7.1.1 POLITICHE DI INTEGRAZIONE DEI DISABILI - Index of

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7.1.1 POLITICHE DI INTEGRAZIONE DEI DISABILI - Index of
7.1.1
POLITICHE DI INTEGRAZIONE DEI DISABILI NELLA SCUOLA
a cura a Dario Ianes
Che dimensioni ha oggi l’integrazione scolastica?
150.000 alunni con una qualche diversa abilità, in 130.000 classi, 400.000 insegnanti coinvolti
di cui 68.000 di sostegno. Metà degli alunni italiani hanno come compagno di banco un amico
diversamente abile. Questi numeri indicano una straordinaria dimensione sociale e civile, prima
ancora che didattica e organizzativa: la speciale normalità che da trent’anni non relega più gli
alunni disabili nello specialismo separato, ma ne fa parte comune.
L’integrazione scolastica degli alunni disabili sta entrando nella sua età adulta e la sua funzione
di stimolo e di arricchimento della Qualità della scuola per tutti gli alunni si fa sentire ormai con
forza. In questa fase si vanno definendo alcuni nuclei di lavoro fondamentali che diventano
altrettante linee programmatiche per fondare e rifondare continuamente le nostre prassi di
inclusione degli alunni disabili o con altre difficoltà.
Ormai è un dato acquisito che un’integrazione scolastica di Qualità deve coinvolgere tutta la
comunità degli insegnanti e degli alunni: non si può fare integrazione solo con gli interventi in
solitaria dell’insegnante di sostegno. Altrettanto, non si fa integrazione con la didattica frontale
standardizzata, indifferente all’eterogeneità e alle differenze individuali sempre più presenti
nelle nostre classi.
Si è sempre più consapevoli che l’integrazione scolastica non è un processo “verticale” ma, al
contrario, “orizzontale”, reticolare e diffuso, che cioè deve attivare e mettere in sinergia le
risorse di tanti altri attori significativi oltre all’insegnante di sostegno: gli altri docenti e il
personale della scuola, i compagni di classe, gli operatori dei servizi, la famiglia e la comunità.
Ma come realizzare questa dimensione orizzontale e reticolare innanzitutto nella classe?
Servono principalmente strategie didattiche nuove che, per la loro stessa essenza, siano di
cerniera tra l’alunno in situazione di handicap e la classe, rendendo così significativa la sua
presenza, e nel contempo siano di cerniera tra gli insegnanti curricolari e di sostegno.
Queste strategie didattiche devono essere utilizzabili con tutti gli alunni (non solo con quello
disabile), devono attivare direttamente le risorse informali di insegnamento presenti nel
gruppo classe (gli altri alunni) e valorizzare le differenze e attribuendo conseguentemente ruoli
distinti e complementari agli alunni, per dare concretezza all’“imparare insieme” nel piccolo
gruppo.
Vanno prendendo sempre più corpo e diffusione alcune modalità di lavoro che rispondono a
questi criteri: l’apprendimento cooperativo e il tutoring http://www.erickson.it/cgibin/erickson/CNT_libreria_int.jsp?~&ind=libri&dept=Apprendimento%20cooperativo&thisPage
=libreria (l’insegnamento reciproco in coppie di alunni) e la costruzione di reti informali di
amicizia e di aiuto tra alunni (per creare un tessuto di relazioni di accoglienza, conoscenza e
solidarietà).
Approfondimenti schermata 6:
L’integrazione degli alunni in difficoltà e le quattro coordinate della didattica di qualità (si veda
L’integrazione degli alunni in difficoltà e le quattro coordinate della didattica di
qualità
approfondimenti\didattica_speciale.rtf ) di D. Ianes
Più legate alla didattica ordinaria sono le strategie per semplificare e adattare alle capacità
dell’alunno i libri di testo della classe, http://www.erickson.it/cgibin/erickson/CNT_libro_prod.jsp?~&ind=G31&dept=libri&OID=11571
le metodologie per costruire Piani educativi individualizzati http://www.erickson.it/cgibin/erickson/CNT_libro_prod.jsp?~&OID=13532&dept=libri&prov=seen e materiali
didattici/riabilitativi speciali http://www.erickson.it/cgibin/erickson/CNT_libro_prod.jsp?~&ind=F25&dept=libri&OID=11480 ma direttamente
agganciati agli obiettivi della classe e l’uso integrato dell’istruzione attraverso software
didattico http://www.erickson.it/cgibin/erickson/CNT_libro_prod.jsp?~0&ind=G05&dept=libri&OID=1154 individualizzabile.
Tutte queste dimensioni di cerniera stanno diventando l’aspetto qualificante del modello
italiano di integrazione. Non sono le tecniche individuali di lavoro che fanno la qualità
dell’integrazione (anche se sono necessarie): basti pensare a quei Paesi anche europei dove ci
sono ottimi tecnici educativi/riabilitativi, in molti casi più efficaci dei nostri, ma dove non esiste
integrazione tra alunno in situazione di handicap e altri alunni.
Approfondimenti
La situazione dell’integrazione in Italia rispetto all’Europa si veda
approfondimenti\dir_integraz.rtf
di S. Nocera
Il quadro normativo si veda approfondimenti\PEIcap.6.pdf
di M. Pavone e M. Tortello
7.1.2
GUIDA ALL’ANALISI DELLE BUONE PRASSI DI INTEGRAZIONE SCOLASTICA
Nel nostro Paese non ci sono più le scuole che fanno integrazione per tutti gli alunni, anche
quelli con gravi disabilità, che forse non si sentiranno sempre proprio in paradiso, ma
certamente si sentono con i propri compagni. Nelle scuole italiane si fa l’integrazione, la si
costruisce giorno dopo giorno, anno dopo anno; con fatica, con successi e sconfitte, con
difficoltà di ogni genere.
Nelle scuole italiane si è stratificato, in questi trent’anni di integrazione, un gran numero di
esperienze positive, progetti che hanno funzionato, modalità di lavoro concreto che hanno fatto
fare tanti passi in avanti all’integrazione. Ma queste conoscenze e queste modalità spesso non
si sono solidificate, non sono state documentate in modo replicabile e sopravvivono nella
memoria dei protagonisti, i quali spesso si disperdono migrando da una scuola all’altra.
Le memorie fanno fatica a diventare esperienze consultabili e consolidate, prassi che hanno più
o meno funzionato. Spesso si deve ricominciare da capo, ignorando magari che altri colleghi si
sono confrontati con difficoltà simili alle nostre. Si usa poco l’intelligenza collettiva e reticolare,
che si compone delle esperienze e degli scambi orizzontali.
Cosa significa “buona prassi”? Non certo modello ideale, perfetto, da applicare direttamente nel
proprio contesto (questo non è possibile e cercare di farlo sarebbe controproducente). Una
buona prassi è qualcosa che altri hanno fatto e che — nel loro contesto — ha funzionato,
probabilmente perché aveva delle buone caratteristiche. Ed è su queste caratteristiche che il
collega è chiamato a curiosare, indagare e criticare, mettendole in relazione alla propria
situazione e al proprio contesto.
È possibile leggere in trasparenza queste prassi cercando di cogliere alcune costanti che
riteniamo significative, alcune caratteristiche operative probabilmente positive, alcuni “principi
attivi” che funzionano, al di là delle ovvie differenze di situazioni, e che siano replicabili in altri
contesti? Crediamo di sì, e che si possano rintracciare, sotto le vesti più diverse, alcuni
elementi positivi ed efficaci.
Una forte collaborazione tra gli insegnanti
Alla base di queste buone prassi troviamo sempre una notevole collegialità, una
corresponsabilizzazione e una condivisione forte delle scelte: insegnanti curricolari e di
sostegno, senza distinzione se non di funzioni.
Un’idea forte, unificante, che caratterizza la prassi
Dalla collaborazione si elabora un progetto con una sua identità marcata, distinta,
inequivocabile. Si può trattare di attività teatrali o di esplorazione del territorio, di laboratori
informatici o di uso delle TIC: in ogni caso c’è uno sfondo che raccoglie, dà senso, fornisce
identità e finalizzazione alle attività, anche in sinergia con altri progetti.
Un’apertura all’esterno e un utilizzo delle risorse del territorio
Si nota come queste prassi non si chiudano mai all’interno della scuola, né si appiattiscano in
una serie di azioni tecnico-riabilitative solo nel contesto del PEI dall’alunno disabile. Il PEI
diventa la base sulla quale costruire un progetto di vita più ampio, che nella sua ampiezza
colga anche le occasioni fornite dall’ambiente circostante, dal quartiere, dalle realtà culturali e
ricreative.
Gli alunni sono i soggetti attivi della costruzione della loro conoscenza
Gli alunni costruiscono le loro competenze ed elaborano attivamente e consapevolmente la loro
conoscenza. Certo sono guidati e non lasciati a loro stessi, ma questa guida autorevole è
funzionale al loro percorso di acquisizione di competenze, valorizzando le loro storie e i loro
precedenti saperi spontanei e fornendo strumenti per crescere.
Si rompono le barriere tra ordini di scuola e tra classi
Questo aspetto va al di là di una lettura riduttiva delle varie attività di transizione-continuitàtrasmissione di informazioni, che sono senz’altro fondamentali. Troviamo infatti attività che
superano le tradizionali distinzioni di classe, sezione, scuola elementare, media, ecc.,
integrando alunni di età diverse, livelli diversi, facendoli collaborare a un fine condiviso e
strutturato.
Le relazioni inclusive e solidali tra compagni di scuola con le loro varie diversità sono la trama
indispensabile per tessere l’integrazione
In tutte le buone prassi c’è una forte consapevolezza, che si traduce poi in varie soluzioni
operative: occorre creare e mantenere una forte trama di relazioni solidali tra compagni di
classe, scuole e gruppi, sulla quale si potranno sviluppare iniziative di integrazione nel piccolo
gruppo o in coppie di alunni che lavorano, ad esempio, al computer.
L’apprendimento cooperativo in piccoli gruppi eterogenei
Una delle modalità didattiche più frequentemente usate è l’apprendimento cooperativo, con
livelli prevalentemente eterogenei sia per rendimento che per gli stili di elaborazione delle
informazioni, espressione di emozioni e motivazioni. Il lavoro in piccoli gruppi cooperativi è una
modalità efficace per realizzare una didattica integrata, sfruttando positivamente le risorse di
tutti gli alunni.
Il PEI si raccorda con la programmazione di classe
Gli strumenti fondamentali della programmazione individualizzata sono diventati parte
integrante quotidiana delle prassi di integrazione: la lettura pedagogica della DF; la valutazione
educativa iniziale dell’alunno, della classe e del contesto; il PDF; l’adattamento, la
semplificazione degli obiettivi della programmazione della classe; la scelta di strategie e
materiali specifici come ad esempio il software didattico.
Approfondimenti: Esempi di “Buone prassi”
Costruire l’integrazione scolastica attraverso l’apprendimento cooperativo si veda
approfondimenti\7.pdf
di D. Pavan e A. Daminato
“Un viaggio appena cominciato”: i laboratori di attività sensoriali si veda
approfondimenti\19.pdf
di G. Bonetti et al.
“Come siamo, come eravamo”: l’integrazione scolastica attraverso un progetto rivolto alla
comunità si veda approfondimenti\20.pd
di M. dalle Fratte
7.1.3
ASPETTI PEDAGOGICI E DIDATTICI
Dopo quasi trent’anni siamo consapevoli che la vera qualità dell’integrazione è prodotta dalla
“speciale normalità”: le aspettative, gli obiettivi, le prassi per tutti gli alunni, nessuno escluso,
nelle ordinarie e normali attività, che però si arricchiscono di una specificità non comune,
fondata su dati scientifici e richiesta dalla complessità dei bisogni educativi speciali.
Approfondimenti
Il bisogno di una speciale normalità per l’integrazione
approfondimenti\speciale_norm.pdf
di Dario Ianes
si veda
Approfondiamo uno degli aspetti metodologici della speciale normalità, ossia l’evoluzione
nell’ambito di alcune metodologie educativo-didattiche, dove si sta passando da applicazioni
molto speciali, cioè solo per l’alunno speciale, separate dal resto della normalità delle relazioni
e delle attività, ad applicazioni molto normali, rivolte cioè a tutti gli alunni, con o senza bisogni
educativi speciali, arricchite però di alcune qualità inclusive.
Si pensava che, per rispondere adeguatamente alla specialità degli alunni, si dovesse ricorrere
a testi e materiali informatici specifici; più tardi si è sentita la necessità di elaborare i testi
normali, adattandoli in base ai diversi bisogni di apprendimento, arrivando a una didattica
basata su una gestione personalizzata delle varie fonti, anche software, nelle ognuno naviga
secondo le sue capacità, in un’ottica costruttivistica di elaborazione personale della
conoscenza.
Si pensava che l’apprendimento nei casi difficili potesse essere prodotto esclusivamente con
tecniche altamente sofisticate basate su aiuti, strutturazione dello spazio e dei tempi, di
semplificazione e scomposizione dell’abilità in una sequenza di piccoli passaggi di difficoltà
graduale. Poi si è capito che queste tecniche potevano essere evolute avvicinandole a forme di
automonitoraggio e di autoistruzione semplice, dove l’alunno è più attivo e si autoregola.
Da qui all’uso generalizzato di strategie metacognitive di apprendimento per tutti gli alunni, più
consapevoli e autonomi. Anche in questo caso si cerca di portare principi attivi più efficaci delle
tecniche molto speciali nei contesti della didattica normale, che diventa così sempre più
speciale normalità. Anche il software didattico ha seguito questa linea: da molto rigido e
sequenziale ad aperto, costruttivistico e ricco di apprendimenti per l’autoregolazione
metacognitiva.
I tre modi di usare la multimedialità
Esistono tre grandi categorie di uso didattico di sistemi multimediali. Il primo uso, il più
immediato, consiste nello scegliere un sistema multimediale già pronto e adatto. Il secondo
uso prevede la costruzione di applicazioni multimediali personalizzate sui bisogni dell’allievo. Il
terzo è il più complesso, ma forse il più promettente di tutti, e ci porta nel bel mezzo del
costruttivismo e dell’apprendimento cooperativo.
L’uso di sistemi multimediali già fatti
La scelta di un software specifico per favorire vari apprendimenti, l’attenzione, il pensiero
strategico e il problem solving dipende dall’età e dagli interessi dell’allievo. Il mercato comincia
a essere maturo per permettere all’insegnante di scegliere. Se il bambino è piccolo, saranno
adatte a lui avventure semplici, che grazie alla tecnologia multimediale possono essere
raccontate con la voce e disegni animati adatti all’età.
I software più semplici e strutturati inseriscono nella situazione didattica uno stimolo di
sostegno per evitare che l’allievo sbagli (apprendimento senza errori). L’apprendimento senza
errori è una modalità tipica dei modelli basati sulla programmazione e prevede un momento in
cui la situazione didattica sarà priva di quegli stimoli di sostegno artificiali e dunque più
naturale. A questo si arriverà in modo graduale e programmato, attraverso le metodologie di
attenuazione.
L’attenuazione consiste nel togliere piano piano, piuttosto che in una volta sola, gli stimoli di
sostegno e i facilitatori, a mano a mano che l’allievo mostra di non averne più bisogno. Si porta
così l’allievo a padroneggiare la nuova abilità in modo dolce, senza scosse, rendendo il compito
un po’ più difficile solo quando siamo certi che l’allievo sia in grado di affrontare questa
difficoltà.
L’apprendimento senza errori si presta a una grande varietà di applicazioni, soprattutto
nell’educazione speciale, ma un settore dove si è mostrato particolarmente interessante è
quello dell’avviamento alla lettura. http://www.erickson.it/cgibin/erickson/CNT_libro_prod.jsp?~&OID=11508&dept=libri&prov=seen
Ciò è probabilmente dovuto al fatto che, sebbene l’abilità di decodifica del testo si sviluppi
spesso quasi spontaneamente nei bambini normodotati, ci sono delle situazioni in cui sono
richiesti sforzi massicci e, quando falliscono, producono effetti negativi.
Schermata 32
Il primo, evidentemente, è che il bambino non ha imparato a leggere. Il secondo è che si è
messo in testa che se ha fallito, allora vuol dire che la lettura non fa per lui. La terza,
drammatica conseguenza è che anche l’insegnante si mette in testa che il suo allievo non
imparerà a leggere. In questi casi l’approccio dolce dei metodi senza errori di avviamento alla
lettura, http://www.erickson.it/cgibin/erickson/CNT_libro_prod.jsp?~&OID=11508&dept=libri&prov=seen
grazie al quale il bambino fa esperienza di successo, costituisce una carta vincente.
Il computer può dare una mano decisiva all’educatore. Non è infatti facile: avere sempre i
disegni giusti a disposizione; sapere quando continuare a presentarli e quando cominciare
l’attenuazione; quali parole il bambino padroneggia e quali gli devono essere ancora insegnate;
mantenere l’attenzione dell’allievo sufficientemente a lungo su un compito così ripetitivo;
gratificare il bambino con la necessaria convinzione e sistematicità.
Per un software, invece, queste cose sono facilissime. Il programma Start
http://www.erickson.it/cgibin/erickson/CNT_libro_prod.jsp?~&dept=software&thisPage=libreria&OID=12143
propone al bambino tre parole, associate alle relative immagini, e gli chiede di sceglierne una.
L’impianto senza errori del modello di insegnamento è evidente. Di fronte a una situazione
come queste è praticamente impossibile sbagliare, dal momento che l’immagine dirige con
certezza la risposta del bambino.
In software tipo Start http://www.erickson.it/cgibin/erickson/CNT_libro_prod.jsp?~&dept=software&thisPage=libreria&OID=12143
è evidente la forte dose di individualizzazione. L’individualizzazione è l’adattamento di un
programma generale alle esigenze specifiche di un allievo. In linea teorica, tutta l’educazione
dovrebbe essere, in qualche modo, individualizzata. La programmazione personalizzata è come
un abito su misura. Rispetta le esigenze didattiche del bambino e si adatta ai suoi ritmi.
Il riconoscimento globale di parole intere non è l’unico modo di avviamento alla lettura, né
risolve tutti i possibili problemi di bambini in difficoltà in questo settore. Invece che un
approccio globale può venire proposto un approccio fonetico: il bambino deve analizzare i
fonemi costitutivi della parola e poi scegliere, tra alcuni che vengono proposti, i grafemi
corrispondenti corretti.
Quando un bambino ha imparato a riconoscere globalmente delle parole o a mettere insieme
lettere per leggere parole nuove, ha fatto un importante tratto di strada, ma molto resta
ancora da fare.
Prima di tutto, naturalmente, la comprensione del testo. Alcuni Software quali “Dalla parola
alla frase” http://www.erickson.it/cgibin/erickson/CNT_libro_prod.jsp?~&dept=software&thisPage=libreria&OID=17382 e “Il Mago
di Kevin” http://www.erickson.it/cgibin/erickson/CNT_libro_prod.jsp?~&dept=software&thisPage=libreria&OID=13548 possono
essere utili per un lavoro di questo tipo.
I bambini in difficoltà traggono molti vantaggi da programmi specifici che insegnano abilità
preparatorie ai compiti scolastici tradizionali e che il computer può aiutare a sviluppare in
modo divertente: stare attenti su un compito per un tempo sufficiente; sviluppare la memoria
visiva e di posizione; acquisire abilità discriminative di base; familiarizzare con i concetti
elementari di logica e di matematica. A questo proposito si vedano i software “Il gioco
dell’occhio” http://www.erickson.it/cgibin/erickson/CNT_libro_prod.jsp?~&dept=software&thisPage=libreria&OID=12177
e “Clifford”. http://www.erickson.it/cgibin/erickson/CNT_libro_prod.jsp?~&dept=software&thisPage=libreria&OID=17634
Esistono oggi numerosi software multimediali per l’avviamento ai primi concetti aritmetici. Il
bambino impara a riconoscere i numeri, ad associare a un numero la quantità corrispondente,
a conoscere la successione dei numeri fino a 9, a contare, a comprendere, entro certi limiti, il
significato di zero, più, meno, molti, pochi per poi passare alle tabelline e alle quattro
operazioni (si vedano i software “Tabelline che passione” http://www.erickson.it/cgibin/erickson/CNT_libro_prod.jsp?~&dept=software&thisPage=libreria&OID=12178 e
“Matematica facilissima” http://www.erickson.it/cgibin/erickson/CNT_libro_prod.jsp?~&dept=software&thisPage=libreria&OID=12178).
Per la produzione avanzata di un testo scritto è utile puntare sull’apprendimento della
videoscrittura. Si è visto che allievi deficitari, che tendono a produrre a mano testi disgrafici,
difficili da leggere, colgono grandi vantaggi dall’uso dei programmi di videoscrittura. Per un uso
didattico e riabilitativo del word processing con allievi incapaci di usare la tastiera a causa di
deficit motori o sensoriali può prendere in considerazione l’uso di software di videoscrittura
facilitata.
La personalizzazione del sistema multimediale sulle specifiche esigenze dell’allievo
Una modalità ideale è la scrittura di un ipertesto che potrà usare un linguaggio basato sulle
esigenze dell’allievo. Se fosse necessario potrebbe persino essere scritto in stampatello
maiuscolo e, con l’ uso di uno scanner, potrà contenere le stesse immagini del libro dei
compagni. L’effetto stigmatizzante è quindi molto attenuato e la possibilità di studiare su
strumenti come questi favorisce lo scambio con i compagni di classe.
