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CORIANDOLI
di
FILO SPINATO
di
Luca Barbieri
Prima edizione: Gennaio 2004
EDIZIONI FREEBOOK-CARTAIGIENICA
[ Associazione Culturale Subaqueo ]
http://www.cartaigienicaweb.it
Tutti i diritti riservati.
Il materiale contenuto in questo e-book non può essere
riprodotto né diffuso senza l'espresso consenso dell'autore.
cover by Niccolò Storai
SOMMARIO
-
DUE PAROLE IN LIBERTA’, OVVERO SULLA FUTILITA’ DELLE
INTRODUZIONI IN GENERALE E DI QUESTA IN PARTICOLARE
-
VEGLIA PER UN MORTO CHE NON MUORE
-
IL DIO OSCURO
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CATENA ALIMENTARE
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FLUSSO DI (in)COSCIENZA # 1
-
NIDI DI RAGNO DISCHIUSI
-
SCATOLETTE DI CARNE MARCA LAH
-
IL TRIBUTO DEL DIAVOLO
-
FLUSSO DI (in)COSCIENZA # 2
-
ISSONFUL
-
UNA BELLA GIORNATA…
-
COME I RESTI DI UN GATTO SULL’AUTOSTRADA
-
FLUSSO DI (in)COSCIENZA # 3
-
HOBBIES
-
LA ZANZARA CHE NON VOLEVA MORIRE
-
LA RUOTA CHE NON DOVEVA ESISTERE
-
FLUSSO DI (in)COSCIENZA # 4
DUE PAROLE IN LIBERTA’, OVVERO SULLA FUTILITA’ DELLE
INTRODUZIONI IN GENERALE E DI QUESTA IN PARTICOLARE
Lautamente finanziato da una favolosamente nota quanto intimamente
malvagia azienda di produzione e vendita di beni di largo consumo, mi prefiggo
tramite codesta introduzione di usare voi tutti come cavie di un folle
esperimento.
Inutile fuggire: oramai ci siete immersi fino al collo.
La prima cosa da fare (secondo copione) è scrivere una frase del tutto caotica
e priva di senso alcuno, come ad esempio usti orga, seguo le orme della
rondine roditrice mentre cavalco le azzurre posture di un erculeo mercificatore
di immondizie fluorescenti, per poi passare ad elencare una serie casuale di
oggetti senza alcun senso logico tra loro: rompighiaccio, vibratore, fondina
ascellare, pannolone contro l’incontinenza senile, cravatta di pelle di castoro,
teschio di gomma arabica, ed infine semplicemente mi limiterò a scrvr prle
grmatticlmente sccccrrtte o xyxxkzz kyzjkkwzzte, czzz!
Ora non resta che trarre le conclusioni: l’esperimento aveva lo scopo di
sondare la presunta inutilità delle introduzioni, vano apodromo al servizio del
lettore, vetusto espediente letterario solitamente ignorato o, peggio, strappato
dal libro e poi calpestato con odio: se niuno tra voi evidenzierà la stravaganza
dello sproloquio iniziale, questo vorrà dire che non è stato neppure letto.
Per quelli che, al contrario, sono stoicamente giunti fino a questo punto, varrà
forse la pena dire che il titolo non ha alcun significato particolare. E’ solo una
frase che mi è venuta in mente passeggiando: l’ho annotata e messa da parte
per future esigenze (come la FIAT ha fatto con il mio CV). In particolare mi è
piaciuta l’immagine mentale che mi evocava nel rigirarla in testa, quella di un
gruppo di festose maschere carnevalesche che si dibattono nel tentativo di
proteggersi il volto dalla pioggia di questi oggettini di metallo appuntito sputati
dalla bocca di chissà quale vendicativo dio.
Avevo anche ideato una astuta poesiola underground per descrivere il tutto,
ma alla fine è risultata di una bruttezza imbarazzante, per cui l’ho cestinata.
Bè, questo è più o meno tutto.
