della crisi. Parlando a nome della Troika di creditori, Juncker ha fatto ad Atene
un’ultimissima offerta la cui parte più allettante era la disponibilità ad aprire una
discussione sulla «sostenibilità » del debito greco, cioè sulla possibilità di rivedere
ulteriormente scadenze e interessi, già perlatro molto favorevoli. Se Tsipras avesse
accettato, Juncker si era detto disposto a convocare in giornata un Eurogruppo
straordinario per decidere una proroga del programma di assistenza almeno fino alla data
del referendum. Ma la condizione essenziale era che il governo greco ribaltasse la sua
posizione sul quesito referendario, schierandosi in favore dell’Europa e del “sì”.
I greci hanno prima respinto l’offerta, abbastanza seccamente. Poi, secondo fonti di
stampa ateniesi, l’hanno ripresa in considerazione. Il premier maltese ha perfino riferito in
Parlamento che Tsipras aveva considerato di annullare il referendum. Il ministro delle
finanze Varoufakis avrebbe avanzato la proposta di modificare i termini del quesito
referendario.
Alla fine da Atene è partita una richiesta di proroga del programma di assistenza,
associata alla domanda di un nuovo programma biennale che avrebbe previsto una
rinegoziazione del debito greco e ulteriori finanziamenti per almeno 30 miliardi di euro fino
al 2017, ma senza specificare in dettaglio sulla base di quali impegni di riforme e di
risanamento dei conti. Il presidente dell’Eurogruppo Dijsselbloem, a cui la richiesta era
indirizzata, ha convocato una riunione in teleconferenza dei ministri dell’Eurozona. Ma
prima ancora che questi potessero parlarsi ci ha pensato Angela Merkel a gelare le
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aspettative. « Berlino non prenderà in considerazione l’ipotesi di un terzo salvataggio per
la Grecia prima dell’esito del referendum di domenica prossima. Naturalmente anche dopo
mezzanotte non taglieremo fili del dialogo, o non saremmo l’Unione europea », ha
spiegato la Cancelliera parlando ai deputati del suo partito.
E’ infatti così è stato. L’Eurogruppo ci ha messo meno di un’ora per respingere l’ennesima
proposta greca. Ma si riunirà di nuovo questa mattina per esaminare i dettagli mancanti
che i greci si sono impegnati inviare nella notte. In ogni caso, hanno fatto sapere diversi
ministri presenti all’incontro, dopo la scadenza del vecchio programma bisognerebbe
negoziarne uno ex novo. «Nessun programma sarà approvato prima del referendum di
domenica. E in ogni modo si tratta di una procedura complessa — ha spiegato
Dijsselbloem al termine dell’incontro— nel frattempo la situazione dell’economia greca e
delle banche greche si è ulteriormente deteriorata, quindi sarà un percorso difficile da
concordare. L’unica cosa che può cambiare è l’attenggiamento politico del governo greco
che ha portato a questa infelice situazione» . Come dire che Tsipras è ancora in tempo per
annullare i referendum, o schierarsi in favore del “sì”.
Del 01/07/2015, pag. 6
Cure mediche gratis e Borsa dei cibi di scarto
così gli Angeli anti-crisi provano a salvare
Atene
Un mini esercito di eroi per caso sostituisce lo Stato e fa a gara di
solidarietà per salvare i più bisognosi
ETTORE LIVINI
ATENE. L’armata degli angeli anti-crisi di Atene si è regalata un nuovo iscritto di peso. «Ci
stavamo pensando da un po’» ammettono alla sede dell’Associazione dei medici ellenici.
Poi domenica scorsa, davanti alle immagini in tv delle code ai bancomat e agli allarmi sulle
scorte di medicine nelle farmacie, hanno rotto gli indugi. «Crisi o non crisi una cosa non
cambia: i greci non hanno perso il vizio di ammalarsi», scherza Eirini Vathis, infermiera
all’Evangelismos. E così la mini-Confindustria dei dottori – davanti al rischio dell’ennesima
emergenza sanitaria - ha acceso il pc e mandato una mail a tutti i suoi iscritti: «Questa
settimana, almeno fino al referendum, vi preghiamo di curare gratuitamente chiunque ne
avesse davvero bisogno».
Un fiore nel deserto? Tutt’altro. Tsipras, Merkel e i tecnocrati della Troika sono i primattori
mediatici della tragedia della Grecia. Dietro le quinte però, lontano dai riflettori, a scrivere il
lato B dell’austerity sono altri protagonisti: un piccolo esercito di eroi per caso che in questi
cinque anni passati come uno tsunami sul paese si è rimboccato le maniche e ha sostituito
uno stato senza soldi, aprendo un ombrello di solidarietà sulla parte più debole della
società. «Platone dice che la comunità si costruisce quando la gente non è più
autosufficiente » è il mantra di Xenia Papastravou, laurea alla London School of
Economics e anima della Ong Boroume. Lei è uno dei primi angeli della capitale: nel 2011
- mentre era dal panettiere verso l’ora di chiusura - ha adocchiato 12 torte di formaggio
che due ore dopo sarebbero finite come avanzi in pattumiera. E, con l’ok del fornaio, le ha
portate alla mensa della chiesa locale, dove ogni sera si allungava una fila di persone che
non avevano i soldi per la cena. L’economista che c’è in lei ha fiutato il business. A fin di
bene. E oggi quelle torte di formaggio si sono moltiplicate come i pani e i pesci. Boroume
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ha distribuito lo scorso anno in tutta la Grecia 1,3 milioni di pasti strappati alla spazzatura
(il 400% in più del 2013). Donano gli avanzi gli alberghi di lusso, regalano i cibi vicini alla
scadenza le catene di supermercati. «Il telefono non smette mai di squillare» racconta uno
dei 60 volontari che ruotano attorno al piccolo ufficio nel cuore della vecchia Atene, dove
un data base hi-tech incrocia la domanda (purtroppo ancora in aumento) e l’offerta,
pilotando a destinazione qualcosa come 4mila pasti al giorno. A 100 metri dal quartier
generale della geniale Borsa degli scarti alimentari di Alexandra c’è la clinica gratuita di
Doctors of the world, che dal 2012 a due mesi fa – quando il governo Syriza ha
reintrodotto il concetto di copertura sanitaria per tutti - è stata uno dei pochissimi punti di
riferimento per quel milione di greci che dopo un anno di disoccupazione ha perso il diritto
all’assistenza medica gratuita.
«Pensavamo di aver visto tutto, ma di fronte al rischio del default del paese ci stiamo
preparando al peggio» racconta Dimitris nel suo camice blu, uno dei pediatri volontari che
la mattina visitano i bambini. «La nostra clinica mobile lo scorso anno ha assistito 80mila
persone» racconta Nikitas Kanakis, l’anima di questa oasi di solidarietà in uno dei quartieri
più problematici della capitale. E ogni mattina davanti all’ospedale c’è una fila di un
centinaio di persone in attesa «tra cui i greci – ammette sconsolato -sono sempre di più».
L’Europa si sta sfaldando in diretta in queste ore in un ping-pong tra Atene, Berlino e
Bruxelles. I suoi valori, per fortuna, resistono ancora in queste strade strette e spesso un
po’ malandate sotto il Partenone.Ogni venerdì a Ermou, davanti ai negozi delle griffe, si
piazza la cucina mobile di O Allos Anthropos sotto il cartello “Cibo gratis per tutti” a servire
pasti gratuiti. Manna in un paese (dati Ocse) dove la percentuale di chi non può
permettersi un pasto è raddoppiata dal 2008 al 18%. Ci sono gli psicologi di Klimaka che
aiutano le persone in difficoltà neurologica (i suicidi nel paese sono aumentati del 35 per
cento), la Kyada che ha organizzato centinaia di posti letto per i senza tetto.
In questi giorni, da Salonicco ad Atene, si stanno moltiplicando le iniziative spontanee per
aiutare le centinaia di migranti che ogni giorno passano qui nel corso dell’Odissea per
fuggire dalle guerre. Al Pireo, nel cuore della vecchia base americana, lavorano i volontari
della Metropolitan Clinic of Helliniko. Il governo ha tagliato i fondi agli ospedali – scesi da
640 milioni a 43 nei primi quattro mesi dell’anno – e molti arrivano qui, di fronte al vecchio
campo di baseball dei militari a stelle e strisce, per farsi curare o prendere medicinali.
«Siamo a quota 1.100 visite al mese» dice Christos Sideris, uno dei coordinatori
dell’iniziativa appena premiata dal Parlamento europeo con un riconoscimento («un
premio ipocrita – dice Christos – senza l’imposizione della loro austerity di noi non ci
sarebbe bisogno»). L’università di Atene calcola che nel paese – in questi cinque anni
d’austerity - siano spuntate almeno 500 iniziative spontanee di solidarietà come queste.
Il Pil scende, la Troika taglia le pensioni. Ma il numero degli angeli di Atene, almeno quello
e per fortuna, continua a crescere.
Del 01/07/2015, pag. 1-28
Quando l’errore è nella diagnosi
MARIANA MAZZUCATO
IL MOTIVO per cui non si è riusciti a raggiungere un accordo con la Grecia è che la
diagnosi era sbagliata fin dal principio: questo ha finito per far ammalare il paziente ancora
di più, e oggi il paziente vuole interrompere la cura. Questa triste storia rappresenta un
fallimento di immani proporzioni per la Ue. COME Yanis Varoufakis ripete fin dall’inizio, la
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Grecia non aveva una crisi di liquidità, ma una crisi di solvibilità, originata a sua volta da
una crisi di “competitività”, aggravata dalla crisi finanziaria. E una crisi di questo tipo non
può essere risolta con tagli e ancora tagli, ma solo con una strategia di investimento seria
accompagnata da riforme serie e non pro forma per ripristinare la competitività. La vera
cura. Invece, fingendo che la Grecia avesse solo una crisi di liquidità ci si è concentrati
troppo su pagamenti del debito a breve termine e condizioni di austerity sfiancanti imposte
per poter ricevere altri prestiti, che sarà impossibile rimborsare in futuro se non torneranno
crescita e competitività. E non torneranno se la Grecia non potrà investire. Un circolo
vizioso senza fine. La realtà è che è impossibile avere un’unione monetaria con
competitività tanto differenti. E finora non c’è stata una comprensione chiara di come e
perché queste differenze di competitività siano nate. Se da un lato è corretto mettere
l’accento sulle riforme fiscali e sulle modifiche all’età pensionabile per riportarle in linea
con il resto d’Europa, dall’altro lato si è parlato molto di quello che bisognava buttare non
si è parlato per nulla di quello che bisognava costruire. Come in Italia, si è puntato solo a
ridurre le pensioni, gli stipendi dei dipendenti pubblici, le rigidità del mercato del lavoro (
eufemismo che sta per diritti dei lavoratori!), partendo dal presupposto che sbarazzandosi
delle inefficienze sarebbe arrivata la crescita. Ma nulla è più lontano dalla verità. C’è molto
da costruire, non solo da eliminare, e fin quando non si farà questo la Grecia non arriverà
a nulla. E il rapporto debito/Pil aumenterà perché il denominatore (il Pil) rimarrà al palo,
anche se il numeratore (il deficit) resterà basso.
La Grecia deve fare quello che la Germania fa (investire), non quello che la Germania dice
(tagliare)! Molti criticano la Germania perché investe poco, ma la verità è che negli ultimi
decenni la Germania ha investito in tutte le aree decisive non solo per aumentare la
produttività, ma anche per creare una crescita trainata dall’innovazione. Aziende come la
Siemens, che vince appalti pubblici nel Regno Unito, sono il risultato del dinamismo
dell’ecosistema pubblico/privato in Germania, con forti investimenti pubblici sui
collegamenti fra scienza e industria; la presenza di una banca pubblica grossa e strategica
(la KfW), che offre alle imprese tedesche capitali “pazienti”, impegnati sul lungo termine;
un modello di governo d’impresa incentrato sugli stakeholders (i portatori di interesse) e
focalizzato sul lungo periodo, invece del modello anglosassone incentrato sugli
shareholders (gli azionisti) e focalizzato sul breve periodo, che l’Europa meridionale ha
copiato; un rapporto ricerca e sviluppo/Pil superiore alla media; investimenti sulla
formazione professionale e il capitale umano; una strategia mission- oriented che punta a
rendere “verde” l’intera economia. Immaginate che risultato diverso (“compromesso”)
avremmo avuto se le trattative avessero puntato a far digerire alla Grecia una strategia di
investimenti, invece che altri tagli: va bene, noi vi salviamo, ma voi riformate il vostro
Paese e mettete in moto investimenti pubblici (del tipo su elencato) per essere pronti per
la sfida dell’innovazione del 2020! Invece, insistere sul proseguimento dello status quo,
con abbondanza di altre misure di austerity, ha prodotto una Grecia sempre più debole,
più disoccupazione e più perdita di competitività. Alla Grecia bisognava sì somministrare la
medicina tedesca, ma quella vera, non quella ideologica. E non dimentichiamo ciò che
tanti hanno ripetuto: dopo la seconda guerra mondiale il 60 per cento dei debiti tedeschi fu
cancellato. È un altro esempio di come la Germania abbia beneficiato di una medicina, ma
ne prescriva una diversa per tutti gli altri. Tra l’altro è anche vero che questa medicina la
Grecia l’ha ingoiata in questi ultimi, dolorosi mesi, ma pochissimi glielo hanno riconosciuto:
ha ridotto il disavanzo, tagliato il numero di dipendenti pubblici e alzato l’età pensionabile.
Se gli avessero dato maggior respiro, avrebbe potuto fare di più. Se la Grecia dovesse
uscire, l’unica speranza è che l’insistenza di Varoufakis per un programma di investimenti
a livello europeo possa almeno trovare una soluzione nazionale. Forse si potrebbe partire
dalla creazione di una banca per lo sviluppo come la KfW e usarla per mettere in moto una
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strategia di investimenti a lungo termine. L’Italia deve trarre gli insegnamenti giusti da
questa tragedia greca. La competitività dell’Italia è scadente quasi quanto quella della
Grecia, e fino a questo momento la strategia di investimenti è stata alquanto deficitaria:
qualche misura pro forma sull’istruzione, tagli al settore pubblico e tanta attenzione a
quello a cui i lavoratori devono rinunciare. Perciò, se ci sarà la Grexit – e l’Europa non si
deciderà a portare nella stanza un vero dottore – preparatevi per l’exItalia il prossimo
anno.
Del 1/07/2015, pag. 2
Dai negoziati segreti all’inchino alla Troika.
Quando il Fondo accettò di affossare Atene
Cinque anni dopo - L’istituto di Washington ha guadagnato 2,5 miliardi
dai prestiti
di Carlo Di Foggia
Sabato, quattro ore prima che Alexis Tsipras facesse saltare i piani dei creditori,
Dominique Strauss-Kahn ammetteva su Twitter: “Sulla Grecia, il Fmi ha fatto degli errori,
sono pronto a prendere la mia parte di responsabilità: basta prestiti, serve una riduzione
massiccia del debito”. L’ex direttore generale dell’Fmi pensava la stessa cosa anche nel
2010, quando era alla guida dell’istituzione di Washington.
Da ieri la Grecia è in default verso il Fondo monetario internazionale. La Ong inglese
Jubilee debt campaign ha sottolineato come finora il Fmi abbia ricavato 2,5 miliardi di
profitti netti dai suoi prestiti alla Grecia (che salirebbero a 4,3 miliardi entro il 2024), il suo
più grande debitore.
Fino al 2010, quando esplose la crisi di Atene, a Washington vigeva la regola “basta nuovi
casi Argentina”: nel 2001 il default di Buenos Aires fu catastrofico. Il principio era: “I prestiti
vanno solo ai Paesi in crisi di liquidità, quelli insolventi devono prima ristrutturare i debiti
per far sì che gli aiuti servano”. Nel 2010, con un debito pubblico al 130% del Pil, in mano
estera, un deficit/Pil al 15% e un passivo oltre l’11 della bilancia dei pagamenti i dubbi che
la Grecia potesse ripagare i prestiti erano forti nello staff tecnico del Fondo, quello che
dovrebbe fornire le analisi “indipendenti” sulla base delle quali il board (l’organo esecutivo)
prende le decisioni. Così non avvenne.
In un report, Paul Blustein, del Centre for International Governance Innovation (Cigi) ha
svelato che nei giorni che precedettero la firma del memorandum, membri di primo piano
dello staff tecnico incontrarono in gran segreto in un hotel di Washington funzionari dei
ministeri delle Finanze di Germani e Francia. Per negoziare una ristrutturazione del debito
greco. Fu Strauss-Kahn a trascinare il Fmi nell partita greca, desideroso di far uscire il
Fondo dall’irrilevanza seguita al crac Argentino. E accettò tutte le condizioni imposte dai
riluttanti Paesi europei: l’istituto si trasformò – scrive Blustein – in un “junior partner” della
Troika. I suoi negoziatori non potevano trattare direttamente con i funzionari greci, e nei
tavoli erano costretti “a sedere al fianco della Bce, di fronte agli sherpa di Atene, quando
invece il Fondo aveva sempre trattato con le banche centrali dei Paesi in difficoltà”.
Strauss-Kahn mise la firma così su un piano di austerità “assolutamente irrealistico”, che
ha poi costretto i creditori ad accettare un pesante taglio del debito nel 2012, “quando però
gran parte di quelli privati, le banche, erano già rientrati dei loro crediti”. Alla vigilia del
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prestito, il board dell’Fmi cambiò al volo, con una delibera “ad personam”, le sue stesse
regole: anche se l’insolvibilità di un Paese era “alta”, gli si potevano prestare soldi se il suo
default avrebbe avuto effetti “sistemici”. Non bastava. Per oliare il tutto, lo staff
“addomesticò” le previsioni sull’impatto disastroso dei pesanti tagli di spesa voluti dalla
Troika. Il board approvò così il secondo “caso Argentina”. Salvo poi ammettere il bluff nel
2013: il famoso “ci siamo sbagliati sull’austerità in Grecia”. Per Blustein non vi fu errore,
ma una scelta deliberata sotto la pressione degli europei. Nella primavera del 2010,
quando Jürgen Stark, membro del comitato esecutivo della Bce sostenne in una riunione
che il debito della Grecia era “insostenibile”, e quindi i creditori privati dovevano rimetterci
almeno un po’, il presidente Jean-Claude Trichet “esplose”: “Siamo un’unione monetaria,
non ci devono essere ristrutturazioni del debito!”. “Urlava”, ricorda Stark.