Un ipertesto classico funziona di solito in questo modo. Lo si può sfogliare avanti e indietro, lo
si può leggere, si possono esplorare i suoi collegamenti per scoprire e imparare cose nuove. A
volte anche la programmazione di un obiettivo didattico ritenuto rilevante può ben convivere
all’interno di un software ipertestuale. L’ipertesto mette alla prova quanto il ragazzo ha capito,
in modo da insegnargli che non basta leggere, ma che bisogna anche capire.
Si può costruire ad esempio una storia di Roma ipertestuale adatta alle difficoltà cognitive
dell’alunno, tagliata come un abito su misura. Frasi semplici, spiegazioni chiare dei punti più
difficili grazie alla tecnica delle parole calde, collegamenti a pagine di approfondimento, prove
di comprensione, aiuti dopo le risposte sbagliate, gratificazione dopo quelle corrette,
valutazione dei risultati e dei progressi.
La costruzione di piccoli ipertesti da parte degli allievi stessi
Nella costruzione di un ipertesto o di un’applicazione multimediale, i meccanismi
dell’apprendimento cooperativo possono funzionare ottimamente. La costruzione di un
software ipertestuale o multimediale, fatta in gruppo, permette infatti a tutti i partecipanti di
dividersi i compiti e i ruoli, e di avere uno scopo comune e condiviso.
Oggi ci sono strumenti che consentono di creare software ipertestuali e multimediali anche a
persone prive di una specifica esperienza di programmazione. Con un computer si possono per
esempio creare piccole fiabe e storie multimediali semplicemente con qualche clic del mouse
creando testi, animazioni, musiche e voci o anche utilizzando e eventualmente modificando
sfondi e disegni già pronti (si veda il software Autore Junior http://www.erickson.it/cgibin/erickson/CNT_libro_prod.jsp?~&dept=software&thisPage=libreria&OID=12181).
Approfondimenti
Area del Portale Erickson “Nuove tecnologie per l’apprendimento” http://www.erickson.it/cgibin/erickson/CNT_area_nt.jsp?~&filepath=doc_nt.txt a cura di F. Celi e coll.
Software didattici per l’apprendimento e l’integrazione si veda
approfondimenti\software_didattici.pdf
di Fabio Celi
7.2 Il ruolo delle TIC per superare difficoltà visive degli studenti
A cura di Flavio Fogarolo
7.2.1 L’intervento educativo e riabilitativo
Per molte persone la vista è considerata il più importante dei sensi e la cecità il più inquietante
e spaventoso degli handicap.
Nel loro percorso verso l'emancipazione sociale e culturale, condotta in prima persona da loro
stessi, i ciechi hanno dovuto spesso confrontarsi con pregiudizi e ostacoli sociali di vario tipo.
Per quanto grave, la cecità è un handicap che tocca un aspetto parziale, se pure importante,
delle capacità della persona. Moltissime sono le cose che il cieco è comunque in grado di fare,
sia sfruttando adeguatamente gli altri sensi (udito e tatto, in particolare) che avvalendosi di
strumenti e strategie alternative con le quali svolgere azioni comunemente basate sulla vista.
Gli alunni disabili visivi iscritti nelle scuole italiane sono circa 2500, pari al 2% del totale.
Circa un terzo di questi presentano purtroppo anche altre minorazioni aggiuntive, di tipo
motorio, uditivo o cognitivo. Richiedono quasi sempre interventi educativi rigorosamente
personalizzati sotto tutti i punti di vista, compreso naturalmente l'eventuale impiego delle
tecnologie .
Gli alunni ipovedenti sono circa il 45% dei disabili visivi. Essi sono in grado di acquisire molte
informazioni attraverso la vista (fondamentali, in particolare, quelle che danno autonomia di
movimento) ma hanno bisogno di ricorre a metodi o strumenti alternativi per svolgere le
attività scolastiche.
Più strumenti e metodi sanno padroneggiare, meglio possono adattarli alle varie circostanze
per superare i limiti della propria minorazione.
I ciechi assoluti rappresentano il rimanente 20% dei disabili visivi. Per loro il Braille costituisce
il principale codice di comunicazione scritta e il tatto un canale fondamentale di informazione.
Oltre gli obiettivi culturali e didattici, rimane per loro estremamente importante lo sviluppo
dell'autonomia personale e delle capacità di orientamento e movimento nell'ambiente.
7.2.2 Il ruolo della tecnologia
Per tutti il computer è uno strumento utile per comunicare ed espandere le conoscenze ma per
chi ha grossi limiti visivi esso appare sempre più come un mezzo indispensabile ("vitale" in un
certo senso) per lo sviluppo di relazioni sociali e l'accesso alla cultura e all'informazione.
Grazie alle TIC una persona priva della vista può fare cose impensabili solo poche decine di
anni fa: leggere autonomamente il quotidiano, consultare una enciclopedia o un dizionario,
corrispondere per iscritto con persone che non conoscono il Braille.
Con delle semplici tecnologie in grado di convertire il testo stampato in documento elettronico
(scanner e software di riconoscimento caratteri - OCR) può accedere anche ai testi cartacei,
pur con qualche limite legato alla qualità della stampa (i testi scritti a mano sono ancora
inaccessibili), alla struttura della pagina, alla presenza di grafici, disegni e altre informazioni
non testuali, a codici non alfabetici come quello matematico.
Anche le pagine musicali possono essere lette dai non vedenti grazie a specifici software di
riconoscimento dei segni notazionali e di conversione in formato elettronico e quindi in quello
Braille musicale..
I problemi dell'accesso.
E' opportuno considerare separatamente ciechi e ipovedenti perché assai diverse sono le
tecnologie impiegate e il modo di usarle:
- i ciechi devono sostituire completamente il video con strumenti alternativi di tipo sonoro o
tattile e hanno sempre bisogno di un software (chiamato screen reader, lettore di schermo)
che aiuta a comprendere e elaborare anche le informazioni non puramente testuali;
- gli ipovedenti cercano di sfruttare al massimo le informazioni visive fornite dallo schermo
(possibilmente attraverso un monitor di grandi dimensioni) e, dopo aver configurato al meglio
la propria postazione, intervengono di volta in volta con le strategie più opportune per
superare i problemi che via via si presentano.
Per scrivere il cieco non ha bisogno di tastiere particolari. Con un adeguato addestramento,
usando correttamente tutte e dieci le dita, chiunque può imparare a digitare al computer senza
guardare i tasti e questo vale naturalmente anche per ciechi e ipovedenti.
L'accesso alla tastiera standard può rappresentare un problema quando alla minorazione visiva
si aggiungono altre difficoltà, ad esempio di tipo motorio, che rendono difficile la scrittura con
entrambe le mani.
La gestione del mouse è basata sul coordinamento occhio-mano ed è quindi impossibile per i
ciechi. In sua vece essi dovranno utilizzare strategie di input alternative attraverso la tastiera:
scansione da menù a struttura gerarchica oppure accesso diretto con i tasti di scelta rapida
(shortcuts).
Tutti i programmi dovrebbero prevedere queste possibilità che rientrano tra i requisiti standard
di accessibilità.
Per gli ipovedenti l'accesso attraverso il mouse può essere conveniente ma sarà necessario
rendere più visibili i puntatori caricando nel proprio computer dei set ingranditi, colorati e, se
necessario, anche lampeggianti. Ma il mouse è un sistema di puntamento e per poterlo usare
in modo efficace non basta vedere la freccia (il puntatore) ma è indispensabile sapere anche
dov'è il bersaglio (l'icona, il pulsante, il menù… su cui si deve cliccare). Per questo motivo
spesso, purtroppo, ingrandire il puntatore non è sufficiente a risolvere il problema e l'unica
soluzione è, anche per gli ipovedenti, è l'uso dei comandi alternativi da tastiera.
Strumenti per l'accesso ai computer per i ciechi
1 - Il display Braille
Per qualche veloce informazione sul Braille, sia tradizionale che informatico, consultare
"Infobraille" di Franco Frascolla: http://www.provvstudi.vi.it/erica/infobraille/infobraille.htm
Il display Braille (chiamato in Italia anche barra Braille, riga Braille o Braille labile) è un
dispositivo che, connesso al computer consente di leggere con il tatto, facendo scorrere i
polpastrelli sulla barra, il testo che compare sul video, automaticamente convertito in codice
Braille.
Ciascun carattere è rappresentato da una celletta con 8 forellini disposti in due file di 4; da
ogni forellino può essere fatto sporgere un minuscolo cilindretto che diventa al tatto un punto
in rilievo. I cilindretti vengono di volta in volta alzati o abbassati, a seconda del carattere che
deve essere rappresentato, seguendo la codifica Braille.
I display Braille utilizzano il codice Braille informatico a 8 punti, diverso quindi da quello
tradizionale a 6 punti usato nella stampa.
Il codice informatico offre una maggiore varietà di simboli disponibili e consente di
rappresentare al tatto, in modo univoco, un elevato numero di caratteri (28=256 anziché
26=64).
Anche per imparare il Braille si possono usare le TIC: Corba (COnoscere il BRAille) è un
tutorial italiano di auto apprendimento destinato ad adulti vedenti (genitori, insegnanti,
operatori). Si può prelevare liberamente all'indirizzo:
http://www.provvstudi.vi.it/erica/cobra/index.htm
Strumenti per l'accesso ai computer per i ciechi
2 - La sintesi vocale
La sintesi vocale è un software che, trasforma in voce un qualsiasi testo elettronico
memorizzato nel computer.
La qualità del parlato è meccanica e in genere poco espressiva, ma in grado di fornire le
informazioni principali presenti nello schermo, purché disponibili in modo testuale.
Assai più difficile, anche se non impossibile, è ottenere attraverso la sintesi informazioni sulla
forma del testo (punteggiatura, ortografia, attributi) e questo diventa assai penalizzante in
ambiente scolastico, ad esempio nello studio delle lingue straniere.
Il principale vantaggio della sintesi è dato dalla possibilità di lasciare le mani libere e quindi di
poter tenere sotto controllo le variazioni dello schermo anche mentre si usa la tastiera.
Per utenti esperti questo si traduce in una maggiore velocità di gestione.
I moderni computer con sceen reader sono tutti dotati di sintesi vocale ed è possibile usarla
congiuntamente al display Braille, sfruttando a seconda delle esigenze i vantaggi di entrambi.
Per maggiori informazioni sull'uso delle sintesi vocali per non vedenti si può consultare questa
pagina http://www.galiano.it/soft/sintesi.htm dove è possibile anche sentire anche un file audio
di esempio.
Strumenti per l'accesso ai computer per i ciechi
3 - Lo screen reader
La schermata del computer non contiene solo testo e non sempre si presta ad una analisi
sequenziale come quella che sono in grado di fornire il display Braille e la sintesi vocale.
Lo screen reader è un programma che consente di esplorare con il display Braille o la voce
sintetica tutti gli oggetti presenti sul video: finestre, menù, pulsanti, icone… Con questo
software il non vedente può inoltre mantenere il controllo attivo attraverso le informazioni
mirate fornite dai suoi strumenti di accesso.
E' possibile scaricare gratuitamente dalla rete dei dimostrativi di screen reader. Hanno tutti la
sintesi vocale incorporata per cui si tratterà inevitabilmente di download assai impegnativi
(alcune decine di Mb).
Jaws, lo screen reader più diffuso in Italia, si può prelevare alla pagina:
http://www.subvisionmilano.com/scarica.htm;
Un altro importante screen reader disponibile in italiano è Window-Eyes:
http://www.gwmicro.com/demo/;
Infine Hal, anch'esso in italiano, a: http://www.dolphinuk.co.uk/downloads/index.asp.
L'accesso ai computer per gli ipovedenti
1 – Personalizzare la postazione
Un computer usato da un ipovedente dovrà essere accuratamente personalizzato per
rispondere alle sue specifiche esigenze visive. Molti problemi di accesso (non tutti, purtroppo)
possono essere superati in modo semplice ed efficace agendo sui parametri di configurazione
del computer, senza bisogno di acquistare software o hardware aggiuntivo.
Per maggiori informazioni sulla personalizzazione del computer si può consultare la specifica
sezione del sito Handitecno dell'INDIRE : "Guida all'adattamento del PC- Accesso Facilitato e
Funzioni Ingrandenti"
http://www.bdp.it/handitecno/modules.php?op=modload&name=EZCMS&file=index&menu=1
6&page_id=133
Alla configurazione del PC in base alle esigenze degli utenti disabili visivi è dedicato il
laboratorio collegato a questa unità.
L'accesso ai computer per gli ipovedenti
2 – Usare le funzioni di ingrandimento e zoom offerte dagli applicativi
Quasi tutti i programmi di uso più comune presenti nei nostri computer danno all'utente la
possibilità di scegliere le dimensioni dai caratteri del testo. Molti ci lasciano anche regolare lo
zoom agendo sulla sola visualizzazione a video, senza modificare le dimensioni fisiche del
testo.
Saper gestire queste funzioni è fondamentale per un utente con problemi di vista che potrà
selezionare di volta in volta la modalità di ingrandimento più efficace in modo potersi
focalizzare, secondo le necessità, sui dettagli o sulla visione di insieme.
L'accesso ai computer per gli ipovedenti
3 – I programmi ingrandenti
I programmi ingrandenti, detti anche semplicemente "ingranditori", sono degli applicativi
realizzati espressamente per agevolare l'accesso al computer agli ipovedenti.
Il loro scopo principale è naturalmente quello di aumentare le dimensioni degli oggetti che
appaiono sullo schermo, ma molto importanti sono anche le funzioni di supporto alla lettura e
all'esplorazione di cui i prodotti commerciali più evoluti dispongono.
L'ingrandimento riduce pesantemente la porzione del video accessibile e questo crea grossi
problemi di navigazione perché spesso obbliga a far scorrere orizzontalmente e verticalmente il
testo da leggere e può rendere invisibili e inaccessibili molti pulsanti sui quali sarà impossibile
cliccare con il mouse. Ad esempio con un fattore 3 (le dimensioni di tutti gli oggetti vengono
triplicate) la porzione di schermo accessibile è ridotta a un nono; questo significa che oltre
l'80% dei comandi presenti nello schermo non sarà direttamente accessibile con il mouse.
Anche per gli ingranditori è possibile scaricare gratuitamente dalla rete dei dimostrativi a
tempo.
Tra i più conosciuti: Zoom Text
http://www.aisquared.com/Products/ZoomText7/Z7FreeTrial/Z7L2FreeTrial.cfm, Lunar
http://www.dolphinuk.co.uk/downloads/index.asp e Magic
http://www.freedomscientific.com/fs_downloads/magic.asp
7.2.3 Le TIC per migliorare la qualità dell'istruzione e dell'integrazione scolastica
degli alunni disabili visivi
Tre sono, per ciechi e ipovedenti, i principali ambiti di utilizzo delle TIC a scuola:
1 - strumento di lavoro personale per superare i maggiori ostacoli che l'alunno con disabilità
visiva incontra nel suo lavoro scolastico;
2 – partecipazione alle attività della classe basate sulle TIC..
3 – strumento degli insegnanti per produrre in modo efficace documenti e materiale didattico
in formato accessibile (stampe Braille e ingrandite, disegni in rilievo…).
Strumento di lavoro personale
Per l'alunno con gravi disabilità visive l'uso del computer come strumento di lavoro quotidiano,
sia a scuola che a casa, offre notevoli vantaggi.
Tra i principali:
- maggiore velocità ed efficienza in molte operazioni legate alla gestione di documenti, sia in
lettura che in scrittura;
- possibilità di gestire autonomamente alcune operazioni impossibili con i sistemi tradizionali,
come ad esempio la consultazione di un dizionario o di una enciclopedia.
- per i ciechi, la possibilità di comunicare e di scambiare documenti indipendentemente dal
codice, Braille o testo stampato, per cui anche l'insegnante che non consoce il Braille può
seguire direttamente, senza bisogno di intermediari, il lavoro scolastico del non vedente.
- per gli ipovedenti, il superamento dei problemi legati alla disgrafia. E' frequente che soggetti
con gravi limiti visivi producano testi scritti dalle forme irregolari e scomposte; a volte questo
non genera problemi (se non, nei più piccoli, un certo rischio di demotivazione) ma in certi casi
riduce le possibilità di rilettura, già compromesse, del soggetto e quindi il controllo e
l'eventuale correzione della propria produzione scritta.
Partecipazione alle attività della classe basate sulle TIC
E' importante che lo studente con disabilità visiva partecipi a tutte le attività sulle TIC proposte
alla classe.
Questo significherà probabilmente rendere accessibile almeno una postazione in aula
informatica o spostare al bisogno quella usata in classe.
Più complesso è il problema dell'accessibilità del software multimediale perché possa essere
utilizzato con le periferiche particolari dei ciechi i programmi devono rispettare alcuni standard
di progettazione che purtroppo, almeno in Italia, sono spesso ignorati dalle case editrici.
Se, ad esempio, un testo viene mostrato a video come fosse un'immagine e il sistema
operativo non è in grado di riconoscerne il contenuto, lo screen reader potrà fornire nessuna
informazione né al display Braille né alla sintesi vocale. Oppure, se un programma si può
comandare solo attraverso il mouse e non sono previsti comandi da tastiera, non potrà mai
essere usato da un non vedente.
Strumento dell'insegnante
Per poter svolgere le stesse attività dei compagni, gli alunni con disabilità visiva hanno spesso
bisogno di materiale didattico adattato: tattile, sonoro o ingrandito.
Come per i compagni, il solo libro di testo non è più sufficiente ed è necessario intervenire con
strumenti specifici.
Con un computer e una stampante apposita è semplice e veloce stampare documenti in Braille,
eventualmente procurandosi i testi digitati con lo scanner e un programma di riconoscimento
dei caratteri (OCR). Alcune stampanti Braille consentono anche di creare con facilità semplici
disegni in rilievo.
Attrezzatura necessaria
Per quanto riguarda i ciechi, l'accesso al computer attraverso il Braille è da ritenersi
indispensabile. Il display Braille è un apparecchio piuttosto costoso e a volte si tende ad
accontentarsi della sola sintesi vocale, sempre associata allo screen reader. E' una soluzione
molto limitante ed accettabile, eventualmente, solo in una fase iniziale, in attesa di poter
fornire una postazione completa.
Le informazioni fornite dalla sola sintesi vocale, senza supporto tattile, sono assai ridotte e
non investono, se non indirettamente, aspetti importanti del testo come la correttezza
ortografica e la punteggiatura. Alcune discipline, come ad esempio le lingue straniere e la
matematica, sono improponibili con la sola sintesi.
Da notare inoltre che la sintesi vocale può creare un certo disturbo in classe e costringere
l'alunno a servirsi di cuffiette o auricolare isolandosi dall'ambiente.
La stampante Braille è senza dubbio utile a scuola. E' un parecchio molto rumoroso per cui è
spesso preferibile collocarla fuori dell'aula, meglio se connesso ad un computer che dispone
anche di uno scanner con programma OCR per produrre velocemente documenti elettronici da
leggere al computer o da stampare in Braille.
Per gli ipovedenti sarà necessario un computer ben configurato, con schermo di grandi
dimensioni.
Per gli alunni più grandi, con maggiori esigenze di autonomia e la necessità di usare anche
software che non consente di regolare la dimensione dei caratteri, è necessario un programma
specifico di ingrandimento.
Prerequisiti e addestramento
Anche i bambini piccoli, appena alfabetizzati, sono in grado di apprezzare i vantaggi della
scrittura e lettura attraverso il computer. Se ci sono le possibilità, è opportuno quindi iniziare
molto presto ad usare le TIC, in pratica appena il bambino sarà in grado di leggere in modo
efficace il Braille o il testo ingrandito.
Si può ridurre al minimo la necessità di addestramento specifico ricorrendo a programmi
semplici, di uso immediato e facilitato (ad esempio Erica
http://www.provvstudi.vi.it/erica/inf_gene.htm per i ciechi, Omnibook
http://www.provvstudi.vi.it/omnibook/index.htm per gli ipovedenti).
E' però indispensabile che il bambino con minorazione di vista impari fin da subito a digitare
correttamente sulla tastiera, usando tutte e dieci le dita. Per i ciechi può apparire scontata,
ma deve essere considerata irrinunciabile anche per gli ipovedenti.
Ci si può servire di programmi specifici che facilitano l'acquisizione del metodo e forniscono un
ambiente di apprendimento più stimolante.
Il programma 10dita www.provvstudi.vi.it/erica di libera duplicazione, è stato realizzato
pensando espressamente alle esigenze di bambini ciechi e ipovedenti.
Accettazione e motivazione
Non sempre gli alunni gradiscono il computer sul banco.
I maggiori problemi si hanno con gli ipovedenti e derivano dall'eccessiva visibilità dello
strumento che segnala in modo indiscreto e immediato la diversità di chi lo usa.
