OMNIPOTENTIA E SUBIECTIO: UNA TEOLOGIA TRINITARIA

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OMNIPOTENTIA E SUBIECTIO: UNA TEOLOGIA TRINITARIA
OMNIPOTENTIA E SUBIECTIO: UNA TEOLOGIA TRINITARIA
IMPERIALE
Aspetti della polemica anti-ariana nel "De fide" di Ambrogio
«Imperiale ius aeternae potestatis»1
«Nec vilis, sed gloriosa subiectio»2
Privilegiando una chiave interpretativa teologico-politica, questo saggio dedicato al De fide –
opera al tempo stesso estrema (redatta nel primo periodo dell’episcopato ambrosiano) e centrale (per
impegno, tema, spessore) – non affronterà né la questione complessa dell’origine e della datazione del
trattato3, né quella, assai dibattuta, della sua contestualizzazione storica nella controversia ariana, quindi
dei debiti teologici nei confronti di Atanasio, Didimo, Ilario, i Cappadoci e dell’eventuale originalità
ambrosiana nei loro confronti4. Infatti, sarà qui avanzata la tesi che l’indubbia originalità teologica di
Ambrogio non sia affatto da cercare nell’ambito dell’approfondimento teologico-speculativo del mistero
trinitario, ove risulta in effetti difficile scorgervi tratti davvero innovativi: è in proposito sufficiente
mettere a raffronto il De fide atanasiano (troppo spesso dipendente dalle sue fonti) con i tre capolavori
latini trinitari, straordinari per originale potenza di assimilazione e creatività: il De Trinitate di Ilario di
Poitiers, l’Adversus Arium di Mario Vittorino e, ovviamente, il De Trinitate di Agostino. Al contrario,
ritengo che Ambrogio – discendente di due famiglie senatorie, già altissimo funzionario imperiale,
consacrato “a forza” per motivi squisamente politici vescovo della nuova capitale occidentale5 – nei suoi
antiariani trattati “imperiali” (sia il De fide che il De Spiritu Sancto sono dedicati a Graziano) risulti
originalissimo e storicamente decisivo unicamente nella definizione della portata teologico-politica del
1
AMBROGIO, De Spiritu Sancto II,12,130. Vengono qui utilizzate le edizioni del De fide e del De Spiritu sancto a cura di
Otto Faller, Sancti Ambrosii Opera, CSEL 78-79, Wien 1962-1964. Le traduzioni italiane utilizzate sono quelle di Claudio
Moreschini, in Opera omnia di Sant’Ambrogio, 15, Roma-Milano 1984 e 16, Roma-Milano 1979.
2
DeFide V,13,168.
3
Com’è noto, gli studiosi oscillano nel collocarne la stesura tra il 378-380, in particolare dividendosi sull’ipotesi di
collocare i primi due libri subito prima o subito dopo il disastro romano di Adrianopoli subito da Valente ad opera dei Goti il 9
agosto 378. La tesi di una datazione di De fide I-II immediatamente prima di Adrianopoli, già avanzata da Tillemont, Ihm,
Rauschen, è stata rilanciata con autorevolezza da H. SAVON, Ambroise de Milan (340-397), Paris 1997, 89-91; e verificata
nell’equilibrato, convincente bilancio di G. VISONÀ, “Gog iste Gothus est”. L’ombra di Adrianopoli su Ambrogio di Milano, in
«Studia ambrosiana» 35, 2011, 127-161, che giustamente attribuisce grande importanza all’ironica affermazione di GIROLAMO,
Liber quaestionium hebraicarum in Genesim 14: «Scio quendam Gog et Magog tam de praesenti loco quam de Ezechiel ad
gothorum nuper in terra nostra vagantium historiam rettulisse: quod utrum verum sit, proelii ipsius fine monstratur»; la disfatta
romana ad Adrianopoli smentisce la precedente, in quanto auspicata identificazione ambrosiana dei Goti con l’apocalittico Gog
dissolto dall’esercito di Dio. Al contrario, già J.R PALANQUE, Saint Ambroise et l’empire romain, Paris 1933, 498, collocava lo
scritto subito dopo la disfatta di Valente; su questa linea, che data il De fide tra il settembre del 379 e il 380, si sono schierati A.
PAREDI, Sant’Ambrogio e la sua età, Milano 1960, 1994(3), 253; O. FALLER, Praefatio all’edizione del De fide, Wien 1962, 5-10;
G. GOTTLIEB, Ambrosius von Mailand und Kaiser Gratian, Göttingen 1973, 14-39; N.B. MCLYNN, Ambrose of Milan. Church and
Court in a Christian Capital, Berkeley 1994, 102-103; Ch. MARKSCHIES, Ambrosius von Mailand und die Trinitätstheologie.
Kirchen- und theologiegeschichtliche Studien zu Antiarianismus und Neunizänismus bei Ambrosius und im lateinischen Westen
(364-381), Tübingen 1995, 166-176; D.H. WILLIAMS, Ambrose of Milan and the End of the Nicene-Arian Conflicts, Oxford 1995,
128-153; e T.D. BARNES, Ambrose and Gratian, in «Antiquité Tardive» 7, 1999, 165-174, in part. 170-171. Sull’interpretazione del
DeFide come apologia della fede ortodossa richiesta dall’imperatore per rispondere alle accuse degli ambienti ariani e in particolare
di Palladio (che sarà condannata da Ambrogio al Concilio di Aquileia nel 381), cf. P. NAUTIN, Les premières relations d’Ambroise
avec l’empereur Gratien. Le De fide (livres I et II), in Y.-M. Duval (ed.), Ambroise de Milan. XVI centenaire de son élection
épiscopale, Paris 1974, 229-244.
4
Cf. L. HERRMANN, Ambrosius von Mailand als Trinitätstheologe, in «Zeitschrift für Kirchengeschichte» 69, 1958, 197218. Sulla mancanza di particolare originalità delle argomentazioni teologiche del De fide, cf. C. MORESCHINI, Introduzione ad
Ambrogio, Opere dogmatiche I. La fede, Roma-Milano 1984, 9-50, in part. 39-43; e Opere dogmatiche II. Lo Spirito Santo, RomaMilano 1979, 9-45; R.P.C. HANSON, The Search for the Christian Doctrine of God. The Arian Controversy 318-381, Edinburgh
1988, 669-675; e la posizione assai critica e demitizzante nei confronti della decisività teologico-politica di Ambrogio proposta da
D.H. WILLIAMS, Ambrose of Milan and the End of the Nicene-Arian Conflicts, Oxford 1995, in part. 1-10; invece, per una
rivendicazione dell’originalità teologica di Ambrogio, cf. soprattutto l’importante contributo di R. CANTALAMESSA, Sant'Ambrogio
di fronte ai grandi dibattiti teologici del suo secolo, in G. Lazzati (ed.), Ambrosius Episcopus, Milano 1976, I, 483-539; e CH.
MARKSCHIES, Ambrosius von Mailand und die Trinitätstheologie…, in part. 211-215, nel segno della «schöpferische Rezeption», in
particolare nel DeFide. Per una valutazione complessiva, rimando a G. VISONÀ, Lo “status quaestionis” della ricerca ambrosiana,
in L.F. Pizzolato e M. Rizzi (edd.), Nec timeo mori. Atti del congresso internazionale di studi ambrosiani nel XVI centenario della
morte di sant’Ambrogio, Milano 1998, 31-71, in part. 60-62.
5
«Ego enim raptus de tribunalibus atque administrationis infulis ad sacerdotium, docere vos coepi quod ipse non didici»
(AMBROGIO, De officiis 1,1,4).
dogma trinitario, forse sottovalutata della ricerca storiografica6. Ritengo inoltre che proprio la sua teologia
politica trinitaria contribuisca a definire un’originale teologia latina della giustificazione, che troverà in
Agostino il suo culminante punto di approdo, per quanto del tutto innovativo e per certi aspetti persino
catastrofico (nel senso etimologico del termine) rispetto alla tradizione che lo sorregge. Concepito Dio
come Maestà imperiale che misericordiosamente chiama i suoi sudditi alla stupita lode di un dono
gratuito, il kenotico paradosso cristologico del nascondersi redentivo dell’onnipotente contribuisce a
generare una corrispondente antropologia dell’impotenza della creatura subdita, profondamente venata
dall’ombra della fragilità e del peccato, quindi una spiritualità dell’umiltà, della confessione,
dell’invocazione alla potenza divina di grazia7: «Si vindicas gratiam, crede potentiam; si refutas
potentiam, gratiam ne requiras»8. Ma questo significa chiedersi se l’Ambrogio Seelsorger di Dassmann
non trovi la sua più profonda ispirazione proprio nell’Ambrogio teologo-politico (prima ancora che
Kirchenpolitiker).
Il cuore della visione trinitaria ambrosiana può, infatti, essere identificato con l’affermazione
che il Figlio non vi è pensato tanto come Verbum o Sapientia, quanto come Potentia, Potestas, Virtus9,
eterno e volontario atto di dominio del tutto unitario, imperialmente condiviso con il Padre e lo Spirito,
non potendosi ammettere una divisione subordinata di natura, potere, atto, volontà divini. In tal senso,
davvero singolare e probante è nel De fide l’impressionante frequenza dei termini teologico-politici virtus
(103 volte), potestas (127), potentia (25), omnipotentia-omnipotens (59), maiestas (82), imperiumimperialis-imperator-imperare (63), regnum/rex/regnare (89), dominatus-dominatio (18), vincere-victorvictoria (17), triumphus-triumphator (8), tropeum (5), subiectio-subiectus (89), subditus (17)10.
Economicamente, però, l’unico potere assoluto si articola nella distinzione operativa delle persone, in
quanto innesta in sé una teologia dell’«operatio» creativa e salvifica, culminante in una teologia della
kenosis (ecclesiasticamente mediata!), della «subiectio» gratuita, del nascondersi/sospendersi
misericordioso dell’onnipotenza assoluta. L’intima verità trinitaria delle «personarum distinctio et
naturae unitas»11, contratta nell’homousion niceno, rivela come l’unica «divinitas» condivida la separata
6
Con le importanti eccezioni di J.R PALANQUE, Saint Ambroise et l’empire romain…; e soprattutto del notevolissimo
saggio di B. MORONI, Lessico teologico per un destinatario imperiale. Terminologia giuridico-amministrativa e cerimoniale di
corte nel De fide di sant’Ambrogio, in L.F. Pizzolato e M. Rizzi (edd.), Nec timeo mori…, 341-363. Rispetto alle probanti
argomentazioni della Moroni, questo saggio si caratterizza per l’insistenza sulla dimensione teologico-politica della stessa dottrina
trinitaria, piuttosto che su quella tecnicamente retorico-giudiziaria e strumentalmente apologetica (Ambrogio, dovendo difendersi
dalle accuse ariane, ricorre ad un linguaggio procedurale comprensibile da parte dell’imperatore), del DeFide.
7
Cf. l’innovativo lavoro di E. DASSMANN, Die Frömmigkeit des Kirchenvaters Ambrosius von Mailand. Quellen und
Entfaltung, Münster 1965; H. SAVON, Ambroise lecteur d’Origène, in L.F. Pizzolato e M. Rizzi (edd.), Nec timeo mori…, 221-234,
in part. 232-234, sull’irruzione di categorie paoline in Ambrogio e sul “dramma della carne” caratterizzante un’antropologia della
fragilità e dell’impotenza del singolo, che si allontana dal modello origeniano e anticipa alcuni tratti dell’antropologia agostiniana;
su questa linea, cf. G. VISONÀ, Origene nella spiritualità di Ambrogio, in L.F. Pizzolato e M. Rizzi (edd.), Origene maestro di vita
spirituale, Milano 2001, 223-247.
8
AMBROGIO, DeSpSanct II,7,64.
9
Sulla centralità della nozione/denominazione trinitaria di potestas, Ambrogio si pone in continuità con ILARIO, De
Trinitate, ove il termine potestas ricorre ben 205 volte. Sul ruolo di Mario Vittorino, fondamentale è la monografia di E. BENZ,
Marius Victorinus und die Entwicklung der Abendländischen Willensmetaphysik, Stuttgart 1932. Rilevantissime, in proposito, le
considerazioni, ispirate proprio da Benz, di G. AGAMBEN, Opus Dei…, 72-73; 144-147; trovo comunque problematico il tentativo di
reperire in Plotino, – che è pure fonte decisiva per Mario Vittorino – e in particolare nel problematico, singolarissimo trattato
Enneadi VI,8 (unico testo plotiniano citato da Agamben), la svolta teoretica capace di trasformare la storia della metafisica
occidentale: l’identificazione tra essere e volontà, considerata come la chiave della dialettica intradivina, che si trasmetterebbe da
Plotino alla Trinità cristiana. La volontà è soltanto iperbolicamente attribuita da Plotino all’Uno (trascendente l’essere!) e comunque
essa vi è riconosciuta soltanto per esservi, per così dire, ontologicamente e impersonalmente neutralizzata; sarebbe forse opportuno
continuare a cercare, ancora con Heidegger (cf. Opus Dei…, 74-77), all’interno del concetto giudaico-cristiano e ovviamente
preplotiniano di creazione (piuttosto che nello stesso concetto di liturgia come sacro officium) la matrice dell’ontologizzazione
cristiana della volontà assoluta, quindi della categoria della «messa-in-opera» come perno dell’onnipervasivo (almeno fino ad oggi!)
dominio dell’effettualità. In tal senso, l’imperializzazione della trinità nicena ad opera di Ambrogio penso rivesta una notevole
importanza.