I negoziati segreti saltarono, e si arrivò a maggio alla firma del memorandum. Il Fmi prestò
30 miliardi. Al momento del voto, Paulo Nogueira Batista, il rappresentante del Brasile al
Fmi salutò così la decisione: “Questo non è un salvataggio della Grecia, ma un
salvataggio dei suoi creditori privati, prevalentemente europei”. Così è stato.
Del 01/07/2015, pag. 4
Il default non scatta prima di un mese
Il mancato pagamento ieri di 1,56 miliardi di euro al Fondo monetario
non provocherà la immediata dichiarazione di insolvenza: la procedura
è lunga. Grecia messa in arretrato insieme a Sudan e Zimbabwe
EUGENIO OCCORSIO
ROMA. Il primo mancato pagamento ( non si può chiamare ancora default) della Grecia si
è materializzato ieri alle 18 ora di Washington, l’una di notte ad Atene. Ed è un “predefault” pesante. Al Fondo Monetario, che attendeva il saldo di una rata da 1,56 miliardi di
euro, non è arrivato nemmeno un centesimo. Atene deve in tutto 21 miliardi di euro all’Fmi,
il maggior finanziamento nella storia dell’istituzione. Anche se la Grecia ha chiesto
ufficialmente una proroga, sono scattate le misure automatiche. Atene è stata messa
in arrears (arretrato) insieme a una poco raccomandabile compagnia di Paesi morosi:
Sudan, Somalia, Cuba e Zimbabwe, l’ultimo ad unirsi al gruppo quando nel 2001 mancò
una rata da 112 milioni di dollari. La Grecia è il primo Paese industrializzato a essere
insolvente con il Fondo (che come si ricorderà negli anni ’70 fece anche un prestito
all’Italia). Ora Atene, come Harare o Mogadiscio, non può più accedere ad alcuna risorsa
del Fondo stesso, finché ovviamente non paga i suoi debiti, e qualsiasi sua richiesta, si
legge nel sito dell’Fmi, «non verrà più analizzata ». Anche se – puntualizza sempre il sito –
Atene non perde il titolo di membro del Fondo (sono 188) e potrà usufruire dell’assistenza
tecnica ove richiesta. Quella che è partita ieri è una procedura meticolosamente
ritualizzata. Entro due settimane la direttrice Lagarde invia una comunicazione al
governatore della Banca di Grecia ( nonché alla Bce) «sottolineando la gravità della
situazione » e chiedendo ufficialmente il pagamento. Se nulla accade, entro un mese il
managing director (sempre Lagarde) notifica l’accaduto all’Executive Board. Ma la stessa
Lagarde, per quanto sia stata sollecitata personalmente nientemeno che da Obama ad
aver un approccio morbido alla vicenda (o forse proprio per questo) ha già detto che si
avvarrà della sua facoltà di abbreviare questo passaggio. Che è cruciale perché è il
momento in cui tecnicamente si parla di default, con un’avvertenza ulteriore: questo non
comporta automaticamente il default verso altri creditori, l’Esm o la Bce, e non comporta
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neanche automaticamente la cancellazione del rating, per quello che può valere dopo il
ridimensionamento del potere di Standard & Poor’s e Moody’s sancito dal Dodd-Frank Act
del 2010 con esplicito riferimento ai creditori “ufficiali” come l’Fmi. Come dire, facciano
quello che vogliono ma noi non ne saremo influenzati. La procedura comunque, a meno
che non venga interrotta a suon di banconote, prosegue: dopo ancora due settimane il
managing director e il board si consultano, e nel frattempo inviano a tutti i rappresentanti
degli Stati e ai governatori centrali una lettera accusando di “non collaborazione” il Paese
in questione. Allo scadere del secondo mese parte un’altra nota di protesta ufficiale
sempre dall’ufficio del direttore generale. Al terzo mese, ennesima nota di biasimo nonchè
divieto di accesso ai diritti speciali di prelievo, una sorta di valuta di riserva del “tesoretto”
del Fondo alimentata dai contributi degli Stati membri. Fra il sesto e il dodicesimo mese
un’altra scadenza importante: dopo l’ennesimo scambio di lettere di protesta, scatta la
declaration of ineligibility: la Grecia non potrà mai più avere soldi dall’Fmi. Al 15° mese si
bloccano anche le “assistenze tecniche” di cui si diceva, al 18°viene messa ai voti del
board l’espulsione della Grecia.
Del 01/07/2015, pag. 9
E anche Grillo vola in soccorso di Alexis
IL LEADER 5STELLE DOMENICA IN GRECIA CONTRO L’EURO.CI SARÀ
PURE UNA PARTE DELLA SINISTRA ITALIANA,DA VENDOLA A
FASSINA
ALBERTO CUSTODERO
ROMA . Politici italiani ad Atene, domenica prossima, per il referendum. Un pezzo di
sinistra e Grillo. E’ una mini carovana multicolore quella che domenica porterà sostegno
dall’Italia al fronte del no al referendum in Grecia voluto da Tsipras. Da Beppe Grillo a Niki
Vendola, passando dal fuoriuscito Pd Stefano Fassina all’esponente della minoranza dem
Alfredo D’Attorre, partiranno sabato in aereo per la Grecia. Maurizio Landini, leader di
Coalizone Sociale, invece, non ci andrà: «E’ inutile — ha detto ai suoi il segretario Fiom —
l’importante che ognuno faccia la sua parte per questa battaglia di democrazia». Lo slogan
della sinistra è “Oxi”,(no), l’hastag il nome della città dove si terrà un presidio seguito da
“...con Atene”. A “Roma con Atene”, venerdì 3 luglio, partirà da Piazza Farnese una
fiaccolata che si snoderà per le vie del centro. A “Milano con Atene” l’iniziativa sarà ai
Navigli. Ma manifestazioni analoghe si svolgeranno in tutta Italia organizzate da una rete
di partiti movimenti sindacati e associazioni studentesche che, per scelta, non hanno
voluto esprimere sigle. Ma solo l’adesione all’appello europeo lanciato sabato scorso ad
Atene. La prima città dove s’è svolto, in modo spontaneo, uno dei primi sit-in pro
referendum, è Napoli: sul Municipio il sindaco Luigi De Magistris ha autorizzato
l’esposizione di uno stricione con la scritta # Napoli con Atene. Niki Vendola ha
confermato ieri in serata la sua presenza ad Atene, mentre la delegazione dei
parlamentari di Sel sarà decisa oggi durante la riunione del gruppo. Al momento è
confermata la presenza del deputato Nicola Fratoianni e del capogruppo Arturo Scotto, per
nulla imbarazzato che Sel si trovi su posizioni analoghe della destra.
«Le differenze tra Meloni, Salvini e Grillo e Sel — spiega Scotto — è che per noi l’euro va
salvaguardato e difeso. Occorre tuttavia evitare che si parli esclusivamente di rigore e
parametri economici, ma di riequilibrio sociale». Ma come vive il deputato D’Attorre il suo
sostegno al no, che va contro la linea pd tracciata dal segretario Matteo Renzi? «Provo un
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grande disagio e imbarazzo — ammette l’esponente della miniranza dem — per il fatto
che, dopo Scuola e Lavoro, su un altro tema fondamentale come l’Europa e la Grecia
Renzi collochi il Pd dalla parte sbagliata». «La posizione di Renzi — aggiunge D’Attorre —
non è nemmeno di una mediazione, ma è di coloro che stanno provandao a stringere
Tsipras in un angolo, e stanno lavorando per un cambio di governo in Grecia». «Non è
solidarietà — ci tiene a precisare Stefano Fassina — ma è una questione di attenzione al
nostro interesse nazionale». «Noi siamo per il no — dice ancora il deputato ex Pd — ma
l’Ue ha proposto alla Grecia condizioni capestro inaccettabili che prolungano e acuiscono
l’agonia della Grecia, non servono per sollevarla dalla crisi. Fatte le proporzioni con il
nostro Pil, è come se all’Italia imponessero una manovra da 70 miliardi, il doppio di quella
fatta da Monti». Anche Grillo sarà ad Atene con alcuni deputati tra cui Alessandro Di
Battista per festeggiare, spera il leader M5S, l’esito del referendum chiesto da Alexis
Tsipras.
Del 1/07/2015, pag. 3
D’Alema, Stiglitz e Piketty: “Cara Europa,
evita questa brutta pagina e aiuta i greci”
“Chiediamo ai leader europei di evitare di scrivere una brutta pagina di storia”. È il nuovo
appello del gruppo di economisti, tra cui il premio Nobel Joseph Stiglitz, Thomas Piketty e
l’ex premier italiano Massimo D’Alema, che all’inizio di giugno dalle pagine del Financial
Times aveva auspicato un compromesso per risolvere la crisi greca. Nel giorno in cui
scade il piano di aiuti per la Grecia e il premier Alexis Tsipras fa i conti con la proposta
arrivata in extremis dal presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker gli stessi
firmatari – tra cui anche James Galbraith, professore all’University del Texas, e D’Alema,
che presiede la Foundation for Europen progressive studies – tornano a scrivere al
quotidiano finanziario. “Occorre mettere la Grecia in grado di pagare 1,6 miliardi di euro al
Fmi“, si legge nell’appello, che prosegue: “Bisogna permettere uno swap del debito con
titoli della Bce dovuti in luglio e agosto in cambio di bond dal fondo di salvataggio, con
scadenze più lunghe e tassi di interesse più bassi, che riflettano gli inferiori oneri finanziari
dei creditori”. L’intervento esorta a ricominciare le trattative “tenendo, in primo luogo, in
considerazione che le politiche restrittive di austerità richieste alla Grecia sono state
screditate dallo stesso dipartimento di ricerca del Fmi. In secondo luogo, non bisogna
dimenticare che i leader di Syriza si sono impegnati a intraprendere in Grecia riforme di
ampia portata, se avranno lo spazio di manovra per farlo”.
Del 01/07/2015, pag. 11
L’analisi.
La cultura nata all’ombra del Partenone fa parte del mito fondativo del
Vecchio continente. E i singoli Stati non devono ignorarlo se non
vogliono disfarsi tra nazionalismi e calcoli economici
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Siamo tutti figli del logos Ecco perché la
Grecia resterà sempre la miglior patria
d’Europa
MASSIMO CACCIARI
Può l’Europa fare a meno della Grecia? Se la domanda fosse stata rivolta a uno qualsiasi
dei protagonisti della cultura europea almeno dal Petrarca in poi, questi neppure ne
avrebbe compreso il significato. La patria di Europa è l’Ellade, la “migliore patria”, avrebbe
risposto, come verrà chiamata da Wilhelm von Humboldt, fondatore dell’Università di
Berlino. Filologia e filosofia si accompagnano, magari confliggendo tra loro, nel dar
ragione di questa spirituale figliolanza. Non si tratta affatto di vaghe nostalgie per perdute
bellezze, né di sedentaria erudizione per un presunto glorioso passato, coltivate da
letterati in vacua polemica con il primato di Scienza e Tecnica. Oltre le differenze di
tradizione, costumi, lingue e confessioni religiose che costituiscono l’arcipelago d’Europa,
oltre l’appartenenza di ciascuno a una o all’altra delle sue “isole”, si comprende che il
logos greco ne è portante radice, che non si intende il proprio parlare, che si sarà parlati
soltanto, se non restiamo in colloquio con esso. Quel logos ci raccoglie insieme e ha
informato di sé la storia,il destino di Europa. Ciò vale per pensatori e movimenti culturali
opposti, per Hegel come per Nietzsche.Vale per scienziati come Schroedinger,
Heisenberg, Pauli. Vale anche per coloro che si sforzano di pensare ciò che nella civiltà
europea resterebbe non-pensato o in-audito: anche costoro non possono costruire la
propria visione che nel confronto con quella greca classica. Per la cultura europea,
dall’Umanesimo alle catastrofi del Novecento, la memoria della “migliore patria” è tutta
attiva e immaginativa: non si dà formazione, non può essere pensata costruzioneeducazione della persona umana nella integrità e complessità delle sue dimensioni senza
l’interiorizzazione dei valori che in essa avrebbero trovato la più perfetta espressione. Un
grande filosofo, Edmund Husserl, li ha riassunti in una potente prospettiva: nulla
accogliere come quieto presupposto, tutto interrogare, procedere per pure evidenze
razionali, regolare la propria stessa vita secondo norme razionali, volere che il mondo si
trasfiguri teleologicamente in un prodotto della vita di questo stesso sapere. Una follia?
Forse — ma una follia che ha veramente finito col dominare il mondo. Eurocentrismo?
Certamente — ma autore dell’occidentalizzazione dell’intero pianeta.
La Grecia non assume più per noi alcun rilievo culturale e simbolico? Possiamo ormai
contemplarla come l’Iperione di Hölderlin dalle cime dell’istmo di Coritno: «lontani e morti
sono coloro che ho amato, nessuna voce mi porta più notizie di loro»? Come è spiegabile
un simile sradicamento? L’anima bella “progressista” risponde con estrema facilità:
quell’idea di formazione che aveva la Grecia al suo centro era manifestamente elitaria,
anti-democratica; la sua fine coincide con l’affermazione dei movimenti di massa sulla
scena politica europea. Io credo che la risposta sia ancora più semplice, ma
estremamente più dolorosa. Tra l’ora attuale( noi, i “moderni”!) e la “patria migliore” c’è il
suicidio d’Europa attraverso due guerre mondiali. L’oblio dell’Ellade è il segno evidente
della fine d’Europa come grande potenza. Si badi: grande potenza è anche lo Stato o la
confederazione di Stati che intendano diventarlo. Essi dovranno, infatti, dotarsi tanto di
armi politiche ed economiche quanto di una strategia volta alla formazione di classe
dirigente e di una cultura egemonica. Sempre così è stato e sempre così avverrà. Quando
vent’anni fa scrivevo Geofilosofia dell’Europa e L’Arcipelago ancora speravo che questo
arduo cammino si potesse intraprendere. E ci si risparmi la fatica di ripetere che non è
affatto necessario che ciò si realizzi nel senso di una volontà di potenza sopraffattrice.
L’Europa può ora pensare di dimenticare la Grecia, perché rinuncia a svolgere una grande
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politica, la quale può fondarsi soltanto sulla coscienza di costituire un’unità di distinti,
aventi comune provenienza e comune destino. Se questa coscienza vi fosse stata,
avremmo avuto una politica mediterranea, piani strategici di sostegno economico per i
Paesi dell’altra sponda, un ruolo attivo in tutte le crisi mediorientali. E avremmo avuto
grandi interventi comunitari per la formazione, gli investimenti in ricerca, l’occupazione
giovanile. Tutto si tiene. Una comunità di popoli capace di svolgere un ruolo politico
globale non può non avere memoria viva di sé, memoria di ciò che essa è nella sua storia,
e non di un morto passato.
Tutti miti — diranno gli incantati disincantati dell’economicismo imperante. So bene —
l’Europa attuale è quella costruita sulla base delle necessità economico- finanziarie. Gli
staterelli europei usciti dalla seconda Guerra non avrebbero potuto sopravvivere senza
l’unità del denaro. Oggi la Grecia grida al mondo che una tale unità non produce di per sé
alcuna comunità politica. Se pensiamo all’Europa come a un colossale Gruppo finanziario,
allora è “giusto” che una delle sue società di minore peso( magari mal gestita, da un
management inadeguato) possa tranquillamente essere lasciata fallire. L’importante è solo
che non contagi le altre. Ma se l’Europa vuole ancora esistere in quanto tale,e non disfarsi
in egoismi, nazionalismi e populismi, deve sapere che la Grecia appartiene al suo mito
fondativo, e che nessuna credenza è più superstiziosa di quella, apparentemente così
ragionevole e “laica”, che ritiene il puro calcolemus senso,valore e fine di una comunità.
del 01/07/15, pag. 5
Renzi con Merkel «ma serve la terza via»
Governo. Telefonata con Atene, oggi il premier all’Università di Berlino.
«Alexis sbaglia ma l’austerity è un errore». Malumori nel Pd. Bersani:
«Vogliamo spezzare le reni alla Grecia?». D’Attorre: «Ci siamo schierati
contro gli interessi nazionali». Oggi il premier all’Università di Berlino a
parlare dei «valori dell’Europa». Padoan va al senato. Le opposizioni: «Il
premier difende le burocrazie europee»
Daniela Preziosi
Una telefonata da Atene. Arriva nel primo pomeriggio a Palazzo Chigi. È una richiesta di
aiuto da parte di Alexis Tsipras nell’ultimo, esilissimo, filo di trattativa srotolato dalla Grecia
fino a Bruxelles. Il primo ministro greco tenta tutte le strade per convincere la cancelliera
Angela Merkel ad accettare l’ultima proposta per evitare i «terreni sconosciuti» di una
rottura totale. E chiede a Renzi una mano. Ma in realtà in questi drammatici giorni Renzi
non è stato tenero con il collega greco e niente autorizza a pensare che voglia spendersi
per far ragionare la cancelliera. Lunedì ha lanciato in rete un tweet pesante: «Il
referendum non è derby Ue-Tsipras, ma euro-dracma»: un concetto rifiutato da Atene e
che anche il falco tedesco Schäuble ha fin qui evitato. Poi l’intervista al Sole 24 Ore,
ancora duro con Tsipras: «Dare la colpa alla Germania è un comodo alibi ma non
corrisponde alla realtà».
Tsipras, da politico di razza, nel discorso in tv, non ha polemizzato con il collega italiano,
anzi. «Renzi è un amico, e mi aspetto da lui che prenda un’iniziativa il giorno dopo la
vittoria dei ’no’». Ma il realtà l’«iniziativa» che Tsipras avrebbe voluto dall’Italia era
finalizzata all’eurogruppo di ieri sera, e riaggiornato a oggi. In assenza di alleati, il premier
greco prova la strada di Roma.