Una sola cosa prima di chiudere: non ho la minima fottuta idea di cosa
significhi “apodromo”, dubito persino che esista nel vocabolario della lingua
italiana (non mi sono preso la briga di alzarmi dalla scrivania per andare a
verificare, se volete fatelo voi); è che mi piaceva la parola e mi sembrava
suonasse bene piazzata in quel punto, un po’ come per il titolo di questa
raccolta di racconti, e questo dovrebbe dirla lunga sul mio modo di vedere le
cose…
That’s all, folks!
VEGLIA PER UN MORTO CHE NON MUORE
Ho la precisa sensazione che in questo esatto momento mio padre stia
morendo.
Lo guardo raggomitolato sul letto, povera cosa di carne vecchia e flaccida,
senza né anima né coraggio, senza respiro nei polmoni vuoti di vita, senza più
sangue nelle vene, solo vino acido.
E’ qui che tutto ha inizio, penso, e se esiste un momento in cui deve avere fine
ho diritto che sia questo.
Perché in parte la sua morte la desidero di una speranza sterile e secca.
Che uomo può mai essere quello che piange la morte di un ratto e lascia che
suo padre gli si spenga fra le dita, senza altra consolazione che il sollievo di un
senso di colpa che da sempre covo in grembo? Che uomo può essere, se non
un frammento di eterna solitudine?
Non ho lacrime da versare per questa morte; così siedo ed attendo.
Il caldo è opprimente, lo sento agitarsi come un serpente sotto la pelle.
Tra le mani ho un vecchio libro di poesie; sulla copertina un mio vecchio amico
ha lasciato una dedica ad un me stesso che da tempo ha smesso di soffrire.
Ho una vertigine di nausea.
Buona morte, padre; brindo alle stelle che aspettano con me.
Sarebbe dovuta andare più o meno così, se ancora possiedo un po’ di quella
povera arte che non mi ha reso ciò che sarei dovuto essere.
“Ti ricordi l’acqua fredda del fiume e le risate?”
“Dovrei?”
“Ti ricordi di come ti aspettavo la sera, quando tornavi a casa ed avevi sempre
qualcosa per me nella mano chiusa a pugno?”
“Dovrei?”
“Non ho mai capito perché hai preso questa strada”
“Io non ho deciso mai niente; è andata così perché così doveva andare”
“Ogni uomo ha la possibilità di scegliere. E non dico così perché io creda al
libero arbitrio. So che è così. Per me è stato così”
“Credi di sapere un sacco di cose, eh? L’hai sempre avuta, dipinta su quella tua
stupida faccia da saputello, così limpida in quei tuoi stupidi occhi”
“Parli della mia pietà?”
“Parlo della tua arroganza. Non hai pietà, né hai mai avuto amore. Sei
arrogante e superbo come un demonio. Non credere che sia stato semplice per
me vivere con questo tuo sguardo sempre addosso, con questi tuoi occhi
puntati sulla nuca come fari. Non credere sia stato semplice, perdio! Tu cosa
cazzo ne sai di quello che ho passato io?”
“E tu cosa credi di sapere di me? Arrogante dici? Ma se non ho un briciolo di
fede in me stesso più di quanto ne abbia avuta tu…Non è arroganza, la mia.
“Eppure i tuoi occhi non dicono questo. Sono così freddi e…. cattivi. Che uomo
sei? Capace di piangere per un ratto che hai investito con la macchina e
incapace di versare una lacrima sul cadavere di tuo padre?”
“Non sei ancora morto…”
“Oh, lo sono. Da tempo ormai.
“Avresti dovuto starmi più vicino; insegnarmi cose”
“Ti ho insegnato a guardare in faccia i tuoi spettri. E’ più di quanto chiunque
altro abbia fatto per me”
“Non sei stato tu ad insegnarmelo, bugiardo figlio di puttana! Ho impararlo
tutto da solo, nascosto sotto le lenzuola, notte dopo notte”
“Ed hai imparato finalmente?”
“Non credo esista vita sufficientemente lunga per farlo”
“E allora cosa stringi in mano dopo tutti questi anni? Hai solo la tua laurea e
una vita miserabile”
“Ho il dolore; ed ho la paura. E ho anche una miniera di ricordi orribili ed
angoscianti. Non é quello che hai anche tu?”