10
Per segnalare l’assoluta e persistente centralità nella teologia trinitaria di Ambrogio dei termini
potestas/potentia/regnum/virtus, probanti sono i paragrafi conclusivi del DeSpSanct (III,22,169-170) e i paragrafi conclusivi del De
Incarnationis Dominicae Sacramento (10,114-116). «Ambrogio applica il tema della regalità alla Trinità stessa con un’insistenza
quasi ossessiva» (B. MORONI, Lessico teologico per un destinatario imperiale…, 344, nota 15). Particolare attenzione è rivolta dalla
Moroni alla rilevante presenza nel DeFide di categorie e termini girudici e giudiziari, quali calumnia, praerogativa, accusare, actor
(l’eretico ariano o Ambrogio stesso come accusatore), cognitor (Cristo giudice, ma in effetti lo stesso Graziano imperatore
cattolico), testimonium (in particolare la Scrittura); infatti, «la metafora dominante nell’intero trattato è quella del processo. Lo
stesso dibattito teologico si configura come un giudizio di fronte al tribunale di Cristo… Il parallelismo tra l’autorità del giudice
terreno e del giudice divino implica chiaramente che la decisione dell’imperatore dovrà essere concordante con quella del Signore
stesso: una chiara condanna dell’eresia» (346 e 350).
11
AMBROGIO, DeFide III,15,126.
2
assolutezza di una Virtus, della «eadem Patris et Filii potestas»12, che pure nel Figlio ontologicamente
onnipotente si rivela per grazia relazionale con la natura e la miseria delle creature-suddite: «Dedit
[vitam] utique quasi Filio per generationem, non quasi inopi per gratiam»13. La relazione di Dio al Figlio
rivela la condivisione della potenza assoluta con il generato, la relazione di Dio alla povertà della creatura
rivela la sua grazia. Assolutezza del potere e umiltà del suo operare economico rappresentano, insomma, i
due poli dialettici di una concezione imperiale di Dio, che fa del De fide un trattato trinitario
eminentemente latino, anzi romano e imperiale, proprio perché caratterizzato dallo slittamento teologico
– di portata a mio parere epocale, capace di illuminare la stessa politica ecclesiastica di Ambrogio14 –
dalla centralità della dimensione onto-logico-veritativa alla centralità della dimensione dell’assolutezza
volontaria e dell’operante potenza politica, assolutamente efficace. «Una voluntas ubi una operatio; in
Deo enim voluntatis series operationis effectus est»15. Proprio perché tolto nell’assolutezza di Dio, il
potere imperiale romano finisce per essere sottoposto ad una significativa retractatio – come vedremo, di
seguito, culminante nel De obitu Theodosii, ove viene celebrata la “morte” e la “trafigurazione” del
perfetto imperatore cristiano, il cui impero terreno è tolto e sublimato nell’eterna civitas Dei –: il potere
secolare, spossessato del suo stesso dispositivo ideologico, può ormai sussistere unicamente se legittimato
dal modello assoluto di potere trinitario, dell’eterna Maiestas di Dio, una e trina proprio perché Volontà
che si fa Operazione e Ordine, Virtus, Potentia che si fa Regnum, Imperium.
Ne deriva, coerentemente, l’ambrosiana svalutazione della dimensione logico-filosofica (e
greca!) della ricerca teologica, potenzialmente sempre sediziosa ed eretica, proprio perché “inquisitoria”
del mistero e restia alla sottomissione suddita16. Sistematica e strategica è pertanto, nel De fide, l’opzione
per un’indagine scritturistica documentario-autoritativa, piuttosto che per un’indagine dialetticospeculativa del mistero di Dio e del testo sacro, che non si spiega soltanto rilevando la mediocrità di
Ambrogio in quanto teologo speculativo (basti, come si diceva, un raffronto con l’impressionante
sicurezza dell’intuito teologico di Ilario, con le spregiudicate analisi teogoniche di Mario Vittorino, con le
abissali speculazioni di Agostino). Il proclamato ricorso autoritativo – e non ermeneutico-speculativo –
alla Scrittura ubbidisce appunto ad un principio di affermazione di sudditanza della ragione nei confronti
della rivelazione biblica, dichiarata con dogmatica auctoritas compatta, chiara e vincolante,
coerentemente con il presupposto teologico-politico di fondo, che riassetta la dottrina trinitaria intorno al
concetto chiave di onnipotenza divina, che dev’essere umilmente confessata e adorata, non inquisita e
insubordinatamente giudicata. «Caritas Dei honorat, humana iniquitas derogat»17.
A livello cristologico, Ambrogio eredita la chiave decisiva della sua strategia antiariana dalla
normalizzazione neonicena – fissata da Atanasio, Didimo, i Cappadoci in ambito greco e da Ilario in
ambito latino, comunque già fissata da Origene18 – della riduzione ermeneutica delle differenze
scritturistiche (ad esempio fossili sinottici e paolini di cristologia bassa contra cristologia alta giovannea e
deuteropaolina) nella dialettica mediazione di Cristo Dio e uomo, sicché ogni traccia di debolezza di Gesù
viene attribuita alla carne/all’uomo, assunto da un Logos/Verbo che condivide con Dio l’assoluta
pienezza della divinità. Al contrario, la teologia ariana, incapace di attingere una dialettica speculativa che
media nell’onnipotenza divina la coesistenza in Cristo di piena divinità e piena umanità, è costretta ad
12
DeFide III,17,140. Si noti come i paragrafi conclusivi del primo blocco del DeFide si concentrino nell’affermazione
delle «eadem potestas… eadem potentia… unitas maiestatis» (17,141-142), ove del tutto assente è una riflessione ontologicospeculativa sulle relazioni del Principio e della sua Sapienza/Verbo.
13
DeFide III,16,133; il diritto di giudicare, il Padre al Figlio «dedit generando, non largiendo» (II,12,100).
14
Non condivido, pertanto, il giudizio riduttivo della portata storica delle iniziative teologico-politiche di Ambrogio
avanzato da P. BROWN, The Rise of Western Christendom. Triumph and Diversity. A.D. 200-1000, Oxford 1995, 2003(2), tr. it. La
formazione dell’Europa cristiana. Universalismo e diversità 200-1000 d.C., Roma-Bari 1995, 2006(2), 98-99; 314-315. Notevole
invece la ricostruzione della teologia politico-ecclesiastica di Ambrogio proposta da B. DUMÉZIL, Les racines chrétiennes de
l’Europe. Conversion et liberté dans les royaumes barbares Ve-VIIIe siècle, Paris 2005, 67-71 (ove, stranamente, non si fa cenno al
De obitu Theodosii).
15
DeFide II,7,52; «Convenit ergo et Patri et Filio Dei nomen, quando convenit et operationis effectus» (III,3,15); «Nihil
ergo Filius facit, nisi quod placeat Patri, quia una voluntas, una sententia est, una est vera caritas, unus operationis effectus»
(IV,6,66): «…diversae personae, sed unus in omnibus operationis effectus» (DeSpSanct I,7,81); «Nam quemadmodum potest esse
discretio potestatis, ubi unius in omnibus operationis effectus est?» (I,14,148); «Non ergo aliqui prior vel secundus est actus, sed
idem unius operationis effectus est» (II,12,136).
16
La kenotica sospensione, da parte del Figlio divino, di «praerogativa naturae… privilegio potestatis… ius naturae
suae» coincide con il suo umile disporsi a sottomettersi al giudizio limitato e sedizioso, se non riconoscente, della creatura:
«abdicetur suae iurae naturae…, subdatur nostro iudicio. Qui iudicaturus de nobis est, non dedignatur iudicari» (DeFide II,2,20);
come vedremo, la sacrilega insubordinazione teologico-politica ariana pretende di esercitare questo giudizio sulla stessa divinità di
Cristo.
17
DeFide III,16,136.
18
Cf. G. LETTIERI, Reductio ad unum. Dialettica cristologica e retractatio dello gnosticismo valentiniano nel Commento a
Matteo di Origene, in T. Piscitelli (ed.), Il Commento a Matteo di Origene. Atti del X Convegno di Studi del Gruppo Italiano di
Ricerca su Origene e la Tradizione Alessandrina, Brescia 2011, 237-287.
3
abbassare l’identità “alta” di Cristo, negandone la divinità, con lo scopo di rendere conciliabile la natura
del Figlio creatore e redentore con l’assunzione ontologicamente degradante di una piena umanità. La
concezione ortodossa, in particolare (neo)nicena, riesce pertanto ad essere logicamente più convincente,
appunto speculativamente “razionale”, proprio perché mantiene le due serie di affermazioni scritturistiche
(assoluta divinità e reale umanità) nella loro radicale differenza, senza che l’una determini la svalutazione
dell’altra, ma mediandole all’interno di un dinamismo dell’onnipotenza. Nella potentissima identità
dialettica di Cristo, divino e umano, non confusi, ma nettamente distinti, si scambiano di proprietà, senza
che questo significhi diminuzione della perfezione assoluta del Figlio. «Pia mens, quae leguntur,
secundum carnem divinitatemque distinguit, sacrilega confundit et ad divinitatis detorquet iniuriam
quidquid secundum humilitatem cernis est dictum» (V,8,115). Si tratterà insomma di valutare, attraverso
uno studio analitico, umilmente aderente al testo e al suo quasi ossessivo celebrare la liturgia ripetitiva
dell’identico, se la nozione ambrosiana di Dio come assoluta Potestas imperiale favorisca l’originale
interpretazione della mediazione cristologica come conversione efficace dell’onnipotenza in «subiectio»
di grazia (piuttosto che come origeniana relazione mistica di logico amore fusionale) e della relazione
giustificante della creatura a Dio come confessione dell’impotenza della carne visitata dalla potenza dello
Spirito.
1- La Trinità imperiale: il De fide
Sebbene il De fide esordisca con cerimoniali, deferenti accenti di umile sottomissione del
vescovo nei confronti dell’imperatore direttamente ispirato da Dio – il fondamento della verità rivelata è
di tipo imperativo-decisionale, autoritativo-carismatico, piuttosto che logico-argomentativo –19, in realtà
non può rinunciare a formare il giovane imperatore Graziano come campione dell’ortodossia nicena,
chiamato ad adeguare il suo secolare potere assoluto all’eterna onnipotenza divina. Sin dal Prologus del I
libro, l’esaltazione del «sanctus imperator Gratianus»20 culmina nell’affermazione della dipendenza della
grandezza umana e dell’imperiale successo in guerra dal carisma di Dio, dalla grazia elettiva dello Spirito,
dalla mediazione del sacerdote/Abramo. La logica è quella di una netta divaricazione tra umano e divino,
che solo nella mediazione potente di Cristo e della chiesa può essere mediata. La programmatica
affermazione di Ambrogio – che preferisce «cohartandi ad fidem subire officium quam de fide
disceptandi», opponendo «religiosa confessio» ad «incauta praesumptio» – giustifica la sua strategia
antieretica. «De fide pauca disceptare», piuttosto che «de testimoniis plura contexere» (I,Prol,4),
significa prospettare la decisiva superiorità dell’autorità potente rispetto ad ogni genere di sediziosa
controversia. La fede ortodossa si fonda sull’umile accettazione del potere della rivelazione, non
sull’empia, superba libido disceptandi, la «dialectica disputatio»21, che intende subordinare la natura di
Dio all’indagine razionale dell’uomo. Pretesa di restituire la nuda evidenza scritturistica ed esaltazione
della potenza di Dio dipendono, pertanto, da una decisione di umile sottomissione, evocata dall’encomio
del potere imperiale divinamente convertito all’ortodossia. Così, i termini di officium e negotium paiono
suggerire proprio il compito di altissimo funzionario di Dio, che ad un solo capo deve fare riferimento22.
Si propone pertanto un sistematico parallelismo tra la potenza politica terrena e la sovraordinata, assoluta
potenza teologica, sicché i vescovi che sconfiggono l’eresia sono pensati nella prospettiva della potenza
imperialistica e romana: «fidei virtute victores… toto orbe subactis perfidis», essi possono esibire il
«tropeum» del trionfo divino23; in implicita analogia con l’officium divino dell’imperatore davvero
ortodosso.
19
«Sancte imperator Gratiane… fidem meam audire voluisti…, non ut disceres, sed probares… Sanctificatio non
traditur, sed infunditur. Et ideo divina dona custodi! Quod enim nemo te docuit, utique Deus auctor infundit» (DeFide I,Prol.,1-2).
20
L’espressione torna in DeFide I,18,121; II,15,132; II,16,139.
21
DeFide I,5,42; cf. in I,8,78 l’accusa agli ariani di dipendere dalla vana, autocontraddittoria dialettica dei filosofi: «Vide
quemadmodum scaeva impietas ut dialectica philosophorum se ipsa convincat».