I PC portatili sono maggiormente graditi; se l'alunno è in grado di usarlo senza problemi può
essere una soluzione accettabile. Spesso purtroppo non è così: per lo schermo di piccole
dimensioni, la tastiera compatta e con meno punti di riferimento, il tipo mouse... l'uso del
computer portatile si rivela assai complesso per molti ipovedenti.
I problemi di accettazione sono minimi con i bambini più piccoli e quasi inesistenti con i ciechi.
Le discipline
L'utilizzo delle TIC per gli alunni disabili visivi risulta conveniente in molte discipline
scolastiche.
Semplice e immediato è l'uso in ambito letterario e, in generale, ogni qual volta si richiede la
produzione o la fruizione di documenti di tipo testuale.
Le cose si complicano quando il testo è integrato da componenti grafiche (disegni, fotografie,
fumetti, cartine, diagrammi) o da informazioni testuali organizzate in modo bidimensionale
(tabelle, schemi, approfondimenti collocati su box separati). A volte è possibile riorganizzare il
tutto in modo testuale senza perdere informazioni significative, in altri casi sarà necessario
produrre degli oggetti grafici in rilievo da consultare con il tatto oppure, per gli ipovedenti,
degli schemi ingranditi e stilizzati ad alto contrasto.
La scrittura matematica rappresenta da sempre un ostacolo considerevole per i ciechi e gli
ipovedenti. Il codice Braille consente di scrivere tutta la matematica in modo sequenziale ma la
gestione scolastica risulta spesso problematica per le difficoltà legate alla manipolazione delle
formule.
Per un cieco è, ad esempio, molto complesso esplorare la formula per coglierne struttura e
relazioni, per non parlare dell'impossibilità di esaminare la formula mentre si scrive (le mani
sono occupate in lettura) che costringe, quando si risolve un'espressione, a memorizzare una
riga, elaborarla a mente e poi ricopiarla trasformata nella riga successiva.
Il computer può ridurre molte di queste difficoltà, soprattutto se si usa un programma
progettato specificamente.
Anche per gli ipovedenti la matematica rappresenta spesso un ostacolo. Essi non hanno
bisogno, come i ciechi, di ricorrere ad un codice sequenziale e possono scrivere le formule in
modo normale, ingrandendo opportunamente i caratteri, ma l'esplorazione e l'analisi del testo
matematico rappresenta anche per loro un grosso problema.
Il computer offre il vantaggio di poter variare facilmente il rapporto di ingrandimento e passare
da una visione di dettaglio a quella d'insieme, utile per cogliere anagogie e relazioni.
La scrittura di formule al computer non è però molto agevole e, soprattutto, non è semplice la
loro manipolazione (è opportuno ricordare che a scuola non basta scrivere le equazioni,
bisogna anche risolverle…). Utenti esperti, soprattutto nel selezionare, copiare e incollare
porzioni di formule, riescono ad operare abbastanza facilmente, ma nella maggior parte dei
casi per gli ipovedenti il computer non si rivela una soluzione realmente valida.
Modulo 7.3 – Integrazione dei disabili e TIC
A cura di Riccardo Celletti
(1) Introduzione alle problematiche dei discenti audiolesi: parola o segni?
Qualcuno ha paragonato i soggetti sordi alla neve. A prima vista i bianchi fiocchi sembrano
tutti simili tra loro. Ad osservarli con un microscopio ci si accorge però di una peculiarità:
sono tutti diversi! Tanto da non trovarne due simili. Analogamente i soggetti sordi si collocano
in un range d’ampia variabilità, rivelandosi assai diversi.
Nelle nostre classi troveremo sordi figli di sordi e sordi figli di udenti. Sordi abituati ad
esprimersi con la modalità comunicativa dei segni e sordi in qualche misura “parlanti”. C’è il
sordastro che, a prima vista, nemmeno si nota. E c’è il sordo profondo con pochissimi residui
uditivi. Iniziano a vedersi soggetti con impianti cocleari.
Nel “Pianeta Sordi” c’è chi s’impegna verso la parola parlata. Sono per lo più i sordi
protesizzati, figli di udenti. Con costanza ed impegno riescono ad apprendere la parola e ad
esprimersi oralmente in maniera abbastanza buona.
Al polo opposto troviamo i fautori della LIS (Lingua Italiana dei Segni). Costoro affermano che
questa modalità comunicativa è la loro lingua naturale, appresa per lo più in ambiente
familiare.
Che fare? Quale approccio privilegiare in classe con un alunno sordo? Hanno ragione gli oralisti
oppure sono i segnanti che propongono le innovazioni più valide? A mio giudizio non c’è una
risposta univoca. Ed allora occorre chiedersi: quando hanno ragione gli “oralisti”? Quando i
“segnanti”.
(2) Di fatto occorre attuare un principio basilare di estrema importanza. Non deve essere
l’alunno sordo a adattarsi alla metodologia dell’insegnante. Ma dovrà l’insegnante
adattare la propria prassi didattica alle peculiari esigenze comunicative del discente
sordo.
Questa modalità operativa sta prendendo sempre più piede. Oggi in diverse Università italiane
l’assistenza proposta agli studenti sordi è duplice. Accanto all’interprete della lingua dei segni
c’è un assistente alla comunicazione. Loro stessi scelgono di chi avvalersi. Inoltre, come
vedremo in seguito, sono attivati alcuni sussidi tecnologici.
Ovviamente non significa gettare nel cestino tutta quella variegata prassi pedagogica oggi
attuata: il bimodale, il bilinguismo, l’oralismo hanno la loro ragione di essere non in termini
assoluti ma in quelli relativi delle esigenze e delle richieste del discente. E della sua famiglia, il
cui ruolo è importantissimo.
E le nuove tecnologie? Che ruolo hanno e come si collocano in questo contesto? Di fatto
possono offrire alla classe un valido aiuto sia per gli oralisti sia per i segnanti. Questo perché le
TIC sono basate su un sistema percettivo-motorio. Ovviamente occorrerà privilegiare il canale
percettivo alle sole componenti testuali/visive.
Nessun apprendimento può basarsi solo sul sistema “percettivo-motorio”. Occorrerà attuare
strategie mirate affinché tutte le componenti “simbolico-ricostruttive” vengano a collocarsi tra
l’input percettivo e la risposta motoria.
(3)
L’approccio oralista
Quando l’alunno è stato rieducato alla parola, e/o è protesizzato. Quando i residui uditivi
consentono una buona discriminazione del parlato l’uso delle TIC consente di ottenere i
massimi benefici specialmente nella fase dell’ampiezza concettuale del “vocabolario”
posseduto. Cosa che rende attuabile quest’approccio anche nei primi anni delle scuole
elementari.
Oltre a software applicativo, come da scheda allegata, scheda software, è possibile
intervenire in proprio strutturando semplici programmi, anche in word o in power point,
proponendo le coppie “immagini e parole”. E’ da favorirsi il ricorso a classi operative: stessa
parola riferita ad immagini diverse.
Ovviamente la diversità delle immagini dovrà ricercarsi nell’interpretazione diversa della parola
proposta. Esempio: la parola “porta” riferita ad un monumento storico, alla porta di casa, a
quella di un campo di calcio ecc. ecc. ….. anche nella verbalizzazione: “Mamma porta la spesa”.
Con minime conoscenze del PC è possibile strutturare da soli veri programmi sottotitolati.
Questo consente al sordo di leggere sullo schermo del computer quello che l’insegnante sta
dicendo, di utilità soprattutto nelle condizioni sfavorevoli per la lettura labiale. Esempio tipico
di spalle alla classe, mentre si scrive sulla lavagna.
L’insegnante usa un microfono collegato ad un computer dotato di software a sintesi vocale.
Questo programma realizza il traslato da audio a forma testuale leggibile su un comune
monitor.
(4)
L’approccio segnante
Nei casi in cui il canale comunicativo privilegiato dall’alunno sordo è costituito dalla LIS è
possibile usare parzialmente quanto proposto nella prima parte, per gli “oralisti”, specialmente
in contesto didattico di tipo bimodale ove è possibile far coesistere la parola al segno.
Specificamente esistono vocabolari multimediali in cui al binomio parola-immagine si affianca
la specifica animazione in LIS. Come da esempio di figura. <<lis.gif>>
Questo si rivela di estrema utilità in quelle classi ove si favorisce l’integrazione proponendo
anche agli allievi normoudenti lo studio della LIS stessa.
C’è, a questo proposito, un’importante iniziativa in corso di completamento. Un gruppo di
scuole romane sta lavorando ad un software funzionale alla strutturazione di un vocabolario
multimediale e multimodale.
Verranno proposte (in formato testo, grafica ed animazioni in LIS) alcune parole facente parte
di un lessico di base. All’insegnante verrà anche data l’opportunità di inserire altri termini in
modo da completare via via l’opera. Ipotizzano anche una condivisione di risorse in modo da
diffondere capillarmente la struttura
Attualmente, nel panorama del web italiano, esistono alcune iniziative simili. (Vedi scheda di
sitografia). Inoltre lo sviluppo delle tecnologie sta rivalutando la possibilità di trasmettere in
video conferenza filmati e quindi animazioni in LIS. Con i sistemi MMS sarà possibile anche
con i nuovi videotelefoni.
(5)
Il ruolo delle TIC nella didattica della classe
Ad una prima schematizzazione possiamo osservare l’utilizzo delle TIC per i discenti sordi
secondo due ben specifiche direttive:
q In ambito locale con software appositi o programmi applicativi; (scheda software)
q In ambito telematico con l’utilizzo delle risorse di internet (scheda sitografica)
Ovviamente i due approcci possono e devono coesistere. In rete posso prelevare del materiale
o delle informazioni che poi elaboro e propongo in ambito locale con software di facile utilizzo.
Internet non è soltanto una pur immensa enciclopedia multimediale. E’ uno strumento di
comunicazione che ben si presta nell’approccio con gli audiolesi. Di fatto è possibile, per un
sordo, interagire nelle comunità virtuali della rete in condizioni di parità nei confronti dei
normoudenti. Sempre che, ovviamente, disponga di un adeguato bagaglio lessicale.
Per questo motivo sono fortemente incoraggiate tutte le attività didattiche proposte tramite il
canale verbale. Tutte le altre opzioni linguistiche tipo mimica, linguaggio iconico, segni ecc.
dovrebbero costituire un valore aggiunto che integra la parola parlata ma non la sostituisce.
Disponendo di lettore DVD nei computer è possibile l’utilizzo di film avvalendosi della
sottotitolazione degli stessi. Questo permette alla classe di assistere alla rappresentazione ma,
al contempo, si superano le difficoltà di discriminazione del parlato nell’ipoacusico. La
possibilità di scelta dei filmati da proporre in chiave didattica è notevole.
(6)
Il ruolo delle TIC nella didattica della classe: i software
Occorre superare il primo e più diffuso luogo comune: il software specifico per sordi non deve
necessariamente essere “muto”! Questo per diversi motivi. Intanto, occorre ricordarlo, non è il
singolo alunno sordo ad usufruirne ma l’intera classe e quindi alunni normoudenti. La
componente audio delle multimedialità è quindi bene accetta.
Inoltre un allenamento acustico è sempre positivo specialmente per i sordi protesizzati. Specie
se il programma in uso è strutturato a livello multimodale oltre che multimediale, e quindi
veicola l’informazione scritta in simultanea con il messaggio sonoro. Questa prassi può
consolidarsi in un’educazione all’ascolto.
Di fatto i software didattici aspecifici o specifici per gli audiolesi dovrebbero possedere alcune
peculiarità. E’ apprezzata da tutti la semplicità e la facilità di utilizzo. Anche l’usabilità del
prodotto deve risultare entro i parametri allo scopo definiti.
Parlando di software molto spesso ci s’imbatte in atteggiamenti dicotomici. O si nutre
un’eccessiva fiducia nel prodotto o, di contro, si mostra una totale indifferenza. Lo avete intuito
anche voi: al cospetto degli alunni sordi non può esserci un software risolutivo di tutti i
problemi. Ma questo non significa spegnere il PC.
Viene richiesto un uso intelligente del computer. Occorrerà lavorare in sinergia ampliando le
opzioni didattiche e non soltanto delegando ad un pur ottimo software il compito
dell’educazione dell’alunno sordo.
(7)
Il ruolo delle TIC nella didattica della classe: Internet
Siamo portati ad utilizzarlo in vari modi: ci navighiamo alla ricerca di informazioni, lo
utilizziamo nelle chat, nei forum, nelle mail. Ora lo impieghiamo con la formazione a distanza.
Però, di fatto, ignoriamo l’enorme potere che internet da a tutti. Il potere degli editori. La
possibilità di pubblicare a costo zero qualsiasi cosa.
Questo è importantissimo per i sordi in quanto costituisce un potente strumento motivazionale.
Avere la possibilità di pubblicare la propria pagina web in rete significa contribuire a
consolidare la stima di se, l’immagine dell’IO. Sappiamo tutti quanto questo sia importante
per un soggetto con difficoltà comunicative e quindi di relazionarsi.
E’ stato ricordato che Internet costituisce un potente strumento di comunicazione. Di fatto è
possibile attivare modalità comunicative secondo le opzioni:
q Uno a uno (e mail)
q Uno a tutti (mailing list)
Favorire e instaurare dei rapporti di scambio epistolare con coetanei, audiolesi e normoudenti,
significa offrire un importante contributo a quell’importante fase di socializzazione, a volte
limitata per le intuibili difficoltà comunicative.
Le mail list consentono agli insegnanti un’opportunità di confronto e di aggiornamento sia con
colleghi di altre scuole che con genitori di persone audiolese o con operatori delle diverse
associazioni esistenti. Principalmente sono attive due liste: una generica dedicata alla sordità e
l’altra specifica per le problematiche della LIS. (scheda sitografica)
(8) Buone prassi di integrazione scolastica
Molti esempi di buone prassi di integrazione scolastica provengono dalla s.m. per sordi
Severino Fabriani (si veda la scheda relativa) di Roma. In questo plesso la totalità del corpo
docente vanta altissima esperienza didattica nei soggetti con diversi gradi di sordità ed anche
con soggetti con impianto cocleare.
Quello che emerge da un’analisi delle loro proposte didattiche si può sintetizzare nel principio
della realtà. Operano usando i materiali che possono disporre ed hanno uno sguardo attento
alle peculiarità dei singoli discenti e del territorio locale.
Sintetizziamo, con le parole della prof.ssa Giuseppina Battaglia, una delle loro attività
didattiche: “Partendo quindi dalla passione degli alunni per l'informatica, si è pensato
di coniugare questo gusto per il tecnologico con il sapore più tradizionale, ma sempre
fortemente coinvolgente, del teatro, materializzando sulla scena ipotetiche videate
del computer.”
L’aspetto principale di quest’esperienza è legato al fatto che la Scuola citata non ha delegato
al computer ed a un software le problematiche di apprendimento. Ha usato intelligentemente
questo strumento inserito in un contesto operativo più ampio nel quale ogni soggetto ha avuto
uno specifico ruolo operativo.
Questa ed altre esperienze sono state a suo tempo monitorate dal Ceddam un centro risorse
che operava sotto la direttiva dell’ex Provveditorato di Roma. Si allega la scheda della S.
Fabriani (si veda scheda Severino Fabriani) nella sua originalità per i doverosi approfondimenti
(9) Avete sicuramente notato, approfondendo la prassi della “Severino Fabriani”, il contesto
applicativo legato all’uso della LIS. Nei diversi casi operativi, quando si voglia privilegiare il
canale orale si può prendere, come esempio, le modalità proposte dal “Progetto Voice”
http://voice.jrc.it/schools/_schol_i.htm
La sperimentazione di questo progetto è iniziata, direttamente in diversi plessi scolastici, nel
1997. Ora i risultati sono già consolidati, anche a livello europeo. Il sistema si basa “… sul
riconoscimento vocale nelle conversazioni, conferenze, trasmissioni televisive e
comunicazioni telefoniche. Il Progetto sviluppa dei prototipi di interfacce che
consentono un uso più facile di prodotti commerciali, per generare sullo schermo di
un PC dei sottotitoli di quanto viene detto.” (Giuliano Pirelli)
Operativamente “voice” utilizza programmi di riconoscimento vocale. In questo modo è
possibile dettare al computer qualsiasi messaggio usando un microfono e senza l’uso della
tastiera. Il testo acquisito dal computer in questo modo ha le stesse identiche proprietà di
quelli usualmente redatti con i noti programmi di videoscrittura.
Ma questo non è sufficiente ed è richiesto un adattamento in modo da far apparire le frasi
dette al microfono in una finestra dedicata. Spesso questo avviene posizionando la finestra dei
testi sotto un quadro video che riprende il volto della persona che sta parlano. Il risultato è una
sinergia: testo scritto, audio in sincronia, possibilità di lettura labiale
(10) Il sistema è funzionale. Si presta per l’impiego nei confronti dei soggetti che hanno già
un’idoneo vocabolario di base. E’ evidente l’analogia con i libri scritti: perché un sordo che
potrebbe leggere tutti i libri che vuole ha difficoltà nell’apprendimento linguistico?
Perché il sordo legge con gli occhi mentre voi normoudenti leggete con le orecchie! Pensiamoci
un attimo: si può leggere ad alta voce o sotto-voce. Ma quando manca l’immagine acustica
della parola che succede? Manca un’idonea trasposizione dal grafema al fonema. Insorgono
quindi difficoltà di lettura.
La sfida ed il maggior impegno sono quindi collocabili nei primi anni di vita del piccolo sordo. E’
importante una protesizzazione precoce, un costante aiuto dalla famiglia. Un’incisiva
programmazione didattica negli anni delle elementari. Solo così sarà possibile la strutturazione
di una adeguato vocabolario di base.
Questo è utilissimo nel discorso della transizione scuola-lavoro. E’ con un buon vocabolario di
base che il sordo potrà inserirsi in condizioni di parità nel mondo degli udenti. In assenza di
interprete LIS la comunicazione sordi udenti deve privilegiare la lettura labiale.
Lettura labiale? Il termine non rende bene il concetto sotteso. Alla fin fine non si tratta di una
lettura poiché alcuni fonemi non sono visibili labialmente. Si tratta di un’identificazione: riesco
a comprendere quello che l’interlocutore dice solo se la parola letta sulle labbra fa parte del
mio vocabolario.
7.4 Il ruolo delle TIC per superare difficoltà motorie degli studenti
7.4.1 I problemi degli studenti con disabilità motoria
a cura di Caracciolo Antonio,Fabio Brusa e Serenella Besio
Le persone con disabilità motoria, a causa di particolari condizioni di salute o di un trauma
subito alla nascita o dopo, presentano un danno al sistema nervoso centrale o periferico che
provoca difficoltà nel controllo motorio, cioè a coordinare e pianificare l’attività motoria.
Le caratteristiche del movimento che ne possono derivare sono: riduzione in precisione;
impossibilità di muovere alcune parti del corpo; riduzione in velocità; riduzione della forza
muscolare; affaticamento; movimenti involontari; difficoltà di coordinazione oculo-manuale.
Alla disabilità motoria possono essere connessi altri danni: difficoltà o deficit cognitivi; danni
sensoriali (visivo, uditivo); difficoltà o assenza di linguaggio; problemi posturali e di
posizionamento.
Nel caso di prevalente danno motorio, l’apprendimento dello studente può procedere con i
tempi e le modalità previste per il suo livello scolare, adottando le soluzioni tecnologiche
necessarie.
Se invece la situazione è più complessa, si ricorre ad una programmazione individualizzata,
con tempi e attività differenziati. Come sottolineato dalla letteratura di settore, è importante
che essa sia strutturata sulla base delle esigenze specifiche, opportunamente testate, e che
preveda precise fasi di progressione e valutazione.
Le TIC, insieme alle Tecnologie di Ausilio (TA), permettono oggi agli studenti con disabilità
motoria di effettuare pressoché qualunque attività prevista in ambito scolastico, in modo
autonomo. E’ necessario tuttavia valutare attentamente le esigenze e capacità di ciascuno
studente per individuare la soluzione più efficace, che comprende la scelta del dispositivo di
accesso al computer, del software e del posizionamento di fronte allo strumento.
Per offrire supporto alle scuole e alle famiglie in questa scelta, sono sorti in tutta Italia alcuni
centri che offrono consulenza sugli ausili e sono costituiti da personale specializzato (link a sito
GLIC+SIVA+AUSILIOTECA).
Infine, non va mai dimenticata l’importanza, per questi studenti, di una specifica e ben
costruita fase di addestramento all’uso del computer, delle TA e delle TIC prima che vengano
usate per supportare le tradizionali attività di insegnamento e apprendimento.
7.4.2 Dispositivi di accesso al computer per disabili motori
Lo studente disabile motorio presenta ovviamente difficoltà nell’interagire con gli strumenti di
accesso standard al PC: la tastiera e il mouse.
74.2.1 Tastiere
Se le difficoltà di movimento non sono particolarmente gravi, i problemi riscontrati nell’utilizzo
della tastiera possono essere la pressione contemporanea di più tasti, selezioni indesiderate o
la gestione di combinazioni di tasti per la selezione dei caratteri speciali.