“Io ho questo e molto di più. Io ho il teschio della morte stampato sulla fronte”
“Avresti dovuto aiutarmi…”
“L’ho fatto.Cosa saresti senza di me? Uno stupido borghese soddisfatto e felice.
Ho fatto di te un Cristo della strada”
“Hai fatto di me un disadattato rabbioso ed insoddisfatto. Non basta inchiodare
un uomo alla sua croce per fare di lui un Cristo”
“Ho fatto di te un uomo”
“Hai fatto di me un mostro”
“Non hai mai cercato nemmeno di capire, eh? I tuoi demoni sono esattamente
quelli che infestano anche la mia mente. Siamo uguali io e te. Ci siano solo
arresi in modo diverso”
“Io non mi sono mai arreso”
“Di nuovo la tua maledetta arroganza. A volte credo che sia solo quella a
tenerti in piedi”
“E’ la rabbia che tiene insieme i pezzi del mio corpo”
“Ho sete, figliolo. Dammi un po’ da bere”
“Hai appena preso la pillola, potrebbe farti male.”
“Hai ragione, hai sempre ragione tu, come tua madre… la pillola, già… è un
triste spettacolo, vero? Un enorme cetaceo arenato nella sabbia che marcisce
un po’ alla volta, ma che non muore; ti fissa con occhi gonfi di lacrime e pus,
ma non muore; non ancora; non oggi né domani. Perché andare in processione
ogni volta al suo capezzale? Che senso ha? E’ una veglia, forse? Una veglia per
un morto che non muore?”
“Fai della filosofia fin troppo semplice; non è nel tuo stile”
“Già; ancora una volta hai ragione tu. Il mio stile è in qualche modo, uh…
diverso. Ma la domanda non muore con la morte di chi l’ha fatta. Esige una
risposta. Prima o poi verrà a chiederti soddisfazione. Prima o poi, figliolo;
proprio quando crederai di avercela finalmente fatta. Hai paura?”
“No”
“Nemmeno un po’?”
“No”
“Dovresti averla, dico sul serio. Io l’avrei. Una fottuta enorme paura”
“Sei tu quello che sta morendo. Io semplicemente ti guardo farlo”
“E’ questo il punto. Quando io sarò morto rimarrai da solo, solo con i tuoi
ricordo ed i tuoi sensi di colpa”
“E’ una vita che mi succede questo, cosa ci sarebbe di nuovo?”
“Non avrai più me da incolpare. Sarà molto diverso”
“Non ti ho mai incolpato di niente”
“E’ una delle cose peggiori che potevi farmi. Nemmeno la soddisfazione di un
po’ d’odio. Se tu mi avessi odiato, avrei avuto almeno il coraggio di guardarti
negli occhi.”
“Sarebbe stato un coraggio fasullo, preso a nolo. Come tutta la tua vita, del
resto. Tutto preso a nolo e mai pagato”
“Ho sete figliolo… dammi da bere”
“Fa buio, papà. Buona morte”
E’ così che avrebbe dovuto andare ma non è così che è andata.
Non accadde una sola volta nel passato e non esiste ormai più un futuro dove
possa accadere.
Sono da solo ora, solo con i miei rimorsi e i miei sensi di colpa; davanti a me il
volto di mio padre, i suoi occhi ciechi e le sue labbra per sempre cucite.
IL DIO OSCURO
Francesco stava giocando a carte con gli amici quando gli dissero che la moglie
era morta.
"L’ha investita un furgone nello stradone che va a Parma. L’autista era ubriaco
fradicio."
Un incidente stradale. Francesco non riusciva ad immaginare una morte più
sgradevole; forse giusto un altro paio di casi, a pensarci meglio.
"Essere sepolto da una valanga, ad esempio" disse ad alta voce.
Luigi, che gli aveva appena dato la notizia, si sistemò meglio gli occhiali sul
naso.
"Come?" chiese.
"Niente" disse Francesco. Abbassò le carte sul tavolo "Scala"
"La polizia lo sta interrogando, ora"
"Chi?"