22
Sulla dottrina della giustificazione strutturata come gestione di un officium teologico-politico, imperiale, cf. DeSpSanct
I,8,90, ove Paolo stesso – ministro subordinato ad un potere assoluto – non può «sibi adrogare» l’elargizione del dono dello Spirito,
ma può solo invocarla dall’Onnipotente: «Itaque apostolus votum precatione detulit, non ius auctoritate aliqua vindicavit, impetrare
optavit, non imperare praesumpsit». Sul tema dell’officium, cf. ovviamente l’intero De officiis; e le importanti riflessioni dedicate ad
Ambrogio da G. AGAMBEN, Opus Dei. Archeologia dell’ufficio. Homo sacer II,5, Torino 2012, 62-63 (sul carattere performativo,
efficace, ambrosianamente «operatorium» del Verbum Dei, quindi dei sacramenti e delle parole liturgiche) e 92-97 (sulla retractatio
degli officia politici romani descritti da Cicerone in quelli sacerdotali cristiani, biblicamente esemplati); in particolare, Agamben
mette in rilievo l’interpretazione ambrosiana dell’«officium» forzato a dipendere dal verbo «efficere»: «Officium ab efficiendo
dictum putamus, quasi efficium» (DeOff I,8,26). Pertanto, l’officium diviene l’umile strumento, il mezzo “funzionario” attraverso il
quale Dio compie efficacemente la sua operazione salvifica.
23
DeFide I,Prol,5. Così, contro i novaziani, scrive Ambrogio: «Ius hoc [dello sciogliere e del legare] solis permissum
sacerdotibus est… Munus enim Spiritus Sancti est officium sacerdotis, ius autem Sancti Spiritus in solvendis ligandisque criminibus
est» (AMBROGIO, De paenitentia I,7-8).
4
Non a caso, nell’Expositio fidei che apre il trattato, colpisce l’insistenza, anche etimologica,
tra la nozione di Deus e quella di dominari, dominatio, sicché «Deus est nomen magnificentiae, nomen est
potestatis» (I,1,7); pertanto, è il «timor» reverenziale al cospetto del potere che questa dominatio
ontologica impone: «Dominus ergo et Deus vel quod dominetur omnibus vel quod spectet omnia et
timeatur a cunctis»; ne deriva che se c’è «unus Deus, unum nomen, potestas una est trinitatis» (I,6,8; cf.
V,1,16-18): è l’unità integra del potere ciò che identifica non soltanto Dio in quanto assoluto, ma la stessa
Trinità come potenza: «plenitudo divinitatis et unitas potestatis»24. Al contrario, Ario e gli ariani vengono
accusati di dividere – come i pagani, in senso davvero demoniaco: cf. Mc 3,24-26 – l’unità indissolubile
del potere divino: essi credono in «plures et dissimiles potestates» (I,1,6); contro di lui, Ambrogio
afferma, appunto riprendendo Mc 3,24-26, che «non divisum est regnum trinitatis; si ergo divisum non
est, unum est» (I,1,11). L’insistenza sull’empietà della logica divisiva ariana ha un’evidente tratto
teologico-politico: «Tale ergo regnum esse cupiunt Trinitatis, quod divisione sui facile destruatur»
(I,1,11). Con la disgregazione del concetto di Trinità divina si mina la nozione stessa di potestas, quindi
di potere e ordine politico; affermazione che ad un imperatore doveva suonare immediatamente
inaccettabile e sediziosa. Contro di essa, Ambrogio ribadisce la «repulsa differentiae»25, a partire dalla
partecipazione assoluta di Padre, Figlio, Spirito Santo (cf. I,4,31) all’unità indivisibile del potere: «in
dominatione divinitas et in divinitate dominatus est» (I,3,26). Il potere assoluto è naturalmente intatto;
non tollera nessuna differenza: «Una natura, et maxime Dei, diversitatem non recipit» (I,16,102). L’«una
dominatio» (I,3,26), seppure si dispiega in «opera» diversi, postula l’«operationis unitas»26.
Significativamente, nel De Spiritu Sancto, la trinitaria «unitas potestatis» (4) è identificata non soltanto
con la «divinae operationis unitas», ma con la stessa «supernae constitutionis auctoritas» (II,13,147), ove
si precisa in senso pienamente teologico-politico: «Operatio divina habet imperium, non habet
ministerium» (148), escludendo pertanto, nella «regalis potestas» (149) della Trinità qualsiasi
subordinazione dell’agente operante (Figlio o Spirito) rispetto alla fonte dell’autorità assoluta: «In
praecepto enim Dei operationis effectus est» (148). Se Dio è potestas, la potenza, la dynamis del Figlio da
atto operativo subordinato diviene condivisione dell’intima natura stessa dell’Assoluto27. La Trinità,
insomma,
è
caratterizzata
da
«unitas
imperii,
unitas
constitutionis»
(153),
ove
fondamento/«constitutio»/«auctoritas» ed esercizio/«potestas» della divinità sono dichiarati inseparabili e
identici nell’«unitas maiestatis», ontologica identificazione imperiale del volere e del potere assoluti,
sottratti alla contingenza di una volontà che impartisce ordini ad un inferiore, dividendosi da esso: «… ut
idem velle et idem posse non ex adfectione sit voluntatis, sed in substantia Trinitatis» (154).
La «differentia», violentemente espulsa dalla nozione di natura e potestas divine, diviene al
contrario il perno della tradizionale confessione cristologica di Ambrogio: la rivelazione di Cristo si
concentra, infatti, nella «differentia divinitatis et carnis» (I,4,32), in quanto la «naturalis maiestas»
(I,4,32) si nasconde nell’umile, mortale fragilità della carne. La «laudatio potestatis» (I,4,33) si garantisce
attraverso il confinamento della sottomissione alla componente umana, carnale di Cristo, immunizzando –
in senso antiariano – l’indivisibile, incondizionata assolutezza del potere sovrano di Dio. Ma dire potere,
significa dire natura, integra perfezione dell’essere, assenza di distruttiva differenza: «Quid est enim
virtus nisi perfecta natura?» (I,5,39). Ontoteologicamente, soltanto l’indivisibilità del potere rivela la
natura, così come soltanto la natura assoluta può fondare qualsiasi potere. Torna pertanto la condanna
dell’ariano come empio sedizioso; servendosi della filosofica «dialectica disputatio», egli è capace
soltanto di «studium destruendi», e non di «adstruendi vis»: demolisce e non costruisce, o meglio non è in
grado di riconoscere religiosamente il «regnum Dei», significativamente onorato da un’ubbidiente
24
DeFide I,1,10. Sull’«unitas divinae potestatis» (DeSpSanct I,14,148; III,5,31; 11,82; 13,93; 16,114), cf. anche
DeSpSanct II,4: «Unitas honoris, unitas potestatis»; II,1,17-2,24, in part. 24: «Una virtus, eadem potestas… unum regnum»;
II,9,100: «nulla divinae distantia potestatis»; III,13,93: «pluralitatem non unitas facit, sed divisio potestatis»; III,8,53: «unius
excellentia potestatis est»; III,15,104-105: Dio è «inmutabilis semper, semper unitate permanens potestatis, semper idem... unitas
dominationis».
25
DeFide I,3,27; «Nulla differentia caritatis, nullum discrimen est unitatis» (II,12,105).
26
DeFide I,3,25. Sulla modalità teologico-politica di pensare le relazioni trinitarie come identità di impero e maestà,
escludendo qualsiasi ariana, subordinazionistica sudditanza, indegna del potere assoluto di Dio, cf. DeSpSanct II,2, in riferimento a :
«Sed ne rursus qut arrogans putes dicentis imperium aut vile facientis obsequium, aequalem sibi Pater Filium confitetur operis
unitate dicens “Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram”. Et imago enim et operatio et similitudo communis quid
aliud nisi maiestatis eiusdem significat unitatem?».
27
«Quomodo enim non est una virtus adque eadem potestas, cum unum opus, unum iudicium, unum templum, una
vivificatio, una sanctificatio, unum etiam regnum sit Patris et Fili et Spiritus sancti?» (DeSpSanct II,2,24). Cf. DeFide I,10,62:
«Accipe aliud, quo clareat Filium sempiternum. Apostolus dicit quod Dei sempiterna virtus sit adque divinitas. Virtus autem Dei
Christus; scriptum est enim Christum esse Dei virtutem et Dei sapientiam. Ergo si Christus Dei virtus, quia virtus Dei sempiterna,
sempiternus igitur et Christus». L’identificazione di Dio con la potenza assoluta comporta l’attribuzione dell’eternità, quindi
dell’identità ontologica con Dio, al Figlio.
5
subordinazione, rivelata dalla «simplicitas fidei», fondata sulla (postulata nicena!) evidenza scritturistica,
eversivamente negata dall’eretica «contentio sermonis» (I,5,41). Per questo, corrotti dalla dialettica
filosofica, pure ormai messa ovunque a tacere (almeno nell’auspicio efficace di Ambrogio) dall’imporsi
della fede (cf. I,13,84), gli ariani affermano «Trinitatem differentis divinitatis et dissimilis potestatis»
(I,13,85). La logica eretica è una logica dell’alterazione, della divisione, della differenza, della
dispersione dell’unità del potere, quindi dell’eversiva decostruzione del proprio, quel «proprium», quella
«proprietas» che, in I,17,110, definisce l’indivisibile «naturalis maiestas» di Dio, nell’«unitas»
ontologica nella quale il Figlio non è «differens potestate» (I,17,112), «perché la potenza di Dio è nella
proprietà della divinità (virtus Dei in divinitatis proprietate)». L’eresia, pure nelle differenti modalità
nella quale si esprime disgregando il mistero trinitario, è «una perfidia, impietate non dissonans,
communione discordans, non dissimilis fraude, sed coitione discreta» (I,6,44). In un rapido passaggio di
I,16,104, l’ariano (che finge di onorare Cristo, mentre in realtà lo nega, dividendo la natura di Dio) viene
significativamente paragonato al nemico interno, a chi introduce una guerra civile, una malattia intestina,
da identificare e cacciare dalla casa come un ladro, dalla res publica come avversario intestino:
«Detastabilior enim domesticus hostis quam extraneus». Non a caso, Ario e i suoi dissennati seguaci sono
paragonati ad una cancrena da amputare, attivando il sistema immunitario del potere ortodosso: «Recide
quod putruit, ne serpat contagio; venenum habet, mortem adfert»28.
Dividendo ontologicamente Padre e Figlio, affermando un Figlio «posterior et recens»
rispetto al Padre, quindi «alienus» (I,11,68), gli ariani «ipsi se scindunt» (I,6,45) in una pluralità di sette
(Eunomio, Aezio, Palladio, Demofilo, Aussenzio). La stessa morte ormai tradizionalmente leggendaria di
Ario, esemplata su quella altrettanto leggendaria di Giuda, dichiara il suo immondo «crepare», il suo
spaccarsi, squarciarsi, divenendo escremento, ove la bocca eretica che ha osato dividere arrogantemente
la Trinità divina è degradata al contatto con il resto infimo e disperso dell’essere29. Scegliere l’ortodossia,
al contrario, significa sottomettersi senza disputare, accogliere la subordinazione all’immutabile potere
assoluto, confinare la logica della differenza nel mistero dell’incarnazione, che insegna nell’onnipotenza
rivelata dalla kenosis il dovere dell’umile «subiectio» della carne alla gloria, della mortalità alla natura
una e indivisibile. Significativamente, se Dio è onnipotente, non manca di nulla, quindi non può patire
alcun divenire sostanziale, non può avere né initium né profectus: «Namque omnipotens Deus est et ideo
nullo eorum Pater indiget, qui non habet mutationem sui aliquam vel profectum quo nos egemus»
(I,12,75). La stessa generazione del Figlio, contratta nell’identità onnipotente della natura, non innova
Dio, non opera in lui «mutatio» (cf. I,9,58-60). La «potestas inusitata» (I,12,76) comunque si compie
nella «admirabilis generatio ex virgine» (I,12,77), sicché la paradossale coincidenza, mediata
dall’onnipotenza divina, tra immutabile assolutezza e kenotica innovazione dell’incarnazione comanda
l’attonita ubbidienza della creatura, in quanto la fides è atto (eminentemente romano!) di sottomissione
teologico-politica: «Credere tibi iussum est, non discutere permissum» (I,12,78). Non a caso, sottolinea
Ambrogio, i padri niceni hanno condannato, negli anatematismi, i «sacrilega docmata» (I,18,118) di Ario
«censorie», con una condanna d’autorità che non ammette discussione argomentata («expositio») né
appello, per evitare qualsiasi perversa «curiositas» nei confronti delle loro dottrina: «… ut credat»
(I,18,118; cf. II,15,132). Soltanto la fede, la sottomissione umile al cospetto della onnipotenza del
Dominus può garantire la retta teologia, che è confessione della sottomissione alla potenza e alla sua
grazia misericordiosa. Non a caso il I libro si conclude con una confessione di «immunditia», al cospetto
della misericordia purificatrice di Dio, la stessa che è invocata perché venga a «santificare» le orecchie
dell’imperatore Graziano, purificato da ogni alienante eresia (cf. I,20,124) e sobriamente invaso
dall’ebrezza ortodossa del pacificante amore di Dio (perché possa «vino tuo crapulatus pacem diligere»:
I,20,136).
Sulla riaffermazione dell’«una maiestas» trinitaria, della sua perfetta «concordia» si apre il II
libro del De fide30, che ribadisce: «omnipotens est Dei Filius» (II,4,34), sottolineando come
l’affermazione scritturistica dell’onnipotenza di Dio, non essendo specificata come propria del Padre
soltanto, è da estendere allo stesso Figlio (cf. II,5,39, a partire da 1Tim 6,15); ermeneutica del tutto
28
DeFide III,16,132; cf. V,Prol, 4-5. Come prova della perfetta corrispondenza tra morbo teologico e morbo civile, di
grande interesse DeSpSanct I,Prol,17, ove il pericolo ariano, responsabile (in particolare con il disastro ad Adrianopoli
dell’imperatore ariano valente) di guerre che spingono l’impero orientale quasi al crollo, viene neutralizzato da Teodosio con la
deposizione del vescovo eretico di Costantinopoli Demofilo, sostituito da Gregorio Nazianzeno, e con la vittoria in battaglia sul re
dei Goti, Atanarico («iudex regum»), che si sottomette all’imperatore cattolico: «Etenim quamdiu venena Arrianorum suis fovebat
inclusa visceribus, bellis finitimis inquieta'muros armis circumsonabat hostilibus. Postea vero quam fidei exules abdicavit, hostem
ipsum, iudicem regum, quem semper tremere consueverat, deditum vidit, supplicem recepit, morientem obruit, sepultum possedit».