In questo caso potremmo utilizzare semplici ausili di adattamento:
ü scudi di protezione: mascherine forate di plastica o di metallo che poggiano sopra le
tastiere standard facilitando l’accesso ai tasti che vengono premuti infilando il dito nel
corrispondente foro (Fig.1);
ü software di adattamento delle funzionalità della tastiera: regolazione dei tempi di
risposta e di ripetizione, gestione delle combinazioni dei tasti per l’attivazione di funzioni
speciali, emulazione del mouse attraverso il tastierino (Tab.1 e Tab.2).
Se le capacità di controllo e di movimento degli arti risultano più compromesse, bisogna
scegliere tastiere alternative:
ü espanse: minor numero di tasti e con dimensioni maggiori rispetto allo standard
(Fig.2), facilitano la selezione del tasto;
ü ridotte: tasti più piccoli o ravvicinati (Fig.3), efficaci quando l’utilizzatore ha difficoltà ad
effettuare ampi spostamenti ed è soggetto ad affaticamento;
ü con overlay intercambiabile o programmabile: composte da superfici sensibili al
tocco, suddivise in aree a ciascuna delle quali è possibile associare funzioni differenti
attraverso layout precostituiti o attraverso opportuni software di programmazione
(Fig.4).
ü emulatori di tastiera: software specifici per la riproduzione a video della tastiera
controllati attraverso il mouse (Fig.5).
74.2.1 Mouse
I dispositivi di puntamento alternativi al mouse sono:
ü track balls: sfruttano il movimento di una sfera in un vano per riprodurre i movimenti
del cursore a video; esistono di ogni forma e dimensione e sono dotate di tasti
programmabili (Fig.6-7);
ü touch pads: simulano le funzionalità del mouse attraverso lo sfioramento di una
superficie piana sensibile al tocco, sono principalmente utilizzate su computer portatili
ma possono essere collegate anche ai comuni desktop (Fig.8);
ü joystick: il movimento di una leva che si sposta nelle varie direzioni permette di
controllare il cursore del mouse. Sono spesso molto utili poiché simili a quelli utilizzati
per il controllo delle carrozzine elettriche (Fig.9);
ü emulatori di mouse a testa: trasformano i movimenti del capo in movimenti del
cursore a video. Il click può essere automatico o fornito da pulsanti esterni (Fig.10).
ü touch screen: lo schermo tattile è una superficie sensibile e trasparente che si
sovrappone allo schermo del computer e che assolve completamente le funzioni del
mouse: per spostare il cursore del mouse è sufficiente toccare la superficie sensibile in
corrispondenza della posizione desiderata. Particolarmente indicato per bambini o per
persone con difficoltà cognitive e per chi presenta difficoltà di coordinamento visuomotorio (Fig.11).
Per persone le cui capacità motorie sono talmente compromesse da non permettere l’utilizzo di
nessuno degli strumenti sopra citati, esiste una gamma di software funzionanti attraverso una
tecnica denominata scansione (Tab.3). Questa tecnica si basa sulla presentazione a video
delle differenti opzioni da selezionare (lettere, funzioni del mouse, menù, ecc.) organizzate in
tabelle (Fig.12).
La selezione è effettuata attraverso opportuni sensori di comando che esistono in commercio
di differenti forme, dimensioni, sensibilità; azionabili con mani, piedi, testa, soffio, voce,
movimenti muscolari, in base alle capacità e possibilità residue dell’utilizzatore (Fig.13).
Un’ultima modalità molto interessante per il controllo del computer è il comando vocale: il
software di riconoscimento rileva la voce dell’operatore e trasforma i suoni in comandi per il
computer. E’ possibile controllare le funzionalità del sistema operativo (gestione file e cartelle,
controllo del mouse, menù) o semplicemente immettere testo semplicemente parlando.
7.4.3 La scelta del software
Una volta trovate le soluzioni personali all’uso di mouse e tastiera, per il software si può
ricorrere, a seconda dei casi, a prodotti commerciali o specifici (link a sito sd2.itd.ge.cnr.it).
I problemi fondamentali a cui il software deve rispondere, nel caso degli studenti disabili
motori, sono i seguenti.
a. Impossibilità di usare alcuni strumenti.
ü Per la scrittura: videoscrittura tradizionale, software semplificati, oppure per scrivere
testi complessi (giornalino, favola, ipertesto).
ü Per il disegno e l’espressione grafica: programmi per colorare, in modo più o meno
preciso; per tracciare forme simboliche (Paint, o programmi specialistici); per la grafica.
ü Per tracciare forme geometriche: software per il disegno; LOGO; esercitativi per lo
studio della geometria; per il disegno tecnico, versioni facilitate di AutoCad.
ü Software per la scrittura aritmetica, dal calcolo in colonna, fino alle espressioni
aritmetiche, con i simboli di diverse funzioni.
ü CD tematici e dizionari elettronici per lo studio ; può essere utile disporre di un formato
elettronico della pagina di testo con lo scanner, anche per una lettura automatizzata.
b. Difficoltà ad apprendere procedure attraverso l’esercizio. Lo scarso uso di strumenti può
produrre un ritardo nell’automatizzare alcune procedure; a sua volta, ciò può rallentare
l’accesso ad apprendimenti più complessi. Si tratta allora di utilizzare software che, di volta in
volta, supporti l’apprendimento della scrittura, permetta il calcolo in colonna, o calcoli
particolari, ecc.
c. Necessità di velocizzare la prestazione, per ridurre la fatica di esecuzione e rilasciare
energie libere per apprendimenti più complessi; una prestazione più veloce permette inoltre di
seguire la programmazione della classe. Quando un apprendimento è consolidato, è necessario
offrire allo studente strumenti efficaci che evitino dispersioni di tempo in attività ormai note.
ü software per velocizzare la digitazione su tastiera, per automatizzare la ricerca della
lettera desiderata;
ü software per la scrittura che offra feedback uditivo permette di migliorare il controllo
sulla scrittura, sopperendo alla lentezza di alternanza di sguardo fra tastiera e monitor;
ü software di predizione o di completamento di parole, per rendere più rapida la scrittura
di testi.
7.4.3.1 TIC, TA e apprendimento
La scelta del software e dei dispositivi di accesso deve essere effettuata sempre in relazione
alle capacità dello studente (motorie e cognitive) e allo scopo di permettergli il massimo
rendimento per l’obiettivo didattico stabilito. Occorre saper gestire l’equilibrio fra aspetti
esercitativi ed aspetti cognitivi del compito proposto, stabilendo ogni volta le relative priorità.
Così, non è opportuno fornire al bambino che entra alla scuola elementare un sistema di input
vocale anche se lo agevola sul piano motorio (e magari sarà la soluzione per il futuro), perché
questo sistema di accesso non gli consentirebbe di apprendere il codice scritto, ma solo di
esercitare quello verbale.
Anche un software per effettuare il calcolo in colonna deve essere usato per apprendimenti
procedurali, e al livello scolare adeguato; altrimenti, è più opportuno fornire una calcolatrice.
La presenza di una disabilità cognitiva costituisce un’importante variabile per la scelta del
dispositivo di accesso. In alcuni casi un touch screen permette di ovviare all’impossibilità di
comprendere il rapporto fra l’azione a distanza del mouse e il movimento del cursore sullo
schermo.
In altri casi potrà essere utile una tastiera semplificata, o una con i tasti in ordine alfabetico. Di
solito, risulta difficile in questi casi l’adozione di un sistema a scansione. Va da sé che la scelta
del software in questi casi deve ricalcare attentamente la programmazione individualizzata.
7.4.4 Postura, TIC e TA
Una postura corretta al computer evita l’insorgere di dolori e permette un agevole utilizzo
dello strumento: maggiore è la gravità della disabilità motoria, maggiore attenzione dovrà
essere prestata a questo problema.
Gli ausili idonei a garantire una buona postura devono rispondere alle necessità di ogni
singolo utente: operatori specializzati nel settore dovrebbero sempre essere consultati per
individuare una buona soluzione.
L’ausilio più adatto consente di ottenere la migliore postura (cioè un corretto allineamento
di tutti segmenti corporei: arti inferiori, bacino, tronco, capo e arti superiori), ma offre
anche comodità e funzionalità.
Non sempre una postura corretta è anche comoda e funzionale; in certi casi si dovrà
arrivare ad una mediazione tra questi tre elementi, ed è per questo che è molto importante
tendere ad una forte individualizzazione della scelta.
Nelle situazioni non particolarmente complesse, si possono utilizzare confortevoli sedie
imbottite con braccioli regolabili in altezza, per garantire un adeguato sostegno delle braccia,
appoggiapiedi regolabili, per posizionare correttamente i piedi e le gambe, ed eventuali
sostegni laterali per sostenere e contenere il tronco consentendo un corretto allineamento.
Un corretto allineamento e un buon sostegno del tronco faciliteranno anche un
allineamento del capo, permettendo una corretta visione del monitor. Queste sedie possono
essere dotate di ruote per facilitarne lo spostamento nei vari ambienti (Fig.14).
In situazioni più complesse si deve ricorrere ad ausili più complessi, al fine di compensare quei
deficit muscolari che non consentono il mantenimento di una corretta postura. Per questo
scopo, oltre ai vari sostegni già considerati le sedie devono avere la possibilità di regolare la
reclinazione dello schienale ed il basculamento della seduta (Fig.15).
Nei casi in cui lo studente utilizza già un ausilio per la mobilità (passeggino, carrozzina
manuale o elettrica, …), si dovrà individuare il sistema posturale più indicato per lui,
compatibile con l’ausilio per la mobilità in uso.
Un sistema posturale può essere costruito su misura seguendo le forme corporee dell’utente,
per adattarsi alle sue dimensioni e alle possibili deformità (Fig.16), oppure può essere
personalizzabile in base alle esigenze di ogni singolo utente.
Mentre è difficoltoso ottenere un buon posizionamento utilizzando dei passeggini, ottimi
risultati si possono ottenere se il sistema posturale è posizionato su una carrozzina,
che ha caratteristiche strutturali più simili ad una sedia. Oggi quasi tutti i sistemi posturali sono
compatibili con i modelli di carrozzine presenti sul mercato.
In questi casi si dovrà inizialmente verificare e valutare se e come vi è la necessità di
contenere e/o correggere la posizione del bacino e delle gambe (Fig.17); si valuterà poi il
miglior sistema per un corretto contenimento/allineamento del tronco (Fig.18) ed infine, se
necessario, si dovrà prevedere un sistema per un adeguato contenimento del capo, o di
semplice sostegno o di contenimento (Fig.19-20-21).
I piedi, se possibile, dovranno essere sempre in appoggio. Sarà necessario che i poggiapiedi
siano regolati in modo da mantenere gli angoli articolari delle ginocchia e delle caviglie a
90°.
In alcune situazioni tuttavia l’appoggio dei piedi può favorire lo scatenarsi di schemi patologici
che compromettono il mantenimento di una postura corretta, e diventa quindi opportuno
evitare l’appoggio dei piedi e trovare soluzioni alternative.
Anche gli arti superiori, se necessario, dovranno essere posizionati in modo tale da
mantenere una data postura (Fig.22), o utilizzare degli ausili per facilitarne il movimento,
altrimenti difficoltoso o impossibile (Fig.23), oppure si dovranno trovare accorgimenti per
ridurre tremori o distonie. In quest’ultimo caso a volte può essere utile usare polsiere
appesantite sull’arto da utilizzare.
Altri elementi molto importanti abbinabili ai sistemi posturali sono: le cinture pelviche
(Fig.24), per il contenimento dell’estensione del bacino, e cinture a bretellaggio, per il
sostegno del tronco (Fig.25-26). Essi devono essere adottati solo in base ad un’attenta
valutazione
e
soprattutto
posizionati
correttamente
per
evitare
situazioni
controproducenti e dannose.
In certi casi la posizione più funzionale per lavorare al computer è quella eretta o semieretta. Essa può inibire schemi patologici che altrimenti comprometterebbero un movimento
funzionale. Anche in questi casi un ruolo fondamentale assume un’attenta e corretta
valutazione per individuare l’ausilio più idoneo (Fig.27-28-29-30).
Una volta trovata la postura adeguata, bisognerà trovare il miglior posizionamento del
dispositivo di accesso rispetto al segmento corporeo usato; anche in questo caso non
esistono indicazioni univoche, ma soltanto soluzioni personalizzate studiate sulla base delle
potenzialità motorie del singolo utente.
Vale la pena sottolineare infine l’importanza di individuare una postura che lasci l’utente
libero di usare quelle parti del corpo con cui potrà utilizzare al meglio gli ausili per
accedere alle tecnologie per l’informazione e la comunicazione.
7.5 IL RUOLO DELLE TIC PER STUDENTI CON PROBLEMI DI DISLESSIA E DISGRAFIA
a cura di Claudia Nicoletti
Introduzione
Su cento studenti della popolazione scolastica italiana, all’incirca da tre a cinque presentano
una difficoltà persistente e significativa nel tradurre i segni del linguaggio scritto nelle parole
che ad essi corrispondono, cioè nella lettura. Si tratta di difficoltà che non hanno nulla a che
vedere con l’intelligenza e che si manifestano in ragazzi che non sono pigri né svogliati né
tanto meno ottusi, al contrario spesso presentano una intelligenza brillante nettamente
superiore alla media. E’ il caso di Federico, ragazzo curioso, intraprendente, allegro, che
tuttavia quando deve leggere commette molti errori ed è sorprendentemente lento rispetto ai
suoi compagni di classe. Le sue difficoltà non si limitano alla lettura: nello scrivere Federico
commette molti errori ortografici, la sua grafia è decisamente poco comprensibile e tabelline e
semplici calcoli aritmetici a mente lo mettono in seria difficoltà. Il problema di Federico è la
dislessia evolutiva.
Per dislessia evolutiva si intende un disturbo della lettura che si manifesta in età di sviluppo in
assenza di disturbi cognitivi, neurologici, relazionali, sensoriali e nonostante normali
opportunità educative e scolastiche: i bambini e i ragazzi che ne sono affetti sembrano
“resistere” all’apprendimento della lettura, della scrittura e spesso anche dei numeri e del
calcolo. A volte sono etichettati come svogliati, spesso sono considerati facilmente distraibili,
irrequieti, impulsivi, altre volte ancora timidi e ansiosi.
Tuttavia il loro non è un problema di scarsa volontà, di cattivo comportamento o di ansia. Si
tratta al contrario di bambini e ragazzi che impiegano moltissime risorse per cercare di
ottenere risultati nella lettura e nella scrittura che purtroppo spesso sono inadeguati alla loro
intelligenza e all’impegno profuso per raggiungerli.
1
Va precisato che la dislessia nei bambini viene definita evolutiva in quanto è un disturbo della
lettura che si presenta sin dall’esordio della scolarizzazione e si distingue dalla dislessia detta
acquisita, che è invece la perdita da parte di un adulto della capacità di leggere normalmente a
causa di un trauma che provoca una lesione cerebrale (un ictus ad esempio).
Ecco la testimonianza di Emanuela, una ragazza dislessica che ha raccontato personalmente la
sua esperienza in occasione di un convegno: “…. Quando frequentavo la scuola elementare mi
sentivo immersa in una gigantesca barriera di limiti: le lettere dell’alfabeto che dovevo
faticosamente riconoscere; le cifre che spesso scrivevo invertite, i numeri con gli zeri in mezzo
che non sapevo dove collocare;… Un’altra barriera terribile era l’umiliante lettura ad alta voce:
cercavo di non alzarmi dal banco per sottrarmi alla desolante performance….”. I problemi di
Emanuela non migliorano con il passaggio dalla scuola elementare alla scuola media.
Molti ragazzi sfuggono alla diagnosi perché il loro disagio viene scambiato per altro:
malavoglia, scarso impegno, disattenzione, poca motivazione alla scuola se non addirittura
rifiuto. Oppure perché confusi con bambini con difficoltà scolastiche di altra natura, il cui basso
rendimento è dovuto a cause diverse: carenze emotive, socio-culturali, ambientali, handicap
sensoriali (deficit di udito o della vista) o addirittura ritardo mentale.
Fortunatamente oggi la dislessia evolutiva è oggetto di attenzione da parte di numerosi gruppi
di ricerca, di operatori dei servizi sanitari e della scuola, ciascuno interessato dal problema dal
punto di vista diagnostico o riabilitativo o educativo. Il rinnovato interesse ha dato alla
dislessia il giusto spazio all'interno della letteratura specialistica e nella formazione degli
operatori della riabilitazione e della scuola.
Questo fa sperare nella possibilità di un futuro scolastico sereno anche per i bambini e i ragazzi
dislessici, per quali imparare a scuola può diventare bello oltre che difficile.
Diversi personaggi famosi hanno ammesso pubblicamente le loro difficoltà di lettura, da Tom
Cruise alla cantante Cher al pilota Jackie Stewart. Alcuni ricercatori poi hanno individuato
personaggi del passato che con buone probabilità erano dislessici. Da queste ricerche
retrospettive sembra che, tra gli altri, Leonardo da Vinci, Albert Einstein, Isaac Newton,
Winston Churchill ed altri ancora potessero presentare difficoltà di questo tipo.
2
7.5.1 Modelli teorici
Negli ultimi decenni sono stati elaborati alcuni modelli che descrivono il processo di lettura sia
dal punto di vista evolutivo sia dal punto di vista delle componenti che caratterizzano la lettura
in età adulta.
Per descrivere il processo di lettura in età adulta il modello più ampiamente accettato è quello
a due vie di Coltheart (1978) riportato in fig.1.
PAROLA SCRITTA
1
2
Sistema di analisi visiva
Rilevatore di parole
Magazzino semantico
Regole di trasformazione grafema-fonema
Magazzino fonologico delle parole
Magazzino fonologico per la risposta
PAROLA LETTA
Fig.1
1 = via lessicale o di accesso diretto
2 = via fonologica o di accesso indiretto
3
Secondo tale modello un buon lettore utilizza due strategie per leggere, una detta lessicale (o
di accesso diretto) e l'altra detta fonologica (o di accesso indiretto).
La strategia di lettura di accesso diretto consente di riconoscere globalmente la parola,
richiamandola dal repertorio lessicale (magazzino di parole scritte depositate in memoria),
senza trasformazioni intermedie grafema-fonema. Inoltre se l'input percorre tale via e "salta" il
passaggio attraverso il magazzino semantico (attraverso il quale si richiama il significato), con
un collegamento diretto tra il magazzino lessicale in entrata e quello in uscita, è possibile
leggere ad alta voce senza comprendere il testo.
La strategia di lettura fonologica implica l'analisi delle sub-unità che compongono la parola. La
lettura avviene attraverso la conversione grafema-fonema, ricostruendo la catena fonologica
che consente il recupero della parola dal repertorio lessicale.
Sulla base di questo modello a due vie, è possibile identificare due sottotipi di dislessia, a
seconda di quale delle due vie risulta compromessa: la dislessia superficiale e la dislessia
fonologica. Nella dislessia superficiale la via non efficiente è quella lessicale o di accesso
diretto, per cui il soggetto è costretto a leggere utilizzando principalmente meccanismi di
conversione grafema-fonema: la lettura risulta dunque lenta ma sostanzialmente corretta.
Nella dislessia fonologica invece, la via di lettura compromessa è quella fonologica, per cui il
lettore utilizza prevalentemente la strategia lessicale, risultando relativamente rapido ma
molto scorretto. Qualora entrambe le vie siano compromesse si puo' identificare un terzo tipo
di dislessia detta profonda, caratterizzata da lettura lenta e scorretta.
4
Alcuni ricercatori hanno messo in discussione la possibilità di spiegare le difficoltà di lettura e
scrittura in età evolutiva attraverso il modello a due vie elaborato per spiegare il processo di
lettura negli adulti, in quanto i bambini e i ragazzi che presentano dislessia non raggiungono
mai una efficienza completa in uno o entrambi questi processi. Il modello di apprendimento di
Frith (1985) sembra venire incontro agli inconvenienti dovuti all’utilizzo di modelli derivati dalla
clinica degli adulti per spiegare le difficoltà che si riscontrano in soggetti in età scolare.
Secondo tale modello l’apprendimento della lettura e della scrittura attraverserebbe quattro
fasi (fig.2):
Fig.2
LETTURA
SCRITTURA
Stadio
logografico
Stadio
logografico
Stadio
alfabetico
Stadio
alfabetico
Stadio
ortografico
Stadio
ortografico
Stadio
lessicale
Stadio
lessicale
5
Nello stadio logografico il bambino identifica la parola come fosse un “logo”, facendo cioè
riferimento ad indici puramente visivi. E’ il caso dei bambini prescolari che riconoscono le
insegne di alcuni negozi familiari o il proprio nome per la loro forma: non si tratta di lettura
vera e propria bensì di un riconoscimento delle caratteristiche visive salienti di una lettera o di
un gruppo di lettere.
Lo stadio successivo, detto alfabetico, è caratterizzato dalla conoscenza dell’alfabeto: in questa
fase il bambino conosce ed utilizza le corrispondenze grafema-fonema, applicandole in maniera
ordinata e rigida, vale a dire decodificando lettera per lettera ogni parola che incontra. In
questa fase il bambino diventa capace di leggere parole nuove purché le corrispondenze che ha
imparato glielo consentano. L’applicazione rigida dei suoni ai segni induce il bambino a
commettere errori “iperfonologici”, vale a dire dovuti al fatto di non tener ancora conto delle
convenzioni del nostro sistema ortografico (ad esempio nella lettura dei digrammi come gl, gn,
sc, ecc.).