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Il premier italiano oggi sarà proprio a Berlino, alla Humboldt Universität, quella che ha
laureato Marx ed Engels. Il titolo del discorso che terrà sarà «Ritorno al futuro», ma a
dispetto della citazione pop, il celebre film di Bob Zemeckis, ha intenzione di fare un
discorso ambizioso. Così ha spiegato ai suoi. Sulla Grecia, per esempio: «Tsipras sbaglia,
ma l’Europa dell’austerity ha fallito», è il concetto. «Questo è il momento migliore per
ragionare di una terza via nella terza fase dell’Europa, dopo quella dei padri fondatori e la
stagione Kohl-Mitterrand». Renzi parlerà anche della lotta al terrorismo e
dell’immigrazione. Ma il tema chiave sarà l’Europa e la cultura che anche in questi giorni
sta esprimendo. «La ragione del nostro stare insieme non può essere solo la Champions
League o l’eurofestival, ma i nostri valori culturali oggi minacciati da ondata demagogica e
populista», ha ripetuto ieri prima di entrare nel consiglio dei ministri. E se l’Europa si
difende alzando muri, reali o metaforici, deve sapere che un muro «comincia per
difenderti, ma finisce per intrappolarti».
Discorsi che vorrebbero scavare un ruolo per l’Italia di ponte fra l’Europa a trazione
tedesca e la Grecia. Ma che non cancellano le parole pronunciate contro Tsipras e la
Grecia. Fra le più dure di quelle che provengono dalla famiglia del socialismo europeo. E
che cominciano a suscitare malumori dentro il Pd. Pier Luigi Bersani, all’inaugurazione di
un circolo a Marina di Ravenna, senza tanti giri di parole — riferisce l’Huffington post — si
schiera con Tsipras e usa una citazione forte: «Siamo allo spezzeremo le reni alla Grecia.
Io non ci sto. Il piano era irricevibile». Massimo D’Alema al Tg3 parla di «spirito punitivo»
contro la Grecia e di «accanimento terapeutico dei teorici dell’austerità», «oggi rischiamo
una drammatica sconfitta politica dell’Europa, le cui conseguenze nessuno può calcolare.
Sarebbe necessario un atto lungimirante che introduca una proposta ragionevole
dell’ultimo minuto, una proposta che fosse accettabile e che non faccia perdere la faccia a
nessuno, neppure alla Grecia. Ma questo non c’è. Anzi, c’è il divieto a farlo. Questo è del
tutto inaccettabile. È la sconfitta della politica». Cesare Damiano critica la ricetta che la Ue
vuole imporre alla Grecia sulle pensioni, che «produce una riforma che a noi ha lasciato
come regalo gli esodati». Alfredo D’Attorre, che con l’ex pd Stefano Fassina domenica
sarà ad Atene a fianco dei dirigenti di Syriza, spiega di aver chiesto «un confronto con
Renzi, nei gruppi parlamentari o in direzione», ma di aver ottenuto l’invio del
sottosegretario Gozi in una riunione che oggi si terrà fra deputati Pd a Montecitorio: a suo
parere un chiaro segno di sottovalutazione di un tema cruciale. Renzi si è collocato,
spiega, alla destra dell’Europa: «La scelta del nostro governo è tutta sbagliata: non solo
abbiamo lasciato solo Tsipras di fronte al ricatto, ma abbiamo scelto una linea contro i
nostri interessi nazionali: abbiamo difeso gli interessi delle potenze creditrici e non il
cambiamento delle regole che interessano innanzitutto l’Italia». Renzi non ha fretta di
confrontarsi neanche con il parlamento. Forse perché, tornato a Roma con un pugno di
mosche sul tema dei migranti e poi anche escluso dal gruppo della trattativa, stavolta
dovrebbe ammettere la scarsezza del ruolo italiano nella vicenda.
Intanto, dopo le richieste delle opposizioni, oggi pomeriggio al senato arriverà il ministro
dell’Economia Pier Carlo Padoan. «Il ministro ci deve dire perché il nostro paese non si è
schierato nettamente contro le politiche di austerità che stanno impoverendo il popolo
greco», annuncia Arturo Scotto (Sel). «Ci deve dire da che parte sta il governo italiano. Se
dalla parte del popolo greco o quella delle burocrazie europee», quelle che Renzi attacca
ogni volta che può. A parole.
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Del 1/07/2015, pag. 8
Renzi va a Berlino. E Grillo sarà ad Atene Il
premier oggi nella capitale tedesca.
Al telefono con Tsipras insiste perché ammorbidisca la sua posizione Padoan:
governo assente nel negoziato? Falso. Il leader dei 5 Stelle vuole un referendum
anche in Italia
ROMA Convinto che l’Italia sia «già fuori dalla linea del fuoco» in caso di default greco,
Matteo Renzi vola a Berlino per incontrare Angela Merkel. Un bilaterale in agenda da
tempo, ma che alla luce della crisi di Atene assume un altro peso specifico. Ieri, quando
Tsipras gli ha telefonato, il premier ha provato a scalfire l’«ostinazione» del leader di
Syriza. «Noi vogliamo salvare la Grecia» va ripetendo Renzi, però la Grecia deve
«rispettare le regole».
La linea adesso è più netta. «Una cosa — ha detto il premier al Sole 24 Ore — è chiedere
flessibilità nel rispetto delle regole, un’altra è pensare di essere il più furbo di tutti». Renzi
non rinuncia alla battaglia contro l’austerity, ma nella sfida Merkel-Tsipras si schiera con la
cancelliera. «Dare la colpa alla Germania è un comodo alibi», spiega. La Merkel «ha
provato davvero a trovare una soluzione», restando però «spiazzata» dal referendum di
Tsipras. E adesso? Se vincono i no, Renzi teme che la Grecia uscirà dall’euro e gli
«scenari globali di difficoltà che si potrebbero aprire» ovviamente lo preoccupano. Ma
sull’Italia si sente tranquillo grazie all’ombrello della Bce, alla crescita che riparte e al
«percorso coraggioso di riforme strutturali» che ritiene di avere avviato.
Domenica i greci sceglieranno il loro destino. Un derby tra l’euro e la dracma? «È una
buona definizione», risponde Pier Carlo Padoan. E Renzi invita Bruxelles a rispettare la
scelta del popolo, perché «democrazia è parola inventata ad Atene». D’Attorre, Fassina e
Vendola hanno le valigie pronte. Domenica e lunedì in piazza Syntagma ci sarà anche
Grillo, per gridare «potere al popolo, non alle banche» e annunciare un analogo
referendum sull’euro da sottoporre agli italiani.
Massimo D’Alema denuncia l’«accanimento terapeutico dei teorici dell’austerità» e attacca
la cancelliera, giudicando «inappropriato» che la Merkel abbia preso la parola prima
dell’Eurogruppo «pregiudicandone probabilmente l’esito». Le opposizioni fanno asse,
tifano Tsipras contro Renzi e seminano il dubbio che l’Italia non abbia inciso nelle trattative
per scongiurare il default. Accuse che il ministro dell’Economia smentisce: «Il governo
assente dal negoziato? Falso. È sicuramente assente dall’apparizione pubblica». Come
dire che contano i risultati, non la visibilità. Con Brunetta che gli rimprovera di
«nascondersi sotto le gonne della Merkel» e la sinistra che vorrebbe spingerlo tra le
braccia di Tsipras, Renzi a Berlino vuole giocare da mediatore, convinto com’è che l’Italia
non sia più un problema per l’Europa ma un «problem solver». La giornata tedesca del
premier inizierà al mattino alla Humboldt, il più antico ateneo della Capitale. Nell’università
di Marx e Marcuse, Renzi terrà un discorso «alto», intitolato «Ritorno al futuro». Ribadirà
che Tspiras sbaglia, ma che la Ue dell’austerity ha fallito, quindi indicherà la sua «terza
via». Meno rigore e più crescita. Serve uno scatto, anche sul piano dell’identità: «La
ragione del nostro stare insieme non può essere solo la Champions o l’Eurofestival, ma i
nostri valori culturali minacciati da una ondata demagogica e populista». Discorso
ambizioso, che toccherà anche terrorismo e immigrazione. E guai a pensare che una
barriera fisica sia la soluzione, perché quel muro che «comincia per difenderti, finisce per
intrappolarti».
Monica Guerzoni
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Del 1/07/2015, pag. 8
La scelta di stare con Merkel: senza la linea
dura si favoriscono i populisti
ROMA Matteo Renzi, che oggi vedrà Angela Merkel (un incontro più dovuto alle
circostanze che ad altro) è preoccupato per quello che sta avvenendo in Grecia.
Soprattutto per i riflessi che questa vicenda potrebbe avere sul nostro Paese. E non si sta
parlando solo degli effetti economici di una eventuale fuoriuscita di quel paese dalla
Grecia. Il premier contava di poter allargare le maglie strettissime della Ue rispetto al
nostro debito e di rinegoziarlo già nel 2016. Certo il prossimo anno non avrebbe tentato di
rimettere in discussione il fiscal compact . Quello era fuori discussione. Ma l’avrebbe fatto
sicuramente l’anno dopo ancora. Ora il quadro è cambiato e il premier si deve adeguare.
Con un punto che resta fermo: mantenere l’asse faticosamente costruito con la Germania.
Dal giorno in cui Renzi ha capito che Hollande, pur stando con lui nel partito socialista
europeo, non gli avrebbe mai fatto da sponda contro il rigore dei tedeschi, ha compreso
che avrebbe dovuto prendere un’altra strada per ottenere quel risultato.
Ma adesso la vicenda greca rischia di rovinare tutta la sua opera diplomatica. E non solo
per questo. Già, perché se Tsipras ricatta l’Europa in nome di un referendum antieuro e
alla fine ottiene qualcosa, Renzi ha perso anche la sua partita politica. E questo
significherebbe che i suoi spazi di manovra si restringerebbero ulteriormente. Su questo
fronte il ragionamento del presidente del Consiglio, in soldoni è questo, e lo ha fatto a
ministri, collaboratori e fedelissimi: «Se in Europa passasse la linea dettata da Tsipras e
Varoufakis, per il governo italiano sarebbe la fine. E non solo per quello italiano, perché
dovrebbero cominciare a preoccuparsi anche gli spagnoli, tanto per fare un esempio vicino
a casa nostra. «A quel punto — è la riflessione che il presidente del Consiglio ha fatto ad
alta voce davanti ai fedelissimi, chiuso in una stanza di Palazzo Chigi — qualsiasi forza
estremista senza progetto di cambiamento o di governo potrebbe essere avvantaggiata in
un duello elettorale. Quindi, «in Spagna vincerebbe Podemos e qui in Italia salirebbero alle
stelle le quotazioni di Grillo e Salvini».
È chiaro che in questa fase il premier preferisce non giocare all’attacco, ma, piuttosto,
stare in difesa e cercare di capire che cosa succede altrove. «Noi abbiamo una nostra
dignità da difendere, ma questa svolta dovrà difenderla tutta l’Europa»
Fin dove si spingerà la minoranza interna del Pd, giacché una fetta di quel partito
preferisce invece andar via dal Nazareno e gestirsi in proprio, guardando a Tsipras, è un
altro fronte aperto in questo momento per Renzi. Forse il meno preoccupante. Perché le
immagini di una Grecia in ginocchio, causa euro (anche se non è così, continua a ripetere
il premier), non portano voti alla sinistra del Pd, ma a Grillo e Salvini, per l’appunto, come
ha spiegato bene lo stesso Renzi ai fedelissimi e ai parlamentari a lui più vicini. La partita
greca che si gioca nell’italica sinistra non lo preoccupa per niente. Il presidente del
Consiglio non fa altro che ricordare alla minoranza interna che vorrebbe partire per la
Grecia per dare una mano Tsipras che «sarà un’eterna perdente finché non capirà che
occorre sfondare al centro». Esattamente ciò che Renzi ha fatto in Italia. E sta facendo in
Europa, dopo aver imparato la lezione di Hollande. Una volta ebbe a dire: «So bene che
lui, alla fine della festa, si schiera sempre con la Merkel». E allora perché non batterlo sul
tempo e affiancarsi prima lui alla cancelliera tedesca? Prima di perdere quel piccolo ruolo
che l’Italia mantiene ancora nello scenario internazionale? Quindi, se non «avanti
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tutta»con Merkel, almeno seguirla anche in questa intricatissima vicenda greca. Finché
non sarà chiaro a tutti i partner europei che l’Italia, al contrario di altri, le sue riforme, le ha
fatte, e ora può negoziare, senza ricatti o referendum stile Tsipras. Perché è questo quello
che preme più al premier, che la Grecia non rovini il lavoro che ha fatto in questo anno e
più per allentare le maglie della Ue nei confronti del nostro Paese.
del 01/07/15, pag. 5
In piazza contro la «mordacchia» di Rajoy
Spagna. Podemos, Iu e i movimenti autonomisti mobilitati al fianco di
Syriza
Jacopo Rosatelli
Lo sanno tutti: le classi dirigenti europee vogliono a ogni costo evitare che Madrid segua le
orme di Atene. La vittoria di Syriza dello scorso gennaio deve rimanere un caso isolato:
alle elezioni spagnole del prossimo autunno deve essere scongiurato con ogni mezzo il
successo di Podemos.
È una delle ragioni fondamentali che spiegano l’andamento della «trattativa» fra la ex
trojka e il governo Tsipras: mettere in chiaro che all’austerità non c’è alternativa. È il
messaggio che in Spagna viene diffuso dall’esecutivo guidato dal premier Mariano Rajoy:
«Abbiamo fatto “i compiti a casa” e ora possiamo stare tranquilli» afferma ieri il ministro
delle finanze Cristobal Montoro.
I compiti a casa sarebbero ovviamente le «riforme» che hanno impoverito il Paese e
depresso ancora di più l’economia (la disoccupazione è al 23%, il rapporto debito/pil al
100%). Ma la narrazione ufficiale è un’altra: la cura somministrata dai conservatori del
Partido popular (Pp) sotto dettatura di Berlino, Francoforte e Bruxelles ha portato ottimi
risultati. Come a Roma, anche a Madrid suona lo stesso refrain: «Un’eventuale uscita
della Grecia dall’euro non avrà effetti negativi per noi. Siamo al sicuro».
Non la pensano così i socialisti del Psoe, che accusano Rajoy di immobilismo in Europa:
«Il governo dovrebbe aiutare a trovare una soluzione alla crisi e invece fa solo campagna
elettorale», ha attaccato Jordi Sevilla, «ministro dell’economia» nel governo-ombra del
leader socialista Pedro Sánchez. Il Psoe, tuttavia, non solidarizza con Atene, accusata di
«alterare le regole del gioco»: «Il referendum – ha affermato Sevilla – è una scelta
irresponsabile». Toni tutto sommato morbidi se confrontati con quelli del quotidiano socialliberale El País, da sempre filo-Psoe, che nell’editoriale (non firmato, quindi della
direzione) apparso ieri si è schierato «senza se e senza ma» contro il governo greco.
Non deve stupire: in chiave interna, l’influente giornale madrileno fa apertamente il tifo per
una Grosse Koalition iberica che tenga Podemos ben lontano dalla stanza dei bottoni. Per
fortuna, lo stesso El País in questi giorni è «costretto» a ospitare voci di storici
collaboratori «fuori-linea»: gli economisti (premi Nobel) Paul Krugman e Joseph Stiglitz,
ma anche il veterano Iñaki Gabilondo, icona del giornalismo progressista spagnolo e non
certo sospettabile di tendenze «estremiste».
Dalla parte del governo greco sono Podemos (che l’ultimo sondaggio dà alla pari con il
Psoe al 23%, 3 punti al di sotto del Pp), Izquierda unida (Iu) e i movimenti regionalisti o
nazionalisti di sinistra, come Compromís nella Comunidad di Valencia, Iniciativa per
Catalunya e gli indipendentisti baschi. Per il partito di Pablo Iglesias «in Europa ci sono
due fronti contrapposti: l’austerità o la democrazia, il governo del popolo o il governo dei
mercati e dei poteri non eletti. Noi stiamo con la democrazia». E di «alternativa fra
democrazia e dittatura» parla l’eurodeputata di Iu Marina Albiol a Bruxelles insieme al
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vicepresidente dell’Europarlamento Dimitrios Papadimoulis (Syriza). In tutta la Spagna
molte iniziative in solidarietà con il popolo greco, che si intrecciano a quelle contro la
vergognosa «ley mordaza», la «legge anti-proteste» voluta dal governo Rajoy,
ufficialmente in vigore da oggi.
Del 01/07/2015, pag. 8
Obama contro l’austerity alza gli stipendi
IL CASO/SARANNO PAGATI GLI STRAORDINARI ANCHE A CHI GUADAGNA OLTRE
50 MILA DOLLARI
ARTURO ZAMPAGLIONE
NEW YORK. «Troppi americani lavorano per lunghe ore al giorno senza guadagnare quel
che si meritano »: Barack Obama ha spiegato così, in un articolo pubblicato sull’Huffington
Post, la sua decisione di estendere a circa 5 milioni di lavoratori americani il diritto al
pagamento degli straordinari. Subito attaccata da settori repubblicani e da associazioni
imprenditoriali, la nuova misura servirà, secondo la Casa Bianca, a rafforzare i ceti medi e
a contrastare le crescenti ineguaglianze di reddito.
Le leggi americane sugli straordinari risalgano al 1930, quando fu fissata la settimana di
40 ore lavorative e fu stabilito che, oltre quel limite, il salario sarebbe stato di una volta e
mezzo quello normale. Ma gli straordinari si applicano soltanto per chi guadagna meno di
una certa soglia, che da decenni è di soli 23mila 660 dollari lordi all’anno, cioè al di sotto
dei salari minimi di molte categorie. Senza dover ricorrere a nuove leggi, Obama ha dato
mandato al ministero del Lavoro di raddoppiare quel tetto, portandolo a 50.440 dollari
all’anno ed estendendo così il diritto al pagamento extra a milioni di lavoratori.
La svolta non sarà immediata. Come è consuetudine, il governo raccoglierà per qualche
settimana i commenti delle organizzazioni coinvolte, a cominciare da imprenditori e
sindacati, prima di emettere il decreto. Si prevede che il nuovo regime possa entrare in
vigore nel 2016, anche se non mancheranno azioni giudiziarie per bloccare l’iniziativa.
D’altra parte, sarà una misura gradita da molti americani, e contribuirà sicuramente a
rafforzare la popolarità di Obama, che nelle ultime settimane è risalita a sorpresa.