29
«Effusa sunt enim et Arri viscera - pudet dicere, ubi - adque ita “ccrepuit medius prostratus in faciem”, ea, quibus
Christum negaverat, foede ora pollutus. Crepuit, enim, sicut etiam de Iuda Petrus apostolus dixit» (DeFide I,19,124).
30
Cf. DeFide II,Prol,2.
6
forzata, seppure funzionale alla metabolizzazione della cristologia bassa (sinottico-paolina) a quella alta
(deuteropaolina e giovannea). Sicché, «non ergo Pater solus potens, sed potens etiam Dei Filius»
(II,5,39). Comunque, addentrandosi all’interno del mistero cristologico, si ribadisce la dialettica, attiva
nel Figlio, tra «praerogativa naturae suae…, privilegium potestatis…, ius naturae» (II,2,20) da una parte
e kenotica logica della grazia dall’altra. La logica dell’incarnazione è, infatti, una logica di grazia, di
accondiscendenza da parte dell’onnipotenza, non divisa dalla natura, ma soltanto dalla sospensione – non
certo dall’annullamento – del suo potere: «Ostendit etiam Filius distantiam generationis et gratiae»
(I,14,90), sicché nel nascere da Maria Dio si piega a divenire uomo sottomesso a Dio: questi «qui Pater
semper erat, ex illo Deum sibi esse, ex quo de matris ventre iactatus est» (I,14,91). Questo consente –
sulla scia di Origene, Atanasio, Ilario, eredi della tradizione “protocattolica” di Ignazio o Ireneo – di
riferire una serie di passi di cristologia bassa (ad es. Atti 2,36 in I,15,95) all’uomo Gesù, rendendoli
compatibili con i passi neotestamentari di cristologia alta. Al contrario, l’ariano, che nega la cristologia
alta, è dotato di «mente feralis», di intelligenza omicida: crocifigge Gesù; anzi, pretende follemente di
uccidere il potere assoluto di Dio, la sua «maiestas», piuttosto che la carne nella quale questa si è
nascosta31; non riconoscendo la dimensione gratuita della minorità, l’ingrato eretico finisce per
contaminare alto e basso, Dio e carne, trasformando il mistero del dono in alterazione sediziosa della
natura eterna. In Cristo, invece, onnipotenza e mortalità convivono, ove quella è capace di assumere
questa, senza esserne minimamente svuotata, dominando quindi la logica della kenosis, dell’«infirmitas»,
della «subiectio»: «Non turbatur ut Virtus, non turbatur eius divinitas, sed turbatur anima, turbatur
secundum humanae fragilitatis adsumptionem… Caro passa, divinitas autem mortis libera [est]» (II,7,5657); in tal senso, Cristo «non quasi in maiestate sua crucifixum putemus» (II,7,58); come Ambrogio
affermerà nel III libro, «alia carnis infirmitas, alia divinitatis aeternitas; mors carnis est, inmortalitas
potestatis» (III,3,21), sicché quella di Cristo non è «vilis, sed gloriosa subiectio» (V,13,168).
La logica della potenza, della maestà, dell’impero non è compatibile con la minorità, riservata
all’umanità assunta, quindi introdotta in Dio, ma per esservi immunitariamente neutralizzata: «Nam
quomodo potest minor esse Deus, cum Deus perfectus et plenus sit? Sed minor in natura hominis!... Non
minor natus, sed minoratus… per susceptionem corporis minoratus» (II,8,61-63). Contro gli ariani, la
minorità del Figlio non è statica, ontologica, ma dinamica, appunto kenotica, pertanto contingente,
storica, transeunte. Dio in sé non può che essere l’Assoluto Signore dell’Essere, quell’«una potestas» che,
rivelandosi come univocamente operante, esclude qualsiasi «diversitas» in sé: «Nam quemadmodum
eadem operatio diversae est potestatis?» (II,8,70). Interessantissima, in proposito, la forzata
interpretazione di 1Cor 2,4: «Regnum Dei, sicut scriptum est, “non in persuasione verbi est, sed in
ostensione virtutis”. Servemus distinctionis divinitatis et carnis» (II,9,77); la potenza rivelativa paolina, la
dynamis carismatico-escatologica, diviene in Ambrogio ontologica, assoluta, quindi identificata con il
regno, l’impero della Trinità. L’evento del dono si è trasformato in logica della potenza assoluta
dell’essere, in regno della natura di Dio che, nell’esercizio della sua eterna potestas, costituisce qualsiasi
grado economico di autorità, potere, verità. La logica della carne è davvero tolta nell’onnipotenza: assunta
come intima rivelazione del regno, essa finisce per essere risolta in manifestazione paradossale della
virtus ontologica del Figlio trinitario. Significativamente, l’«una potestas», l’«una voluntas» si risolve
governativamente in «una praeceptio» (II,10,86), nel «mores docere» (II,10,88). In questo senso, la
logica kenotica di una potestas assoluta che si sospende induce a voler «moraliter» (II,11,89) convertire il
nemico teologico, l’eretico, senza volerlo annientare: «Non vincere volumus, sed sanare, non insidiose
agimus, sed religiose monemus. Saepe flectit humanitas, quos nec virtus potuerit superare nec ratio»
(II,11,89). L’humana benevolenza, che comunque chiama romanamente ad un’umile sottomissione, è
l’unico atto che pare graziosamente sospendere la manifestazione assoluta della virtus, della potestas, che
comunque, in realtà, non tarderà a fare sentire la sua assoluta sovraordinazione. Non a caso, il mistero
cristologico non nega la potestas assoluta di Dio, ma si limita a nasconderla32. Nascosta, la potenza
assoluta non può che mettere alla prova, per poi giudicare. L’ariana mancata confessione
dell’omnipotentia Christi, soltanto nascosta e non soppressa nella croce, si traduce, pertanto, in
un’inappellabile condanna per perversa insubordinazione: all’ariano che dice «Omnipotentem [Christum]
non arbitror», Cristo risponde: «Non possum ergo tibi tua peccata donare» (II,13,108). Per gli ariani che
pretendono «divinae generationis examen sibi adrogare, vindicare potestatem» (IV,8,92),
impadronendosi con la loro superba indagine del giudizio sulla potenza assoluta, che contraddicono,
questa non può più esercitare il suo potere di mediazione salvifica. Il perdono dei peccati è infatti
31
32
Cf. l’importante esegesi antiariana di Mt 27,54 in DeFide I,17,114.
«In cruce pendebat et elementa ei omnia serviebant» (DeFide II,11,96).
7
possibile soltanto all’interno di una riconosciuta logica dell’onnipotenza, della misericordia del potere
assoluto nei confronti di ragione e volontà suddite della creatura.
Non ci si deve pertanto stupire se la raccomandazione di «bona caritas et mansuetudo»
(II,15,133) nell’umile sottomissione all’assoluta potestas della Trinità, adorata da una fides puramente
recettiva, sottratta all’empietà della dialettica ragione eretica (cf. II,15,132-134), culmini in una
martellante, impressionante invocazione alla guerra santa, alla guerra nicena, alla guerra in nome della
potestas trinitaria intrapresa dall’imperatore Graziano33. Romanità e ortodossia nicena sono saldate con
un atto di straordinaria audacia teologico-politica, che conferma senza residua ombra di dubbio la natura
assolutamente imperiale della teologia trinitaria di Ambrogio. I barbari, i Goti contro i quali la civiltà
romano-cristiano-nicena scende in battaglia, sono identificati con gli eretici ariani, che devono rassegnarsi
– dimenticata ogni «caritas et benevolentia» – ad essere annientati dalle stesse armi di Dio.
«Ma io non devo, o imperatore, trattenerti più a lungo, poiché tu sei intento alla guerra e stai
meditando come riportare vittoriosi trofei tra i barbari. Avanza apertamente, protetto dallo scudo
della fede, impugnando la spada dello Spirito, avanza verso la vittoria già promessa nei tempi
passati e profetizzata dagli oracoli di Dio. Infatti Ezechiele già in quei tempi profetizzò che
avremmo avuto una devastazione e ci sarebbero state guerre contro i Goti (cf. Ezech 39,10-12)…
Codesto Gog è il Goto»34.
L’apocalittico Gog – che da Ezechiele passa nella battaglia escatologica di ApGv 20,8 – è
identificato con il Goto, con il barbaro da sterminare in quanto ariano, portatore di «tantae impietatis
nefas» (II,16,141); la polemica politica contro la strategia della federazione dei barbari si salda con la
polemica antiariana, sicché soltanto l’assoluta «potestas» di Dio può garantire l’integrità della respublica
e la civiltà della fede, operando tramite l’imperiale, romano potere di Graziano convertitosi all’ortodossia.
Anzi, i rovesci precedenti contro i barbari – riferimento alla disfatta di Valente ad Adrianopoli il 9 agosto
del 378? –, la violazione sacrilega dell’impero, il suo sfaldarsi sono collegati direttamente ai cedimenti
imperiali all’eresia: «… ut ibi primum fides Romano imperio frangeretur, ubi fracta est Deo» (II,16,139);
la fides antiariana è l’unica garanzia della fides – sì, della fides! – nel potere assoluto romano, garantito
dalla «potestas» assoluta di Dio soltanto se ortodosso, in quanto coloro che hanno voluto «violare fidem,
tutos esse non posse» (II,16,141). Pertanto, per giudizio di Dio gli orrendi «barbarici motus» (II,16,140)
disgregavano il potere mondano romano, sottoponendolo ad una sinistra, distruttiva, proprio perché
arianamente divisiva, «feralis custodia» (II,16,140). Il II libro – uno dei vertici della teologia imperiale
postcostantiniana – si conclude pertanto con un’invocazione al Dio degli eserciti, all’assoluta «potestas»
teologico-politica, perché affermi il suo governo assoluto sulla chiesa e sul mondo; direttamente «nomen
et cultus» di Cristo dovranno guidare gli eserciti di Graziano, dotato non più di «mens lubrica, sed fides
fixa» (II,16,142). Soltanto l’Imperatore assoluto può assicurare il trionfo della sua immagine terrena
(Graziano), ove la potestas di Cristo, Sapienza crocifissa, riacquisisce la (non più gesuana) dimensione
violenta e guerriera del Messia regale mosso dal Dio Signore degli eserciti:
«Mostra ora chiaramente un segno della tua maestà, affinché colui che crede che tu sei “vero
Signore delle potenze” (Salmo 45,8e12) e “condottiero della milizia celeste” (Giosea 5,14), che
tu sei la vera “potenza e sapienza di Dio” (1Cor 1,24), non certo temporale, né creata, ma eterna,
come sta scritto “potenza di Dio e divinità” (Rom 1,20), confidando nell’aiuto della tua maestà
(tuae maiestatis auxilio) meriti i trofei della sua fede»35.
33
Cf. DeFide II,16,136-143.
«Neque vero te, imperator, pluribus tenere debeo bello intentum et victricia de barbaris tropaea meditantem.
Progredere plane “scuto fidei” saeptus et gladium Spiritus habens, progredere ad victoriam superioribus promissam temporibus et
divinis oraculis profetatam. Namque et futuram nostri depopulationem et bella Gothorum Ezechiel illo iam tempore profetavit...
Gog iste Gothus est» (DeFide II,16,136 e 138). Cf. M. PAVAN, Sant’Ambrogio e il problema dei barbari, in «Romanobarbarica» 3,
1978, 167-187; G. VISONÀ, “Gog iste Gothus est… Seguendo Girolamo, Agostino è al contrario nettissimo nel rifiuto
dell’applicazione razziale alla categoria apocalittica, spirituale di Gog e Magog: «Gentes quippe istae, quas appellat Gog et Magog,
non sic sunt accipiendae, tamquam sint aliqui in aliqua parte terrarum barbari constituti, siue quos quidam suspicantur Getas et
Massagetas propter litteras horum nominum primas, siue aliquos alios alienigenas et a romano iure seiunctos. Toto namque orbe
terrarum significati sunt isti esse, cum dictum est nationes quae sunt in quattuor angulis terrae, eas que subiecit esse Gog et
Magog» (AGOSTINO, De civitate Dei XX,11).
35
«Ostende nunc euidens tuae maiestatis indicium, ut is, qui te uerum "uirtutum dominum" et "caelestis militiae ducem",
is, qui te ueram dei uirtutem credit esse adque sapientiam, non temporalem utique nec creatam, sed "sempiternam", sicut scriptum
est, "Dei uirtutem et diuinitatem", tuae maiestatis fultus auxilio fidei suae tropaea mereatur» (DeFide II,16,143).