Allo stadio alfabetico segue quello ortografico in cui il bambino impara ad associare un suono
ad un gruppo di grafemi, ad esempio il suono corretto per il digramma “gl”.
Infine nello stadio lessicale il bambino accede direttamente alla rappresentazione della parola
senza necessità di conversione grafema-fonema, associa quindi una stringa ortografica ad una
rappresentazione lessicale senza passaggi intermedi.
6
Sulla base di questo modello evolutivo, le difficoltà di lettura e scrittura che presentano
bambini e ragazzi potrebbero essere spiegate ipotizzando un difettoso passaggio dallo stadio
ortografico a quello lessicale nella dislessia superficiale, difficoltà nella transizione dallo stadio
alfabetico a quello ortografico nella dislessia fonologica ed infine un problema che insorge in
una fase ancor più precoce nella dislessia mista.
Quanto alla loro origine, è ormai acquisito che i disturbi specifici di apprendimento, costituiti
dalla dislessia, dalla disgrafia, dalla disortografia e dalla discalculia evolutive, hanno una base
ereditaria e familiare ed una matrice organica. Contrariamente a quanti credono che all’origine
di queste difficoltà vi possano essere gravi disagi provocati da fattori psicologici, sociali,
emotivi o addirittura da criteri di insegnamento che non tengono conto dei diversi tempi di
attenzione e di apprendimento, le evidenze provenienti dalla biologia molecolare e dagli studi
che si avvalgono delle tecniche di neuroimmagine mostrano come nei soggetti dislessici siano
stati individuati neurosistemi specifici o aree del cervello che non si attivano o che non
eseguono perfettamente il compito cui sono preposti.
Sono state avanzate diverse ipotesi su quali siano i meccanismi non efficienti. Secondo alcuni
ricercatori le difficoltà di tipo dislessico sono dovute ad un deficit del sistema visivo di
elaborazione delle immagini in movimento (considerato che durante la lettura gli occhi devono
scorrere le righe che contengono le parole).
7
Secondo altri autori il problema potrebbe essere dovuto a difficoltà di tipo uditivo,
specificamente ad una incapacità di elaborare stimoli acustici rapidamente, con una
conseguente sovrapposizione dei suoni nel cervello, che genera difficoltà nel linguaggio orale e
scritto. Una terza ipotesi di tipo linguistico sostiene che il meccanismo inceppato sia
l’elaborazione fonologica degli stimoli linguistici, vale a dire la scomposizione e l’organizzazione
delle parole in fonemi. Sarebbe dunque un deficit fonologico a spiegare il paradosso di persone
intelligenti che non sanno o fanno molta fatica a leggere. Una quarta ipotesi prevede che il
problema sotteso alle difficoltà di apprendimento possa essere un più generale deficit di
automatizzazione di diverse funzioni, dovuto ad una inefficienza del cervelletto, che
provocherebbe difficoltà a rendere automatiche, cioè rapide ed efficienti, diverse abilità tra cui
la lettura.
In ogni caso, ciò che accomuna i diversi gruppi di ricerca che sostengono queste diverse ipotesi
è il fatto che la dislessia, la disgrafia, la disortografia e la discalculia sono intese come disabilità
dovute ad una variante dalla norma dell’architettura delle funzioni cerebrali su base
costituzionale.
Questo comporta che, essendo i problemi di bambini e ragazzi dislessici legati ad una
condizione biologica costituzionale, non è corretto dire che dalla dislessia si guarisce, se per
guarigione si intende la totale scomparsa del sintomo e della condizione che lo causa. E’
corretto piuttosto parlare di miglioramento, inteso come la riduzione del grado di
manifestazione del difetto permanente.
8
7.5.2 Le potenzialità offerte dalle TIC per superare le difficoltà
Per migliorare le capacità di lettura e di scrittura si possono fare molte cose ed a questo
proposito le tecnologie dell’informazione e della comunicazione costituiscono uno dei mezzi più
indicati per far lavorare e per lavorare con il bambino dislessico a scuola.
Esse costituiscono un utile supporto sia all’alunno con difficoltà sia all’insegnante che debba
lavorare con lui.
L’alunno dislessico può leggere e scrivere, ma non per molto tempo, data la fatica, i tempi
elevati e gli errori commessi. Nel contesto scolastico, accanto ad opportune misure didattiche
che lo dispensano dal dover leggere o scrivere brani lunghi, l’adozione di strumenti informatici
è di grande aiuto sia per imparare che per migliorare le capacità di lettura e scrittura.
La videoscrittura costituisce un primo e fondamentale mezzo per ridurre la fatica del bambino,
che ha problemi di grafia e ortografia, e dell’insegnante, costretto a decifrare tratti il più delle
volte assolutamente illeggibili.
Il computer poi offre programmi che presentano i contenuti didattici in modo gradevole,
attraverso le fotografie, le animazioni, le parti vocali, e mediante una modalità interattiva che
aggira e riduce le difficoltà di chi fa fatica a leggere, favorendo l’apprendimento. Ci si può
soffermare sulle immagini, è possibile ascoltare più volte un contenuto o stampare alcuni passi
particolarmente utili. Spesso all’interno dei programmi vi sono test di verifica che consentono
anche di saggiare direttamente l’apprendimento. Sul mercato vi sono anche dei programmi che
consentono di leggere mediante un lettore ottico i brani desiderati potendoli ascoltare
attraverso l’emissione in voce. In questo modo qualunque libro o brano può essere letto dal
computer e ascoltato.
D’altro canto il computer è un utile strumento di lavoro per l’insegnante che abbia nel gruppo
classe un bambino con difficoltà specifiche di apprendimento. E’ risaputo come schemi, sintesi
dei testi contenenti i concetti principali, nonché prove di verifica che prevedano risposte a
domande a scelta multipla o contenenti figure, possano facilitare il compito del bambino
dislessico. Il computer si rivela alleato privilegiato dell’insegnante nel predisporre questo tipo
di attività.
9
7.5.3 Il software disponibile
L’informatica mette a disposizione programmi via via più evoluti ed a prezzi sempre più
accessibili. Al computer oggi si può chiedere di parlare o di scrivere, vi sono programmi per
correggere gli errori commessi durante la scrittura, per ascoltare dei testi immessi e per
mettere per iscritto brani dettati oralmente. Il computer insomma è un buon lettore, correttore
di testi e stenografo, che ascolta la voce, la memorizza e la trasforma in testo scritto che può
essere stampato.
Senz’altro di grande utilità in ambito scolastico è il programma MSWord per Windows, valido
sia per l’alunno con difficoltà che per l’insegnante. Attraverso la videoscrittura il bambino può
scrivere testi direttamente al computer in classe e a casa, riducendo il carico di lavoro dovuto
alle difficoltà grafiche di tipo esecutivo. MSWord per Windows inoltre nelle versioni più recenti
è dotato di correttore ortografico che sottolinea in rosso le parole scorrette o sconosciute ed
offre delle alternative per la correzione. Questo consente al bambino di produrre testi leggibili
senza eccessiva fatica e riduce la presenza di errori ortografici, mediante la correzione operata
autonomamente.
L’insegnante a sua volta può utilizzare questo stesso programma per preparare schemi,
riassunti e prove di verifica con domande a scelta multipla e figure.
Per quanto riguarda le attività di apprendimento alternative, oggi sono disponibili numerose
enciclopedie multimediali per ragazzi per favorire l’apprendimento di argomenti specifici:
esse offrono testi da leggere o da ascoltare, immagini e test che possono integrare il materiale
didattico tradizionale.
10
Utile per l’immissione di testi e di immagini è lo scanner, che consente di riportare sul monitor
e memorizzare i brani desiderati o le immagini utili all’integrazione dei testi scritti.
Altri programmi più specifici, che possono adattarsi al contesto scolastico in alcune condizioni
particolari, sono:
- “Il jolly” e “Il pescatore”, utilizzabili in età prescolare e nel primo ciclo della scuola
elementare per favorire l’analisi fonologica della parole;
- “Il gioco della rana” e “Invasori”, adatti a bambini di scuola elementare e a ragazzi di
scuola media, per stimolare i processi di lettura e di scrittura in compiti di decisione lessicale.
- Cloze, adatto dal secondo ciclo della scuola elementare in poi, facilita la comprensione dei
testi e pone in evidenza in essi anche le microcomponenti linguistiche. Basandosi sulla tecnica
delle “lacune”, il programma introduce dei “buchi” nei testi scritti che il bambino deve riempire.
La categoria delle parole mancanti (articoli, avverbi, nomi, ecc.) è decisa dall’esaminatore.
- “C.A.R.L.O.”, oggi presente anche in versione 2, editor di testi con predizione e controllo
ortografici, emissione in voce delle parole digitate e di testi immessi. Serve per scrivere
correttamente e per riascoltare quello che si è scritto o altri brani scannerizzati;
- “IBM Via Voice Pro”, oggi in versione 8, software di riconoscimento vocale, che dopo un
rapido addestramento al tipo di voce dell’utente, consente di dettare al computer quello che si
vuole scrivere all’interno di MSWord. Non è adatto a bambini piccoli.
11
12
7.5.4 Esperienze di uso in contesti scolastici
Le esperienze di uso del computer in contesti scolastici sono fortunatamente sempre più
numerose, ma spesso affidate ancora all’intuizione degli adulti
che seguono il bambino
(genitori, insegnanti, logopedisti, psicologi) e alla determinazione nel superare le proprie
difficoltà da parte dei bambini dislessici.
Biancardi e Milano nel testo “Quando un bambino non sa leggere” (1999) riportano la storia
virtuale di M.A.R.C.O., sintesi delle storie vere di Marina, Andrea, Roberto, Carlo e Orietta,
ciascuna delle quali ha degli aspetti positivi che possono essere presi come esempio di
esperienze per mettere il bambino dislessico nelle condizioni di imparare.
Le insegnanti di scuola materna di Marco si accorgono che il bambino a cinque anni commette
numerosi errori nel parlare e segnalano il fatto ai genitori, che contattano una equipe
territoriale specializzata nella diagnosi di difficoltà cognitive e di linguaggio. L’equipe valuta
Marco, evidenzia la sua buona intelligenza e riscontra in effetti la presenza di alcune difficoltà
di linguaggio. Gli operatori sanitari inviano il bambino in trattamento logopedico e
suggeriscono alle insegnanti di proporre a scuola delle specifiche attività che implicano l’analisi
fonologica della parola (fare delle rime, trovare parole con la stessa iniziale, ecc.) e di
introdurre elementi propedeutici all’apprendimento della lettura e della scrittura. In questo
modo quando Marco arriva in prima elementare legge e scrive, anche se è lento e scorretto.
Nel corso del primo ciclo di scuola elementare, Marco continua il trattamento logopedico e
torna periodicamente a controllo presso l’équipe del servizio sanitario. A scuola le insegnanti
accettano l’adozione di nuove misure didattiche ed approntano nell’aula di informatica attività
di lettura e di scrittura in piccoli gruppi ed un lavoro individuale al computer con programmi
specifici per stimolare la correttezza ortografica.
13
Quando Marco giunge in terza elementare appare chiaro che il suo problema è la dislessia. È
lento e scorretto nella lettura, la sua grafia è spesso illeggibile e commette numerosi errori
ortografici. Anche le tabelline e i calcoli aritmetici non sono il suo forte. Gli insegnanti e i
genitori predispongono tutta una serie di situazioni e strategie per consentirgli di imparare,
anche se con qualche difficoltà: sia a casa che a scuola vengono preparati schemi e riassunti
per l’apprendimento, sono favorite le attività di lavoro in piccoli gruppi e Marco può usare il
computer per scrivere alcuni dei propri testi che poi può stampare ed incollare sul quaderno. In
questo modo anche i suoi scritti più lunghi sono leggibili e Marco può correggere da solo gli
errori ortografici.
Alle scuole medie gli insegnanti diventano più esigenti, ma offrono a Marco ed ai suoi compagni
ulteriori strumenti per l’apprendimento: lo scanner, la sintesi vocale, correttori ortografici più
evoluti ed enciclopedie multimediali. Anche per l’esame di terza media vengono utilizzati questi
strumenti di facilitazione della lettura e della scrittura.
La storia scolastica virtuale di Marco termina in terza media, ma gli autori sostengono che è
bello pensare che il suo futuro scolastico da quel momento in poi dipende solo da lui, dalle
capacità che ha acquisito nel leggere e nello scrivere grazie all’esercizio, all’impegno suo e di
chi gli è stato vicino, e alla possibilità di utilizzare strumenti alternativi come il computer.
Proprio il computer infatti, insieme al registratore per riascoltare le lezioni spiegate in classe e
la calcolatrice per le difficoltà legate al sistema dei numeri e del calcolo, è ciò che lo
accompagnerà alle scuole superiori e all’università e rappresenterà l’“amico” fedele, il
compagno di avventura nel mondo dell’imparare.
14
Spunti di riflessione
La scuola materna, elementare, media e anche i successivi gradi di istruzione offrono al
ragazzo dislessico numerose opportunità di apprendere.
Ad ogni livello, all’insegnante è richiesto di essere in grado di valutare la necessità di un
approfondimento specialistico per chiarire esattamente l’origine, il tipo di difficoltà
presentate dal bambino e individuare quali sono le migliori strategie di intervento.
Tuttavia il ruolo dell’insegnante non termina qui. Sono maestri e professori che devono
approntare quotidianamente attività e situazioni che favoriscano l’apprendimento e
l’espressione dei contenuti dei propri alunni. In questo senso la flessibilità nei metodi è un
requisito indispensabile per poter lavorare proficuamente anche con bambini dislessici.
Senza dubbio utile è la predisposizione di prove di verifica specifiche e periodiche, che
consentono un confronto delle prestazioni dei bambini in momenti diversi dell’anno e
costituiscono una base per valutarne i progressi.
Quando la diagnosi di dislessia è certa, è indispensabile entrare nell’ordine di idee di trovare
spazi e tempi dentro e fuori dall’aula per l’inserimento di attività e strumenti didattici
alternativi.
Programmare ed insegnare, tenendo conto delle diverse forme di intelligenza presenti in
classe, risulterà infine un ottimo modo per coinvolgere tutti gli alunni, rendendo la vita
scolastica più articolata e gradevole.
15
La Discalculia Evolutiva
a cura del Dr. Enrico Savelli - Azienda USL Rimini
Introduzione
Lerner (1981) definisce la matematica come “…un linguaggio universale che rende gli individui in
grado di operare, registrare e comunicare idee inerenti gli elementi e le loro relazioni di
quantità…”.
Poter stabilire relazioni di quantità tra gli elementi della realtà offre una considerevole possibilità
adattiva e ci sono ragioni per ritenere che queste abilità siano filogeneticamente antiche e già
presenti in specie subumane (Dehaene, 2000; Pasini, 1992) sia pure in forme rudimentali e non
certamente come linguaggi formalizzati.
Anche nella prospettiva ontogenetica vi sono evidenze che l’abilità di orientare l’attenzione alla
dimensione della quantità e alle relazioni tra quantità diverse, in forme primitive dell’ordine di
grandezze non superiori al 3, siano presenti già nel neonato (Antell e Keating, 1983; Dehaene,
2000).
Tutto ciò porta a ritenere che esista una sorta di specializzazione funzionale nel sistema
cognitivo per la “conoscenza quantitativa/numerica” che si fonda su una predisposizione innata
e su strutture cerebrali specializzate, probabilmente localizzate nelle aree parietali (Fig.1).
Ciò ovviamente non significa negare il ruolo dell’ambiente e dei processi di istruzione che
consentono l’apprendimento della matematica come insieme formalizzato di principi, ma
semplicemente che l’apprendimento di queste abilità è reso possibile dall’esistenza all’interno del
sistema cognitivo di strutture specializzate, presenti fin dalle primissime fasi dello sviluppo, che
orientano l’attenzione verso le caratteristiche rilevanti della stimolazione ambientale, cioè “la
quantità di una certa cosa” (Gelman, 1990).
Il linguaggio matematico, un po’ come la lingua scritta, è un sistema di rappresentazione
simbolica che deve essere appreso e che infatti costituisce l’oggetto di un’istruzione formale a
partire dalla scuola elementare; tuttavia i processi cognitivi di base (codifica linguistica e visuospaziale) che consentono il formarsi di queste rappresentazioni e la possibilità di operare su di
esse, potrebbero essere geneticamente predeterminati, e in quanto tali soggetti a possibili
disfunzioni.
Gia in età pre-scolare (Gelman e Gallistel, 1978) i bambini possiedono una serie di abilità
aritmetiche come:
§
§
§
§
risolvere semplici problemi quantitativi
contare
enumerare insiemi di oggetti
formulare giudizi di quantità
Queste sono abilità naturali che nei termini piagetiani presuppongono la presenza di operazioni
logiche di corrispondenza biunivoca, equivalenza, seriazione.
Discalculia evolutiva
La discalculia evolutiva è un disturbo strutturale dell’abilità matematica che ha origine in un
disordine congenito di quelle parti del cervello che costituiscono il diretto substrato anatomofisiologico della maturazione delle abilità matematiche adeguate per l’età, senza una simultanea
compromissione delle funzioni mentali generali (Kosc, 1974).
I disturbi delle abilità matematiche occorrono raramente in forma pura nell’età evolutiva, mentre
caratteristicamente si associano ad altri disturbi evolutivi specifici (ad esempio, della lettura,
dell’organizzazione motoria, dell’attenzione). Essi costituiscono, comunque, a pieno titolo,
un’entità nosografica autonoma, il cui statuto clinico è riconosciuto anche dai principali sistemi
internazionali di classificazione diagnostica (DSM-IV dell’Associazione Americana di Psichiatria e,
ICD-10 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità).
L’ICD-10, per esempio, prevede uno specifico codice diagnostico (F81.2) per i “Disturbi specifici
delle abilità aritmetiche” che sono inclusi nella categoria più generale dei “Disturbi Evolutivi
Specifici delle Abilità Scolastiche”, assieme ai disturbi della lettura e della scrittura.
Il manuale diagnostico dell’OMS sottolinea che “…questi disturbi implicano una compromissione
specifica delle abilità aritmetiche che non è spiegabile solamente in base a un ritardo mentale
globale o a un’istruzione scolastica grossolanamente inadeguata. Il deficit riguarda la padronanza
delle capacità di calcolo fondamentali, come addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione
(piuttosto che delle capacità di calcolo matematico più astratto coinvolte nell’algebra, nella
trigonometria o nella geometria).” (ICD-10, 1995)
Oltre alla fondamentale incapacità nel calcolo, “…le difficoltà aritmetiche che possono verificarsi
sono varie, ma tra esse sono incluse:
§
§
§
§
§
§
§
§
un’incapacità a comprendere i concetti alla base di particolari operazioni aritmetiche;
una mancanza di comprensione dei termini o dei segni matematici;
il mancato riconoscimento dei simboli numerici;
la difficoltà ad attuare le manipolazioni aritmetiche standard;
la difficoltà nel comprendere quali numeri sono pertinenti al problema aritmetico che si sta
considerando;
la difficoltà ad allineare correttamente i numeri o ad inserire decimali o simboli durante i
calcoli;
la difettosa organizzazione spaziale dei calcoli aritmetici;
l’incapacità ad apprendere in modo soddisfacente le tabelle della moltiplicazione.
L’ampia varietà di difficoltà che può caratterizzare il quadro clinico della Discalculia Evolutiva, non
significa che esse siano sempre tutte necessariamente presenti; infatti esiste sia una variabilità
inter-individuale (tra soggetti diversi) che intra-individuale (in uno stesso soggetto nel corso
dello sviluppo) nell’espressività del disturbo, in cui l’aspetto comune va probabilmente ricercato
nei processi di base su cui poggia l’acquisizione delle abilità matematiche in generale.
Questa eterogeneità dei profili clinici e di sviluppo non sempre riconducibili ad una eziologia
univoca, apre questioni diagnostiche di non semplice soluzione. Recentemente la Neuropsicologia
Cognitiva con l’assunzione di un’architettura modulare delle funzioni mentali, ha offerto una
chiave di lettura nuova di questi disturbi, capace di riconciliare le diverse manifestazioni cliniche
del disturbo all’interno di un modello coerente e onnicomprensivo, che prevede una frazionabilità
interna delle componenti della funzione aritmetica.
Temple (1994; 1997) ha evidenziato alcune questioni rilevanti a questo proposito:
§
E’ possibile spiegare la Discalculia Evolutiva in relazione ai modelli normali di acquisizione e
funzionamento dell’abilità matematica ?
§
Ci sono evidenze di una indipendenza di queste funzioni dal funzionamento intellettivo
generale ?
§
Esistono limitazioni della plasticità funzionale di queste aree che consente un ripristino della
funzione ?
§
Esiste un percorso evolutivo unico di sviluppo di questa funzione, o vi sono più vie ?