Dopo molti mesi bui, in cui la Casa Bianca si è sentita criticata e attaccata, anche da tanti
elettori democratici, l’ultimo sondaggio Cnn/Org mostra che il tasso di popolarità del
presidente è in netta risalita. Dopo due anni è tornato sopra al 50%, mentre il tasso dei
contrari è sceso a 47%. La ragione? Oltre che alla buona situazione economica e al
miglioramento della occupazione, hanno influito, secondo i politologi, le due decisioni della
Corte suprema, che la settimana scorsa ha avallato la riforma sanitaria di Obama e i
matrimoni gay. Dai dati forniti dalla Casa Bianca, si vede come la quota di lavoratori
americani con diritto al pagamento degli straordinari sia crollata dal 65% del 1975, al 18%
del 2004 e al 12% dell’anno scorso. Il motivo è semplice: all’aumento dei prezzi e dei
salari, non ha coinciso un adeguamento proporzionale della soglia minima. Di qui la
decisione di Obama. «Non posso pensare ad alcun’altra misura che possa avere un
effetto così immediato per migliorare la situazione economica dei ceti medi», ha osservato
Jared Bernstein, un ex-economista della Casa Bianca e autore di un rapporto sul tema
degli straordinari. Di opinione opposta al Federazione dei commercianti, secondo cui
«aumenteranno i costi del lavoro, si danneggerà il servizio i clienti e si moltiplicheranno le
cause giudiziarie».
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Del 01/07/2015, pag. 18
Le indagini. Gli inquirenti hanno passato al setaccio oltre 4mila
intercettazioni ricostruendo i movimenti di uomini, armi, esplosivi e
fiumi di denaro che collegano i jihadisti operativi nel nostro paese con
Francia, Pakistan e Afghanistan. A partire dagli eredi di Bin Laden
arrestati in Sardegna, fino alla barbara decapitazione di una ragazza
colpevole di aver fatto il bagno in costume
Soldi, kalashnikov ed esecuzioni
Ecco la rete del terrore di Al Qaeda in Italia
PAOLO BERIZZI
ANCHE Al Qaeda uccide in spiaggia. Non solo d’estate. Poi sotterra le sue vittime nel
bresciano e rende omaggio a Allah. «Abbiamo fatto una cosa santa... Dio ci ha donato
questa vita per ammazzare», esulta il capo al telefono coi suoi sathi , gli “affiliati”. In
questo caso sono killer alle prese con il cadavere di una ragazza nel cofano dell’auto. «Se
esce fuori la salma, se ci fermano in un controllo i carabinieri...».
Questa è una storia di bombe e di preghiere, di kalashnikov e di moschee, di stragi,
omicidi, esecuzioni. E di soldi. È una storia (anche) italiana, e a leggerla adesso — quattro
anni dopo l’uccisione di Osama Bin Laden, e pochi giorni dopo l’eliminazione del suo
erede, Nasir al Wuhayshi, il delfino “yemenita” — aggiunge un capitolo nuovo alla
“narrativa” di Al Qaeda. Repubblica è in grado di raccontare questa sorta di ‘Codice Al
Qaeda Italia’ attraverso documenti esclusivi del nostro Antiterrorismo. Lo scenario
descritto dal materiale investigativo — è il “sottopancia” dell’inchiesta della Procura di
Cagliari che in aprile ha sgominato una cellula qaedista con base in Sardegna (11
arrestati, 20 indagati) — porta in superficie fatti inediti.
DA LODI ALLA VAL TROMPIA
Partiamo da Lodi. Non da Islamabad o da Karachi. Da Lodi. Settembre 2012: due giovani
«dai tratti indo-pachistani» si presentano in uno studio fotografico. Chiedono l’estrazione di
alcune immagini da un cellulare. Solo dopo avere consegnato ai clienti le fotografie, il
titolare dello studio si accorge del contenuto: il cadavere di una ragazza distesa su una
branda. «Il volto — annota la Digos — è tumefatto e amputato all’altezza del collo; le
braccia amputate all’altezza dei gomiti; le gambe all’altezza delle ginocchia». Gli arti
mutilati sono posizionati vicino al busto. È la tecnica talebana per punire chi viola il
Corano. Anche chi va al mare con il costume. La ragazza — «sotterrata assieme al marito
nella zona di Brescia» — si è macchiata di questa colpa. Troppo per un «guardiano della
morale» — si definisce così — come Muhammad Hafiz Zulkifal. È l’imam di Bergamo e
Brescia finito dietro le sbarre (ora è nel supercarcere di Rossano calabro).
Gli inquirenti lo ritengono il capo dell’organizzazione responsabile, tra le altre cose della
strage di Peshawar (28 ottobre 2009: un’autobomba esplode nel mercato di Peepal Mandi
falciando oltre 100 persone e ferendone 200, ndr). Tra febbraio e maggio 2011 l’omicidio
dei “bagnanti” è ancora in fase progettuale. Zulkifal a Ajmal Khan: «Ho incaricato alcuni
affiliati della zona di Gardone val Trompia di trovare l’uomo e la moglie. Ho dato anche
una loro foto mentre fanno il bagno ». I sicari? «Arrivano dalla Francia, li portiamo a
Brescia». Estate 2011: l’esecuzione si compie. Zulkifal: «Dio ci ha protetto ». Quasi. Un
tale Ishaq Mohammad con-fessa: «Se questa cosa esce fuori dal cofano, allora quella
ragazza». È il corpo fatto a pezzi. Quello delle foto sviluppate a Lodi.
I COMPLICI DI OSAMA
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«A casa tutto bene?». Il marito di Ayesha Khan, pakistana di Swabi, non è un terrorista
qualunque. Imitias Khan, 40 anni, un bazar a Olbia. Secondo i nostri 007 Imitias è uno dei
cinque attentatori di Peshawar. Era sul posto. «La terra tremava dall’esplosione! Gli ho
detto “ringraziate che siete salvi», confida al telefono un complice. L’attentato, organizzato
a Olbia, avviene a poche ore dall’arrivo a Islamabad di Hillary Clinton. 16 marzo 2010:
Imitias chiama dunque la moglie dalla Sardegna. Lei: «È stato ferito Osama... Si è rotto il
femore, ma è fuori pericolo». «Dove lo avete portato?». «A Nowshehra (villaggio vicino a
Abbottabad dove il capo di Al Qaeda viene ucciso il 1 maggio 2011, ndr ) ».
JIHAD, ARMI E MILIONI
Muovono denaro i qaedisti italiani. Lo spremono dalle comunità islamiche e lo spediscono
in Pakistan e Afghanistan con l’hawala, il sistema informale di trasferimento di valori. I
soldi finanziano la jihad «Questa cosa non finisce fino al giorno del giudizio universale...
La Jihad parte da qui...», ringhia l’“olbiese” Muhammad Siddique. «Io odio Israele, India,
Inghilter- ra. India e Israele hanno diffuso l’immondizia nel mondo». Per pulire servono
soldi. «Per favore manda 50 milioni». È l’sms inviato nel 2011 all’imam bergamasco
Muhammad Zulkifal da un connazionale. Segue resoconto delle «commissioni eseguite in
Pakistan». Tutti attentati. «Spedito tre persone all’inferno». «Fatto saltare una scuola in
Bannu. I militari li abbiamo ammazzati!». Sahadi , martiri. Jihad, soldi, armi. In un
appartamento di Roma - registra la Digos - è custodito 1 milione di dollari. È il “forziere”
della cellula qaedista sparsa tra la Capitale, la Sardegna, Milano, Brescia, Bergamo,
Novara, Civitanova Marche e Caltanisetta. In un’altra casa il gruppo tiene le armi:
kalashnikov, granate. «Ho comprato il top di tutte le armi! Sono per la guerra...». Parla
Sultan Khan, 8 gennaio 2010. I terroristi islamici considerano un alleato la legge italiana.
Ancora Sultan. «Qui non c’è l’impiccagione, se uccidi qualcuno fai soltanto 3 anni di
carcere. Neanche l’ergastolo».
LA FUGA DI HAYAT BOUMEDIENNE
«Il mio desiderio è il tuo sangue... puliamo la gente con la guerra santa», posta su fb uno
dei soldati italiani di Bin Laden. Erano pronti a aiutare Hayat Boumedienne, la compagna
di Hamedy Coulibaly, autore della strage del Kosher-market e della sparatoria di
Montrouge a Parigi. «Appartengo all’Is», rivendicò l’attentato lui in un video postumo. La
“vecchia” Al Qaeda e il “nuovo” Is dialogano. Informativa allegata alle carte sarde. Due
membri del gruppo di qaedisti italiani accennano a un «supporto logistico» fornito a Hayat.
IL PAPA E LO ZAINETTO DA FARE ESPLODERE
«È importante eliminare il loro plar (“capo”), ricordatelo». Il 19 settembre 2010 il telefono
dell’imam Zulkifal squilla e dall’altra parte c’è un uomo, «Umar Khan dal Pakistan». Gli
parla di un attentato eccellente da compiere. «Ci sono tanti soldi sul loro papa. Stiamo
facendo una grande jihad contro di lui». Zulkifal interrompe la telefonata. È proprio il
Vaticano l’obiettivo? Sentite il pakistano-romano Niaz Mir mentre il suo cellulare aggancia
la cella di via della Conciliazione, a 150 metri da San Pietro. «Roma era piena, quando
arriverà a 4 milioni di persone. Se lui (riferito a un kamikaze “appena arrivato a Roma”)
entrerà dentro, in mezzo fra le persone...». Cosa succederà? «C’è un borsello che hai tu»,
dice Muhammad Siddique a un tipo. «Se ci fosse già stata l’esplosione si sarebbe
disintegrato». L’attentato, forse, è stato solo rimandato.
del 01/07/15, pag. 6
Attacco a Sana’a, rivendica l’Isis
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Yemen. Altro attacco dello Stato Islamico contro il movimento ribelle a
Sana'a. Ban Ki-moon chiede un'inchiesta sul raid di Riyadh contro un
compound dell'Onu
Chiara Cruciati
Un altro attacco dello Stato Islamico scuote la capitale dello Yemen, Sana’a. Nella notte
tra lunedì e martedì un’autobomba è esplosa dietro l’ospedale militare, durante la
commemorazione funebre di un parente di due leader del movimento ribelle Houthi,
Faycal e Hamid Jayache. Ventotto morti, tra cui otto donne.
Un’esplosione terribile che ha sventrato la strada dove si teneva la commemorazione e
subito rivendicata online dall’Isis. L’intensificarsi delle attività di gruppi che si richiamano al
califfato generano preoccupazione: seppur non sia ancora possibile stabilire se si tratti di
gruppi simpatizzanti o gestiti direttamente dal califfo, è chiaro che chi compie tali stragi in
nome dello Stato Islamico abbia dei contatti con miliziani attivi all’esterno. Nel mirino resta
il movimento Houthi e i suoi simboli, le moschee sciite della capitale, colpite il 20 marzo, il
17 giugno (primo venerdì di Ramadan) e di nuovo il 20 giugno.
L’avanzata dello Stato Islamico nel paese è la palese conseguenza del caos provocato
dalla guerra civile e dall’operazione militare saudita. L’assenza dello Stato e la
frammentazione dello Yemen in autorità rivali garantisce maggiore libertà di manovra sia
al sedicente califfato che ad Al Qaeda nella Penisola Arabica (Aqap), che ha nello Yemen
la propria base operativa. Un nuovo conflitto interno, quello tra Isis e al Qaeda, che si
aggiunge ai tanti strati di guerre regionali e globali il cui campo di battaglia è il più povero
del paesi del Golfo.
I due gruppi (di cui il primo è costola del secondo) stanno ampliando il proprio raggio
d’azione con obiettivi e strategie diversi. Se l’Isis in Yemen opera per attrarre nuovi adepti
e per indebolire la resistenza Houthi, trasformandosi indirettamente in braccio armato di
Riyadh, al Qaeda – che occupa oggi buona parte della storica provincia est di Hadramaut
– intende radicare la propria presenza presentandosi come potere amministrativo e
politico oltre che militare. Ed ecco che ad Hadramaut, nelle comunità occupate dai
qaedisti, il gruppo ha intessuto profittevoli alleanze con le tribù locali, istituendo con loro
consigli municipali condivisi e presentandosi come “resistenza popolare” contro l’avanzata
degli sciiti, protezione militare alla minaccia Houthi.
L’obiettivo è chiaro: non quello di dare vita ad una società nuova (ovvero il target del
califfato nel resto del Medio Oriente, concretizzato nelle comunità irachene e siriane
occupate nell’ultimo anno), ma entrare a far parte della società esistente alla quale
imporre la Sharia, sì, ma anche la propria autorità amministrativa dalla quale deriverà
ovviamente il controllo delle risorse naturali.
Per questo al Qaeda è tra le prime organizzazioni a condannare gli attacchi dell’Isis: Aqap
non opera mettendo bombe nelle moschee ma come un vero e proprio esercito che
combatte sul campo il movimento Houthi. Facendo un grosso favore all’Arabia saudita che
da tre mesi evita chiaramente di colpire le postazioni qaediste e boicotta i negoziati
sponsorizzati dall’Onu per portare lo Yemen fuori dalla crisi.
E mentre la diplozia fallisce, il paese vive una delle peggiori crisi umanitarie della propria
storia: oltre un milione di rifugiati, 2.800 morti e 13mila feriti, 21 milioni di persone (l’80%
della popolazione) senza accesso regolare a acqua e cibo. Le infrastrutture idriche,
elettriche, i servizi di comunicazione, le strade, i porti e gli aeroporti sono ridotti in macerie.
Ma nonostante gli appelli dell’Onu, l’ingresso degli aiuti è ancora oggi impedito
dall’embargo imposto dall’Arabia saudita. Dall’inizio dell’operazione “Tempesta decisiva”,
Riyadh blocca lo Yemen via cielo e via terra. Non entra nulla, né cibo né acqua né
carburante, necessario al funzionamento degli ospedali.
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E così se i servizi sanitari sono al collasso, a peggiorare la situazione sono – ancora una
volta – i raid della coalizione guidata dai monarchi sauditi: lunedì il segretario generale
dell’Onu, Ban Ki-moon ha chiesto l’apertura di un’inchiesta sul bombardamento saudita
che domenica ha colpito un compound delle Nazioni Unite nella città meridionale di Aden.
Il raid ha centrato la sede del Programma di Sviluppo Onu, ferendo una delle guardie e
danneggiando la struttura. Un’accusa che giunge a poche ore dalla strage di Sarwah, nella
provincia di Marib: secondo Press Tv l’aviazione di Riyadh ha colpito l’ennesima zona
residenziale, sterminando una famiglia di nove membri.
Proprio ieri Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto che classifica alcune delle
violazioni di Riyadh in Yemen: durante i bombardamenti, i jet sauditi hanno colpito case,
mercati cittadini, scuole. A dimostrare i crimini di guerra sono le immagini satellitari: nel
solo mese di aprile i civili uccisi sono stati almeno 59, di cui 14 donne e 35 bambini.
del 01/07/15, pag. 6
Decapitate due donne: “Streghe”
Siria. L'Isis entra nella città liberata due settimane fa dai kurdi delle Ypg.
Oltre 3mila le vittime degli islamisti in un anno
Chiara Cruciati
Sarebbero oltre 3mila le persone giustiziate dai miliziani del califfo al-Baghdadi in un anno
di occupazione di Siria e Iraq. Uccisi con armi da fuoco, decapitati, crocifissi, lapidati. Ma
finora a nessuna donna era stata tagliata la testa. Anche quel limite è stato superato: due
donne accusate di stregoneria sono state decapitate in Siria a Mayadeen, nella provincia
di Deir al-Zor.
Lo ha riportato l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani: «Lo Stato Islamico ha giustiziato
due donne, decapitandole. È la prima volta che l’Osservatorio documenta di uccisioni di
donne in questo modo». Sarebbero state uccise insieme ai mariti (anch’essi accusati di
possedere amuleti, usati come pratica religiosa e medica nelle campagne siriane). Nelle
stesse ore veniva pubblicata la notizia della crocifissione di otto persone, tra cui due
minorenni, puniti dallo Stati Islamico per non aver digiunato durante il mese sacro di
Ramadan. Sono rimasti legati alle croci per un giorno e poi liberati, ancora vivi.
Altre vittime che si aggiungono alle 3.027 uccise nel corso di un anno, secondo i dati
dell’Osservatorio. Tra loro, oltre a ribelli e combattenti di gruppi rivali, si contano 1.787
civili, 86 donne, 74 bambini e 143 membri del califfato, accusati di essere spie straniere.
Il caso della decapitazione delle due donne siriane rimette a nudo una delle peculiarità
dello Stato Islamico: la misoginia, figlia di un’interpretazione folle ed errata dell’Islam. E
quando sono le donne a combattere direttamente i miliziani dell’Isis, la vendetta diventa
terrificante. Lo sa bene Kobane, città kurda a nord della Siria, che – dopo essersi liberata
dall’assedio jihadista grazie al fondamentale apporto delle combattenti kurde dell’Ypj – ha
subito la scorsa settimana un sanguinoso raid dell’Isis: oltre 150 civili sono stati massacrati
nelle proprie case, per lo più donne e bambini, prima che le forze militari kurde riuscissero
a respingere l’assalto islamista.
E, come prima Kobane, ieri target del califfo è tornata ad essere Tal Abyad, città kurdosiriana liberatasi dalla morsa islamista due settimane fa, il 16 giugno. Secondo fonti locali,
ieri pomeriggio i miliziani dell’Isis hanno compiuto un raid a sorpresa contro la comunità e
occupato un quartiere a est, strappandola al controllo delle Unità di Protezione Popolare
(Ypg) kurde. Una scuola vuota è ora usata dall’Isis come propria postazione principale. Gli
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scontri sono ancora in corso: i combattenti kurdi stanno cercando di accerchiare i jihadisti
per impedirgli di entrare in profondità nella città.
Redur Khalil, portavoce delle Ypg, ha fatto sapere che «decine di miliziani» dell’Isis sono
entrati in città, strategica perché via collegamento con il cantone di Kobane (e quindi via di
trasferimento di armi e combattenti kurdi) e potenziale punto di partenza di un’offensiva
kurda verso Raqqa, “capitale” del califfato.
A preoccupare è il destino dei civili fuggiti in massa durante il precedente attacco dell’Isis
verso la Turchia. Dopo la ripresa di Tal Abyad hanno cominciato a tornare in città.
Lasciando quello stesso territorio da cui i miliziani dell’Isis hanno lanciato il primo brutale
assalto: la Turchia. Ankara resta nell’occhio del ciclone, accusata da più parti di coprire da
mesi le offensive dello Stato Islamico contro i comuni nemici kurdi.