34
8
Fede ortodossa e potere assoluto sono tutt’uno: appunto, «una potestas», nel nome di CristoDio! Non a caso il III libro – che inaugura la II parte dell’opera – si apre con la dedica a Graziano, nella
quale si ricorda dell’incarico attribuito ad Ambrogio, chiamato a divenire teologo «in assetto di guerra
(quasi in procinctu)» (III,1,1); il riferimento slitta nuovamente dalla guerra antibarbarica alla guerra
antieretica, ove torna l’identificazione dell’arianesimo (cf. I,6,46-47) identificato con le mitiche Idra e
Scilla36, accostate alle malefiche sirene capaci di far naufragare la barca dell’impero niceno, come il
singolo cristiano tra «speciosae deliciae voluptatis… lascivia saecularis», contro le quali l’umile Figlio
incarnato richiama gli uomini alla sottomissione ubbidiente a Dio, senza perdere la sua perfetta
partecipazione alla Trinità .
Che la dialettica tra potere imperiale e obbedienza alla sua grazia misericordiosa sia l’asse sul
quale ruota l’intero De fide mi pare provato da un rivelativo excursus in III,4,27-34, dedicato a
sottolineare, ancora una volta, il nascondimento della potenza assoluta nella carne mortale. Il passo è uno
straordinario tentativo di coordinare due serie di affermazioni neotestamentarie del tutto contrastanti, le
prime nell’affermare l’«imperare» e il «donare», le altre nell’affermare il «rogare» e il «mereri»
(III,4,29); contro gli ariani, che affermano che sempre il Figlio «rogat», in quanto non può «imperare»
come autentico Dio, è necessario riconoscere la misteriosa «distantia» tra il «rogare quasi filius hominis»
e l’«imperare quasi filius Dei»37, diversamente attestati dalla Scrittura. Bisogna insomma attingere la
dialettica di distinti – «aliud incarnationis… aliud potestatis» (III,4,33) –, che l’onnipotenza inalienabile
di Dio opera nella sua kenosi rivelativa. Soltanto la «Dei virtus», la «Dei potestas» è, pertanto, la «via
superna» (III,7,51) della fede ortodossa; soltanto la comune, imperiale «maiestas virtutis» di Padre e
Figlio è quell’assoluto «principium» in grado di giustificare qualsiasi potere, anche quello terreno: «Ex
illo enim accepit virtus unaquaeque principium» (III,7,52). Questo principio gli ariani contraddicono,
dividendo «regnum et imperium» della Trinità, dividendo «potestate» (III,12,94) Padre e Figlio. Al
contrario :
«Mi chiedo come possano volere che sia diviso il regno del Padre da quello del Figlio, dal
momento che il Signore ha detto: “Ogni regno diviso in se stesso facilmente sarà distrutto” (Mt
12.25). E per questo motivo, onde eliminare il sacrilegio della stoltezza ariana, anche il santo
Pietro asserì l’unità dell’impero del Padre e del Figlio… Dicano allora che il regno è uno solo.
Un unico regno, un unico impero del Padre e del Figlio… un’unica divinità… la pienezza della
divinità»38.
Ossessivamente si ribadisce come la Trinità sia un’unità imperiale («unum imperium»),
l’integrità assoluta, la pienezza indivisibile del potere; l’eresia ariana è insubordinata «calumnia»39,
«sacrilegium»40 di lesa maestà divina ed empia sedizione, usurpazione politica nei confronti
dell’ortodosso imperatore secolare41! «Quod igitur tibi usurpas, Filio Dei derogas» (I,7,53). «Facinus
indignum, ut… [gli ariani] divinae generationis examen sibi adrogent, vindicent potestatem»42.
L’arrogante pretesa ariana di rivendicare il potere sullo stesso mistero divino denuncia una follia
36
Cf. DeFide III,1,3-4 e I,6,46-47.
DeFide III,4,32; cf. IV,5,53-56 e 6,71
38
«Quaero autem, quomodo regnum velint Patris et Fili esse divisum, cum Dominus dixerit, ut supra ostendimus: “omne
regnum inter se diuisum facile destruetur” Et ideo ad excludendum Arrianae sacrilegium scaevitatis, unum imperium Patris et Fili
etiam Petrus sanctus adseruit dicens…[segue la citazione di 2Pt 1,10-11, ove è affermato l’«aeternum imperium Dei et Domini
nostri conservatoris Iesu Christi»]» (DeFide III,12,92-93). «Dicant igitur unum esse regnum… Unum regnum, unum imperium esse
Patris et Filii… una divinitas… plenitudo divinitatis» (III,12,95; 101-102; cf. 99).
39
Cf. DeFide I,10,63; 11,73; 15,96; 20,134; II,8,59; 8,66; 12,106 («Illi [gli angeli] laudant, et tu vituperas? Dominationes
et potestates venerantur et tu calumniaris?»); III,2,11; 6,44; IV,9,111; 10,124; 12,158; V,6,85; 8,115; 14,171; 18,223 e 227. Sulla
semantica giudiziaria della calumnia, cf. B. MORONI, Lessico teologico per un destinatario imperiale…, 352-353.
40
Cf. DeFide I,5,34; 14,86; 17,115; 18,119; 19,124; 20,136; II,16,140 (nelle regioni invase dai Goti ariani, risuonano
grida sacrileghe, ove evidente è la duplice empietà ariana, che minaccia la signoria di Dio e quella dell’impero romano); III,4,32
(l’eresia ariana è sacrilega perché nega al Figlio la «potestas» dell’«imperare», che pure il diavolo gli riconosce); 5,38-39; 12,93-94
(contro il «sacrilegium» ariano Pietro e la Scrittura proclamano l’«unum imperium Patris et Filii»); IV,3,28; V,1,24; 5,67; 9,116;
12,149 («Facessant igitur sacrilegae conmenta discretionis, ubi unitas potestatis est»); 14,180 («Angeli adorant, et tu tibi
praesumptione sacrilega “solium Dei sternis”?»); 16, 191-193 (gli ariani «dispositionem sibi arrogent caelestis arcani»: 191);
19,231.
41
Afferma B. MORONI, Lessico teologico per un destinatario imperiale…, 354, appoggiandosi a DeFide I,19,123-124: «Il
delitto di Ario è quello di sacrilegium, che nelle costituzioni imperiali, indica, com’è noto, il crimen maiestatis».
42
DeFide IV,8,92. «Quis igitur hic arbiter divinitatis?» (IV,8,89). Cf., in V,18,215-227, l’accusa agli ariani di volere
«iudicare de Dei Filio»; «Quaero, qui mensus sit, quis tam exaltati cordis, qui velut ante tribunal suum Patrem Deum Filiumque
constituat, ut de praelatione diiudicet» (226); cf. V,19,231.
37
9
anarchica politicamente distruttiva, come è provato dalla pretesa eretica di affermare «regna divisa, ut
obnoxia sint defectui» (III,12,94).
Il IV libro si apre con il ribadimento dell’opposizione tra una teologia che potremmo definire
critica e inevitabilmente scettica, cioè incredula, in quanto fondata su «humana scientia» (IV,1,1) e
privata «opinio» (IV,1,2), e una teologia che potremmo definire dogmatica, in quanto fondata su
«scripturis oboedientia» (IV,1,1) e «fides» (IV,1,2), sull’utilità dell’«ignorare» contrapposta all’inutilità
dello «scire»43. L’imperialismo teologico-politico non può che produrre un imperialismo dogmaticoecclesiastico. Contro la degradazione ariana di un mediatore alienato dalla pienezza della natura divina
proprio perché divenuto partecipe del destino umano della morte, Ambrogio afferma il trionfo vittorioso
di Cristo sulla morte, che nell’atto stesso della sua kenosi «nihil exinanitus amiserat» (IV,1,6). «Debuit
tamen novo victori novum iter parari; semper enim victor tamquam maior et praecelsior aestimatur»
(IV,1,7). Nella sua ascensione al cielo, Cristo è esaltato come l’imperatore cosmico, che, ispirando la
celebrazione di un cerimoniale liturgico teologico-politico44, rivela universalmente agli stessi angeli
stupefatti e ammirati «novam pompam, novam gloriam» (IV,1,10). Alla pari del Padre, risorto dalla morte
e manifestando la sua potestas divina, Cristo si rivela «Dominus virtutum rex gloriae» (Ps 23,10). I cieli
sono, pertanto, paragonati ad un palazzo imperiale, ad una corte chiusa e protetta: «Custoditur aula
imperialis» (IV,2,14); soltanto chi riconosce la sua onnipotenza, potrà umilmente partecipare della sua
corte. «Quis me admittet, nisi omnipotentem adnuntiem Christum? Clausae sunt portae, non cuicumque
aperiuntur, non quicumque vult, nisi qui fideliter credat, ingreditur» (IV,2,14). Davvero la fides rivela qui
la sua ancipite natura di atto teologico e atto politico, di esperienza carismatica di donazione e di fedeltà
ubbidiente alla potenza assoluta.
«Dunque si innalzeranno le tue porte, se credi che il Figlio di Dio è eterno, onnipotente,
inestimabile, incomprensibile, capace di conoscere tutto il passato e tutto il futuro. Se invece
pensi che abbia una potenza e una scienza limitata (praefinita potestas et scientia) e che sia
soggetto (subiectus), non hai accesso, innalzandoti, alle porte eterne. Si innalzino dunque le tue
porte, affinché Cristo entri in te, non secondo la concezione ariana, piccolo, debole e soggetto
(non Arriano sensu parvulus, non pusillus, non subditus), ma entri nella forma di Dio, entri con
il Padre, entri tale quale è e, oltrepassando il cielo e tutte le cose, ti mandi lo Spirito Santo…
Devi onorarlo e, come servo (famulus), non devi togliere nulla al tuo Signore. Non è permesso di
ignorare: è disceso perché appunto tu creda. Se non credi [alla sua onnipotenza divina], per te
non ha patito… Chi dunque odia Cristo, se non colui che gli toglie qualcosa? Come è proprio
dell’amore aggiungere, così è proprio dell’odio togliere. Chi odia, suscita questioni; chi ama,
rende onore (qui odit quaestiones movet, qui amat reverentiam defert)»45.
La teologia ariana dell’infirmitas ontologica del Figlio viene trionfalmente vanificata. L’odio
sedizioso è di colui che, fermandosi alla kenosi gratuita, misconosce la natura assoluta del Figlio,
pretendendo con la propria mente irriverente di dettare legge allo stesso ordine di Dio. Ad esempio,
interessantisima è la confutazione del tentativo ariano di «extenuare» le affermazioni giovannee sull’unità
tra Padre e Figlio, assimilata alla spirituale «unitas devotionis et fidei» che lega Dio e uomini (cf. IV,3,3334). Sottomissione umile alla fede, rifiuto del vano questionare razionale, confessione di Cristo come
43
DeFide V,17,211. «Distinctionem [delle persone] scimus, secreta nescimus, causas non discutimus, sacramenta
servamus» (IV,8,91). Cf. queste notevoli affermazioni fideistico-dogmatiche: «Si ratione convincor, fidem abnuo» (AMBROGIO, De
excessu fratris Satyri II,89). «Bonum est ut rationem praeveniat fides, ne tamquam ab homine ita a Domino Deo nostro rationem
videamus exigere» (AMBROGIO, De Abraham I,21). Chiaramente, sulla notevole questione del rapporto tra Ambrogio e la filosofia,
mi pare più convincente la posizione critica assunta da G. MADEC, Saint Ambroise et la philosophie, Paris 1974 (filosofie pagane
come ricettacolo di errori e di potenziali eresie, ove le poche verità attestate sono interpretate tradizionalmente come furta
graecorum), piuttosto che quella pure meritoria proposta da studiosi quali Courcelle o Solignac, impegnati a ricostruire le fonti
filosofiche platoniche e platonico-cristiane della teologia ambrosiana, che si costituirebbe in confronto più aperto e recettivo nei
confronti della sapienza pagana. Per una rivalutazione critica delle tesi di Madec, cf. la recensione di H. SAVON, Saint Ambroise et
la philosophie. A propos d’une étude récente, in «Revude de l’histoire des religions», 191, 1977, 173-196.
44
Cf. l’analisi del passo proposta da B. MORONI, Lessico teologico per un destinatario imperiale…, 358-360.
45
«Tuae ergo portae elevabuntur, si sempiternum, si omnipotentem, si inaestimabilem, si inconpraehensibilem, si eum qui
et praeterita omnia et futura noverit, Filium Dei credas. Quod si praefinitae potestatis et scientiae subiectumque opinere, non
“elevas portas aeternales”. Eleventur ergo portae tuae, ut non Arriano sensu parvulus, non pusillus, non subditus ad te Christus
introeat, sed intret in Dei forma, intret cum Patre, intret talis qualis est, et “caelum et omnia supergressus” “emittat tibi Spiritum”
sanctum… Grande ergo mysterium Christi, quod stupuerunt et angeli; et ideo venerari debes et Domino famulus derogare non
debes. Ignorare non licet; propterea enim descendit, ut credas. Si non credis, non descendit tibi, non tibi passus est… Quis igitur
odit Christum, nisi qui derogat? Sicut enim amoris est deferre, ita est odii derogare. Qui odit, quaestiones mouet, qui amat,
reuerentiam defert» (DeFide IV,2,22-23 e 26).