"L’autista. Quello che ha investito tua moglie, Cristo d’un Dio!"
"Mmmmm. Finirà che si beccherà un paio d’anni. Probabilmente perderà il
posto"
"Da come lo dici sembra che ti dispiaccia per lui..."
"Una volta un mio amico ha fatto la stessa cosa. Ha ammazzato un ragazzo in
moto e poi ha mandato l’avvocato a chiedere il dissequestro della macchina.
Era una specie di jeep, un Range Rover o una cosa del genere; diceva che a
stare nel parcheggio dove l’avevano messa gli si rovinavano i sedili. Il sole,
sapete"
Era Lorenzo, un tizio dal volto affilato come una lama di coltello; portava una
barbetta rada e per vivere commerciava in rottami di ferro. Conosceva
Francesco fin dal Liceo.
Francesco annuì un paio di volte; poi si grattò il mento "Vero come il Vangelo.
A me è successo lo stesso con l’Audi"
"Il sole è una gran rovina per gli interni in pelle"
Luigi sfilò un pacchetto di Camel dal taschino "Qualcuno ne vuole?" chiese.
Nessuno disse di sì e lui se ne accese una. Rimise il pacchetto dove stava e
fissò la brace sulla punta.
"Non c’è rimasto granchè di tua moglie, sai. Il tizio L’ha trascinata per quasi
cinquecento metri. Avete idea di come si riduce una persona a sfregare
sull’asfalto per tutta quella strada?"
"Il mio cane ha fatto quella fine. Ho raccolto i suoi pezzi per quasi un’ora; e
quel figliodiputtana che me l’ha ucciso nemmeno voleva pagarmi i danni"
"Il tuo setter?"
"Già, quello da caccia. Una vera perla di cane, Gesummaria!"
"Credevo l’avessi steso tu il setter, quella volta che ti sei fatto quei tre Negroni
a stomaco vuoto"
"Bè, no per la miseria! Non è andata affatto come dici tu!"
"Cazzo, Andrea. Tu non ce l’hai mai avuto un cane"
"Bè, avrei potuto averne uno se solo avessi voluto. Credi che non ce li abbia i
soldi?"
"Non è che non credo; io so che non hai una lira"
Luigi si schiarì la voce.
"Che cazzo state dicendo tra tutti? Mi pare che si stia uscendo un pò fuori
strada. Si parlava della moglie di Francesco, no?"
Aveva la voce venata di rabbia.
Enzo gli fece cenno di calmarsi con la mano.
"Che ti prende? Non alzare la voce! Cerca di avere più rispetto in corpo,
perdio!"
Francesco si alzò dal tavolo "Non toccatemi le carte che me ne accorgo e faccio
un casino. Faccio un goccio di pipì e torno" disse avviandosi verso il cesso.
"E’ la porta in fondo al corridoio! Quella in fondo! Non facciamo che poi mi pisci
nel letto, occhei?" gli gridò dietro Lorenzo, poi a voce più bassa disse agli altri
"Non l’ha presa poi male, no? Un mio amico ci si è impiccato per una stronzata
del genere"
Luigi tirò su col naso.
"Per me non l’ha presa affatto" disse.
"Che intendi dire?" gli chiese Enzo, strizzando gli occhi con aria minacciosa.
Luigi non rispose. Abbassò il mento sul petto e cominciò a disegnare col dito
ghirigori sul tavolo. Lasciò sulla tovaglia una dozzina di strisce vermiglie; il
quadro complessivo era quello di un paesaggio stilizzato, con tanto di sole col
sorriso e nuvolette sproporzionate.
"Te la cavi ancora a disegnare, eh?" gli disse Lorenzo mollandogli una pacca
sulla spalla.
Luigi sorrise, felice come un bambino.
"Ho venduto un quadro l’altro giorno. Ad un tizio di Pavia che me l’ha pagato
una fortuna. Dice che non sono molti quelli come me"
"Già" lo sbeffeggiò Enzo "Di coglioni come te non se ne incontrano tutti i giorni"
Qualcuno rise; Lorenzo li zittì subito con un cenno brusco.