Fino ai recenti sviluppi nell’ambito della Neuropsicologia Cognitiva, l’unica teoria psicologica che
ha tentato di spiegare lo sviluppo del concetto di numero e di altri concetti matematici era
quella piagetiana. Nella concezione di Piaget (Piaget e Szeminska, 1941) la matematica non può
essere concepita come un dominio conoscitivo indipendente e autonomo. Esso è parte
integrante dello sviluppo intellettivo generale e la struttura delle conoscenze nell’ambito logicomatematico seguono la stessa sequenza invariante di stadi che caratterizza complessivamente
lo sviluppo cognitivo; lo stesso vale per le operazioni logiche che il bambino è in grado di
applicare; operazioni che secondo Piaget, in parte precedono il periodo dell’istruzione formale
(classificazione, seriazione, corrispondenza bi-univoca, ecc.).
Tuttavia, questa concezione è stata recentemente criticata sotto vari aspetti, ma in particolare
nell’ambito clinico, l’analisi neuropsicologia ha fornito evidenze di una dissociabilità delle funzioni
cognitive (organizzazione modulare) e dei relativi corsi evolutivi, e questo fatto ha comportato
anche una sostanziale modifica nell’approccio clinico-diagnostico alla valutazione di questi
disturbi.
Stime Epidemiologiche
Non esitono molti studi di popolazione sulla Discalculia Evolutiva, ma i dati riportati da diversi
studiosi oscillano tra il 3% e il 6%, in relazione alle diverse età del campione e ai diversi criteri
diagnostici adottati, e non sembrano esservi differenze significative tra maschi e femmine.
Precedenti storici
I precursori delle moderne teorie neuropsicologiche possono essere individuati nelle “mappe
frenologiche” del secolo scorso, che includevano aree specifiche per il calcolo (comprensione di
numeri e quantità) e le dimensioni (giudizi di proporzione e spazio).
Le prime idee delle abilità matematiche come funzioni cognitive complesse che costituiscono un
sistema funzionale e che quindi non sono localizzabili in senso stretto in una singola area
cerebrale, ma sono più probabilmente distribuite su più aree, si devono a Luria (1973), il quale ha
ipotizzato un diverso ruolo delle aree associative parietali dei due emisferi, e in particolare:
§
area parietale inferiore SN (struttura categoriale dei numeri e sintassi)
§
area parietale DX (abilità visuo-spaziali come precursori dell’apprendimento dei concetti
matematici)
Questa prima distinzione tra il ruolo giocato dai due emisferi continua ancora ad avere una sua
validità e il diverso locus funzionale interessato potrebbe essere alla base delle diverse
associazioni con cui spesso la discalculia evolutiva occorre. Un’ipotesi clinica plausibile a questo
proposito, è che nei casi di interessamento delle aree parietali SN più probabilmente vi sia
un’associazione a disturbi specifici di lettura, mentre nei casi di interessamento delle aree
parietali DX, la discalculia dovrebbe più verosimilmente essere associata a disturbi
dell’organizzazione motoria.
La relazione tra disturbi specifici delle abilità aritmetiche e aree parietali destre è stata
recentemente ripresa da Rourke e Finlayson (1978) che include questi disturbi all’interno di una
categoria più generale per la quale ha coniato il termine di “sindrome non verbale” e che
presenta numerose analogie con la sindrome di Gerstmann, una sindrome neurologica acquisita
che alcuni autori hanno ipotizzato esistere anche per l’età evolutiva (Benson e Geschwind, 1970;
Kinsbourne e Warrington, 1963). Essa comprende quattro sintomi principali, tutte in relazione a
un danno delle aree parietali:
§
§
§
§
discalculia
disgrafia
disorientamento dx/sn
agnosia tattile
Inoltre, fino ai più recenti studi di neuroimmagini (Butterworth, 1999; Dehaene, 2000) non era
chiaro quale particolare relazione potesse legare quattro sintomi apparentemente appartenenti a
domini cognitivi così diversi. Infatti, questa particolare associazione potrebbe derivare dalla
semplice contiguità di aree cerebrali specializzate per funzioni diverse, come già notato da
Hinselwood (1917), più che da una fondamentale associazione cognitiva.
Già prima dell’avvento della moderna Neuropsicologia Cognitivista, i clinici che avevano affrontato
lo studio della Discalculia avevano evidenziato una eterogeneità di sintomi non sempre facilmente
riconducibili all’interno di un modello eziologico unitario e avevano così iniziato a tentare una
sotto-tipizzazione di questo disturbo dell’abilità matematica.
Un primo tentativo di classificazione delle Discalculie Acquisite di deve a Hecaen e al. (1961) che
avevano individuato almeno tre distinti sottotipi:
§
§
§
Alessia e agrafia di cifre e numeri (errori nel recupero di numeri)
Discalculia spaziale (errori nella collocazione spaziale)
Anaritmetia (errori nell’algoritmo delle operazioni)
In seguito Kosc (1979) ha classificato le Discalculie in sei sottogruppi:
§
§
§
§
§
§
discalculia verbale (identificazione dei termini matematici)
discalculia pratto-gnosica (manipolazione di oggetti)
discalculia lessicale (lettura dei numeri)
discalculia grafica (scrittura dei numeri)
discalculia ideo-gnosica (comprensione dei termini di un problema)
discalculia operativa (esecuzione degli algoritmi)
Ognuno di questi diversi sottotipi può occorrere isolatamente o in associazione ad altri.
Badian (1983) ha raggruppato le difficoltà che incontrano i bambini con discalculia all’interno di
tre diversi profili funzionali:
§
§
§
bambini che confondono le operazioni
bambini che non apprendono e ricordano le “tabelline”
bambini che hanno difficoltà con l’incolonnamento dei numeri
Questi primi tentativi di classificazione forniscono una mappatura estensiva della possibile
espressività del disturbo, tuttavia essi rimangono ad un livello descrittivo. Fino alla prima
formulazione di modelli dell’architettura funzionale dei processi cognitivi sottostanti
all’elaborazione del numero e del calcolo (McCloskey e al., 1985) non è stato possibile delineare
una cornice interpretativa unitaria capace di cogliere le interrelazioni tra i diversi sintomi,
all’interno della quale comprendere il significato funzionale di ogni particolare pattern di deficit
osservato. (Fig.2)
Il modello elaborato da McCloskey e al.(1985) distingue tra 3 diversi sottosistemi funzionali:
§
sistema di comprensione e produzione del numero (scomposto nei diversi codici in
cui le entità numeriche sono rappresentabili: verbale, arabico, ecc.)
§
sistema semantico di rappresentazioni interne astratte
§
sistema del calcolo ( a sua volta scomposto in recupero di fatti aritmetici e procedure
di calcolo)
I fatti aritmetici sono conoscenze apprese e immagazzinate stabilmente nella memoria a lungo
termine, che possono essere utilizzate in modo immediato e spontaneo. Ad esempio: 2+3=5; 124=8; 5x8=40; 100:2=50. Le procedure di calcolo sono essenzialmente gli algoritmi operatori
utilizzati per produrre risultati aritmetici. Si osservi che con l’esperienza e l’apprendimento alcune
procedure di calcolo, usate più comunemente, si trasformano in fatti aritmetici.
Vediamo un esempio d’uso del modello di McCloskey in cui viene rappresentata la soluzione di un
semplice problema di calcolo aritmetico: “8x3” oppure “otto per tre” che dir si voglia. (Fig.3)
1. Il problema viene presentato
a) in forma di cifre arabe e simboli matematici: 8 x 3;
b) in forma scritta o parlata: otto per tre.
2. Il problema viene compreso correttamente utilizzando il relativo meccanismo di comprensione
(decodifica delle cifre o delle parole) e viene convertito in un codice semantico astratto.
3. La rappresentazione astratta viene utilizzata per accedere al meccanismo di calcolo: fatti
aritmetici o procedure/algoritmi.
4. Il meccanismo di calcolo utilizzato restituisce una rappresentazione semantica astratta.
5. La rappresentazione è inviata ad uno dei due meccanismi di produzione e sarà espressa:
a) in forma di cifre arabe e simboli matematici: 24;
b) in forma scritta o parlata: ventiquattro.
Da questo modello deriva coerentemente una tassonomia dei disturbi delle abilità matematiche
che rispecchia questa particolare organizzazione della funzione. Si possono così avere:
§
§
§
disturbi nella processazione del numero (lettura e scrittura dei numeri)
disturbi nel recupero di fatti numerici (tabelline e operazioni entro il 20)
disturbi nella conoscenza procedurale (applicazione degli algoritmi delle operazioni)
La Valutazione Diagnostica
La valutazione clinica delle disabilità matematiche pone una serie di problemi in relazione alla
eterogeneità di caratteristiche con cui questi disturbi possono manifestarsi nei diversi individui e
nelle diverse fasi dello sviluppo. Questo implica che è necessario disporre di modelli teorici di
riferimento capaci di guidare l’indagine clinica in modo razionale e mirato.
Nonostante la prevalenza piuttosto elevata, la discalculia evolutiva resta un disturbo
relativamente poco conosciuto ed esplorato e, di conseguenza, ancora poco diagnosticato.
Un limite di questi modelli è che essi derivano dagli studi dell’adulto e non riescono di per sé a
cogliere gli aspetti evolutivi che portano a sviluppare un’architettura funzionale matura dei
“processi matematici”. E’ quindi necessario integrarli con le conoscenze derivanti dalla Psicologia
Evolutiva, che si è occupata di spiegare come i bambini arrivano a sviluppare le abilità
matematiche.
Negli ultimi trentanni molte ricerche, che hanno ripreso la tradizione piagetiana (Gelman e
Gallistel, 1978), si sono indirizzate allo studio di come il bambino arriva a conquistare la nozione
di numero, e quali particolari difficoltà può incontrare nell’impadronirsi del sistema di notazione
metrico-decimale.
Tipicamente, i bambini iniziano a contare (apprendono la sequenza di etichette verbali che
denotano le quantità) prima di essere in grado di stabilire una corrispondenza biunivoca tra il
conteggio e l’enumerazione degli oggetti che contano. Il passo successivo è la conquista della
“cardinalità”, cioè che l’ultimo numero dell’insieme comprende anche tutti i precedenti. Queste
abilità si automatizzano lentamente e vengono applicate con piccole quantità (solitamente entro
la decina), fino all’inizio della scuola elementare; qui il bambino è posto di fronte
all’apprendimento formale delle caratteristiche peculiari e del funzionamento del sistema di
notazione numerica a base decimale, vale a dire, agli aspetti lessicali e sintattici del nostro
sistema numerico. I numeri fino al nove sono infatti etichette verbali arbitrarie, ma sopra il nove
il sistema è organizzato secondo il principio stabile del valore posizionale delle cifre. Ciò rende il
sistema dei numeri (un po’ come l’alfabeto) un sistema produttivo, ma perché ciò avvenga è
necessario “appropriarsi” delle regole di combinazione (sintassi), che per alcuni alunni può essere
fonte di relativa difficoltà.
I disturbi aritmetici sono stati meno studiati di quelli della lettura e le conoscenze sugli
antecedenti, sul decorso, sui correlati e sull’esito sono, allo stato attuale, piuttosto limitate.
Tradizionalmente la valutazione in età pre-scolare si avvale delle classiche prove piagetiane di
equivalenza, conservazione del numero, seriazione, ecc., ma non è chiaro se la carenza di tali
abilità sia un precursore della Discalculia Evolutiva o, come è più probabile, di un ritardo
intellettivo generale. Un indicatore diagnostico più predittivo potrebbe essere costituito da un
deficit delle abilità visuo-spaziali (o sindrome “non-verbale”), ma mancano solidi dati empirici a
sostegno di questa ipotesi, che resta piuttosto speculativa.
Le difficoltà matematiche possono modificarsi nel corso dello sviluppo, in relazione al variare dei
compiti di apprendimento che il bambino deve affrontare; così , già in età pre-scolare questi
bambini possono presentare difficoltà di conteggio ed enumerazione; in seguito può essere
difficile la transizione dal conteggio concreto (con le dita) al calcolo mentale e al recupero di
fatti aritmetici; quest’ultimo disturbo, in particolare, può essere persistente; molti bambini
discalculici non arrivano mai a una piena padronanza delle tabelline e alcuni autori (Shalev e
al.,1988) lo considerano come la causa più comune di errore nel calcolo; più infrequentemente,
ma non raramente, si osserva una mancata conoscenza e padronanza degli algoritmi di calcolo;
e infine alcuni bambini faticano a conquistare la sintassi e la semantica del numero.
Negli ultimi anni sono state pubblicate Batterie di test adatti a valutare queste diverse
competenze (Lucangeli e al., 1998; Rossi e Malaguti, 1996).
Alcuni bambini evidenziano specifiche difficoltà anche nella soluzione di problemi aritmetici, ma
questa particolare disabilità nel problem solving non è una caratteristica specifica della
discalculia; essa infatti caratterizza anche più profondamente altre patologie come ad esempio il
ritardo mentale e richiede una capacità cognitiva più generale, oltre alla conoscenza del sistema
dei numeri e del calcolo. E’ abbastanza comune trovare che i bambini discalculici comprendano la
struttura concettuale del problema aritmetico, ma commettano qualche errore nella
rappresentazione dei numeri o negli algoritmi di calcolo, mentre alcuni bambini con ritardo
mentale possono leggere e scrivere bene i numeri ed eseguire correttamente le operazioni, una
volta che hanno appreso l’algoritmo, ma hanno significative difficoltà nella comprensione della
struttura logica del problema.
In ogni caso anche il problem solving aritmetico costituisce oggetto della valutazione. Una prova
che viene comunemente utilizzata è il subtest “Aritmetica” della scala WISC-R. Una prova più
strutturata per la valutazione del problem solving aritmetico è il test SPM (Lucangeli e al., 1998)
che consente di analizzare separatamente il contributo di alcune delle principali componenti
cognitive che entrano in gioco nella soluzione di un problema:
§
la comprensione
§
§
§
§
§
la rappresentazione
la categorizzazione
la pianificazione
lo svolgimento
l’autovalutazione
e fornisce in questo modo una mappa dettagliata delle abilità del bambino.
Normalmente, una volta stabilita la diagnosi, è necessario condurre una serie di approfondimenti
mirati a individuare con maggiore dettaglio le caratteristiche individuali del disturbo, attraverso
un’analisi più sistematica e accurata del funzionamento delle diverse componenti che
costituiscono il sistema dei numeri e del calcolo. Questo tipo di indagine è particolarmente
importante, perché è proprio da essa che possono derivare le informazioni rilevanti alla
formulazione di un progetto di rieducazione, che tenga conto degli specifici meccanismi
deficitari, come dei processi che il bambino è in grado di controllare.
La Rieducazione
Qualunque sia il modello teorico al quale ci si vuole ispirare, la rieducazione deve tenere conto
della variabilità inter- ed intra-individuale con cui la discalculia evolutiva può manifestarsi. Ciò
richiede la progettazione di percorsi rieducativi per i diversi bambini e per le diverse fasi di
sviluppo, in rapporto all’espressività del disturbo.
Il modello di McCloskey e al.(1985) consente di rispondere in modo adeguato a questi vincoli,
prospettando diversi possibili locus funzionali che possono essere alla base della discalculia
evolutiva e suggerendo le prove adatte ad evidenziarli. Esso presuppone, infatti, che ognuno dei
processi di elaborazione coinvolti svolga un ruolo specifico, relativamente autonomo, per cui
ognuno potrebbe essere oggetto di una specifica rieducazione.
Seguendo lo schema concettuale offerto dal modello di McCloskey e al.(1985), ad un primo
livello, è fondamentale accertarsi che sia stata acquisita la conoscenza e la padronanza del
sistema dei numeri e del suo funzionamento; in altre parole è necessario che il bambino
comprenda gli aspetti sintattici e semantici del numero come espressione della quantità e
controlli le operazioni di “transcodifica” che consentono di trasformare le sue diverse
rappresentazioni con codici di formato diverso (verbale, arabico, ecc.). In un secondo tempo è
necessario valutare sia l’efficienza dei processi del calcolo mentale rapido (operazioni di
addizione e sottrazione entro il 20) e del recupero di fatti numerici, sia del calcolo scritto e della
corretta sequenza esecutiva che ne è alla base (vale a dire l’algoritmo).
In linea generale, il problema fondamentale della discalculia evolutiva, come di altri disturbi
specifici dell’apprendimento, riguarda dapprima l’acquisizione e quindi l’automatizzazione delle
conoscenze e dei processi basilari, inerenti al sistema dei numeri e del calcolo. Nella pratica,
l’indicazione che emerge suggerisce di agire su un doppio binario: a) la presentazione del
concetto sotto vari formati, anche di gioco o che si aggancino all’esperienza concreta,
quotidiana, del bambino e, successivamente, b) la ripetizione dell’esercizio per consolidare la
conoscenza appresa. Proprio in riferimento alla necessità di integrare questi due requisiti
istruzionali, l’uso del computer acquista un ruolo strategico, sia come presentatore “amichevole”
e “interattivo” dei concetti da apprendere (seguendo in questo la filosofia della pedagogia
attiva, “imparo meglio se faccio”!), sia come presentatore “instancabile” di situazioni
problemiche ed esercizi, con l’indubbio vantaggio di fornire un feedback immediato ma nongiudicante, della prestazione del bambino.
Partendo dal modello di architettura funzionale elaborato da McCloskey e al.(1985) come cornice
concettuale di riferimento, abbiamo sviluppato un “pacchetto” di software dedicati al recupero
dei disturbi matematici. Ognuno di questi programmi ha come obiettivo la rieducazione di specifici
processi previsti dal modello. Ogni unità di esercitazione si compone di due elementi distinti: uno
indirizzato a rendere esplicite le operazioni cognitive sottese all’apprendimento di una particolare
conoscenza matematica (ad esempio, il valore posizionale delle cifre come regola sintattica nella
“costruzione” dei numeri); l’altro ha invece lo scopo di esercitare, fino ad una sufficiente
automatizzazione, l’esecuzione di questi processi, che inizialmente potrebbero essere svolti solo
in modo lento e controllato (Shiffrin e Schneider, 1977).
Per una descrizione dettagliata di questi software e della filosofia pedagogico-informatica con
cui sono stati realizzati, rimandiamo al “LABORATORIO sulle attività di rieducazione e
recupero”.
GLOSSARIO
Aree Parietali: Aree della corteccia cerebrale
Automatizzazione: stadio avanzato del processo di apprendimento caratterizzato dalla
capacità di applicare la conoscenza appresa o risolvere problemi in modo rapido e con una
minima attenzione.
DSM-IV, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders : sistema di classificazione dei
disturbi mentali e della loro frequenza, curato dall’Associazione Americana di Psichiatria.
Epidemiologia: Disciplina, nell’ambito delle scienze mediche, che studia l’incidenza e la
prevalenza dei disturbi e delle malattie nella popolazione.
Filogenesi: processo evolutivo delle specie. Il concetto comprende tanto l’evoluzione delle
componenti qualitative (cambiamento), quanto l’incremento delle componenti quantitative
(accrescimento).
ICD-10, International Classification of Desease: sistema di classificazione e descrizione delle
malattie mentali e dei disturbi del comportamento per l’età adulta e l’età evolutiva, curato dalla
Organizzazione Mondiale della Sanità.
Nosografia: descrizione sistematica delle malattia e dei disturbi attraverso i rispettivi sintomi.
Neuro-immagini: Tecniche radiologiche computerizzate di visualizzazione del cervello (quali ad
esempio, la TAC o Tomografia Assiale Computerizzata, la RMN o Risonanza Magnetica Nucleare,
la PET o Tomografia a Emissione di Positroni, ecc.)
Neuropsicologia Cognitiva: Disciplina che studia l’organizzazione delle funzioni mentali e il loro
rapporto con le strutture cerebrali
Ontogenesi: processo evolutivo dell’individuo da embrione a persona, da bambino ad adulto.
L’evoluzione ontogenetica individuale ripercorre le tappe dell’evoluzione filogenetica fino alle sue
massime espressioni e cerca di superarle.
Pattern: complesso di entità (stimoli, oggetti, comportamenti) con caratteristiche interconnesse
fra loro al punto che possono essere viste come una unità. Nel comportamento si riconoscono
facilmente dei pattern di azioni, pensieri ed emozioni; i sintomi di un disturbo sono anch’essi dei
pattern.
Problem solving: processo cognitivo stimolato da una situazione ‘problemica’ che crea tensione
e la necessità di trovare una soluzione. La soluzione porta all’annullamento della tensione e
all’aumento della competenza o esperienza personale.
Semantica: usato come aggettivo indica l’insieme dei significati di un segno. La semantica di un
numero comprende il suo significato quantitativo.
Sintassi: insieme delle regole che controllano la correttezza di un qualsiasi linguaggio o sistema
formale. La sintassi della matematica declina le regole che sovrintendono l’uso dei segni (numeri
e operatori); la sintassi del numero riguarda il valore posizionale delle cifre.
Specializzazione funzionale: caratteristica di gruppi di cellule cerebrali che vengono deputate
esclusivamente all’elaborazione di stimoli specifici.
Strutture cerebrali: parti del cervello anatomicamente distinte e distinguibili. Macro-agglomerati
di cellule nervose cerebrali che contengono insiemi di aree funzionali specializzate.