Ieri è giunta la reazione del presidente Erdogan alle voci riportate lunedì dalla stampa
turca, secondo la quale avrebbe ordinato l’invio di 18mila soldati nel nord della Siria per
imporre la creazione di una zona cuscinetto lungo il confine. Con tanti obiettivi: trasferirvi
le migliaia di rifugiati siriani in Turchia, impedire il “contagio” del modello democratico della
Rojava e la creazione di un’entità statale kurda alla frontiera, spezzare la continuità
territoriale dei cantoni kurdi di Kobane, Afrin e Azez.
Il consigliere di Erdogan, Ibrahim Kalin, in conferenza stampa ha rigettato le accuse
affermando che ogni eventuale misura sarà presa in linea con gli obiettivi della comunità
internazionale e avrà come unico scopo quello di mettere in sicurezza il confine turco. In
sicurezza contro chi? Contro il confederalismo democratico kurdo e il nemico Assad.
del 01/07/15, pag. 18
La guerra al terrorismo. Dalle alture del Golan l’esercito di Tel Aviv
studia l’avanzata delle milizie dello Stato islamico in Siria
Israele e l’Isis, l’altro nemico alle porte
Ma per gli israeliani la «jihad globale» resta al quarto posto tra le
minacce allo Stato
MAJDAL AL-SHAMS
Il confine con il caos è a un centinaio di metri dal villaggio. Oltre la barriera di filo spinato,
la base dell’Onu è stata abbandonata dai caschi blu molto tempo fa e da allora è deserta:
l’esercito siriano non avrebbe la forza per presidiarla e i qaedisti di Jabat al-Nusra non
hanno intenzione di occuparla. Preferiscono stare a debita distanza dagli israeliani. Ma
sono oltre la cresta delle colline e, più a Est, a Kuneitra. E ancora più a Nord, come ai
tempi delle invasioni barbariche lungo il confine dell’impero, premono le milizie dell’Isis, più
pericolose di al-Nusra.
Anche d’estate l’ombra viene presto a Majdal al-Shams, questo villaggio druso delle alture
del Golan occupate da Israele: non appena il sole muove verso Ovest, finisce dietro i
quasi tremila metri del monte Hermon, il cui picco è irto di antenne e radar d’ascolto
israeliani. Fino a quattro anni fa i drusi che abitavano il villaggio si sentivano siriani. Oggi
un po’ meno, anche se continuano a esporre i ritratti di Bashar Assad: essere occupati dai
“sionisti” adesso è un colpo di fortuna.
Ogni vallo fra mondi ostili è pericoloso ma nasconde anche tacite e inimmaginabili intese,
fedeltà viscose e qualche paradosso prodotto dalla Realpolitik. Il nemico è alle porte e per
Israele non è un modo di dire: è una descrizione concreta. A Sud, nel Sinai che l’esercito
egiziano non riesce a controllare, c’è la versione locale del califfato di al-Bagdadi. Anche
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nella striscia di Gaza i salafiti insidiano il potere di Hamas il quale incomincia a essere un
male minore. Qui a Nord la presenza dei qaedisti e la pressione dell’Isis creano un fatto
nuovo nella definizione israeliana della sua sicurezza.
Almeno sembra, anche se non è del tutto così. Il giorno prima a Gerusalemme un alto
rappresentante della “comunità dell’intelligence” (c’è il Mossad esterno, lo Shin Bet
interno, l’Aman militare e quello del ministero degli Esteri), aveva offerto la classifica
israeliana delle minacce, in ordine d’importanza: l’Iran, Hezbollah, Hamas e solo poi
l’arcipelago della “global jihad”. È un elenco piuttosto tradizionale. «Per noi gli iraniani ed
Hezbollah non sono diventati i bravi ragazzi della regione solo perché c’è l’Isis», aveva
spiegato la fonte. L’Iran continua a essere ideologicamente anti-israeliano ed è l’unico a
possedere la massa critica per una mobilitazione militare di larga scala. «Osservando il
comportamento di Putin in Crimea, l’Iran si è convinto che con la forza e la determinazione
può fare ciò che vuole». I miliziani dell’Hezbollah libanese ora sono impegnati a
combattere in Siria per la sopravvivenza del regime di Bashar e la loro. Ma al confine, nel
Sud del Libano, hanno lasciato 105mila missili di varia potenza, molti dei quali capaci di
raggiungere Tel Aviv. Quando torneranno dal fronte siriano avranno accumulato
un’esperienza militare pericolosa.
Il confronto interno all’apparato di sicurezza israeliano per decidere se la sopravvivenza di
Damasco sia un bene o un male – un dibattito inimmaginabile fino a qualche tempo fa –
non si è risolto a favore di Bashar Assad. «Non crediamo nella politica del male minore: è
stato lui a creare Hezbollah e a portare l’Iran alle porte di casa nostra». Nessuno in Israele
crede che il regime stia per cadere: probabilmente continuerà a controllare una parte del
Paese. Ma la Siria non tornerà a essere lo Stato fino ad ora conosciuto: resterà divisa in
zone etniche, qualcosa fra la Somalia e un medio evo nel quale ogni città avrà la sua
milizia, la sua religione e i suoi commerci.
Quanto alla “global jihad”, l’attenzione è evidentemente alta. Ma con Jabat al-Nusra in
Siria c’è una specie di accordo di non belligeranza: sono state fissate alcune linee rosse e
per ora i qaedisti le rispettano scrupolosamente. Riguardo all’Isis, forse significa qualcosa
se la sua propaganda hi-tech dedica più spazio alla conquista di Roma che alla liberazione
di Gerusalemme, terzo luogo più importante dell’Islam. Per questo il Sinai è considerato
più pericoloso del Golan. Ci sarebbe anche la Cisgiordania palestinese: sia l’Autorità
palestinese di Abu Mazen che Hamas sono molto deboli: non hanno consenso popolare e
la Jihad potrebbe insinuarsi con una certa facilità. «Ma lì ci siamo noi, siamo noi a
controllare le cose», aveva concluso l’uomo dell’intelligence israeliana.
Ugo Tramballi
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INTERNI
Del 01/07/2015, pag. 12
Prescrizione,muro di Alfano dopo un anno
riforma al palo
IL VERTICE IL PD VUOLE TEMPI PIÙ LUNGHI SULLA CORRUZIONE
LIANA MILELLA
ROMA . Ennesima riunione in via Arenula, ennesimo rinvio. Non è bastato un anno per
approvare la nuova legge sulla prescrizione. Renzi continua a promettere il raddoppio dei
termini per la corruzione, ma il partito di Alfano punta i piedi e fa muro. Col testo passato
alla Camera il 24 marzo si era arrivati a 22 anni, troppi per Ncd che vuole scendere al
massimo a 16 o 17. Nessun compromesso, tant’è che ieri, davanti al Guardasigilli Andrea
Orlando, i centristi non hanno accettato alcuna mediazione. Prendere o lasciare, o la
prescrizione resta “breve”, oppure la legge salta.
Per evitare il peggio, il ministro ha affidato a una mini commissione il compito di trovare un
compromesso accettabile. Con il responsabile Giustizia del Pd David Ermini lavoreranno
la dem Rosanna Capacchione, relatrice del testo al Senato e Nico D’Ascola, l’avvocato
reggino di Ncd che ieri ha teorizzato il no al processo “lungo”. Il vice ministro della
Giustizia Enrico Costa, anche lui del partito di Alfano, l’ha messa sull’istituzionale,
«l’allungamento indiscriminato della prescrizione dilaterebbe i tempi dei processi e l’Italia,
dal 1991, ha già pagato 600 milioni di euro a 23mila persone per ingiusta detenzione».
Un braccio di ferro infinito, con lite alla Camera a marzo e ora “ricatto” politico per il Senato
dove i voti di Ncd sono determinanti per la maggioranza. Sul campo le proteste di chi,
come i parenti delle vittime della strage di Viareggio del 29 giugno 2009, già vedono il
processo in fumo, mentre la nuova legge potrebbe salvarlo grazie allo stop della
prescrizione per 2 anni dopo il primo grado e un anno dopo l’appello. Ma lo scoglio resta la
corruzione. Alla Camera è passata la proposta della Pd Donatella Ferranti, il massimo
della pena più la metà, ancorata all’articolo 157 del codice penale, che disciplina la
prescrizione stessa. Ncd vuole cancellare tutto. David Ermini è stato chiaro: «Io ho
un’asticella invalicabile, quella messa dal premier Renzi che ha promesso di raddoppiare i
tempi di prescrizione per la corruzione». Due possibili compromessi tecnici farebbero
scendere la prescrizione a 18 o 19 anni, ma al di sotto il Pd non va.
Martedì prossimo il governo deve dare i pareri in commissione Giustizia al Senato. Preme
il presidente forzista Nitto Palma. Molti senatori del Pd hanno chiesto di allargare la
prescrizione anche a tutti i reati di corruzione. Lo scontro è inevitabile. A un anno esatto
dalla prima promessa di Renzi in consiglio dei ministri - era il 30 giugno 2014 e a 10 mesi
dal testo votato a palazzo Chigi, era il 29 agosto, la legge è ancora nel limbo. Come per la
corruzione, merita ricordare che già il 15 marzo 2013, il primo giorno della legislatura,
l’attuale presidente del Senato Piero Grasso aveva proposto nel suo ddl di allungare la
prescrizione per la corruzione. Nel frattempo stiamo arrivando al traguardo dei mille giorni
aspettando Godot, per citare Grasso. E ogni giorno aumentano i casi di corruzione che
rischiano di andare prescritti.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 01/07/15, pag. 21
Ecomafia, il business decolla
Nel 2014 ha sfiorato i 22 miliardi di euro - Boom nel settore
agroalimentare
Il fatturato dell’ecomafia torna a salire dopo anni di stallo: nel 2014 ha sfiorato i 22 miliardi,
sette in più dell’anno precedente.
Il merito (si fa per dire) è del circuito illegale del settore agroalimentare che, tra sequestri e
finanziamenti illeciti intercettati da inquirenti e investigatori, ha superato 4,3 miliardi (nel
2013 era di circa 500 milioni). L’impennata dimostra un’azione investigativa
particolarmente mirata (oltre 8mila controlli nel 2014), soprattutto sul fronte della
percezione illecita di contributi pubblici (principalmente europei) destinati all’agricoltura
(quantificati in quasi 683 milioni; nel 2013 era di 28 milioni).
Sono alcune delle conclusioni del Rapporto di Legambiente «Ecomafia 2015 - Corrotti,
clan e inquinatori. I ladri di futuro all’assalto del Belpaese», presentato ieri a Roma alla
presenza, tra gli altri, del presidente dell’associazione Vittorio Cogliati Dezza e del capo
della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo Franco Roberti.
L’anno scorso si è chiuso con 29.293 reati commessi e accertati in campo ambientale,
circa 80 al giorno, poco meno di quattro ogni ora. Nel 2013 erano stati 29.274,
confermando un trend che oscilla da diversi anni intorno ai 30mila ecoreati l’anno.
Le illegalità ambientali
È la Puglia la regione leader della classifica per infrazioni ambientali : 4.499, il 15,4% di
quanto accertato su tutto il territorio nazionale. Alla Puglia anche il record di denunce
(4.159) e di sequestri (2.469), mentre sono solo cinque le persone arrestate. Un grande
contributo ai “primati pugliesi”, spiega il Rapporto, è dovuto al lavoro repressivo che si è
concretizzato soprattutto nella provincia di Bari, dove le forze di polizia hanno messo a
verbale 2.519 ecoreati.
Cresce l’incidenza criminale nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa (Puglia, Sicilia,
Campania e Calabria), che continuano a mantenere le prime quattro posizioni in classifica:
più della metà del numero complessivo di infrazioni (14.736), con numeri altissimi di
denunce (12.732), arresti (71) e sequestri (5.127). In controtendenza rispetto al 2013 il
calo dei reati in Campania (-21% circa), in particolare nella provincia di Napoli, dove la
riduzione è stata del 36%. «Forse i riflettori accesi di recente sulla Campania, soprattutto
grazie alla moltiplicazione delle emergenze ambientali e sanitarie, che ha portato
all’emanazione del decreto Terra dei fuochi - si legge nel rapporto - può, almeno in parte,
spiegare questa riduzione del numero di reati».
Nel ciclo del cemento, Campania e Calabria la fanno da padrone. Avellino ha il più alto
numero di reati (257), subito dopo ci sono Napoli (238), Salerno (220), a seguire le
province di Reggio Calabria (217) e Cosenza (210).
Sempre su scala provinciale è da segnalare il dato di Genova, terza per numero di reati
nel ciclo dei rifiuti (289), subito dopo Bari e Napoli e al decimo posto nell’illegalità
complessiva.
Il fatturato complessivo
Il giro d’affari del settore agroalimentare è seguito a ruota da quello legato
all’inquinamento ambientale (che comprende il valore dei sequestri delle strutture, dei beni
e dei conti correnti nell’ambito di operazioni di polizia giudiziaria) che sale a 1,4 miliardi
28
(800 milioni nel 2013). Cresce anche il business dell’archeomafia (che include il valore dei
beni archeologici recuperati, i falsi sequestrati e i sequestri effettuati), che con 500 milioni
vede più che raddoppiato il mercato nero (nel 2013 era di circa 200 milioni).
Stabili invece la gestione illegale dei rifiuti speciali, fermi a 3,1 miliardi e il racket degli
animali, intorno ai 2,6 miliardi. L’unico calo si registra sul fronte dell’abusivismo edilizio,
che risente della contrazione del numero dei nuovi immobili costruiti abusivamente (circa
18mila secondo le stime del Cresme, a fronte delle 26mila del 2013) e si riduce a 1,1
miliardi (nel 2013 era di 1,7 miliardi).
Passando agli investimenti a rischio, si registra un’impennata degli appalti pubblici, stimati
ancora dal Cresme per il 2014 in 7,9 miliardi (nel 2013 la cifra era di 5 miliardi), mentre
rimangono stabili intorno al miliardo gli appalti a rischio per la gestione dei rifiuti urbani. Il
totale arriva dunque a di 21,9 miliardi e sommando i fatturati dell’ecomafia dal 1992 a oggi
si superano abbondantemente i 340 miliardi.
La fotografia di Legambiente è completata da altre novità: cresce di quattro volte la
superfice boschiva percorsa dagli incendi (anche se cala, seppure di poco, la quantità),
nonostante una stagione molto umida, mentre si assiste alla drastica riduzione degli illeciti
nel traffico internazionale dei rifiuti.
Le indagini, inoltre, confermano che i traffici illeciti dei rifiuti urbani fioriscono dove il
sistema di raccolta rispecchia i modelli antiquati dell’indifferenziato e della discarica,
mentre per i rifiuti speciali è la collusione tra imprese ed ecomafie, con la mediazione dei
colletti bianchi, a garantire gli affari illegali.
Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, conferma la gravità
della situazione. «Gli appalti pubblici nel settore dell’ambiente - si legge nel Rapporto sono tra quelli più esposti alla corruzione e alla criminalità organizzata. Gli appalti pubblici
collegati alla gestione dei rifiuti sono uno dei settori più a rischio. Nel settore dell’ambiente
rientra poi tutta una serie di attività diverse come la gestione del verde pubblico. Settori
nuovi sui quali a oggi è difficile fare una valutazione anche se da alcune indagini come
quella su Mafia Capitale sembrano intravvedersi cose preoccupanti».
Roberto Galullo
Del 01/07/2015, pag. 15
Pure Borsellino lascia Crocetta ha cambiato
35 assessori in 31 mesi
Si è dimessa la responsabile Sanità: giunta nel caos Il Pd vuol
sfiduciare il governatore. Idea voto nel 2016
EMANUELE LAURIA
PALERMO. Il Pd, il “suo” partito che ora vuole farlo cadere senza sapere come, si trova
costretto ad annotare che in una sola cosa di certo Rosario Crocetta ha battuto sinora i
suoi predecessori Cuffaro e Lombardo: nel numero di assessori nominati. Trentacinque in
trentuno mesi. Uno ogni 26 giorni. Cifra inesorabilmente destinata a crescere, dopo le
dimissioni (annunciate) di Lucia Borsellino, la figlia del magistrato ucciso dalla mafia.
Ovvero il simbolo di questa esperienza di governo che era nata sotto il segno della
“rivoluzione” e che, a metà legislatura, appare già avviata verso il capolinea. Con poche
parole, la Borsellino ha definito il suo disagio: «Non vedo più le ragioni che nel 2012 mi
convinsero ad accettare la proposta di Crocetta ». Una frase pronunciata dopo l’arresto di
Matteo Tutino, il chirurgo plastico amico del presidente che, secondo la Procura, faceva in
29
ospedale (a spese del sistema sanitario pubblico) interventi che si potevano eseguire solo
in strutture private. Per l’ormai quasi ex assessore alla Salute, che ha ampiamente
collaborato alle indagini su Tutino, l’arresto del primario è stato l’ultimo tassello di un
mosaico di incomprensioni e amarezze nel rapporto con Crocetta. «Quest’esperienza è
diventata un calvario», ha detto la Borsellino. Le indagini della magistratura, in queste ore,
si orientano sui motivi per cui Giacomo Sampieri, l’ex commissario dell’ospedale Villa
Sofia nominato da Crocetta, avrebbe insabbiato un procedimento disciplinare nei confronti
di Tutino. E puntano pure sul poliambulatorio in cui il governatore si sottopose a gennaio a
un intervento al naso e all’addome, effettuato sempre da Tutino. «Un’operazione - afferma
Crocetta - fatta per ragioni di salute e non estetiche, per la quale ho pagato 3.700 euro. Il
dottor Tutino ha prestato la sua opera gratuitamente ». Una precisazione fatta per
allontanare qualsiasi sospetto di abusi e favoritismi. Ma la disavventura in cui è incappato
il mago del bisturi che Crocetta lodava a ogni piè sospinto, portandolo al suo fianco in
conferenza stampa, ha dato un ulteriore colpo ai rapporti già logori con gran parte del Pd.