"Hei, datevi una calmata tra tutti! Di là c’è un nostro amico che ha appena
perso la moglie"
Luigi si ficcò il dito in bocca e quando lo tirò fuori cominciò a disegnare un
ritratto, verde e oro questa volta. Gli amici lo fissarono per qualche minuto,
mentre l’inchiostro impiastricciato sulla tovaglia biancolatte cominciava a
prendere forma.
"Gesummaria, quello li è il Ronaldo!" disse all’improvviso Medardo, che parlava
poco e niente, ma quando si trattava di calcio si metteva a fare il fenomeno.
"Proprio lui" confermò Luigi con una certa vanità.
Tornò Francesco, che stava finendo di tirarsi su la zip.
"Investita da un furgone, dici?" chiese a Luigi.
Lui fece cenno di sì con la testa.
"Proprio un furgone; Iveco, mi pare"
"Ce l’hai ancora quella sigaretta di prima?"
Luigi gli tese il pacchetto.
"L’accendino è dentro" gli disse.
Francesco si accese una Camel e tirò un paio di boccate. Il fumo gli sbuffò fuori
dalle narici quando riniziò a parlare.
"Non è la morte peggiore che abbia mai avuto; una volta è affogata, e quando
l’ho ripescata era gonfia e viola e pisciava acqua dappertutto. Mi ha anche
vomitato in macchina. Ci sono volute sei settimane prima che mi azzardassi a
scoparmela di nuovo"
"E come è successo?"
"Eravamo in barca sul Garda; un’idea sua; diceva che era romantico. Poi ha
perso l’equilibrio ed è finita giù dentro il lago come un piombo. L’ho ripescata
un paio d’ore dopo. Per via delle correnti, sapete; ti portano via che è un
piacere"
"Non ce l’hai mai detto" osservò con una punta di amarezza Lorenzo.
Francesco sorrise.
"Tante cose non vi ho mai detto. Ora è meglio che vada a casa a farmi una
bella doccia. Buonanotte, ragazzi"
Lo guardarono infilarsi il cappotto e poi spegnere la sigaretta nel portacenere a
forma di conchiglia e poi aprire la porta e venire inghiottito dal buio delle scale;
il timer della luce del pianerottolo cominciò a ticchettare subito dopo; e poi i
passi, sui gradini, ed il tonfo del portone.
Solo a quel punto Enzo si tolse la curiosità e sbirciò le carte di Francesco.
"Lo sapevo" disse con cattiveria "Quello stronzo bluffava! Mica ce l’ha una
scala!"
Francesco uscì dalla doccia che era ancora fradicio d’acqua. Lasciò una scia sul
pavimento che neanche un tornado e si avvicinò allo specchio. Si guardò ben
bene e decise che così non si piaceva più. E allora cominciò a mutilarsi col
rasoio. Partì dalle orecchie. Le tranciò via di netto; prima la destra e poi la
sinistra.
Non è una questione politica si disse mi è venuto così.
Si staccò via il naso e lo gettò nel water; teneva la tavoletta alzata, come tutti
gli scapoli.
Un tempo però ero sposato, o almeno così mi pare di ricordare.
Ma non portava nessuna fede all’anulare.
Anzi decise non porto nemmeno l’anulare
E se lo tagliò con un colpo deciso.
Finì di sistemarsi con calma; poi tamponò le ferite con un asciugamani con le
proprie iniziali ricamate sopra. L’asciugamani da candido divenne porporino,
perchè era di spugna ed assorbiva tutto in fretta. Quando fu stufo di
tamponarsi gettò l’asciugamani nel cesto dei panno sporchi e andò al lavoro.
Anche oggi sono in ritardo, per la Madonna!
Prima di uscire di casa si tolse il pigiama e baciò la moglie.
"La piccola la porti tu a scuola?" gli urlò lei dietro; ma Francesco era già uscito.
Pioveva. Gocce pesanti e fredde, che martellavano la macchina come chicchi di
grandine.
Questo è un posto di merda, ma appena posso scappo e torno in Riviera dai
miei.