Le nuove tecnologie per il Ritardo Mentale e i Disturbi di Apprendimento
di Fabio Celi 1
1. Introduzione: handicap, disturbo di apprendimento e nuove tecnologie
Allo scopo di avere una terminologia comune, definisco brevemente l'handicap come una
condizione di svantaggio vissuta da una persona in conseguenza di una menomazione che limita
o impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo normalmente proprio della persona in relazione
all'età, al sesso e ai fattori socioculturali. L'handicap dunque non dipende solo dalla
menomazione, ma anche dalla risposta dell'ambiente alla menomazione stessa. Non basta essere
miopi per essere handicappati. Alla miopia deve essere associata la necessità di leggere e
l'impossibilità di trovare un paio di occhiali adatti. Le nuove tecnologie possano allora svolgere
un ruolo fondamentale (come e molto più di un paio di occhiali) nella riduzione dell'handicap.
Si pensi soltanto agli strumenti che permettono di comunicare a distanza e di scambiarsi
documenti per la riduzione dell'handicap motorio; ai programmi di riconoscimento vocale per la
riduzione dell'handicap visivo; e soprattutto, perché è il tema di queste pagine, ai software
didattici per la riduzione degli effetti del ritardo mentale sull'apprendimento.
Definisco il disturbo di apprendimento come una condizione che produce in un alunno un
deficit nella capacità di ascoltare, pensare, parlare, leggere, scrivere o fare calcoli matematici in
modo corretto. Tale condizione può sussistere indipendentemente dalla presenza di
menomazioni fisiche, psichiche o sensoriali e da disturbi di carattere emotivo. Anche per questi
casi vedremo come le nuove tecnologie, in particolare gli ipertesti e i sistemi multimediali,
possano svolgere un ruolo importantissimo di recupero.
2. Il significato generale delle nuove tecnologie per l'apprendimento: la motivazione
Un bambino sta facendo i compiti. La mamma ha dovuto chiamarlo più volte perché stava
giocando in camera sua e lui, prima di venire, ha accampato mille scuse. Ora si è seduto, ha
aperto il libro ma, subito dopo, si è distratto per un rumore che ha sentito giù in cortile. La
mamma lo ha richiamato al suo dovere minacciando una punizione se non si fosse rimesso
subito a leggere. Il bambino ha ubbidito contro voglia e dopo poche righe si è alzato perché
aveva sete. Alla fine arriverà in fondo al brano che deve leggere, anche perché la madre gli ha
promesso che dopo i compiti lo porterà a giocare al parco. Però tutto questo gli è costato una
grande fatica. Il suo rendimento è stato inferiore alle sue potenzialità. Per svolgere il compito ha
impiegato un tempo superiore a quello che sarebbe stato necessario se si fosse impegnato
volentieri e con convinzione. Nel linguaggio comune, di fronte ad osservazioni di questo
genere, diciamo che fare i compiti è noioso. Lo è per quasi tutti gli allievi. Lo è ancora di più
per quegli allievi che, a causa di qualche deficit, faticano in modo articolare. Con un linguaggio
appena un po’ più tecnico si dice che in questi casi c’è una carenza di motivazione. Dal
momento che la motivazione è un prerequisito essenziale di ogni processo di apprendimento
sarà necessario, prima di tutto, lavorare sulla motivazione, costruendola artificialmente quando
non c’è.
Un’equilibrata miscela di premi e punizioni produce spesso l’effetto desiderato. Gli esperti di
apprendimento ci insegnano che, di solito, i premi devono svolgere un ruolo preminente e
1
Queste pagine sono una rielaborazione del corso Indire (www.bdp.it) curato da me e da Daniela Fontana
(2003) per la sperimentazione delle nuove tecnologie negli ultimi anni delle scuola materna e nella scuola
elementare. Il corso, a sua volta, è stato scritto utilizzando, in alcune parti, i lavori di Alberti, Celi e
Laganà (1995), Celi e Romani (1997) e Celi (1999), tutti pubblicati dalla Erickson che desidero
ringraziare per la concessione.
seguire con sistematicità i comportamenti corretti. I premi prendono il nome di rinforzatori e
servono spesso, in effetti, a costruire la motivazione necessaria ad un allievo. Tecnicamente,
questi rinforzatori si chiamano estrinseci, per indicare che vengono appunto dall'esterno.
Nell’esempio che ho appena fatto, la promessa di andare a giocare al parco fa sì che, bene o
male, il bambino finisca di leggere il brano che aveva per compito. Una motivazione così
costruita, tuttavia, ha i suoi costi. È artificiale, in qualche modo imposta dall’esterno, sganciata
dal senso vero dell’attività che si vorrebbe insegnare e non appartiene al patrimonio personale
dell’allievo, ma gli è come data in prestito. Spesso, quando il rinforzatore estrinseco è eliminato,
viene meno anche la motivazione. Chiamo tutto ciò “motivazione sporca”, perché mi sembra
che sia particolarmente facile coglierne gli svantaggi se la si paragona con un modello
completamente diverso di motivazione, che possiamo chiamare “pulita”.
Venticinque anni fa mi occupavo, ancora come studente, di processi di apprendimento in
bambini con ritardo mentale e naturalmente mi scontravo tutti i giorni con il problema della
motivazione. La sera, invece, andavo con gli amici a giocare a flipper. Ricordo ancora che ero
impressionato dall’enorme quantità di energia motivazionale che circolava in una sala giochi.
Insieme ai miei amici restavo, anche per ore, impegnato e attentissimo a mandare la pallina
d’acciaio nel posto giusto. In quella sala giochi nessuno sbadigliava, interrompeva il gioco a
metà, cercava una scusa per fare dell’altro. Nessuno aveva bisogno delle minacce di un
insegnante o della promessa di un buon voto o della promozione. Si giocava per il gusto di
giocare, sostenuti da una motivazione che sembrava non avere mai fine e che produceva i suoi
effetti sorprendenti: di settimana in settimana tutti diventavano sempre più bravi. Ricordo che
ero affascinato da questa motivazione pulita, gratuita, ottenuta senza sforzo e così potente.
Tanto più se la paragonavo al faticoso lavoro di rinforzamento che vedevo svolgere dai miei
maestri all’Università, quando tentavano di insegnare a riconoscere i colori ad un bambino
Down di età prescolare, che evidentemente non ne aveva nessuna voglia. In realtà ero nello
stesso tempo affascinato e frustrato: era come vedere a portata di mano la soluzione di un
problema cruciale, ma non poterla afferrare. Tutta la motivazione pulita che circolava in quella
sala quando i ragazzi si divertivano con un flipper elettrico era inutile, sprecata, buttata via.
Tanta motivazione, ma nessun apprendimento significativo. Giocare a flipper, infatti, non
insegnava nulla di utile. Peccato. Provavo una delusione simile a quella degli ecologisti che
sognano l’energia pulita del sole, del vento, delle onde del mare e poi non riescono a sfruttarla e
devono continuare a vivere in un mondo inquinato dagli scarichi del petrolio. L’uso sistematico
di rinforzatori estrinseci, infatti, permette spesso il raggiungimento di obiettivi didattici
fondamentali per l’apprendimento e persino per la qualità della vita di molte persone, soprattutto
se disabili. Ma è difficile negare che produca anche un certo inquinamento: nella relazione tra
insegnante e alunni, nel processo di apprendimento, nell’autostima, negli stili cognitivi e
metacognitivi che finisce per produrre.
Per me l’avventura del computer per l’apprendimento nacque una di quelle sere in sala giochi,
quando fece per la prima volta la sua comparsa una straordinaria novità. Si chiamava Ping-otronic ed era il primo gioco elettronico che arrivava in Italia. Simulava alla meglio il gioco del
ping pong su uno schermo nero. Quel rudimentale gioco elettronico mi diede l’idea che
qualcosa era cambiato, forse per sempre. La motivazione che creava era indiscutibile: basti dire
che per riuscire a giocare bisognava avere la pazienza di aspettare anche un’ora in coda. Era
indiscutibile anche che si trattasse di motivazione pulita: bisognava pagare per giocare e non si
vinceva nulla, proprio come con i flipper. Ma rispetto ai flipper elettrici c’era una differenza
fondamentale: c’era uno schermo. E se su quello schermo era stato possibile disegnare un
quadrato (la pallina) e due segmenti (le racchette), sarebbe stato possibile anche disegnare delle
lettere o dei numeri. Sarebbe dunque stato possibile incanalare quell’energia motivazionale
pulita verso apprendimenti rilevanti, come la lettura, la matematica…
Naturalmente quest’idea non era originale. Vent’anni prima di me, Skinner (1954 e 1958)
scriveva che se i calcolatori fossero stati meno cari e meno complicati da usare avrebbero potuto
dare un contributo essenziale all’educazione. Ma i calcolatori di quegli anni erano rarissimi,
carissimi, lentissimi e difficilissimi da usare, tanto che Skinner ripiegò su macchine non
2.
elettroniche e addirittura su meccanismi di apprendimento che potevano essere gestititi
semplicemente con penna e fogli di carta e nacque così, con le sue luci e le sue ombre,
l’istruzione programmata, che rappresenta però una storia diversa da quella che cerco adesso di
raccontare (v. Fontana, 1971; Gavini, 1971).
Invece il Ping-o-tronic prima e poi i piccoli home computer dal prezzo ragionevole degli inizi
degli anni ottanta rivoluzionarono le prospettive, all’inizio lentamente e poi in modo sempre più
veloce e vorticoso. Adesso mi capita a volte di ricevere la lettera di un bambino che ha lavorato
al computer per un intero anno e poi in estate si lamenta perché sono tutti in vacanza e lui ha
voglia di ricominciare. Mi capita che una maestra mi racconti che finalmente, con un software,
ha trovato il modo di coinvolgere in un progetto educativo un suo alunno difficile o un’intera
classe. Provo allora a paragonare queste esperienze alla frustrazione di tanti alunni ancora
costretti dentro percorsi didattici difficili e grigi. Provo a paragonarle all’atteggiamento di
qualche insegnante che pensa alla scuola come a un luogo di “lacrime e sangue”. Io non credo
che debba essere così, soprattutto con alunni in difficoltà. Forse, le lacrime e il sangue vanno
bene per ragazzi con buone potenzialità che devono applicarsi al massimo e cercare di eccellere.
Ma con gli alunni più deboli preferisco pensare che i software didattici ben fatti possano
rappresentare un modo giocoso, leggero e divertente per imparare tante cose utili.
3. Il significato generale delle nuove tecnologie per l'apprendimento: una
programmazione a misura di bambino
C’è un secondo aspetto, dopo la motivazione, che rende il software didattico spesso così
potente ed efficace. Gli alunni difficili hanno bisogno di rigore nella programmazione. Oggi si
parla (e a volte si straparla) di programmazione didattica a tutti i livelli, anche se la
programmazione, come vedremo più avanti, non è sempre indispensabile e a volte può diventare
addirittura dannosa. È tuttavia molto difficile farne a meno di fronte ad allievi con handicap e
anche con disturbi specifici di apprendimento. Se un tempo si sosteneva che molti bambini
deficitari non potevano imparare a leggere e a scrivere e oggi sappiamo invece che quegli stessi
bambini raggiungono queste abilità, ciò è dovuto a tecniche sempre più sofisticate di
insegnamento, che prevedono inevitabilmente una programmazione rigorosa.
Prendiamo due esempi illuminanti a questo proposito: l’analisi del compito e l’apprendimento
senza errori. Come è noto, un attento frazionamento degli obiettivi didattici in sotto-obiettivi
semplici e personalizzati permette il raggiungimento di abilità altrimenti molto difficili per
allievi deficitari. La stessa cosa avviene con l’inserimento nella situazione didattica di aiuti forti,
che impediscano all’alunno di sbagliare (v. Perini, 1997). Tutto questo però presuppone un
rigore che presenta anche delle controindicazioni. Il rigore è reso necessario dalla natura stessa,
fortemente procedurale e appunto programmata, di questi percorsi didattici. Un’analisi del
compito, per funzionare, ha bisogno che i sotto-obiettivi necessari per arrivare a padroneggiare
una abilità siano chiari e insegnati rigorosamente uno dopo l’altro. Ad un programma di
apprendimento senza errori servono, per funzionare, molte cose: la messa a punto attenta di
stimoli di sostegno forti e adeguati; un’attenta osservazione sistematica delle risposte e dei
successi dell’allievo, che servirà per prendere decisioni cruciali su come proseguire nel percorso
didattico; un’attenuazione progressiva ma prudente degli stimoli di sostegno che porti,
gradualmente, alla loro eliminazione e al conseguente sviluppo di un apprendimento autonomo
da parte dell’allievo; un uso sistematico del rinforzamento dopo le risposte corrette che, per
l’artificiosità del metodo, non possono essere rinforzate in modo intrinseco dal successo e dalla
soddisfazione del risultato... Lo svantaggio di tutto ciò è evidente: fatica per l’insegnante e
rigidità didattica per l’alunno. Detto in altre parole: da una parte, l’insegnante non può
permettersi di dimenticare un passo dell’analisi del compito, non può farsi prendere dalla fretta
di attenuare un aiuto, non può evitare noiose e lunghe osservazioni sistematiche; dall’altra parte,
l’alunno può sentirsi costretto dentro un percorso didattico obbligato che, alla lunga, sarà anche
3.
utilissimo per lui, ma mentre lo fa assomiglia più a una camicia di forza che a un processo
educativo.
Pensate, come esempio, a un programma di avviamento alla lettura. Prima si deve fare
un’attenta analisi del compito. Poi si decide che è il momento di insegnare la discriminazione
tra parole bisillabe in stampato maiuscolo. Si decide anche che le difficoltà dell’allievo in
questo specifico compito rendono necessaria una programmazione di apprendimento senza
errori. Si scelgono gli aiuti grafici (i disegni) da associare alle parole che l’allievo dovrà
riconoscere. Si cominciano a mostrare queste parole associandole alle figure, si chiede di
riconoscerle, si tiene con cura il conto delle risposte corrette, che non si deve mai dimenticare di
rinforzare, e degli errori, per i quali si deve riuscire sempre a non arrabbiarsi. Senza l’ansia di
andare troppo in fretta e senza la paura di andare troppo lentamente, si usano in modo razionale
queste osservazioni per decidere quando è il momento di attenuare l’aiuto dei disegni e poi di
eliminarlo, presentando le sole parole. Se riuscite a fare tutto questo, congratulazioni! Siete
degli insegnanti perfetti. Qualche volta, purtroppo, capita che non siamo perfetti. Ci può
succedere di dimenticare un passaggio. Ci può scappare la pazienza. Ci può prendere l’ansia di
andare troppo lentamente o la frustrazione per i risultati troppo modesti che riusciamo ad
ottenere. In ogni modo, è molto difficile evitare che l’alunno si annoi un po’ (soprattutto se
anche noi ci stiamo annoiando!), o trovi i nostri metodi troppo rigidi. Se invece un programma è
gestito dal calcolatore questi problemi non si presenteranno. Un calcolatore non dimentica, non
ha fretta, non si annoia. Un calcolatore può presentare senza difficoltà le parole e associarle con
un disegno di aiuto. Può tenere il conto (è il suo mestiere!) delle risposte giuste e sbagliate. Se è
stato programmato per farlo, ricorderà sempre di rinforzare le risposte giuste, per esempio con
una musica, un’animazione o un applauso e non si arrabbierà per le risposte sbagliate (non sono
stati ancora inventati computer che perdono la pazienza). Un calcolatore, infine, userà questi
dati per decidere quando attenuare l’aiuto e quando eliminarlo. In conclusione, l’inevitabile
rigidità di queste procedure didattiche è stemperata dal fatto che il computer ne assume su di sé
gli aspetti più duri. All’alunno la rigidità del percorso viene in un certo senso mascherata,
addolcita dall’interfaccia e trasformata in una specie di gioco.
4. Il significato generale
flessibilità e individualizzazione
delle
nuove
tecnologie
per
l'apprendimento:
Il terzo aspetto che dà forza ai software tradizionali per l’apprendimento è la flessibilità. La
flessibilità non si contrappone necessariamente al rigore. Un programma didattico può essere
molto rigoroso, per esempio può stabilire che dopo aver insegnato a un bambino a riconoscere
un certo numero di parole è necessario passare a semplici frasi che contengano le parole
precedentemente imparate. L’insegnante flessibile, tuttavia, sa adattare questo rigore alle
specifiche necessità del suo allievo. Se l’allievo è lento, andrà più lentamente. Se è veloce,
anche il programma procederà in modo più spedito. Un software ben fatto è interattivo come un
insegnante attento. Aspetta le risposte dell’allievo e si comporta di conseguenza. Questo è uno
dei motivi, tra l’altro, che rende assurdo paragonare un programma televisivo a un programma
per computer. Qualcuno lo fa, partendo dall’analogia molto superficiale che entrambi sono
presentati su uno schermo, e arrivando così a estendere la critica sugli effetti negativi della TV
al software didattico. Ma la TV (almeno per ora) non ha il mouse e un programma televisivo è
assolutamente identico sia che a guardarlo sia un bambino di sei anni con ritardo mentale, un
ragazzino normodotato di dodici o una maestra di quaranta. La mancanza di interattività ha
come effetto l’immodificabilità di questi programmi. Con il software avviene il contrario.
Immaginiamo di essere in prima elementare, e che il nostro allievo in difficoltà, che ha
finalmente imparato con un po' di fatica a riconoscere alcune semplici parole, cominci ad aver
bisogno di leggere frasi e di passare dal riconoscimento di parole al significato di un testo. Un
software ben fatto presenterà a questo punto delle frasi da ricostruire. Lo farà dapprima usando
lo stampatello maiuscolo, più facile, e quando il bambino è pronto per lo stampato minuscolo
4.
modificherà il carattere di presentazione. Naturalmente ogni insegnante attento può fare, con un
libro o con dei cartoncini, qualcosa di simile. Ogni insegnante attento sa, per esempio, che il
carattere tipografico di un brano non può essere lo stesso per ogni bambino in ogni momento. Sa
che lo stampatello maiuscolo è più adatto a un bambino in difficoltà e nelle prime fasi della
decodifica, mentre il minuscolo, più difficile, può essere introdotto solo con alunni che non
abbiano difficoltà o dopo un sufficiente periodo di addestramento con il maiuscolo. Ma un conto
è sapere queste cose in teoria, e un conto, con tutto quello che un insegnante ha da fare, è
riuscire a metterle in pratica. Un libro di testo, per esempio, o è scritto in stampatello maiuscolo
o è scritto in stampatello minuscolo. È già molto difficile trovare un libro che alterni i due
caratteri, ed è quasi impossibile trovarne uno che presenti le stesse frasi nei due caratteri. Fare
tutto questo con un software, al contrario, è facilissimo, persino banale.
C’è un ultimo aspetto che può rappresentare un ulteriore punto a favore dell’suo delle nuove
tecnologie nell’handicap e nei disturbi di apprendimento. I sussidi didattici tradizionali, anche i
migliori, soffrono di solito di una specie di peccato originale. Sono sussidi, dunque non tutti ne
hanno bisogno, ma solo quelli che si trovano in difficoltà: per questo finiscono per generare
nell’allievo che deve usarli la convinzione che lui è in qualche modo diverso dai compagni. Le
schede di recupero ortografico, i programmi facilitati di avviamento alla lettura, i percorsi
individualizzati di matematica sono esempi lampanti di questo: aiutano a progredire in un
percorso di apprendimento grazie alla successione programmata di passi semplificati, ma
possono lasciare un’impressione di diversità che abbassa l’autostima. I sussidi tradizionali
perdono allora parte della loro efficacia, perché a un abbassamento dell’autostima corrisponde
un abbassamento della motivazione. Questo di solito non succede con il computer. Il computer è
visto dall’allievo come uno strumento che usano gli adulti, le persone in gamba, non una
stampella per handicappati. Se nella gestione di questo ausilio non si fanno troppi errori; se si
evita di isolare l’allievo bisognoso di aiuto in un’aula con l’insegnante di sostegno e il
computer; se non si connota quest’aula come quella per gli handicappati (è raro, per fortuna, ma
nella scuola può succedere anche questo); se si usa la macchina anche per la sua straordinaria
forza di aggregazione, allora lo strumento non solo aiuta l’allievo, non solo tiene alta la sua
motivazione senza abbassarne l’autostima, ma, contro molti pregiudizi correnti che vedono il
computer responsabile dell’isolamento di chi lo usa, può diventare persino un veicolo di
socializzazione.
5.
Dall'uso
istruzionista
delle
nuove
tecnologie
altrimenti che fine fanno gli apprendimenti per scoperta?
al
costruttivismo:
Tutto questo ci porta ad un’altra, fondamentale considerazione. Qualcuno potrebbe infatti
obiettare:
“Avete fatto proprio un bel lavoro! Per insegnare avete usato una macchina ed ecco le
conseguenze: avete prodotto un apprendimento meccanico”.
L’obiezione si riferisce al fatto che presentare uno stimolo preciso (per esempio una parola),
aspettare dall’allievo una precisa risposta (per esempio un clic del mouse) e somministrare un
preciso rinforzatore dopo la risposta corretta produce un tipo di apprendimento di basso livello,
per rifarci alla classica gerarchia di Gagné (1965). Tutto quello che l’allievo impara è
un’associazione meccanica: vede la scritta “CASA” e risponde leggendo “casa”. L’obiezione
può anche essere tradotta in questo modo: che fine fanno gli apprendimenti per scoperta, che
sono poi i più significativi e i più importanti? L'obiezione potrebbe proseguire sostenendo che
l’apprendimento gestito da una macchina considera l’allievo come un oggetto, come un vaso da
riempire di contenuti, mentre la vera educazione considera l’allievo come un soggetto attivo,
responsabile di un processo di apprendimento che in larga misura costruisce da sé.