10
imperatore assoluto, asservimento a Cristo come Signore che partecipa dell’identica «unitas divinitatis et
magnitudo potestatis» (IV,3,30; cf. 35), dunque riconoscimento dell’onnipotenza della Trinità, si tengono
insieme. Non è, insomma, possibile concepire il dogma trinitario neoniceno, né la spiritualità della fede
umile che vive di grazia («Ipse Virtus qui virtutem fortibus largitur»: IV,4,42), né il costituirsi del dogma
preservato dalle pretese critiche della razionalità umana, senza introiettarvi una teologia imperiale
dell’onnipotenza. Ancora una volta si precisa come l’infirmitas di Cristo non sia ontologica, ma eletta
dalla sua misericordiosa magnanimità, dunque segno della sua imperiale accondiscendenza: «Non ille
debilis, qui aliorum debilitates imperiali sermone sanabat» (IV,5,53). L’infirmitas di Cristo è pertanto
soltanto oggetto di «indulgentia» (V,5,65), persino di misericordiosa e salvifica dissimulazione; egli
preferisce presentarsi come inferiore al Padre, per educare i discepoli a non riporre in lui speranze terrene:
«Verum ea est in scripturis consuetudo divinis…, ut Deus dissimulet se nescire quod novit… plusque
amat nostram utilitatem instruere, quam suam potentiam demonstrare»46. Ma in realtà, dotato di un
potere niente affatto alieno da quello assoluto del Padre («non… aliena potestas»: IV,10,121), nel deporre
la sua anima Cristo si rivela pienamente dotato della «potestas sua et libera voluntas». D’altra parte,
l’assunzione della carne testimonia della presenza di una straordinaria «sensibilitas» nel Figlio: «neque
insensibilis in Filio natura neque debilitas neque imperitia neque servitus potest esse» (IV,5,59). In
termini evidentemente politico-giuridici, Ambrogio ribadisce che l’essere eternamente generato dal Padre
del Figlio non testimonia certo inferiorità, dipendenza, «servitus», «coactae atque servilis operationis
obsequium» (IV,11,149), ma «privilegium dominationis» (IV,8,87), «ius generationis», «munus
largitatis» (IV,11,146), essendo «non ex dono quasi servus, sed ex generatione proprietate quasi Filius»
(V,2,36). Le scarne analisi delle distinzioni personali e delle relazioni trinitarie all’interno dell’unica
natura47, comunque tendono a concludersi potentemente, autoritativamente, dogmaticamente, con
l’affermazione della subordinazione al mistero, piuttosto che prolungarsi nell’indagine razionale, dunque
filosofico-dialettica, delle cause: «Distinctionem scire, secreta nescire, causa non discutere, sacramenta
servare»48. Lo stesso progresso nella conoscenza di Cristo, dalla sua umanità umile alla sua divina,
assoluta potentia, si compie nell’atto teologico-politico del rendere omaggio, «honor» (V,5,70),
riconoscendo la differenza tra a) la potenza della natura, la «plenitudo maiestatis» (V,7,91) nella quale il
Padre e il Figlio si amano (vivendo di una «naturalis et individua caritas»: V,7,92), e b) il dono della
grazia, attraverso il quale gli uomini sono chiamati a un progresso di una «virtus» non ontologica, ma
sopravvenuta, quindi a sottomettersi umilmente alla Trinità che li sovrasta come potenza assoluta: «Alius
igitur naturae amor sempiternus, alius gratiae»49.
La dialettica onnipotenza/kenosis torna, pertanto, cristologicamente identificata nella
distinzione (derivata da Atanasio) tra dimensione gloriosa, «dominatus» del Figlio e dimensione kenotica,
«servitus», «subiectio» propria del «corpus» assunto (V,8,103); distinzione di alia, riconciliati nel
potentissimo mistero dell’incarnazione: «Aliud igitur est secundum divinam substantiam, aliud secundum
susceptionem carnis Filium nominari» (V,8,107). Significativamente, la paolina «forma servi»,
identificata con la «plenitudo perfectionis humanae», è restituita come «plenitudo oboedientiae»
(IV,8,109): come se il dispositivo imperiale trovasse proprio nel kenotico farsi carne morta del Figlio il
46
DeFide V,17,218-18,220; cf. 17,218. «Sanctus et bonus, qui mallet aliquid dissimulare de iure quam de caritate
deponere» (V,5,64). In V,18,221, nella prospettiva del progresso dell’umanità amata, l’affermazione del nascondimento della
potenza assoluta di Dio si spinge sino all’assunzione di un’ipotesi temeraria (derivata da Atanasio): il kenotico umanizzarsi del
Figlio è, nel medio dell’onnipotenza divina, assunzione misericordiosa dell’ignoranza e del profectus umano (in tal senso Cristo
uomo cresce in sapienza: cf. Lc 2.52).
47
Cf. ad es. DeFide IV,7,72-8,91 e V,3,42, ove si afferma: «Non est unitas, ubi est diversitas». Sulla dottrina trinitaria di
Ambrogio, rimando al bilancio di M. SIMONETTI , La crisi ariana nel IV secolo, Roma 1975, 524-525: «L’uso di persona in
Ambrogio presenta qualche tratto caratteristico. La sua fides trinitaria è impeccabile; si veda per es. Fid I,1,8; Spir III,12,91;
III,13,92. Altrettanto chiara la correlazione tra unità di natura e distinzione di persone, al punto che egli propone un’amplificazione
della dottrina dei Cappadoci, aggiungendo alla giustapposizione: caratteri comuni della natura divina/caratteri singolari delle
persone, una categoria intermedia fondata su caratteri che collegano tra loro reciprocamente le persone sulla base della
somiglianza… Eppure è evidente in Ambrogio la scarsa simpatia per il termine persona ad indicare tecnicamente l’articolazione
trinitaria della divinità… Egli però preferisce adoperare il termine negativamente per escludere che la divinità possa essere
concepita unipersonale alla maniera di Sabellio: non unam personam, sed unam divinitatem in Patre et Filio crediderunt (Inc
7,77)… Dell’uso complessivo che Ambrogio fa di persona sembra ricavarsi che egli non l’ha considerata del tutto idonea ad
esprimere la distinzione all’interno della Trinità, perché separante troppo nettamente le tre entità divina all’interno dell’unità di
natura; parallelamente, l’ha ritenuta insufficiente, come voleva la tradizione antisabelliana, ad esprimere l’unità di natura». Cf. A.
MILANO, Persona in teologia. Alle origini del significato di persona nel cristianesimo antico, Roma 1996(2), 256.
48
DeFide IV,8,91; cf. 9,111, sulla pretesa ariana di indagare l’arcano con analogie materiali.
49
DeFide V,7,90. «Quod si ille secundum plenitudinem maiestatis suae perfectus est, nos autem perfecti secundum
virtutis accedentis profectum, etiam Filius diligitur a Patre secundum semper manentis plenitudinem caritatis, in nobis autem
caritatem Dei virtutis emeretur profectus» (V,7,91). Cf. gli importanti V,5,64; 69-70; 6,81-82, ove si afferma che la mancanza di
merito della creatura coesiste con la potentia divina di Cristo.
11
suo paradossale culmine glorioso. L’errore ariano sta proprio nel confondere gloria della potenza e servitù
dell’obbedienza (cf. V,8,115), degradando in Cristo tutto Dio alla miseria dell’uomo, negando la divinità
del mediatore, introducendo un’intollerabile «differentia divinae potestatis» (V,8,116), quindi
sovvertendo perversamente la dovuta, assoluta subordinazione della creatura al Creatore.
La dialettica cristologica onnipotenza/kenosis viene verificata sul tema della consegna
escatologica del regno al Padre, a partire da 1Cor 15,28, testo di difficilissima normalizzazione nicena, se
non sottolineando che al tempo stesso il Figlio depone, consegnandolo al Padre, il suo potere sul regno in
quanto uomo/carne e lo conserva pienamente in quanto Dio. La lunghissima interpretazione del testo
paolino50 è tutta dedicata ad illustrare il rapporto teologico-politico tra potere e sottomissione: servitus,
honoreficentia, unitas potestatis vengono simul connesse e distinte, in polemica contro l’ariana «sacrilega
discretio»51. Infatti, «in uno regno unitas potestatis est. Nemo igitur divinitatem inter Patrem et Filium
secernat» (V,12,153); in quanto Padre e Figlio hanno «unum Dei nomen et ius»52. La sottomissione
escatologica del Figlio al Padre è quindi interpretata come universale sottomissione della carne, quella
dell’uomo Gesù come quella delle creature tutte53, divenute in lui «regnum» – «Nos sumus regnum»
(V,12,150) – consegnato a Dio-Trinità, nel quale il Verbo divino lo riceve con il Padre nello Spirito;
sicché la cristologica relazione tra trinitaria «unitas perpetua voluntatis» e la gesuana «temporalis
subiectionis infirmitas» (V,13,165), rivela la dialettica tra eterno possesso trinitario della potestas assoluta
e storica, transitoria partecipazione del Figlio, per grazia, alla «subiectio» creaturale54: «Adsumptionis
ergo humanae erit illa subiectio. Nequaquam igitur divinitatis infirmitas, sed dispensatio ista pietatis
est»55.
Come precisa Ambrogio stesso, l’intero De fide si concentra pertanto sull’affermazione della
indivisa assolutezza della potenza capace di assumere liberamente in sé – nel Figlio – la kenotica
economia redentiva dell’obbedienza, senza dividere in sé l’identità di Dio:
«Raccogliamo in breve la conclusione di tutta quanta la soluzione del problema. L’unità di
potere esclude l’idea di un’offensiva sottomissione (unitas potestatis opinionem iniuriosae
subiectionis excludit). “La distruzione delle potenze” e “la vittoria ottenuta sulla morte” senza
dubbio non diminuisce il potere del trionfatore. La sottomissione è attuata dall’obbedienza e
Cristo assume in sé questa obbedienza»56
Cristo, pure crocifisso, realizza da «triumphator» la «evacuatio potestatum» (Col 2,15) e la
«victoria» sulla morte (V,15,183). Il mistero cristologico della redenzione è mistero di trionfo imperiale
sulle potenze avverse, di gloria e di esaltazione; ma senza che la kenosi e l’«oboedientia» del Figlio
diminuisca il suo immutabile possesso dell’assoluta «potestas» trinitaria. Al punto che Ambrogio arriva
ad affermare, con una formula teologica senza dubbio ardita e potente, che «nec voluntas ante Filium nec
potestas» (V,18,224): onnipotenza e volontà eterna di Dio coincidono con l’obbedienza kenotica, con la
«subiectio» efficace del Figlio.
La lunga invocazione finale al Padre57, di cui si confessa l’incomprensibilità, può pertanto
concludersi scagliando contro Ario (colpevole di degradare il Figlio guardandolo soltanto con gli occhi
della carne) l’apocalittico oracolo di Isaia sulla distruzione del principe di Babilonia58, figura teologicopolitica negativa della signoria onnipotente di Dio. Un pensiero imperiale della Trinità – capace di
togliere in sé la logica della regalità messianica giudeocristiana, assolutizzandola nel dinamismo della
50
Cf. DeFide V,12,148-16,192.
«Facessant igitur sacrilegae commenta discretionis, ubi unitas potestatis est» (DeFide V,12,149); cf. 12,153 e 17,217:
«Nullam inter Patrem et Filium discretionem facio potestatis».
52
DeFide V,13,154. Cf. DeSpSanct III,16,115 e 117: «potestatis divinae ius... divinae ius naturae... Nescit unitas
ordinem, gradum nescit aequalitas, nec cadit in Dei Filium, ut per contumaciam pietatem laederet, magister ipse pietatis».
53
Cf. DeFide V,14,171-182.
54
Cf. il lungo excursus in DeFide V,12,148-14,182.
55
DeFide V,14,72. «Qui cum moreretur vivebat, cum subiceretur regnabat, cum sepeliretur resuscitabat. Hinc subiectum
se potestati praebebat humanae, alias dominum se maiestatis declarabat aeternae» (14,174); «Ille per nostrae adsumptionem
naturae dicitur subiectus in nobis» (14,179).
56
«Conclusionem igitur totius absolutionis breviter colligamus. Unitas potestatis opinionem iniuriosae subiectionis
excludit. “Evacuatio potestatum” et “victoria de morte quaesita” triumphatoris utique non minuit potestatem. Subiectionem
operatur oboedientia, oboedientiam Christus adsumpsit» (DeFide V,15,183). Pertanto, escatologicamente Cristo sarà soltanto «in
nobis Patri subditus» (14,182).
57
Cf. DeFide V,19,228-238.
58
«Sed non Arrius raptus in caelum, quamvis eum secutus sit, qui iactatione damnabili divina praesumeret dicen:
“Ponam thronum meum, ascendam super nubes et ero similis altissimo” (Isaia 14,13-14). Sicut enim ille dixit “ero similis
altissimo”, sic Arrius altissimum Dei Filium sui similem vult videri, quem non divinitatis aeternae maiestate veneratur, sed carnis
infirmitate metitur» (DeFide V,19,238).
51
12
volontà onnipotente – non può non concludersi con l’annientamento del superbo, sedizioso nemico:
l’eretico che divide il potere di Dio, l’“altro” che altera l’identità teologico-politica, quindi la stessa
sacrale unità dell’impero cristiano celeste e terreno.