«Si stanno spegnendo le luci nella Regione siciliana», twitta Antonello Cracolici, potente
deputato palermitano. Mentre il sottosegretario Davide Faraone, da tempo in rotta con
Crocetta, dopo le dimissioni della Borsellino ha gioco più facile nell’invitare i colleghi alla
linea dura. Diventa decisiva una direzione regionale del partito, convocata per sabato. La
linea, gradita al Nazareno, sarebbe quella di “accompagnare” il governatore verso elezioni
anticipate nella prossima primavera, che si terrebbero assieme alle amministrative di
Napoli, Torino, Milano. Magari utilizzando come strumento di convincimento i fondi (quasi
tre miliardi) che Roma deve concedere per evitare il default a una Sicilia che il
centrodestra ieri ha paragonato alla Grecia. Ma il timore di molti, fra i democratici, è che
Crocetta dica no a qualsiasi ipotesi di dimissioni e che una sfiducia nei suoi confronti non
passi in aula per il timore dei deputati di andare a casa anticipatamente. È il rebus che
tiene in vita un governo che ha fatto poche riforme (quella delle Province, annunciata in tv
a inizio 2013, è ancora al palo) e consumato molti assessori, fra cui Battiato, Zichichi, il
magistrato antimafia Nicolò Marino, la studentessa universitaria Nelli Scilabra. «La
rivoluzione non si fa con gli uomini di Cuffaro e Lombardo », diceva Crocetta. Ma solo
venerdì scorso il primo presidente comunista e omosessuale della Sicilia ha infranto
l’ultimo tabù. Facendo entrare nel suo governo non un tecnico ma un politico, l’ex senatore
Giovanni Pistorio: già assessore di Cuffaro e braccio destro di Lombardo. L’ultimo inganno
di una stagione che pare ormai al tramonto.
Del 1/07/2015, pag. 25
I collaudi milionari del Mose
Soldi pubblici a 130 consulenti
Nella lista sette ex manager Anas e 36 dirigenti del ministero
Cinque miliardi e 493 milioni di euro: fa impressione soltanto a scriverla, la cifra. Ma nel
conto astronomico del Mose di Venezia, il sistema delle dighe mobili concepito per
difendere la laguna dall’acqua alta investito anch’esso dallo scandalo della corruzione, si
trovano numeri ancora più strabilianti. Sapete quanti sono i collaudatori che sono stati
impegnati nella difficile missione di verificare la bontà e la correttezza dei lavori? La lista
completa messa a punto dai commissari che gestiscono ora il Consorzio Venezia nuova
contiene 130 nomi. Avete letto bene: centotrenta. Se però a questi si sommano quanti per
il medesimo Consorzio hanno collaudato lavori lagunari minori collegati al Mose, arriviamo
30
a 316. Trecentosedici, per compensi totali di 19 milioni 818.524 euro e 76 centesimi, dei
quali 14,2 per il Mose e il resto per le opere in laguna.
È bene precisare che si tratta di incarichi antecedenti scandalo e commissariamento.
Alcuni dei nomi più vistosi, per giunta, erano già noti. Lo sguardo d’insieme, tuttavia, apre
ora uno squarcio su una delle pratiche più raccapriccianti in voga nel mondo dei lavori
pubblici. Tutto legale, s’intende. Ma non per questo meno sconcertante. E scorrendo
l’elenco sterminato del Mose vengono in mente tante domande.
La prima: perché nella lista dei collaudatori di una diga ci sono almeno sette persone che
sono state ai vertici all’Anas, l’azienda pubblica che si occupa di strade? C’è l’ex
amministratore Pietro Ciucci, accreditato di un compenso di 762 mila euro. C’è anche uno
dei suoi predecessori: Vincenzo Pozzi, con un milione 127 mila euro. Ci sono poi Piero
Buoncristiano (562 mila), Francesco Sabato (394 mila), Alfredo Bajo (244 mila), Massimo
Averardi (242 mila) ed Eutimio Mucilli, nominato un paio d’anni fa amministratore delegato
della società Quadrilatero Marche Umbria (223 mila). Senza contare l’architetto Mauro
Coletta (321 mila), che all’Anas si occupava delle concessionarie autostradali e dal 2012 è
passato in forza al ministero delle Infrastrutture. Circostanza che introduce la seconda
domanda. Perché fra i collaudatori di un’opera pubblica sulla quale vigila quel ministero ci
sono almeno 36 (trentasei) dirigenti dello stesso ministero? Tutto legale, anche qui. Ma
come non vedere un conflitto d’interessi grande come una casa, anche alla luce dei 4
milioni 850.282 euro attribuiti a quell’esercito di burocrati? Conflitto non dissimile, peraltro,
per gli ex dirigenti dell’Anas retribuiti da un Consorzio a cui partecipano imprese che
hanno fatto anche lavori per l’azienda pubblica delle strade.
Qualche nome dei collaudatori ministeriali? Marcello Arredi, ex capo del personale del
ministero (259.697 euro il compenso previsto). Luigi Minenza (268.405 euro). Walter Lupi
(195.209). Francesco Errichiello, nominato nel 2012 superconsulente per l’Expo 2015 di
Milano (294.376). Francesco Musci, fresco di nomina a presidente del Consiglio superiore
dei Lavori pubblici (404.197). Bernadette Veca (405.654). Maria Pia Pallavicini (562.154).
Nell’elenco figura pure l’attuale presidente del magistrato delle acque di Venezia, l’autorità
che sovrintende al Mose, Roberto Daniele: 400.671 euro.
Va detto che di quelle somme i dirigenti ministeriali ne percepiscono una parte. Il resto va
in un fondo comune. Ma si tratta comunque di cifre considerevoli. Qualcuno di loro, inoltre,
arrotonda con i collaudi delle opere minori in laguna. Per esempio Arredi, a cui spettano
altri 48.703 euro. O Donato Carlea, che può sommare ai compensi per il Mose (179.853
euro) altri 50.219 euro. Oppure Saverio Ginetto Savio Petracca, con 61.068 euro dal Mose
e 6.481 dai lavori lagunari. Nome, quest’ultimo, che evoca un interrogativo: sarà lo stesso
Saverio Ginetto Savio Petracca dell’Udc che si è candidato con il centrodestra alla
Provincia di Campobasso nel 2011 e con il centrosinistra al Comune di Campobasso tre
anni dopo?
Non che nella lista, sia chiaro, manchino i tecnici. Ci sono almeno un paio di espertissimi
in materia ferroviaria, quali Carlo Villatico Campbell (565.549 euro) ed Emilio Maraini
(94.117 euro): già altissimo dirigente delle Fs ai tempi di Lorenzo Necci, impegnato nella
partita dell’alta velocità al fianco di Ercole Incalza, fino a qualche mese fa dominus del
ministero delle Infrastrutture. E si trova perfino un geometra, Gualtiero Cesarali (301.004
euro). Fatto che aveva indotto la Corte dei conti a chiedere chiarimenti al predecessore di
Daniele, quel Patrizio Cuccioletta travolto dall’inchiesta sul Mose e la corruzione.
Sentendosi rispondere: «Vista la presenza degli altri due membri laureati non si ha motivo
di dubitare sulla qualificata preparazione della Commissione».
I dirigenti delle Infrastrutture non sono gli unici burocrati pubblici ad aver goduto di questo
singolare beneficio. Ci sono per esempio due esponenti del Tesoro, come l’ex capo di
31
gabinetto dei ministero dell’Economia Vincenzo Fortunato (552.619 euro) e Mario Basili,
revisore dell’Agenzia italiana del Farmaco (99.027).
Si arriva così alla terza domanda: che cosa c’entrano un magistrato e un esperto di conti
nel collaudo di una diga? Non è roba da ingegneri? Certo. Se non ci fosse però un trucco
che consente di moltiplicare all’infinito il numero degli incarichi e i compensi. Legale, ovvio.
Ma sempre un trucco è. Si chiama collaudo tecnico amministrativo: una invenzione della
burocrazia per cui non si verificano soltanto la solidità e l’efficienza di un’opera, ma anche
le procedure e i prezzi. Insomma, si collaudano le carte. Il più delle volte tutto si risolve in
una firma sotto una relazione magari già scritta o assemblata con il copia-incolla. E qui ci
fermiamo.
Non prima però di aver raccontato l’ultima chicca. Arrivati al Consorzio Venezia nuova, i
commissari hanno scoperto che era stata già costituita la commissione per il collaudo
finale di tutta l’opera. E da chi era composta? Da tre persone: Fortunato, Ciucci e Pozzi.
Un magistrato (Fortunato), un esperto di finanza (Ciucci) e un solo ingegnere (Pozzi). Le
nomine sono state immediatamente revocate. Ma Fortunato non ha abbozzato. Per 15
anni magistrato del Tar, ha impugnato la revoca davanti al Tar, che l’ha rigettata indicando
la competenza del giudice ordinario.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 01/07/15, pag. 7
Il governo mette nei Cie anche i richiedenti
asilo
Migranti. Detenzione prevista se si ritiene che il migrante possa fuggire.
La misura inserita nel decreto che attua due direttive europee in materia
di accoglienza e protezione internazionale
Carlo Lania
ROMA
Possibilità di trattenere i profughi negli hub regionali senza limiti di tempo e comunque fino
al completamente dell’esame della domanda di asilo, ma anche di detenerli in un Centro di
identificazione ed espulsione (Cie) per 12 mesi se si ritiene che esista un pericolo di fuga.
Con il pretesto dell’emergenza immigrazione l’Europa vara norme più dure anche nei
confronti di quanti fuggono da guerre e persecuzioni. E l’Italia si accoda senza protestare.
Il giro di vite si sta preparando al Senato, dove in commissione Affari costituzionali è in
discussione lo schema di decreto legislativo che recepisce due direttive europee proprio
sull’accoglienza dei richiedenti asilo e sulle procedure per l’accesso alla protezione
internazionale. Misure più severe che vanno ad aggiungersi alla creazione, prevista
nell’Agenda europea per l’immigrazione, di hotspot nei principali punti di sbarco dove
effettuare un primo screening dei migranti dividendoli tra quanti hanno diritto a presentare
domanda di asilo e migranti economici, quindi irregolari per i 28, con la possibilità se
necessario di detenere quest’ultimi anche per un anno e mezzo.
Già approvato dalla Camera, il testo del decreto potrebbe essere licenziato in queste ore
dal Senato, con un parere non vincolante della Commissione Affari costituzionali. «C’è un
forte rischio di un indebolimento del sistema dei diritti», ha denunciato ieri il senatore Luigi
Manconi, presidente della commissione Diritti umani di Palazzo Madama in una
conferenza stampa indetta con Caritas, Acli, centro Astalli e Tavola Valdese. Rischio reso
ancora più evidente dalla possibilità che strutture come i Cie, che si sperava ormai
superate, tornino improvvisamente in vita e vengano addirittura potenziate. «Il governo
farà quello che vuole — ha spiegato il relatore del provvedimento, il senatore Francesco
Palermo — ma nel passaggio parlamentare non potevamo non evidenziare una
impostazione di fondo sbagliata. Secondo queste norme saranno i richiedenti asilo, che
già hanno subìto una violazione dei loro diritti, a pagare per un sistema inefficiente».
Il pericolo più grande riguarda proprio la possibilità che dopo essere fuggito da un conflitto
che devasta il proprio Paese, un profugo si ritrovi alla fine rinchiuso in un Cie per un anno.
Oggi la detenzione nella struttura è prevista solo in caso di pericolo per la sicurezza
pubblica. Il testo del decreto estende invece questa possibilità anche a chi presenta
domanda di asilo se esistono dubbi sulla sua identità e se il questore ritiene che possa
sussistere un pericolo di fuga. Cosa molto probabile, visto che la stragrande maggioranza
di quanti approdano sulle nostre coste non vuole rimanere in Italia ma trasferirsi in un
paese del nord Europa.
L’articolo 8 del provvedimento contiene invece una contraddizione. Mentre infatti si
afferma di voler superare i Cara (Centri di accoglienza richiedenti asilo) allo steso tempo
non si fissa un termine massimo entro il quale devono essere esaminate le richieste di
asilo presentate dai profughi, che in attesa di una risposta da parte della commissione
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esaminatrice restano ospitati nei nuovi hub regionali. «In sostanza in questo modo si
ripropone la stessa logica dei Cara», ha spiegato Manconi lasciando intendere tempi di
attesa per lo smaltimento delle domande che oggi possono superare anche un anno.
Quello che il governo sta preparando è dunque un meccanismo inutilmente punitivo verso
i profughi ed estremamente macchinoso. Basti pensare che nel 2014 su 170 mila migranti
arrivati in Italia, 60 mila hanno presentato domanda di asilo. «Tutti gli altri dobbiamo
considerare che sono fuggiti?» si è chiesto Bernardino Guarino del centro Astalli, il
servizio rifugiati dei gesuiti. «Se è così allora dovremo trattenere nei Cie 100 mila persone
e dov’è la copertura economica per poterlo fare?».
Sarebbe un errore pensare che sia solo l’Italia a trattare l’ immigrazione come un
questione di puro ordine pubblico. Sull’emergenza di questi mesi «occorre registrare il
fallimento dell’Europa che non riesce a trovare un approccio comune», ha detto ieri il
direttore della Caritas italiana, don Francesco Soddu. «È l’immagine di una Europa
ripiegata su sé stessa, che difende strenuamente i confini che pensavamo superati». Per il
direttore di Caritas «è necessaria una contro-agenda in cui si sottolinei che non è possibile
aprire campi profughi nei Paesi nordafricani, in cui si rilevi che la ripartizione dei migranti
decisa in Europa è insufficiente e si spinga per l’apertura di ingressi legali dei migranti in
Europa».
34
WELFARE E SOCIETA’
del 01/07/15, pag. 7
La tavola degli italiani sempre più povera
Nuovi poveri. Secondo una ricerca presentata all'Expo dal Banco
Alimentare, in Italia 14 famiglie su 100 non possono permettersi
un'alimentazione equilibrata con cibo proteico ogni due giorni. A patire
di più sono i minorenni, 1 milione e 300 mila soffrono di "povertà
alimentare". Il dato è più che raddoppiato nel giro di otto anni. Per
contrastare la povertà in via di cronicizzazione, scrivono i curatori della
ricerca, bisognerebbe pensare a una misura strutturale per il reddito
delle persone più povere
Luca Fazio
MILANO
In cascina Triulza si parla di povertà alimentare. Di italiani sotto alimentati. Di nuovi poveri.
E’ una di quelle iniziative virtuose per cui bisognerebbe ringraziare Expo, ma sarebbe
come rallegrarsi per la presentazione delle opere di San Francesco in una boutique di
Cartier. I dati presentati da Banco Alimentare però meritano di essere esaminati con cura
— sono raccolti nel volume “Food poverty Food bank” a cura di Giancarlo Rovati e Luca
Pesenti (Università Cattolica di Milano). Si tratta di un’indagine realizzata dopo la crisi,
dunque con statistiche aggiornate al 2014 (il primo rapporto analogo è stato realizzato nel
periodo antecedente il 2008). In questo lasso di tempo, dicono i relatori, la dimensione
della povertà alimentare in Italia è raddoppiata: sono 5 milioni e mezzo le persone, di cui
ben 1,3 sono minorenni, che non hanno la possibilità di assicurarsi un’alimentazione
equilibrata.
Significa che 14 famiglie su 100 non hanno soldi a sufficienza per garantirsi cibo proteico
ogni due giorni (il dato è più che raddoppiato dal 2007, quando erano 6 su 100). Il
confronto con altri paesi è disarmante: in Francia sono 7,3 e in Spagna 3,5 le famiglie
altrettanto povere. “L’Italia – scrivono Rovati e Pesenti — sembra aver pagato più di tutti i
paesi il prezzo amaro della crisi”, tanto che oggi soltanto i paesi dell’ex blocco sovietico
presentano cifre più preoccupanti rispetto alla difficoltà di procurarsi una dieta equilibrata.
C’è un altro dato urgente che il Banco Alimentare sottolinea. Le oltre 15 mila associazioni
caritative che operano in Italia, grazie alle quali non ci sono (troppe) persone che vivono
sotto i ponti, dicono di non essere in grado di aiutare un numero maggiore di persone.
L’appello, con modi garbati, è rivolto al mondo politico, e ha tutta l’aria di una sfida che il
governo non sembra intenzionato a raccogliere: “Appare auspicabile ora aggiungere il
tassello, presente in quasi tutti i paesi europei, di una misura strutturale di sostegno al
reddito dei più poveri”, si legge nell’introduzione del volume presentato ieri. Il ministro per
le politiche agricole, Maurizio Martina, in video, però ha risposto picche al moderatore del
dibattito che ha fatto riferimento anche alla proposta del Movimento 5 Stelle: “Sono per
valutare qualsiasi strumento praticabile, ma questo mi sembra difficilmente sostenibile dal
punto di vista finanziario. Mi sembra doveroso provare nuove sperimentazioni, ma senza
fare una battaglia ideologica e senza appoggiare ipotesi velleitarie”.
Alla luce delle statistiche però non si trovano tracce di battaglia ideologica tra quegli adulti
italiani — persone disoccupate, indebitate o separate — che chiedono di ricevere un
pacco alimentare (la principale causa di povertà nel 2014 è stata nell’80% dei casi la
perdita del lavoro). Inoltre, sottolineano i ricercatori, “è proprio tra chi ha meno di 18 anni
35
che si nasconde il vero dramma della povertà in Italia”. Quasi 14 bambini su 100 tra i 6 e i
14 anni “sperimentano problemi” di mancanza di cibo. Nel sud le cifre sono ancora più
“impressionanti”: 19,3 bambini della fascia 6–14 anni su 100 sono poveri “anche dal punto
di vista alimentare”; e sono aumentati in modo “vertiginoso”, erano 3 ogni 100 prima della
crisi.
La ricerca, come sostiene il presidente del Banco Alimentare Andrea Giussani, rende
ancora più persistente (e scandaloso) il paradosso dello spreco di alimenti nella filiera
alimentare. L’incentivo alla riduzione e alla redistribuzione degli sprechi, probabilmente,
sarà uno dei lasciti dell’Expo, grazie ad iniziative che sono già “sponsorizzate” da alcune
grandi catene della distribuzione. La carità, in fondo, rende tutti più utili. Anche Expo, per
esempio, combatte lo spreco grazie a un accordo stipulato con la cascina Triulza: nei primi
due mesi sono stati recuperati oltre 5 mila chili di alimenti, poi distribuiti ad alcune delle
250 strutture caritative di Milano convenzionate con il Banco Alimentare (che assistono 54
mila persone). Anche il ministro Martina vanta un dato relativo al sostegno che il governo
dà agli indigenti: “100 mila tonnellate di cibo distribuito quest’anno”. Una cosa giusta,
anche se non è così che si affronta la povertà (anche alimentare). Ma oggi non si butta via
niente.
del 01/07/15, pag. 8
Reddito minimo alla friulana
Lavoro. 550 euro al mese per non più di due anni: prima regione a
sperimentarlo grazie al voto di Pd, Sinistra e libertà e M5S
Ernesto Milanesi
Minimo, garantito o di sostegno. Ognuno lo aggettiva a piacere, tuttavia il Friuli Venezia
Giulia è la prima regione d’Italia a garantire reddito vero nell’epoca della Grande Crisi.