Francesco azionò i tergicristalli e poi la ventola dell’aria calda; il vetro era tutto
appannato e non si vedeva proprio niente.
Quando sentì un colpo al paraurti, un brivido lo percorse tutto, da capo a piedi.
Forse è un cane, si disse.
Allora frenò di colpo e la macchina sbandò un pò sull’asfalto bagnato. Innestò
la retromarcia e percorse qualche metro. Sentì qualcosa sbriciolarsi sotto le
ruote.
Se era un cane adesso non è più un cazzo.
Sogghignando ripartì in seconda e la macchina rischiò di spegnersi. Sull’asfalto
rimase il corpo di un barbone a prendere acqua; il poco sangue che gli era
uscito dal cranio sfondato venne lavato via quasi subito.
Sono in ritardo, un ritardo enorme! Ne va del mio posto, per la Madonna!
Questa volta sono sicuro: mi licenziano! E poi quel bastardo del Paschetta mi
odia e appena può me lo me
"E’ in ritardo, Calegari. E non è la prima volta!"
Gesummaria, eccotelo qui! Adesso sono proprio sistemato.
"Oddio, ha ragione dottor Paschetta, ma ho avuto un incidente, e allora, ecco,
son arrivato in ritardo!"
"Che tipo di incidente?"
Gelido figlio di puttana, guarda come mi fissa. Sembra un rospo, con quei suoi
occhietti a palla, gonfi di veleno!
"U-un c- un cane, ecco! Ho messo sotto un cane, dottor Paschetta; quello mi è
sbucato davanti e pioveva e la strada era viscida e l’ho messo sotto, povera
bestia! E lo conoscevo anche; era il cane di Lorenzo Messina. Quel mio amico
che fa il demolitore, lo conosce no? Un paio di volte mi è anche venuto a
prendere qui in ufficio..."
"E come sta?"
"Il mio amico?"
"Il cane, Calegari. Come sta il cane?"
"Bè, è morto. Come può stare? Meglio di noi di sicuro"
"Morto sotto una macchina. Come sua moglie, mi pare"
"No dottor Paschetta. Lei è finita sotto un furgoncino Iveco che trasportava
cavi elettrici"
"Ah, giusto. Sei mesi fa, no?"
"Due anni a Giugno, dottor Paschetta"
"Mmmm, comunque me la saluti quando la vede. Li fa ancora quei pasticci di
carne?"
Pioveva. Gocce pesanti e fredde, che martellavano la macchina come chicchi di
grandine. Francesco uscì dalla doccia che era ancora fradicio d’acqua, poi mise
in folle e guardò fuori dal finestrino.
Ma prima o poi me ne vado da questo posto di merda, che ci piove un giorno sì
e l’altro pure!
Premette il pulsante dell’accendino dell’auto ed attese qualche secondo che la
resistenza diventasse incandescente; quando la molla lo sputò fuori, lo accostò
alla sigaretta che aveva pescato nel cruscotto. Niente, era freddo come il culo
di un morto. Lo rinfilò a posto con rabbia e mise in moto.
Posto di merda, ma appena posso me ne vado in Riviera dai miei!
Partì a razzo, sbandando di brutto dentro una pozza d’acqua ai margini della
strada. Mise sotto una donna che attraversava sulle strisce col figlio in braccio.
Lei strinse il bambino al petto, spalancando occhi e bocca. Sembrava un
cartone animato. Il paraurti la colpì violentemente all’altezza dell’anca e la
buttò in aria; ricadde qualche metro più lontano, in una posizione che solo una
bambola poteva assumere, con braccia e gambe piegate come non avrebbero
mai dovuto piegarsi.
Cristo, non si vede un cazzo con questa nebbia, ridacchiò Francesco
accelerando.
La nebbia venne davvero, comunque; ma solo il mese dopo.
Quando rincasò era già tardi e la pelle gli si era già quasi scollata del tutto.
Sul pianerottolo incontrò la signora Polese, la sua vicina di appartamento; lui la
considerava una sciatta casalinga troppo grassa e stupida; e si tingeva i capelli
di un colore che le stava malissimo. Le sorrise in modo meccanico mentre
infilava la chiave nella toppa.