2 - Il De obitu Theodosii (395): l’ambrosianesimo politico
Per dimostrare quanto strutturale e persistente nel pensiero ambrosiano sia l’analogia tra
categorie teologiche e categorie politico-imperiali e quanto coerente la retractatio, il toglimento dialettico
di queste in quelle – con l’esito sistematico della subordinazione ideologica dell’impero secolare
all’impero celeste e ai suoi autorevoli rappresentanti in terra, chiamati a difendere l’assoluta, egemone
autonomia delle «res divinae» rispetto al potere dell’imperatore terreno59 –, è di straordinario interesse
un’opera assai più tarda: il discorso funebre pronunciato da Ambrogio il 25 febbraio del 395 in onore del
«clementissumus imperator Theodosius»60, al cospetto del corpo dell’imperatore e di suo figlio bambino
Onorio, di cui Ambrogio afferma di assumersi, per volontà di Dio, il ruolo di garante della successione e
di educatore nella fede. L’affermazione iniziale è davvero capitale: con la sua morte, Teodosio «regnum
non deposuit, sed mutavit» (2); «iure pietatis», colui che ha regnato in terra, «qui subplantavit perfidiam
tyrannorum, qui abscondit simulacra gentium (omnes enim cultus idolorum fides eius abscondit)» (3), è
accolto come cittadino nell’eterna civitas Dei (2). Così, Teodosio trasmette ai suoi figli, insieme con
«regnum, potestatem, nomen Augusti», doti eminentemente cristiane, quali «indulgentiarum hereditas…,
cumulus gratiae…, testamentum..., lex indulgentiae» (5). La fede cristiana aveva infatti spinto Teodosio a
cercare di adeguare l’intera sua attività di governo alle trascendenti perfezioni della civitas Dei, che era
divenuto il suo modello politico, in un complesso movimento circolare di imperializzazione del regno di
Dio e di cristianizzazione dell’impero; al punto che Ambrogio può esaltare Teodosio che cavalca alla
testa del suo esercito in battaglia, mettendogli in bocca l’invocazione: «Ubi est Theodosii Deus?»,
sottolineando come fosse ormai «Christo proximus», pure muovendo guerra, mentre «excitavit omnes,
exemplo omnes armavi…, validus fide» (7). In tal senso, la fede cristiana di Teodosio diviene garanzia
della potenza dell’impero e della fortuna dei suoi figli: «Theodosii ergo fides fuit vestra victoria» (8);
l’«hereditas fidei» (8), ovviamente di quella ortodossa, è la più importante, imperiale substantia lasciata
da Teodosio ai propri figli Onorio e Arcadio. Eredità potente, capace anche di far trionfare in guerra,
come Ambrogio prova tramite il riferimento scritturistico a 4Re 6,13-20: l’«exercitus infidelium» è
accecato da Dio; «ubi autem fides, ibi exercitus angelorum est» (8). Ma la dialettica trinitaria tra potentia
assoluta e kenosis è rintracciata nella stessa biografia di Teodosio, di cui si esalta il rapporto virtuoso e
cristianamente illuminato tra potestas e gratia, diritto di governo punitivo e misericordioso perdono:
Teodosio è quell’«imperator, quem potestas ad ulciscendum inpellit, sed revocat tamen ab ultione
miseratio» (12). Risulta appunto evidente la circolarità tra logica imperiale e logica cristiana, nella quale
si manifesta il fondamento del tutto volontaristico della nozione ambrosiana di Dio, natura identica alla
sua voluntas, trinitariamente operante. Circolarmente, appunto, l’onnipotenza divina rivela comunque la
traccia di una concezione imperiale del potere, che trova nella gratuità della misericordia, nella capacità di
decidere la sospensione della stessa potenza – insomma nella sempre immanente trascendenza della
volontà personale, del comando, della libera decisione nei confronti della norma, dell’ordine, della
59
Si pensi alla celebre affermazione di AMBROGIO, Ep 20,8, rivolta a Valentiniano II: «Quae divina sunt, imperatoriae
postestati non esse subiecta»; in proposito, cf. E.H. KANTOROWICZ, The King’s Two Bodies. A Study in Mediaeval Political
Theology, Princeton 1957, 1985(2), tr. it. I due corpi del Re, Torino 1989, 2012(2), 185, che fa dipendere l’affermazione ambrosiana
dalla definizione giuridica romana delle res divinae come res nullius. Sulla straordinaria coerenza dei violenti conflitti tra
Ambrogio, interprete della suprema potestas divina, e il potere imperiale romano – dalla controversia sull’altare della vittoria al
conflitto sulle basiliche milanesi, dalla questione della sinagoga di Callinico al massacro di Tessalonica, dalla penitenza imposta a
Teodosio sino al De obitu Theodosii –, cf. L. CRACCO RUGGINI, Ambrogio e le opposizioni anticattoliche tra il 383 e il 390, in
«Augustinianum» 14, 1974, 409-449; L.F. PIZZOLATO, Ambrogio e la libertà religiosa nel IV secolo, in E dal Covolo e R. Uglione
(a cura di), Cristianesimo e istituzioni politiche. Da Costantino a Giustiniano, Roma 1997, 143-155; M. SORDI, I rapporti di
Ambrogio con gli imperatori del suo tempo, in L.F. Pizzolato e M. Rizzi (edd.), Nec timeo mori…, 107-118. In particolare, sulla
controversia sull’altare della Vittoria, cf. M. CACCIARI, La maschera della tolleranza, in I. Dionigi (a cura di), La maschera della
tolleranza. Ambrogio, Epistole 17 e 18. Simmaco, Terza relazione, Milano2006, 111-148; sul conflitto delle basiliche e la soluzione
del conflitto con la corte filoariana grazie all’ “invenzione” miracolosa del ritrovamento dei resti dei martiri Gervasio e Protasio, cf.
l’interessante contributo di J. SAN BERNARDINO, Sub imperio discordiae: l’uomo che voleva essere Eliseo (Giugno 386), in L.F.
Pizzolato e M. Rizzi (edd.), Nec timeo mori…, 709-737 (l’invenzione del patrocinio dei santi sulla comunità e il culto delle reliquie
nascono come soluzione di un violento conflitto teologico-politico, non come espressione di concordia e consenso sociali); in tal
senso, i santi vengono presentati da Ambrogio come veri e propri soldati di Cristo, inviati da Dio a celebrare romanissimi
«triumphus» e «victoria» dell’ortodossia contro i nemici ariani: cf. AMBROGIO, Epistula 77,4,12-13 e 23.
60
AMBROGIO, De obitu Theodosii 1. L’opera è citata nell’edizione di Otto Faller, Sancti Ambrosii Opera, CSEL 73, Wien
1955.
13
giustizia stabilita61 – il suo culmine paradossale, che qui diviene cristianamente illuminato: «Quantum,
igitur est deponere terrorem potentiae, praeferre suavitatem gratiae» (12). La restituzione del profilo
psicologico di Teodosio è quindi teologicamente governata: colui che in quanto imperator deteneva
«supra omnes potestas» (13), era pronto all’ira, ma capace di ritrattarla in misericordioso perdono (cf. 1314); «Vincere enim volebat, non plectere, aequitatis iudex, non poenae arbiter, qui numquam veniam
confitenti negaret» (13). All’interno di questa «laus clementiae» imperialis (14), la logica della «religio»,
quindi della misericordia, prevale su quella del «timor» (13).
Seguendo l’esempio paterno, i giovani figli di Teodosio devono appoggiarsi alla fede
ortodossa, quindi al vescovo che ne è l’interprete, per ottenere misericordiosamente da Dio «maximum
praesidium» (15); soltanto il teologico-ecclesiastico è la garanzia del politico, come Ambrogio ricorda
tramite gli esempi non a caso veterotestamentari di Giosia (2Re 22,1-23) e Asa (1Re 15,9-24; 2Cronache
14,1-16,14). Così, Teodosio, proprio perché ha amato e ha avuto misericordia62, viene assunto nella città
celeste da Colui «qui misericordiam defert» (21). Ne deriva la subordinazione – per retractationem, per
katargesis – del potere imperiale al potere divino; l’imperatore che vince e trionfa nel mondo deve – non
soltanto per entrare nel regno dei cieli, ma anche per potere mantenere il suo potere terreno, secondo una
retractatio cristiana della romana teologia della vittoria –
sottomettersi alla potestas suprema di Colui che concede il «vincere»: «… quam tamen non suis viribus,
sed Domini auxilio novit sibi esse donatam. Non enim potuisset vincere, nisi eum qui certantes adiuvant
invocasset»63.
Abbiamo sopra insistito sulla strutturale connessione tra teologica trinitaria dell’onnipotenza e
cristologia della kenosis, come sul rapporto tra teologia della gratia onnipotente e spiritualità
dell’humilitas. I paragrafi 24-39 del De obitu Theodosii sono in tal senso impressionanti: soltanto il
«Domini nomen» è capace di portare soccorso al «miser homo» (24), che è l’imperatore! Questi deve
pregare, in quanto «ille vincit, qui gratiam Dei sperat, non qui de sua virtute praesumit» (25); infatti, la
«misericordia» di Dio cinge e vince la sua stessa «iustitia… Superabundant enim peccata, superabundet
ergo misericordia» (25); ove la misericordia è, comunque, vera giustizia (26), in un saldarsi tra logica
della donazione e logica del governo, della legge, dell’ordine teologico-politici, che impone l’«humilitas»
come unica, sottomessa relazione all’Onnipotente (cf. 27-28). L’evento capitale della penitenza imposta
da Ambrogio a Teodosio per la strage di Tessalonica torna come prova dell’umile sottomissione del
potere assoluto terreno all’Onnipotente celeste, rappresentato dal vescovo64: «Stravit omne insigne
regium, deflevit in ecclesia publice peccatum suum» (34). Il vero protagonista della penitenza graziata di
Teodosio è comunque il vescovo, preoccupato per tutte le creature affidategli da Dio; è Ambrogio colui
che guida, accoglie l’imperatore, conducendolo sino all’ingresso nel regno eterno di Dio65. Grazie ad
Ambrogio, strumento efficace della grazia di Dio, «manet ergo in lumine Theodosius et sanctorum
61
Non intendo comunque qui proiettare l’interpretazione schmittiana del decisionismo giuridico sulla teologia politica di
Ambrogio: cf. C. SCHMITT, Über die drei Arten des rechtswissenschaftlichen Denkens, Hamburg 1934, tr. it. parziale, rivista
dall’autore, I tre tipi di pensiero giuridico, in Le categorie del politico. Saggi di teoria politica, Bologna 1972, 247-275, in part.
260-264, ove la categoria teologico-giuridica del decisionismo, seppure parzialmente anticipata proprio da intuizioni teologiche
cristiane, è definita come portato eminentemente moderno, incarnato in particolare da Thomas Hobbes, in quanto essa presuppone
«nulla normativo e disordine concreto», mentre tutte le figure teologiche “decisionistiche” (da Tertulliano alla dottirna
dell’infallibilità papale, a Calvino) presuppongono sempre l’ordine divino, seppure nascosto e umanamente imperscrutabile. Tanto
più problematico risulterebbe proiettare categorie decisionistiche su concezioni giuridiche romane influenti sulle categorie
teologiche ambrosiane.
62
«Et vere dilexit qui officia diligentis implevit, qui servavit hostes, qui dilexit inimicos, qui his, a quibus est appetitus,
ignovit, qui regni adfectatores perire non passus est»(DeObTh 17).
63
DeObTh 23. L’affermazione dell’orazione funebre compie trionfalmente la teologia della vittoria cristiana, che afferma
apertamente la necessaria subordinazione del potere imperiale secolare a quello teologico-sacerdotale, già teorizzata nella prima
lettera e nella seconda lettera inviate a Valentiniano II dedicata al conflitto con Simmaco sull’altare della Vittoria; non mettersi al
servizio di Dio, Potestas assoluta, significherebbe per l’imperatore compiere un’opera di sediziosa anarchia. «Cum omnes homines
qui sub dicione romana sunt vobis militent imperatoribus terrarum atque principibus, tum ipsi vos omnipotenti Deo et sacrae fidei
militatis. Aliter enim salus tuta esse non poterit, nisi unusquisque Deum verum hoc est Deum christianorum, a quo cuncta reguntur,
veraciter colat… Nihil maius est religione, nihil sublimius fide» (AMBROGIO, Ep 17,1 e 12). «Vox imperatoris nostri Christum
resultet et illum solum quem sentit loquatur, quia “cor regis in manu Dei” (Prov 21,1)… Haec est caritas expetenda, haec est
caritas maior imperio, si fides tuta quae servat imperium» (Ep 18,10 e 33).
64
Cf. DeObTh 27-28, con la connessione Davide-Teodosio, e soprattutto 34.
65
«Multorum enim pericula sunt, sed remedia paucorum. In omnibus sacerdos periclitatur, in omnibus reis angitur; quod
enim alii patiuntur, ipse sustinet, et iterum liberatur ipse, cum alii, qui tenentur periculis, liberantur. Conteror corde, quia ereptus
est vir, quem vix possumus invenire. Sed tamen tu solus, Domine, invocandus es, tu rogandus, ut eum in filiis repraesentes...
“Dilexi” et ideo prosequor eum usque ad “regionem vivorum” nec deseram, donec fletu praecibus que inducam virum, quo sua
merita vocant, in montem Domini sanctum, ubi perennis vita, ubi corruptelae nulla contagio nullus gemitus, nullus dolor, nulla
consortia mortuorum» (DeObTh 36-37).
14
coetibus gloriatur» (39), abbracciando finalmente Graziano, di cui è il vendicatore provvidenziale66. E
soltanto nella Gerusalemme celeste – è questa l’affermazione davvero impressionante, ove davvero si
realizza la katavrghsiò del potere imperiale romano – «se Theodosius regnare cognoscit, quando in regno
est Domini Iesu et considerat templum eius. Nunc sibi rex est… quando Constantino adhaeret» (40),
ricongiungendosi con l’archetipo di quella che è, per Ambrogio, l’ispirata retractatio cristiana del potere
imperiale: appunto Costantino «beatus» (41), il quale come «primus imperatorum credidit et post se
hereditatem fidei principibus dereliquit» (40).