Si tratta di 550 euro al mese per un massimo di due anni. Lo ha deciso l’aula del consiglio
regionale con una maggioranza altrettanto significativa. Hanno votato a favore in 27: Pd,
civica, Sel e pentastellati. Contrari gli otto consiglieri regionali di Forza Italia, Autonomia
responsabile, Ncd, Fdi-An. La governatrice Debora Serracchiani (che è anche vice
segretaria del Pd di Renzi) aveva inutilmente auspicato l’abbattimento di steccati: «Non ci
sono bandierine da mettere, ci sono temi su cui nessuno può aggiungere i suoi colori
politici. Ci sono famiglie per le quali 180 euro al mese fanno la differenza. Tutti insieme
abbiamo messo dei tasselli, una piccola risposta assolutamente sperimentale. Sarebbe
incomprensibile, illogico, improprio dividersi su questo tema».
È comunque una scelta netta, di campo, perfino politicamente autonoma. Il «reddito alla
friulana» non sarà sulla carta, com’è accaduto in Lazio. La giunta Serracchiani ha già
stanziato 10 milioni e il provvedimento viene già esaltato come una vittoria dal M5S…
In aula Stefano Pustetto (Sel), nel ruolo di relatore di maggioranza, ha isistito proprio sul
«reddito minimo» per altro teorizzato nel 1942 dai liberali inglesi, prima che fosse
realizzato dal governo laburista sei anni più tardi. E almeno il Friuli si allinea all’Unione
europea che dalla bellezza di 23 anni raccomanda l’adozione di misure riguardanti il
reddito minimo, che solo Italia e Grecia disattendono.
Il «reddito alla friulana» funzionerà in base a precisi criteri, mentre la gestione sarà
imperniata sui Centri per l’impiego (e, quindi, non sull’Inps) con l’obiettivo di collegare al
territorio l’erogazione del sostegno economico.
Fissati già i requisiti per ottenere i 550 euro al mese. Tanto per cominciare, occorre un
reddito certificato Isee inferiore ai 6.000 euro all’anno. Poi l’assegno è stato legato a filo
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doppio al «patto» che prevede formazione, ricerca lavoro e attività socialmente utili.
Include anche i pensionati, che sono stati messi in ginocchio dalla recessione. Il M5S ha
fatto poi scattare il vincolo fra reddito minimo e frequenza scolastica: se in famiglia si
verifica un abbandono scolastico, cessa l’aiuto economico. Infine, occorre una residenza
di almeno due anni in Friuli.
Le interpretazioni politiche sono differenti. Gino Gregoris (Civica) ha scandito: «Non è
reddito di cittadinanza né minimo garantito, ma una misura attiva di sostegno di tipo
universalistico e selettiva». Ma Cristian Sergo del M5S ha insistito sulla versione Beppe
Grillo: «Gli interventi tendono a contrastare povertà, disuguaglianza e l’esclusione
sociale».
Il Pd ha declinato così il provvedimento: «L’incremento della povertà assoluta diffusa e la
diminuzione dell’occupazione sono all’origine della proposta di legge che mira a qualificare
le misure di sostegno al reddito con azioni non solo di tipo assistenziale ma anche di
sviluppo, di inserimento, promozione sociale e lavorativa».
In linea di massima, il «reddito alla friulana» dovrebbe interessare circa 10 mila potenziali
beneficiari in uno scenario con quasi il 9% di disoccupazione. Per di più, si tratta
comunque di una misura «sperimentale»: tre anni in cui l’erogazione dei 550 euro al mese
verrà controllata attraverso i Cpi e gli stessi uffici della Regione. Secondo l’assessore
Maria Sandra Telescala, va inquadrata nella cornice ben più ampia del nuovo piano
regionale del sociale: «Alla fine del percorso di riordino all’interno delle misure di sostegno
al reddito avremo una parte delle politiche sociali, tra cui in particolare il fondo di
solidarietà. Nonché la carta famiglia, la carta acquisti e altre misure».
del 01/07/15, pag. 8
Cinque Stelle e Sel: a settembre il reddito
minimo in aula al Senato
Nuovo Welfare. «Grasso si prenda la responsabilità di calendarizzare la
nostra proposta». La mediazione della campagna di Libera di don Ciotti
e del Bin-Italia. Scriveranno un testo unico con la minoranza dem
Roberto Ciccarelli
Prove di convergenza tra Movimento 5 Stelle, Sinistra Ecologia e Libertà e la minoranza
Pd guidata da Roberto Speranza per definire insieme una proposta di legge unificata sul
reddito minimo garantito al Senato. Ieri a Roma, nella sala dei gruppi della Camera, su
invito dei promotori della campagna per un «reddito di dignità», Libera di Don Ciotti e il
Basic Income Network-Italia, Alessandro Di Battista ha garantito la «massima disponibilità
del movimento per formulare una versione unica del Ddl in discussione in commissione
Lavoro al Senato. Il reddito è una misura economicamente fondamentale anche per
rilanciare la domanda interna, creare posti di lavoro e contro il voto di scambio».
«Sel ritiene che un’intesa con il Movimento Cinque Stelle,e con le forze presenti in
parlamento, sia non solo possibile ma necessaria contro la povertà e la precarietà.
Necessaria è una legge che esiste in tutta Europa tranne che in Italia e in Grecia» ha
risposto Nicola Fratoianni, coordinatore nazionale di Sel.
Nei prossimi giorni inizieranno i lavori di un comitato ristretto composto dagli esponenti
politici presenti in commissione. Obiettivo: arrivare a settembre pronti per calendarizzare il
provvedimento in Senato. «Lavoreremo affinché al massimo entro due mesi arrivi in aula
la proposta di legge sul reddito» ha detto Nunzia Catalfo, prima firmataria della proposta
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dei Cinque Stelle. «Da mesi — ha aggiunto Loredana De Petris, presidente Sel del gruppo
Misto al Senato — chiediamo la calendarizzazione nella capigruppo, senza però ottenerla,
a differenza di quanto è avvenuto per altri provvedimenti come quello sulla scuola che è
andato in aula senza relatori. Il presidente Grasso si assuma le sue responsabilità».
I principi base sono quelli elencati dalla campagna per il «reddito di dignità» che svolge un
prezioso ruolo di raccordo e mediazione tra le forze politiche e la società: «L’individualità
dell’erogazione del reddito e non su base familiare — spiega Sandro Gobetti del Bin-Italia
— La residenza, e non la cittadinanza italiana, per non escludere i cittadini stranieri dal
beneficio di una misura universale; la congruità dell’offerta di lavoro rispetto alla
formazione e alle competenze dei beneficiari. Questa è la principale differenza con una
legge per i poveri e il paletto fondamentale contro l’esagerata condizionatezza delle
misure che spingerebbero molte persone a non presentare domanda per evitare di essere
sanzionati e puniti. Alla base bisogna riconoscere e valorizzare la persona, evitando di
farla vivere sotto nuovi ricatti».
«Al contrario di quanto pensa il presidente del Consiglio Renzi — ha aggiunto Giuseppe
De Marzo, coordinatore della campagna «Miseria Ladra» di Libera — il reddito minimo
garantito è costituzionale che rispetta gli articoli 3, 36 e 41 della Costituzione, oltre che la
Carta di Nizza. Il suo principio è la dignità dell’uomo e della donna, un concetto che
dovrebbe essere al centro delle politiche economiche e sociali ma viene messo a rischio
dai dogmi dell’austerità». Come finanziarlo, considerato che secondo l’Istat la proposta dei
cinque Stelle «costa» oltre 14 miliardi annui e quella di Sel oltre 23?
«Con la fiscalità generale, i tagli alle spese militari, il recupero dell’evasione fiscale, la
soppressione delle deroghe su appalti e grandi opere — ha risposto in maniera veemente
Don Ciotti nel suo intervento — Il reddito di dignità non è una misura assistenziale. è una
misura di giustizia sociale e anche un investimento nella speranza del paese». A Renzi,
che ha liquidato il reddito «perché la sinistra dà lavoro» (con il Jobs Act, s’intende) Don
Ciotti ha risposto: «Belle parole, ma nel frattempo cosa diciamo ai poveri e ai disoccupati,
a chi vive in strada e razzola nei cassonetti? Ci vuole il reddito». La direzione è presa, e
sembra che si voglia procedere spediti verso una misura universalistica, e non
assistenzialistica per i poveri.
A quella potrebbe pensarci il governo adottando il «Reis», o una sua parte, uno strumento
sponsorizzato tra gli altri dai sindacati Cgil, Cisl e Uil e dalle Acli.
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DIRITTI CIVILI E LAICITA’
del 01/07/15, pag. 9
Unioni civili, sarà la volta buona?
Chiarito il punto più spinoso, si avvicina l’accordo tra favorevoli e
contrari al ddl Cirinnà Non esiste più un testo blindato di Palazzo Chigi,
ora il premier lascia la palla al Senato
Giacomo Galeazzi
Unioni civili tra persone dello stesso sesso e niente nozze gay. Al Senato la legge sembra
incamminata verso un compromesso. In realtà, mentre il premier Matteo Renzi promette
un’accelerazione, si annuncia un percorso parlamentare accidentato. «A settembre la
riforma verrà approvata», assicurano a Palazzo Chigi. Sulla carta l’accordo tra favorevoli e
contrari al ddl Cirinnà pare più vicino dopo la riformulazione dell’articolo 1 della norma da
parte della senatrice Pd che ne è relatrice. Adesso è stato messo nero su bianco il punto
più controverso. E’ stato chiarito, infatti, come quello delle unioni civili tra persone dello
stesso sesso sia un istituto giuridico del tutto nuovo e non abbia nulla a che fare con il
matrimonio.
Fronti trasversali
Non esiste più un testo blindato, quindi. Il governo ha deciso di non esprimersi: l’esecutivo
in pratica, non dà un parere, si rimette alla commissione Giustizia di Palazzo Madama,
cioè al libero gioco delle posizioni politiche nei gruppi (in particolare nel Pd, dove la
componente cattolica preme per alcune modifiche) e tra i gruppi, sia di maggioranza sia di
opposizione. Una svolta.
Questa posizione del governo, se a prima vista può sembrare che indebolisca il consenso,
in realtà favorisce la convergenza di 5 Stelle e di una parte di Forza Italia. Renzi non può
spingersi fino a emarginare Ncd, la componente più sensibile alle critiche, ma ha
comunque almeno due serbatoi aggiuntivi di consenso. Improbabile che si faccia in tempo
entro l’inizio di agosto a votare la montagna di emendamenti e sub-emendamenti
depositati in commissione, trecento dei quali a sola firma del teocon Carlo Giovanardi.
Quasi sicuramente non si riuscirà prima della pausa estiva a licenziare il testo per l’aula e
a dedicare sedute alla discussione. E a settembre, dopo la piazza gremita di San
Giovanni, tornerà a riunirsi il Family Day. Adesso il terreno dello scontro è la commissione
Giustizia del Senato. Sulle unioni civili si fronteggiano sensibilità diverse all’interno delle
forze di maggioranza.
Pioggia di emendamenti
Gli emendamenti al testo, oltre quattromila, sono stati di fatto quasi dimezzati dopo il
vaglio di ammissibilità, ma ancora non si è entrati nella fase di votazione. Se nella
maggioranza non trovano l’accordo il testo non riuscirà ad uscire dalla commissione. O
potrebbe andare in aula senza relatore. Una ferita.
Il problema sembra però più di tempi che non di numeri, anche perché il fronte dei contrari,
se si irrigidisce, potrebbe in realtà aprire la strada al matrimonio omosessuale, magari con
qualche intervento giudiziario. Anche con cambiamenti di giurisprudenza da parte della
Corte costituzionale visto anche il contesto internazionale, a cominciare dalla storica
sentenza della Corte Suprema con cui sono stati legalizzati i matrimoni gay in tutti gli Stati
Uniti. Alcuni tra i contrari hanno consapevolezza. Resta la spaccatura.
Reversibilità e adozione
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In discussione l’estensione (per le unioni gay dell’adozione del bambino già riconosciuto
come figlio di uno solo dei due. Il capogruppo di Area Popolare, Maurizio Lupi ritiene
«molto difficile» un voto prima dell’autunno. No all’adozione da parte del partner e
all’estensione della reversibilità («creata come sostegno alla famiglia in cui il soggetto più
debole era la donna che si occupava dei figli»). Ok a regolamentare i diritti individuali delle
persone anche dello stesso sesso, ma no all’equiparazione con il matrimonio tra un uomo
e una donna. Compromesso non impossibile.
Del 1/07/2015, pag. 12
Nuovo Senato (e Ncd) frenano le unioni gay
Il muro dei centristi su prescrizione e diritti. Cirinnà: aperture da Forza
Italia, in Aula anche senza relatore
Priorità alle modifiche della Carta con l’ipotesi dell’elezione diretta. A
rischio pure il riordino della Rai
ROMA Dei tre piatti forti previsti dal calendario parlamentare prima della pausa estiva, alla
fine, ne potrebbe rimanere uno solo sul tavolo del Senato. La riforma costituzionale del
bicameralismo paritario, che verrà incardinata giovedì in I commissione con l’obiettivo di
essere approvata (terza lettura) entro il 7 agosto, rischia infatti di sbarrare il cammino per
l’Aula a provvedimenti di rilievo per il governo come i ddl sulle unioni civili e sulla
prescrizione, creando poi interferenze anche per la riforma Rai.
Cinque settimane di lavoro, da qui all’interruzione di agosto, non consentono dunque di
sbrogliare l’ingorgo che si è creato a Palazzo Madama. Ma non è solo una questione di
calendario. La fretta di far fare il terzo passo in avanti alla riforma costituzionale del Senato
nasconde anche le difficoltà politiche della maggioranza (Pd e Ap-Ncd in rotta di collisione)
su fronti assai controversi: le unioni civili, che prevedono la reversibilità delle pensioni e le
adozioni di figli naturali precedenti e dunque sempre «interne» alla coppia; la prescrizione
raddoppiata per il reato di corruzione.
Ieri la presidente della I commissione, Anna Finocchiaro (Pd), ha ufficializzato l’imminente
partenza del dibattito sul ddl costituzionale anche se, rispetto a un anno fa, quando si votò
per la prima volta sul testo Boschi, il clima sembra cambiato con qualche apertura del
premier Matteo Renzi sulla composizione del nuovo Senato e sull’elezione diretta dei
senatori: «Discutiamo con calma, senza considerare la data del 7 agosto come
ultimativa», ha avvertito la presidente Finocchiaro. Mentre il bersaniano Miguel Gotor
puntualizza che finora «non è stata avviata alcuna trattativa per modificare il testo».
Se la riforma Renzi-Boschi si appresta a fare un passo in avanti, il testo sulle Unioni civili
(relatrice Monica Cirinnà, Pd) rischia di andare a sbattere contro un muro di emendamenti
eretto dal partito di Alfano: «Forse, e ripeto forse, solo a Natale si potrebbe arrivare in
aula», avverte Carlo Giovanardi del Nuovo centro destra.
Tradotto in numeri l’ostruzionismo del Ncd prevede più di mille emendamenti (su 1.446
totali) ai quali si sono aggiunti ieri sera altri 206 subemendamenti (su 286) dei centristi:
«Senza un accordo tra Pd e Ncd sarà difficile andare in Aula con il mandato al relatore
perché, per regolamento, si possono concedere anche 60 minuti per illustrare ogni singolo
emendamento», fa sapere il presidente della commissione Giustizia Francesco Nitto
Palma (FI). Eppure nel Pd, che ha pure i suoi problemi con il fronte cattolico interno, la
relatrice Cirinnà è convinta che il testo base potrebbe andare in aula anche senza relatore:
«Dentro Forza Italia, tra i fittiani e i socialisti ci sono molti liberi pensatori che voterebbero il
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testo....». Il terzo fronte oscurato dall’avanzata della riforma del Senato è quello della
prescrizione. Al vertice di maggioranza il vice ministro Enrico Costa ha manifestato il suo
disappunto contro il Pd che «si impunta su posizioni di bandiera: ma solo senza
impuntature il dibattito potrà portare una soluzione ragionevole e condivisa».
Dino Martirano
Del 1/07/2015, pag. 19
Aborto, la Corte boccia il Texas
La nuova sentenza sospende le leggi restrittive in vigore nello Stato
conservatore
Non saranno costrette a chiudere le cliniche che praticano l’interruzione
di gravidanza
È solo una decisione provvisoria che serve a tenere aperte una decina di cliniche per gli
aborti in Texas in attesa di una sentenza definitiva sul caso, ma il pronunciamento della
Corte Suprema di ieri segna anche sul delicatissimo tema dell’interruzione della
gravidanza un cambio di rotta in senso progressista da parte di una magistratura suprema
che ha ancora una maggioranza di giudici conservatori. La settimana scorsa il presidente
della Corte, John Roberts, ha scelto di schierarsi coi magistrati democratici a difesa di
«Obamacare», la riforma sanitaria di Barack Obama mentre subito dopo è stato un giudice
conservatore nominato negli anni Ottanta da Ronald Reagan, Anthony Kennedy, a unirsi
ai progressisti nella storica sentenza che ha stabilito il diritto delle coppie gay di unirsi in
matrimonio in tutti i 50 Stati Usa.