Vorrei intanto far notare che i così detti apprendimenti meccanici sono certamente diversi da
quelli ottenuti da un processo attivo di scoperta da parte dell’allievo, ma non per questo sono
necessariamente peggiori. Per esempio: se un allievo con ritardo mentale impara a riconoscere
globalmente configurazioni di lettere e a leggere così, sia pur meccanicamente, parole, è pur
5.
sempre meglio di nulla. Oppure, nell’apprendimento dell’associazione grafema-fonema, che
senso può mai avere lavorare sul significato, dal momento che l’associazione grafema-fonema è
una convenzione? O ancora: qual è la via migliore per apprendere la tavola pitagorica? Nessun
dubbio che la tavola pitagorica abbia un significato! Pochi dubbi anche sul fatto che, prima o
poi, chiunque voglia costruirsi conoscenze aritmetiche anche elementari ma significative, debba
impadronirsi di questo significato. Ma siamo proprio sicuri che a volte, per scopi pratici, la
conoscenza meccanica (le vecchie maestre dicevano “a pappagallo”) delle tabelline non
rappresenti il modo più efficiente per padroneggiare un’abilità funzionale utile nello
svolgimento di moltiplicazioni e divisioni?
Ma c’è una risposta ben più forte all’obiezione che una macchina produce apprendimenti
meccanici. La risposta è che non è vero. Papert (1984 e 1994), che era un matematico, se ne
accorse quarant’anni fa quando, per caso, conobbe Piaget e si mise a lavorare con lui. Il risultato
di questo lavoro è un linguaggio di programmazione, il notissimo LOGO, in cui il bambino deve
insegnare ad una tartaruga a muoversi sullo schermo del computer. Chi fosse interessato ad
approfondire alcuni aspetti fondamentali di questo linguaggio, può vedere Abelson e Disessa
(1986), Bleiner (1991); Guadagnolo (1991). L’ambiente del LOGO è tutto fuorché un ambiente
istruzionista di tipo stimolo-risposta-rinforzamento, e tutto può produrre (secondo i suoi
detrattori anche nulla; v. per es. Ginter e Williamson, 1986) fuorché degli apprendimenti
meccanici. Quando il bambino vuole insegnare alla tartaruga certi percorsi, deve scoprire le
regole, per esempio geometriche, che li governano.
Deve costruire da solo il suo itinerario di conoscenza.
6. Finalmente gli apprendimenti per scoperta!
Dunque nessuna paura.
Gli amanti del così detto apprendimento per scoperta (mi risulta che ce ne siano tanti, tra gli
educatori) non hanno che l'imbarazzo della scelta. Il computer non produce solo apprendimenti
meccanici, anche se probabilmente il LOGO non è l’ambiente ideale per favorire
l’apprendimento nei bambini disabili o molto piccoli e questo è dovuto ad alcune sue specifiche
difficoltà di linguaggio che esulano dal nostro tema. Ci sono in effetti software didattici
tradizionali (o istruzionisti) che presentano uno stimolo e aspettano dall’alunno una precisa
risposta, come cliccare su una parola o ricostruire una frase. Ma ce ne sono di molto diversi (v.
Calvani, 1994; Calvani e Rotta, 1999; Olimpo, 1993; Olimpo e Ott., 1998), che si caratterizzano
per un ambiente aperto nel quale il bambino, ovviamente entro i limiti imposti dal programma,
può fare quello che vuole. Niente di meccanico. Niente di predeterminato dal programmatore o
dall’insegnante. È tutto talmente libero che non è neppure possibile dire a priori che cosa il
bambino imparerà, tanto che, di nuovo, i detrattori di questo approccio possono arrivare a
sostenere che il bambino non imparerà un bel niente. Sono le persone convinte che si impari
soltanto ciò che viene esplicitamente insegnato. Sono i sacerdoti della programmazione. Sono i
teorici a oltranza o i burocrati dell’educazione. Sono quelli che purtroppo hanno dimenticato
quante cose imparavano, da bambini, anche solo giocando a nascondino in cortile. Un esempio,
tra i tanti, molto eloquente di questo approccio è il software Autore Junior, non a caso messo a
punto da un pioniere del costruttivismo: Antonio Calvani, che insegna all'Università dei Firenze
dove dirige il Laboratorio delle Tecnologie Educative. Il nome del software dice già molto, ma
provarlo e farlo provare ai bambini vi direbbe molto di più (v. Calvani, Leonetti e
Grifomultimedia, 1999).
La prima schermata è praticamente una pagina bianca.
"Una pagina bianca?" si chiederanno i sacerdoti della programmazione aggrottando le
sopracciglia con aria grave e pensosa.
"E cosa puoi mai insegnare a un bambino una pagina bianca?" obietteranno scandalizzati i
burocrati dell'educazione.
6.
Chi lavora davvero con i bambini, invece, chi si sporca le mani quotidianamente con loro,
conosce bene la risposta. Una pagina bianca insegna a pasticciare, a scarabocchiare, a provare, a
disegnare, a colorare, a inventare, a dare corpo alla fantasia. Autore Junior fa la stessa cosa, ma
con i mezzi potentissimi delle nuove tecnologie. Trasforma un bambino (che non sa ancora né
leggere né scrivere!) in un autore multimediale. Un clic del mouse e un personaggio compare
nella pagina. Un altro clic e il bambino crea lo sfondo. Un semplice trascinamento e il
personaggio si anima. E poi ancora un clic per farlo parlare, per creare nuove pagine e collegarle
insieme, per inventare una storia, per inserire un filmato...
Basta così. Adesso piuttosto che continuare a descriverlo vi invito a provarlo: altrimenti che
apprendimento per scoperta sarebbe?
7. Ipertesti e ipermedia come strumenti ponte tra istruzionismo e costruttivismo
Forse è bene fornire qualche definizione, prima di andare avanti.
Semplificando al massimo, possiamo dire che un ipertesto è un testo elettronico che si legge
sul video anziché sulla carta e che, a differenza di un libro, può essere “sfogliato” in più
direzioni. Le direzioni di lettura che si possono seguire in un ipertesto sono molto varie: un po’
come quelle di uno studioso che, mentre legge un libro, trova una parola che non conosce e va a
cercarla sul dizionario; trova il nome di un personaggio storico di cui sa poco e va in biblioteca
a consultare testi che parlino di lui, e così via, con la differenza che in un ipertesto tutti questi
“spostamenti” possono essere fatti con un semplice clic del mouse. Un ipertesto può quindi
essere letto seguendo direzioni diverse, a seconda dei propri interessi, delle proprie preferenze e
delle proprie esigenze di apprendimento. In genere, questo spostarsi da una parte all’altra di un
ipertesto viene detto navigazione. Così il lettore di un ipertesto naviga attraverso le pagine con
una libertà sconosciuta al lettore di un libro tradizionale.
Possiamo invece definire la multimedialità come l'uso di più canali per l’interazione uomo macchina; in particolare, la possibilità di presentare contemporaneamente scritte, immagini,
animazioni, suoni e voce. È proprio la voce umana non sintetizzata, oggi alla portata di
qualunque computer, ad aprire prospettive molto promettenti, soprattutto per la didattica con
bambini piccoli o deficitari. Fino a ieri anche il software più avanzato risentiva inevitabilmente
di un grave limite: poteva presentare lettere, parole e figure ma non il suono delle singole lettere
e parole. Oggi questo non soltanto è possibile, ma tecnicamente molto facile. Siamo così in
grado di mettere a punto strumenti informatici per l’insegnamento di abilità di base più vicini ai
bisogni di un alunno alle prese con le prime esperienze di scolarizzazione. A volte, lavorando
nel campo dei disturbi dell’apprendimento, si ha l’impressione che la multimedialità sia nata
proprio per i bambini che non sanno leggere o che leggono con difficoltà.
Infine, se un ipertesto è anche multimediale, prende il nome di sistema ipermediale o
ipermedia.
Chiarito il significato di questi termini, credo dovemmo abituarci a pensare che un software
didattico non è o tutto istruzionista o tutto costruttivista. Un ipertesto tradizionale, per esempio,
è un software che sposa in linea di massima il punto di vista costruttivista. Il lettore sceglie
liberamente il percorso, la cosiddetta “navigazione”, e costruisce così da solo un proprio
itinerario di conoscenza (Falcone, 1992; Evangelista e Pazienza, 1992; Calvani, 1994;
Borromeo et al., 1997). Ma nessun ipertesto è totalmente costruttivista, se non altro perché i
percorsi, per quanto numerosi, sono finiti e determinati a priori dall’autore del software.
L’istruzionismo presente in un ipertesto sarà allora, alla fine, una questione di quantità. Pochi
collegamenti tenuti sotto controllo dal programmatore faranno un ipertesto poco costruttivista,
ma magari utile per raggiungere con facilità determinati obiettivi didattici. Molti collegamenti e
molta libertà di navigazione faranno di un ipertesto uno strumento molto costruttivista, nel
senso che il lettore costruirà in gran parte autonomamente il suo percorso di conoscenza.
Una semplice favola ipermediale (v. Celi e Potenza, 1998) può costituire un buon esempio
pratico di questo discorso teorico. Quando una favola è presentata dal computer non c’è di solito
7.
uno stimolo che richieda necessariamente una risposta predeterminata. Il bambino naturalmente
non può fare tutto quello che vuole, ma ha alcune scelte di fronte a sé. Può leggere la storia,
guardare le figure e sfogliare le pagine. Può fare clic su una parola particolarmente difficile per
ascoltarne la pronuncia corretta, consolidando così l’abilità di riconoscimento e di lettura.
Oppure può farsi leggere l’intera pagina, magari perché non sa ancora leggere, o perché trova il
testo troppo difficile, o semplicemente perché è stanco: in questo modo probabilmente
svilupperà una sensibilità metacognitiva sulla lettura come processo finalizzato alla
comprensione. Può scoprire inoltre, sparse nel testo e nelle immagini, molte zone calde che ad
un clic del mouse producono sorprese divertenti ma allo stesso tempo utili per nuove
acquisizioni metacognitive, come la relazione tra testo e immagini o la focalizzazione sui
pensieri dei personaggi.
In conclusione non è la macchina che produce apprendimenti meccanici o per scoperta, ma i
programmi che inseriamo e il modo con cui li usiamo.
8. L'uso di gruppo delle nuove tecnologie: introduzione a un'integrazione reale
C’è un'altra obiezione, alla quale ho già accennato, ma che è adesso arrivato il momento di
fronteggiare. Qualcuno, soprattutto se non ha molta simpatia per i computer, potrebbe a questo
punto perdere la pazienza e sbottare:
“Ma non vi rendete conto che con tutte queste diavolerie si isola l’allievo inchiodandolo
davanti a una macchina, invece che insegnargli a stare con gli altri?”.
L’obiezione è già forte di per sé, ma nel contesto del nostro discorso è particolarmente grave.
Stiamo parlando di software didattici per l’apprendimento e l’integrazione e poi isoliamo gli
allievi!
Qui, più che mai, la risposta all’obiezione dipende dall’uso che si fa di questo strumento.
Certo che il computer può servire per isolare un allievo. Può servire per isolarlo fisicamente, se
gli date un programma accattivante e gli permettete di passarci sopra delle ore da solo, mentre i
compagni fanno tutt’altro. Può servire persino per isolarlo psicologicamente, rinforzando nei
compagni l’immagine sociale di un alunno diverso. Basta etichettare l’aula di informatica, come
purtroppo mi è capitato qualche volta di vedere in alcune scuole, come l’aula degli handicappati.
Ho già discusso il fatto che di ogni strumento si può fare un uso inadeguato o cattivo. Oggi si
legge tutti i giorni che Internet è pericoloso per i ragazzi. Internet è uno strumento potentissimo
e prezioso di ricerca, di conoscenza, di scambi, anche internazionali, di amicizie e di idee.
Certo, se lasciate un tredicenne libero di navigare da solo per la rete, senza nessun controllo,
può incontrare di tutto. Anche passeggiare di notte in un quartiere malfamato è pericoloso, ma,
senza controllo, anche il treno è pericoloso. Anche il citofono è pericolosissimo, se lasciate un
bambino solo in casa senza insegnargli a non aprire la porta agli sconosciuti.
Per il computer usato a scopi didattici è la stessa cosa. Se la vostra idea è che l’alunno disabile
deve essere isolato dal suo contesto sociale, potete trovare purtroppo nel computer un alleato
potente e docile. Se invece la vostra idea è di integrarlo il più possibile nella classe dove è
inserito; se già vi date da fare per adattare i programmi della classe alle necessità del vostro
alunno; se gli costruite materiali facilitati perché anche lui possa seguire, almeno in parte, quello
che fanno i compagni; se fate con lui quadernoni con ritagli di illustrazioni e testi più semplici
tratti da altri libri; se inventate faticosamente ogni giorno mille altri modi per favorire
l’integrazione che vi sta a cuore (v. Scataglini e Giustini, 1998), allora, le nuove tecnologie vi
possono dare una grossa mano per favorire l’integrazione attraverso l’uso e la costruzione di
ipertesti adatti alle difficoltà cognitive del vostro allievo ma agganciate alla programmazione
della sua classe. L'idea che sta alla base di questi ipertesti è allo stesso tempo semplice ma
essenziale per una integrazione vera, significativa, che tenga conto fino in fondo del fatto che un
bambino disabile, pur con il carico di tutte le sue difficoltà, è inserito in un gruppo di compagni
e che dovrebbe essere fatto ogni sforzo per rendere effettivo questo inserimento. Un esempio?
Nella nostra classe c'è un bambino con difficoltà di lettura. La maestra di storia sta parlando
8.
dell'antica Roma e poi darà per compito lo studio di alcune pagine del sussidiario che parlano di
Romolo e Remo e dei sette re. Il nostro bambino non ce la farà mai a leggere e studiare quelle
pagine, per lui troppo difficili. E allora? Cosa facciamo? E soprattutto: cosa farà lui quando i
compagni parleranno tra di loro e con la maestra della storia della lupa o di Tarquinio il
Superbo? Probabilmente si annoierà e finirà per essere sempre più isolato dal suo gruppo.
Naturalmente a questo problema esistono soluzioni tradizionali: per esempio un libro sullo
stesso argomento, ma scritto in modo più semplice. Oppure del materiale semplificato dalla
maestra stessa. Queste soluzioni, tuttavia, presentano aspetti critici. Un libro può essere ancora
troppo difficile, oppure troppo facile. Può parlare di cose diverse da quelle che alla maestra
interessa insegnare. Inoltre, un libro diverso da quello dei compagni stigmatizza in qualche il
bambino, ne fa una persona chiaramente bisognosa di mezzi educativi speciali. Una versione
riscritta da un insegnante di buona volontà, d'altra parte, difficilmente sarà bella a vedersi come
un libro ben pubblicato. Forse sarà battuta a macchina alla meno peggio o, nella migliore delle
ipotesi, sarà scritta con il computer e stampata con una laser, ma difficilmente avrà i disegni
accattivanti della copia dei compagni, difficilmente sarà altrettanto ben rilegata e avrà una
copertina altrettanto bella e colorata. Gli ipertesti sono una risposta a questi problemi. Un
ipertesto potrà contenere, a colori, le stesse immagini del libro dei compagni. Con un ipertesto,
l’effetto stigmatizzante, tipico di certi sussidi didattici, è molto attenuato perché, come abbiamo
già avuto modo di notare, difficilmente il computer viene vissuto come una protesi per
handicappati. Al contrario, spesso la possibilità di studiare su uno strumento di questo genere
favorisce lo scambio con i compagni, perché moltissimi sono ben contenti di stringersi intorno
al ragazzo che lavora con il computer, aiutarlo se ne ha bisogno, e intanto divertirsi con quello
strano libro-giocattolo che si sfoglia con un clic del mouse. Infine, un ipertesto può contenere al
suo interno mille facilitatori, come parole difficili che vengono lette dal computer o spiegate con
un’immagine aggiuntiva. Sono le così dette parole calde, che i bambini imparano subito con
facilità e con piacere ad usare per i loro approfondimenti. Credo che nessuno possa sostenere
che l'uso di un ipertesto, con la libertà di navigazione che consente, produca apprendimenti
meccanici. Mi sembra difficile anche pensare che isoli l’allievo dalla sua classe. Probabilmente
avviene proprio il contrario: lo integra due volte. Una prima volta perché avvicina lui agli
obiettivi didattici dei compagni. Una seconda volta perché i compagni, interessati a questo
strumento diverso dal solito libro, si avvicinano a lui: finalmente!
9. Nuove tecnologie e apprendimento cooperativo
Finalmente!
Ho concluso con questa ottimistica esclamazione il paragrafo precedente perché spero di aver
mostrato come le nuove tecnologie possano far sì che i compagni si avvicinino al bambino in
difficoltà. Questo può avvenire in molti modi, naturalmente, ma quando avviene attraverso un
ipertesto è più facile e più divertente. Ma c’è di più. L’uso di un ipertesto adatto può favorire
l’integrazione, ma se invece che usare un ipertesto fatto da qualcun altro, un gruppo di ragazzi e
insegnanti decidono di costruirselo da soli, questo produce una forma più alta di integrazione,
che va sotto il nome di “apprendimento cooperativo” (Fulton et al., 1994; Johnson, Johnson e
Holubec, 1996; Tressoldi e Callegari, 1997). È strano il fatto che quando si parla di integrazione
si pensi di solito all’allievo disabile che, faticosamente, cerca di avvicinarsi ai compagni. Tutta
la teoria della semplificazione degli obiettivi didattici, di cui gli ipertesti che abbiamo appena
visto sono un capitolo, ruota intorno a questo principio, che definirei curioso se non fosse a
volte drammatico. Come mai c’è, da una parte, un gruppo di persone fisicamente sane e,
dall’altra, uno con una gamba sola e ci si aspetta che sia quest’ultimo a fare tutta la strada
necessaria per raggiungere il gruppo? Non potrebbero, per lo meno, incontrarsi a metà strada?
Spesso, a questa domanda imbarazzante, si risponde che non è giusto che gli allievi
normodotati “perdano tempo” con gli obiettivi didattici di un compagno disabile. Non voglio
discutere qui gli aspetti etici di questa risposta e neppure rilevarne l’inconsistenza teorica:
9.
basterebbe pensare a quante cose impariamo quando dobbiamo fermarci un attimo a riflettere
per insegnare qualcosa a un altro o per aiutarlo.
Ma l’apprendimento cooperativo rappresenta una bella replica a quest’atteggiamento di
esclusione degli allievi deboli. Al contrario di quanto accade in una situazione competitiva,
dove ognuno cerca di dare il meglio di sé per ottenere per sé i maggiori vantaggi a scapito dei
compagni, nei gruppi cooperativi c’è un obiettivo comune che tutti hanno interesse a
raggiungere.
Ci sono oggi semplici strumenti per la costruzione cooperativa di sistemi ipermediali da parte
di un gruppo di bambini (v. Celi e Romani, 1997). Nel gruppo c’è qualche allievo
particolarmente dotato e qualcuno in difficoltà? Nessun problema. Nella costruzione
cooperativa di un ipertesto c'è posto per tutti. I bambini condividono un obiettivo comune. Tutti
hanno interesse a dare il meglio di sé non a scapito degli altri, ma a vantaggio del gruppo, anche
se poi ciascuno darà il suo contributo a seconda delle sue potenzialità e delle sue inclinazioni.
Un gruppo cooperativo, naturalmente, può essere organizzato intorno a molte diverse attività,
ma la costruzione di un ipertesto si presta particolarmente bene (Midoro e Briano, 1994; Greif,
1998; Celi, 1998). Qualcuno può lavorare sui testi. Qualcuno sui disegni. Qualcuno li può
colorare. Qualcuno può pensare alle fotografie. Qualcuno, poi, metterà le voci e qualcun altro le
musiche. I più esperti di hardware scannerizzano le immagini per inserirle nell’ipertesto. I più
esperti di software (ma, in realtà, non ci vuole poi una grande esperienza!) programmano i
comportamenti delle pagine e delle parole calde, che a un clic del mouse attivano la spiegazione
dei termini difficili. Questo costringerà i bambini a cercare le parole nel vocabolario e
trascriverne nell’ipertesto le definizioni. Ma la cosa più importante è che c’è stato lavoro per
tutti e che tutto questo lavoro, alla fine dell’anno, è diventato un CD pubblicato a cura della
scuola, con tutti i nomi e le foto degli allievi-autori, e, in una cerimonia alla presenza del
Dirigente Scolastico, dei genitori e di qualche autorità politica locale che ha dato un contributo
per le spese di pubblicazione, il lavoro viene presentato con grande soddisfazione di tutti.
L’indomani, un articolo sulla stampa locale mette il suggello a un’operazione che ha favorito
l’apprendimento, l’integrazione e ha motivato un gran numero di bambini (e qualche maestra!)
con metodi ben lontani da quelli di tradizionali rinforzatori estrinseci di cui parlavamo all’inizio
del nostro discorso.
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