L’orazione di Ambrogio ospita, a questo punto, un lungo, seppure obliquo encomio
dell’imperatore Costantino, significativamente celebrato – considerata la sua memoria piuttosto
compromessa, soprattutto in ambito niceno occidentale – tramite le lodi della madre Elena67, donna di
umilissime origini, «stabularia» innalzata da Dio «de stercore ad regnum» (42), quindi ispirata dal suo
Spirito, paragonata persino a Maria (cf. 44 e 46), capace di rivoluzionare l’identità dell’impero romano
(40; cf. 47-48), mettendolo sotto la protezione di Dio, capace di far trionfare Costantino anche in guerra68.
Con la narrazione del rinvenimento della vera croce da parte di Elena, si esalta la subordinazione della
testa dei re alla croce di Cristo (48), al chiodo che diviene simbolico morso del cavallo del potere
asservitosi al regno di Dio, «ut imperatorum insolentiam refrenaret, comprimeret licentiam tyrannorum»
(50). Il chiodo della croce diviene così il nuovo, paradossale scettro dell’impero, passato dalla
«persecutio» alla «devotio» (47), sicché «bonus itaque Romani clavus imperii, qui totum regit orbem ac
vestit principum fontem» (48). Dunque, è la «liberalitas» di Cristo che concede agli imperatori, con la
«iusta moderatio», la loro stessa legittimazione (48); è da Cristo che il potere dipende, «cui regna
famulantur, cui servit potestas… Ferro pedum eius reges inclinantur… Susceperunt frena devotionis et
fidei… Inde Gratianus et Theodosius» (49 e 51). Ritroviamo qui, pienamente dispiegata, la logica della
subiectio gloriosa del potere imperiale secolare al potere imperiale eterno69. Il trionfo celeste di Teodosio
che ascende nel regno di Dio ritratta in sé il trionfo imperiale terreno, ombra e tipo del suo archetipo
trascendente: «Nunc illi Theodosius potentior, nunc gloriosior redit, quem angelorum caterva deducit,
quem sanctorum turba prosequitur» (56). Si compie così quella rivoluzionaria retractatio teologica, in
una minorizzazione e (sia detto en passant) secolarizzazione (nel senso della negazione di qualsiasi
autonomia sacrale) del desacralizzato potere assoluto romano; retractatio che comunque si riflette in una
romanizzazione della nozione del Dio trinitario.
L’ambriosanesimo politico – il rapporto di tendenziale subordinazione del potere terreno ad
un potere sacro che solo lo legittima – mi pare la conseguenza di questa rilettura (già lattanziana) della
nozione di Dio come assoluta, onnipotente, efficace volontà di ordine, legge, mediazione, donazione,
grazia. L’ambrosianesimo politico si compirebbe, pertanto, in questa imperializzazione della nozione di
essere, cristologicamente convertita in kenosi, capace di svuotare qualsiasi presunto potere mondano;
come se la logica di ogni potere terreno fosse soltanto quella dello svuotarsi, per essere operato da
un’unitaria efficacia assoluta, quella dell’eterna Potestas romano-trinitaria. Qualsiasi potere non
retractatus, non svuotato di autonomia, non imperialmente sottomesso finisce fuori gioco, denunciato
come empio, divisivo e distruttivo. L’unica garanzia di legittimità del potere terreno diviene così
l’assoluta omnipotentia trinitario-kenotica, ingrata eredità che toglie in sé la sua matrice: l’ideologia
romana e imperiale di assoluta potenza e di “misericordiosa” tutela dei sottomessi e degli umili (come
non ricordare i versi vergiliani: parcere subiectis et debellare superbos?). A meno che non si voglia
leggere, nella fatale reinterpretazione ambrosiana di Dio-Trinità come Imperator, l’ultima, occulta,
paradossale apoteosi dell’imperatore secolarizzato, di Costantino soggiogato dal morso del dogma, eppure
capace di romanizzare il Dio biblico. Roma capta ferum victorem cepit. Una perversa subiectio?
66
«Illic bonus uterque et pietatis interpres largus misericordiae suae consortio delectantur» (DeObTh 39).
Cf. DeObTh 41-51. Per una più dettagliata analisi dell’interpretazione ambrosiana di Costantino ed Elena nel DeObTh,
cf. il cap. «L’impero domato e sottomesso: Costantino in Ambrogio», in G. LETTIERI, Costantino nella patristica latina tra IV e V
secolo, in A. Melloni e altri (edd.), Flavius Valerius Constantinus Maximus Augustus. Una enciclopedia internazionale sulla figura,
il mito, la critica e la funzione dell’imperatore dell’“Editto di Milano”, Enciclopedia Italiana, Roma 2013, di imminente
pubblicazione.
68
«Beatus Constantinus tali parente, quae imperanti filio divini muneris quaesivit auxilium quo inter proelia quoque
tutus adsisteret et periculum non timeret» (DeObTh 41).
69
Sulla docile «subiectio» dell’imperatore al giogo di Cristo, che gli garantisce autentica sovranità e vittoria ultraterrene,
cf. anche AMBROGIO, De obitu Valentiniani, 69-70: «Cervix quoque eius candida et pura, iugo Christi sponte subiecta… ornatus
capitis gloriosus, quod non regalia diademata, sed Domini sanguinis insignia coronarent. Merito tamquam rex peccati victor et
caelesti corona redimitus ascendit».
67
15
3 – L’ambrosianesimo politico tra Schmitt e Peterson
In conclusione, il caso di Ambrogio pare rimettere in questione sia il paradigma schmittiano, che
quello petersoniano di teologia politica. L’assioma di Schmitt, «Tutti i concetti più pregnanti della
moderna dottrina dello stato sono concetti teologici secolarizzati» 70, va infatti asmannianamente
rovesciato: il modello attraverso il quale Ambrogio pensa la natura di Dio è evidentemente di origine
romana e imperiale, sicché la sua Trinità è a tutti gli effetti un concetto politico teologizzato. D’altra
parte, la stessa pretesa disdetta trinitaria della teologia politica schmittiana da parte di Peterson parrebbe
confutata: seppure egli aveva riconosciuto in Ambrogio un teologo imperiale-costantiniano erede di
Eusebio71 (non tematizzando comunque la sua dipendenza dalla teologia politica di Lattanzio, del tutto
trascurato nel Monoteismo come problema politico72), comunque aveva del tutto censurato la sua teologia
fedelmente nicena, che avrebbe rivelato nel vescovo di Milano la scandalosa (almeno per Peterson)
coincidenza tra (neo)eusebiana teologia politica romano-cristiana e monoteismo trinitario73. Eppure, la
punta antischmittiana della tesi petersoniana – riconoscere nella dottrina trinitaria nicena un dispositivo di
salvaguardia dinanzi al pericolo dell’analogica sacralizzazione monoteistica del potere assoluto secolare –
potrebbe resistere a questa pure radicale contestazione e venire recuperata, ma soltanto sub contraria
specie: il modello proto-teocratico dell’ambrosianesimo politico (che storiograficamente dovrebbe
sostituire quello di agostinismo politico, del tutto ambiguo perché non fondato su un’autentica
comprensione della neoapocalittica e antiromana teologia politica agostiniana) simul giustifica e
relativizza il potere imperiale. Il modello prototeocratico dell’ambrosianesimo politico – concretamente
intuito e ripetutamente perseguito, soprattutto nella sottomissione di Teodosio –, nel momento stesso in
cui si offre come suprema garanzia della legittimità del potere imperiale secolare, lo critica come potere
assoluto, ne mina il funzionamento perfettamente identitario, generando un’incrinatura nella sua pretesa
di assolutezza74. Cristo, simul onnipotente e kenotico, diviene allora il momento di mediazione e
contaminazione tra categorie del potere teologico e categorie del potere politico, ma nella direzione di
un’irriducibile disdetta o meglio retractatio di quest’ultimo. Ci sono due poteri teologico-politici, quello
secolare subordinato a quello imperiale eterno e se questo stesso si autodepone, sospendendosi, in Cristo,
tanto più quello secolare è chiamato ad “umiliarsi”. Insomma, a) se antipetersionanamente e
schmittianamente la teologia politico-trinitaria di Ambrogio giustifica la sottomissione dei sudditi al
potere politico, immagine di Dio-Imperator e garante secolare dell’ordine mondano della giovane
cristianità, b) petersonianamente e antischmittianamente il modello analogico ambrosiano rivela una
logica di messa in questione e decostruzione del potere secolare, sino alla possibilità della sua
subordinazione teocratica, a partire dall’affermazione di un dispositivo kenotico-gratuito (del tutto
misconosiuto dal modello teologico-politico schmittiano) intimo all’idea di onnipotenza di Dio. Come se,
in un’altra eterogenesi dei fini, proprio la pretesa teocratica, quest’iperbole imperialista, contribuisse alla
desacralizzazione della divinità del potere, tanto più radicale, quanto più autonoma dal dispositivo
egemone che pure l’aveva generata. Un’altra, antitetica perversa subiectio?
Sarà comunque soltanto l’innovativa e neoapocalittica teologia politica di Agostino a mostrare
(petersonianamente!) come la dialettica tra onnipotenza e gratuità, trascendenza/escatologia e
70
C. SCHMITT, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, München-Leipzig 1922, 1934(2), tr. it.
Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Le categorie del politico…, 29-86, in part. 61. Cf. anche C.
SCHMITT, Der Begriff des Politischen, Berlin-Grunewald 1928, Münche-Leipzig 1932(3), tr. it. Il concetto di “politico”, in Le
categorie del politico…, 89-165: «Le dichiarazioni sull’“onnipotenza” dello Stato sono in realtà solo secolarizzazioni superficiali
delle formule teologiche dell’onnipotenza di Dio» (125).
71
Cf. E. PETERSON, Der Monotheismus als politisches Problem, Leipzig 1935, tr. it. Il monoteismo come problema
politico, Brescia 1983, 63-64.
72
L’unico, rapido riferimento a Lattanzio è in E. PETERSON, Der Monotheismus als politisches Problem…, 95-96, nota
134. Sulla teologia politica imperialistico-monoteistica di Lattanzio, rimando a G. LETTIERI, Lattanzio ideologo della svolta
costantiniana, in A. Melloni e altri (edd.), Flavius Valerius Constantinus Maximus Augustus. Una enciclopedia internazionale sulla
figura, il mito, la critica e la funzione dell’imperatore dell’“Editto di Milano”, Roma 2013, di imminente pubblicazione.
73
Si noti, in tal senso, l’applicazione dell’analogia trinitaria alla celebrazione della famiglia imperiale di Valentiniano I,
Valente e Graziano, proposta da AUSONIO, Versus paschales 24-31: «Tale et terrenis spectatur in oris/ Augustus genitor, geminum
sator Augustorum / qui fratrem natumque pio complexus utrumque / numine partitur regnum neque dividit unum / omnia solus
habens atque omnia dilargitus. / Hos igitur nobis trina pietate vigentes / rectores terrae placidos caelique ministros / Christe, aput
aeternum placabilis adsere patrem».
74
Così Cacciari riassume la tesi ambrosiana emersa nella polemica con Simmaco sull’altare della Vittoria: «Straordinaria
operazione teologico-politica: si inizia con la radicale desacralizzazione dell’Impero; ridotto così ad artificium, se ne palesa tutta
l’intrinseca precarietà; ci si fa carico, allora, di un suo nuovo fondamento che potrà essere garantito appunto soltanto da un’autorità
“autonoma” rispetto all’Impero… Il Cristiano prega il vero Dio di salvare gli imperatori. È quello cristiano l’altare della Vittoria»
(M. CACCIARI, La maschera della tolleranza…, 126-127). Cf., in prop., AMBROGIO, Epistula 2,6: «Vere Dominus propitius est
imperio Romano, quandoquidem talem principem et parentem principum <e>legit, cuius virtus et potestas in tanto imperii
triumphalis constituta culmine, tanta sit humilitate subnixa, ut virtute imperatores, humilitate sacerdotes vicerit».
16
donazione/kenosi determini la messa in questione radicale di ogni grandezza secolare, la demitizzazione e
la decostruzione non soltanto di un potere assoluto teologico-politico terreno, ma persino della cristianità
trionfante, sia essa quella del potere imperiale costantiniano75, che quella teocratica del potere
monocratico ecclesiastico, di quel superbo appetitus unitatis et omnipotentiae che il papa di Roma,
potente erede di una logica romana e ambrosiana del primato teologico-politico, cominciava a dispiegare
con straordinaria lungimiranza76. Il che significa dover pensare, all’interno della tradizione teologicopolitica latina, un conflitto riassumibile in una formula: autentico agostinismo politico contra
ambrosianesimo politico.
Gaetano Lettieri
Sapienza Università di Roma
75
Cf. il cap. «Costantino civis terrenus? Agostino e le ambiguità del saeculum cristiano», in G. LETTIERI, Costantino
nella patristica latina tra IV e V secolo….
76
Cf. G. LETTIERI, Centri in conflitto e parole di potenza. Normalizzazione e subordinazione dell’agostinismo al primato
romano nel V secolo, in «Annali di Storia dell’Esegesi» 27, 2010, 101-170.
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