Anche sull’aborto in Texas l’ago della bilancia è stato Kennedy. Con una legge di due anni
fa questo Stato del Sud ha introdotto standard molto restrittivi per le cliniche nelle quali si
praticano aborti. La norma, mirante a ridurre al minimo il numero di questi centri, prevede
che anche i presidi ambulatoriali specializzati abbiano la struttura di veri centri chirurgici
con edifici, equipaggiamenti e organizzazioni del personale analoghi a quelli degli
ospedali. Dal luglio del 2013, quando l’allora governatore Rick Perry promulgò la legge, in
Texas hanno dovuto chiudere i battenti oltre metà delle 41 cliniche autorizzate a
interrompere le gravidanze: oggi ne sono rimaste 19 in uno Stato con 27 milioni di abitanti
e una superficie di 700 mila chilometri quadrati, più del doppio dell’Italia. E sono tutte
concentrate in quattro aree urbane: Houston, San Antonio, Austin e Dallas. Il che significa
che in tutta la parte occidentale dello Stato (San Antonio, la più a Ovest delle quattro città,
è al centro del Texas) già oggi non c’è nessuna struttura che pratichi aborti. Altre 10 delle
19 cliniche superstiti che avevano ricevuto un’ingiunzione di chiusura avevano fatto ricorso
in Appello. Hanno perso e allora si sono rivolte alla magistratura costituzionale che non ha
ancora deciso se deliberare sul caso. Ma la decisione di lunedì sera — tecnicamente solo
una sospensione dell’ordine di chiusura in attesa di ulteriori delibere — indica,
implicitamente, che la Corte intende affrontare la questione.
Se così sarà, vedremo un inasprimento e un’ulteriore politicizzazione del conflitto tra
giudici supremi. I tre conservatori che hanno votato contro le deliberazioni di questi giorni,
Clarence Thomas, Antonin Scalia e Samuel Alito, hanno criticato aspramente le decisioni
della Corte. Soprattutto quella sulle nozze gay, giudicata da Scalia insensata e
giuridicamente incoerente. Spaccature ce ne erano state tante in passato, ma mai fino al
punto di mettere in dubbio la legittimità delle decisioni della Corte. Che, se affronterà gli
aborti, lo farà tra un anno: cioè nel bel mezzo della campagna presidenziale.
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Massimo Gaggi
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BENI COMUNI/AMBIENTE
Del 01/07/2015, pag. 30
Il 2015 sarà l’anno più caldo mai registrato. Parola della Nasa. Gli orsi
polari cercano nuovo cibo. E gli Stati cominciano il balletto delle cifre.
L’America si impegna a tagliare le emissioni entro il 2025, l’Italia prima
del 2030 Ma per contenere le temperature lo stop va anticipato al 2020
La Terra appesa a 2 gradi
MAURIZIO RICCI
LA buona notizia, dicono gli scienziati norvegesi in missione alle isole Svalbard, è che gli
orsi polari, assediati dallo scioglimento dei ghiacci che sta facendo emigrare le foche, si
ingegnano a trovare altre fonti di cibo. La cattiva notizia è che questo cibo sono i delfini,
che il riscaldamento dell’oceano spinge sempre più a Nord. Il 2015, prevede la Nasa, sarà,
infatti, l’anno più caldo mai registrato: a livello globale, fra gennaio e maggio la
temperatura non era mai stata così alta. Un decimo di grado più dell’anno scorso, che era
il record precedente. Alcuni scienziati pensano che il riscaldamento immagazzinato in
profondità dagli oceani negli ultimi anni stia per emergere in superficie, facendo fare alla
temperatura sulla terraferma un balzo in avanti e spingendo i ghiacciai della costa
dell’Antartide ancor più oltre la soglia critica dello scioglimento. Il processo è già in corso. Il
New Scientist calcola che si è ormai innescato un innalzamento irreversibile di un metro
del livello dei mari nei prossimi decenni e di cinque metri nel prossimo secolo: buona parte
di New York, Londra e Venezia sono destinate comunque a finire sott’acqua. È troppo
tardi per tornare indietro. È il segnale che c’è sempre meno tempo per fermare l’effetto
serra e, anzi, comincia a non essercene più. Le emissioni di anidride carbonica hanno
avviato una trasformazione del pianeta destinata a diventare sempre più inarrestabile. Gli
impegni, a prima vista coraggiosi, che cominciano a prendere i governi di diversi paesi non
bastano. Anche l’annuncio dei G7 di un obiettivo di riduzione delle emissioni vicino al 70
per cento, rispetto a cinque anni fa, entro il 2050 non basta. Il 2050 è troppo lontano. Se si
vuole tenere aperto uno spiraglio alla possibilità di fermare l’aumento della temperatura,
rispetto all’epoca preindustriale, a 2 gradi, come chiedono scienziati e governi, le emissioni
vanno fermate subito. Nel 2020, cioè domani mattina. Come? Tagliando drasticamente
carbone e petrolio. L’allarme e l’appello vengono da un angolo inaspettato. La Iea,
International Energy Agency, è l’agenzia che si occupa di energia, per conto dell’Ocse,
l’organizzazione che raccoglie i trenta paesi più industrializzati e più ricchi del pianeta.
Incaricata di assicurare un ordinato rifornimento di energia ai paesi consumatori, la Iea va
da sempre a braccetto con sceicchi e Big Oil. Ora, non più. Due terzi delle emissioni di
CO2 sono legati alla produzione e all’uso di energia: si deve, dunque, cominciare di lì, dice
il rapporto su “Energia e cambiamento climatico” che l’agenzia pubblica in questi giorni.
Non partiamo da zero. L’anno scorso quasi metà di tutta la nuova capacità di produrre
energia è venuta dalle rinnovabili e la rapida espansione delle fonti a basso contenuto di
carbonio ha avuto come risultato che crescita economica e aumento delle emissioni di
CO2 non vanno più di pari passo: l’economia mondiale è cresciuta del 3 per cento, ma le
emissioni sono rimaste uguali all’anno prima. Su questo trend si innestano gli impegni
nazionali di contenimento della CO2 che i governi stanno prendendo in vista della
Conferenza di Parigi di fine anno. Paesi responsabili per un terzo delle emissioni globali
hanno già presentato i loro impegni. Gli Stati Uniti ridurranno le emissioni fra il 26 e il 28
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per cento (rispetto al 2005) entro il 2025. Più determinata l’Europa: meno 40 per cento,
rispetto al 1990, entro il 2030. Anche Russia e Messico conterranno le emissioni e,
soprattutto, si muove un grande inquinatore come la Cina che porrà un tetto alle emissioni
nel 2030 o anche prima. Rispetto al 2009, quando il mondo, alla conferenza di
Copenhagen, non riuscì a raggiungere un accordo sulle emissioni, lo scenario politico è
completamente cambiato. Ma il risultato? Scarso, dice la Iea. Di fatto, serve solo a farci
guadagnare non più di otto mesi. E ci proietta al di là del tetto dei due gradi.
Nello scenario che si apre con gli impegni assunti finora per Parigi, infatti, le emissioni
continuano a crescere anche dopo il 2030. Poco, magari: solo l’8 per cento fra il 2013 e il
2030, contro una crescita economia dell’88 per cento. Ma il legame non è rotto. Sulla base
di quanto promettono i governi, l’investimento in solare ed eolico diventa dell’80 per cento
più alto di oggi, ma le centrali a carbone continuano a sputare solo un po’ meno CO2. Che
succede, allora? Diciamo che per avere almeno una possibilità su due di non sforare il
tetto dei 2 gradi, il mondo può emettere non più di un tot di anidride carbonica. Sulla base
degli impegni assunti finora dai governi, quel tot ce lo saremmo consumato tutto nel 2040.
Cioè, sottolinea la Iea, otto mesi più tardi di quanto avverrebbe se i governi non avessero
mai assunto impegni per Parigi. O si stringono le viti dell’austerità anti-Co2 o addio due
gradi: con tanto di impegni sottoscritti, la temperatura salirebbe di 2,6 gradi entro il 2100 e
di 3 gradi e mezzo dopo il 2200, quanto basta per friggere il pianeta.
Ai governi che pagano i loro stipendi, gli esperti della Iea spiegano che, per sfuggire a
questo destino, bisogna volerlo. Ma non c’è bisogno di fare salti mortali. La tecnologia c’è
già e la crescita economica non ne risentirebbe affatto. I grandi dell’energia, del petrolio e
del carbone, invece sì, ne sarebbero colpiti. L’obiettivo, infatti, è fermare le emissioni già al
2020: dopo dovranno scendere e non salire. Fermare le emissioni significa due cose,
secondo la Iea: l’uso del carbone comincia a diminuire da subito, già prima del 2020. La
domanda di petrolio continua a salire fino a quell’anno, ma lì si ferma. Le misure per
arrivare a questi risultati sono relativamente semplici, ma costose.
Anzitutto, dunque, aumentare l’efficienza energetica nell’industria, nei trasporti, negli edifici
(gli effetti maggiori si avrebbero in Cina). Aumentare gli investimenti in rinnovabili dai 270
miliardi di dollari l’anno di oggi ad almeno 400 miliardi. Ridurre progressivamente l’utilizzo
delle centrali a carbone più vecchie e bandirne la costruzione di nuove (i paesi più
interessati sono Germania, Cina, India e Australia). Tagliare gradualmente i sussidi ai
consumatori di benzina e gasolio (una misura che tocca, in particolare, i paesi emergenti).
Ridurre le emissioni di metano nella produzione di gas e petrolio, ovvero, i fuochi in testa
ai pozzi. L’idea che la domanda di petrolio possa arrestare la sua ascesa già nei prossimi
anni, cozza contro tutte le previsioni ufficiali di Big Oil, da Exxon a Shell a Bp. In questo
senso, è un cerino acceso quello che la Iea consegna ai governi, in vista del braccio di
ferro che accompagnerà la conferenza di Parigi. E proprio ieri Barack Obama e la
brasiliana Dilma Rousseff si sono impegnati a lavorare per un accordo “ambizioso ed
equilibrato” sul cambiamento climatico, in dicembre a Parigi.
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INFORMAZIONE
del 01/07/15, pag. 14
Dove va l’Ansa?
Ri-mediamo. L’agenzia nata nel gennaio del 1945 su proposta dei
quotidiani delle maggiori forze della Resistenza si trova nel mezzo di un
passaggio grave e cruciale
Vincenzo Vita
L’Agenzia nazionale stampa associata — più nota con l’acronimo Ansa — nacque nel
gennaio del 1945 su proposta dei quotidiani delle maggiori forze della Resistenza. Vale a
dire l’Unità, Il Popolo e l’Avanti, cui si associarono L’Italia libera, La Voce Repubblicana e
Risorgimento Liberale. Prendeva autorevolmente il posto della vecchia agenzia Stefani,
legatasi al regime. Non per caso, la scelta della governance, come si direbbe oggi, fu
peculiare e coraggiosa: una cooperativa di giornali, indipendente dai governi e da questa o
quella cordata finanziaria.
Ecco, purtroppo la situazione di oggi non è affatto felice, essendo esplosa una crisi iniziata
da qualche anno. Anzi. Proprio negli ultimi giorni — quattro dei quali segnati dallo sciopero
— la situazione è precipitata. Infatti, la struttura di direzione ha deliberato 65 esuberi, con
la ventilata richiesta della cassa integrazione. L’ultimo “pacchetto”, in verità, ha dei
precedenti già consistenti, visto che nel volgere di pochi anni la redazione è passata da
400 a 316 persone. Non solo. I giornalisti si sono resi disponibili con impegno e serietà a
stare pienamente nel ciclo produttivo crossmediale, dando vita — tra l’altro — ad un sito di
eccellenza, cui nel 2014 è andato il riconoscimento del «Premio Ischia», e arrivato
secondo nella classifica della Reuters. Famosa è la qualità delle fotografie, che sarebbe
piaciuta a Walter Benjamin. Per dire. E, sempre nel 2014, i conti erano in pareggio. Mentre
ora, a motivare la scelta delle eccedenze, si dice che l’esercizio in corso si chiuderà con
un deficit di 5 milioni.
Che è successo? Bastano a giustificare una simile condotta i tagli — 3 milioni — del
Fondo dell’editoria nei riguardi dell’agenzia? Difficile, visto che sembra esservi un impegno
a ripristinare la soglia precedente. C’è, almeno in apparenza, qualcosa che sfugge. Così, è
legittimo sospettare che il problema stia altrove. Torniamo alla specificità dell’assetto
dell’Ansa. Con l’eccezione del Sole24Ore, la maggior parte dei gruppi editoriali siede nella
cabina di comando. Per un verso, forse, a fronte dell’ascesa inarrestabile della versione on
line delle news, l’agenzia potrebbe persino essere vissuta come un concorrente; per un
altro, è altrettanto probabile che la linea dura scelta sia una sorta di prova generale. Nel
momento in cui servirebbe gestire con sagacia e lungimiranza la fase della transizione
all’era digitale, il grosso degli editori preferisce la scorciatoia dell’abbattimento del costo
del lavoro, amputandolo e svalorizzandolo.
Insomma, mentre negli Stati uniti vi è un dibattito interessantissimo sulle prospettive della
carta stampata nell’età di Internet e in Francia lo stato si fa carico di un surplus di
finanziamento pubblico (280 milioni di euro, dieci volte quelli del Fondo italiano), qui i
gruppi dirigenti — Fieg compresa — preferiscono prendersela con l’anello debole: vale a
dire una categoria professionale impoverita e tendenzialmente precarizzata. Non è una
strategia, bensì il contrario. Non solo la crisi non verrà fermata, ma — al contrario — si
aggraverà senza sbocchi possibili. E’ un tema di prima grandezza, che dovrebbe costituire
il cuore della annunciata riforma del settore. A meno che non ci si accontenti di un
maquillage del Fondo pubblico, senza agire sui nodi strutturali. E’ augurabile che le
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organizzazioni sindacali vogliano prendere in mano la questione, che attiene peraltro alla
loro stessa forza di rappresentanza.
Siamo nel mezzo di un passaggio grave e cruciale. L’Ansa è la fonte per eccellenza,
l’ontologia dell’informazione. Anticipa il futuro.
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ECONOMIA E LAVORO
del 01/07/15, pag. 9
Jobs Act, ecco i numeri che sgonfiano la
propaganda
Istat. Quasi metà degli occupati guadagnati ad Aprile sono stati persi a
Maggio. Il loro numero è sceso di 63mila unità, mentre è aumentato nel
confronto con maggio 2014 (+60mila). La disoccupazione è stabile al
12,4%, mentre quella giovanile è ferma al 41,5%. La riforma del lavoro
non produce nuova occupazione. E quella che c'è è precaria
Marta Fana
Quasi metà dell’apparente exploit dei nuovi occupati, segnato ad aprile di quest’anno, è
stato perduto nel mese di maggio. I dati sull’occupazione pubblicati ieri dall’Istat sono un
bagno di realtà per il governo Renzi che non passa giorno senza millantare l’efficacia delle
proprie riforme. Rispetto al mese scorso il numero degli occupati è sceso di 63mila unità,
mentre è aumentato nel confronto con maggio 2014 (+60mila). L’aumento annuale
riguarda esclusivamente le donne, che però secondo gli ultimi dati del Ministero del Lavoro
non rientrano tra gli assunti con il nuovo contratto a tutele crescenti.
È la conferma che la nuova occupazione, oltre a non essere significativa dal punto di vista
quantitativo, è caratterizzata da una buona dose di precariato. Quanto al tasso di
disoccupazione relativo all’intera popolazione, rispetto ad aprile, non c’è stato alcun
miglioramento, mentre su base annuale è sceso di 0.2 punti percentuali. Per i giovani tra i
15 e i 24 anni, il tasso di occupazione e quello di disoccupazione sono entrambi diminuiti
dell’1% su base annuale, mentre il tasso di inattività ha registrato un aumento del 2,2%.
Sono numeri che permettono di trarre un primo bilancio sul Jobs Act e gli sgravi alle
imprese, i provvedimenti che alimentano il grande brusìo sulle riforme e sul loro ipotetico
successo. Stando ai fatti, a maggio ci sono appena 10 mila occupati in più rispetto a fine
dicembre, quindi i nuovi occupati rappresentano lo 0,3% dei disoccupati italiani (oltre tre
milioni di individui). Nel confronto di genere, si nota che questi nuovi occupati riguardano
esclusivamente le donne (più 96 mila contro una riduzione di 87 mila occupati uomini). Il
numero di disoccupati aumenta di 5 mila unità, trainato anche dal calo del numero di
inattivi nello stesso periodo (circa 87 mila). Restringendo l’analisi ai giovani, si nota che gli
occupati diminuiscono (-19 mila) nei primi cinque mesi, mentre il numero di disoccupati
diminuisce di mille unità.
Nel frattempo sono aumentati anche i giovani inattivi. Il Ministro del Lavoro Giuliano Poletti
non si rassegna all’evidenza e ieri ha dichiarato che siamo di fronte a «una situazione non
ancora stabilizzata», ma che tuttavia «restano comunque validi i segnali positivi» relativi
alla «maggiore stabilizzazione dei rapporti di lavoro e diminuzione delle ore di cassa
integrazione» dei primi mesi dell’anno. Poletti ha fatto male i conti perché a guardare i
primi tre mesi dell’anno– escludendo quindi le “destabilizzanti” variazioni tra aprile e
maggio– si nota che tra la fine di dicembre 2014 e fine marzo 2015, i nuovi contratti a
tempo indeterminato sono stati 76.811 a fronte di un calo del numero di occupati a tempo
indeterminato di 79 mila unità. Per ogni nuovo contratto (escluse le trasformazioni) c’è
(quasi) un occupato in meno a tempo indeterminato. Per l’ex ministro del lavoro Maurizio
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Sacconi «è ragionevole supporre che senza una vera ripresa dei consumi interni non si
produca una significativa occupazione aggiuntiva».
Dunque uno dei più ferrei sostenitori del Jobs Act ne riconosce adesso l’inefficacia e si
scaglia contro le tasse sulla casa– che sono alte, soprattutto distribuite molto iniquamente
a sfavore dei ceti popolari– ma intanto nulla dice contro i redditi bassi, soprattutto quelli da
lavoro. Nel nostro paese, va ricordato, che il 38% dei lavoratori con contratti precari
percepiscono redditi sotto la soglia di povertà relativa, così come il 12% dei lavoratori
standard. Un risultato al quale ha collaborato anche Sacconi che insiste nell’usare la
delega del Jobs Act sulla semplificazione “incoraggiando la propensione ad assumere
deregolando gli oneri burocratici sul lavoro”. In realtà l’Istat ha recapitato un altro
messaggio a Renzi: gli effetti del Jobs Act sull’occupazione sono inesistenti con una
disoccupazione che resta stabile al 12,4%, mentre quella giovanile resta al 41,5%. Le
svalutazione di salari e diritti non garantisce la ripresa. In Italia, come in Grecia.
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