"Come sta sua moglie?" chiese la donna, appoggiando la borsa della spesa per
terra e frugandosi il cappotto.
"L’ho ammazzata giusto ieri notte" rispose brusco Francesco; la serratura
schioccò e lui spinse la maniglia "Le ho tagliato la gola e poi l’ho messa nella
vasca da bagno. Vuole vedere?"
"Oh, mi piacerebbe moltissimo! Davvero posso?"
"No" ghignò Francesco richiudendole la porta in faccia.
Il posto dove lavorava era sporco e tetro.
Lui lo chiamava ‘l’ospedale’. Perchè facciamo i soldi sulla pelle dei malati, come
in quella canzone di Peter Gabriel.
‘L’ospedale’ rendeva l’idea. Lì ci veniva un sacco di gente per farsi rimettere a
posto, ma pochi di loro avevano i soldi sufficienti; la maggior parte
piagnucolava scuse insulse e banali e a lui, a Francesco, toccava di prendersi
cura proprio di questi imbecilli.
Si soffiò il naso dentro il lembo di camicia che gli spuntava dalla cintura, poi la
rinfilò dentro i calzoni. L’ufficio non gli passava i fazzoletti e a lui toccava
arrangiarsi.
"Ho un raffreddore perenne" mentì al suo cliente.
Quello sorrise ignaro ed annuì con l’aria di chi la sa lunga.
"Anche mio figlio, sa. Lui è ingegnere e lavora in Africa"
Tempo due minuti e la pala meccanica aveva ridotto il padre dell’ingegnere un
grumo di ossa e polpa.
Buona per i cani, si disse Francesco facendo entrare il nuovo cliente.
Questa era una donna e a lui non piaceva occuparsi delle donne; questa, poi,
era anche carina.
Dondolò la testa avanti ed indietro un paio di volte prima di chiederle il nome.
"Samantha Fanucci" rispose lei.
Francesco sbattè gli occhi per la sorpresa.
"Ma va? Samantha Fanucci? E per caso non hai fatto il Liceo Matteotti?"
"Già" sorrise lei "Proprio il Matteotti. Non è che eravamo in classe assieme e
me sono scordata?"
"Non credo" le disse lui "Io non sono mai andato a scuola"
Lei si mise a piangere.
"Farà molto male?"
"Ti ricordi di quando hai scopato la prima volta?"
"B-bè, sì"
"E di quando hai partorito?"
"Ma cosa c’entra?"
"Sarà molto peggio, puttana" promise Francesco azionando la leva.
Il caldo era torrido e l’odore pestilenziale. Sembrava di essere finiti dentro ad
uno scarico fognario.
La ragazza in t-shirt e calzoncini faceva l’autostop in fondo allo stradone;
aveva uno zaino enorme e rosso vicino a lei, ed un cagnolino acciambellato ai
piedi. Era molto bella e giovane; i capelli erano di un nero corvino e le
scendevano fino al sedere.
Francesco fermò l’auto e la raccolse. Lei salì senza dire una parola.
"Il cane no" le disse Francesco.
"Come?"
"Non ce lo voglio in macchina, che poi sporca"
"Tanto non è mio. L’ho trovato che dormiva nel bosco e l’ho tirato su"
La ragazza sistemò lo zaino nel portabagagli e poi si sedette davanti.
Abbassò il finestrino perchè dentro l’auto sembrava di stare in una fornace.
"Lela" disse "E tu?"
"Io no" rispose Francesco cambiando marcia.
Non si dissero altro per un bel pò.
Poi lui le toccò una coscia; lei lo lasciò fare, anzi cominciò a guardare fuori dal
finestrino.
Vide un albero morire davanti ai suoi occhi, seccandosi ad una velocità folle, e
poi sbriciolarsi in una nuvola di schegge. Vide un bambino che pisciava ai bordi
della strada e si accorse che gli mancavano entrambe le gambe e si reggeva su
due moncherini d’osso.
"Lo conosco" le disse Francesco "E’ il figlio di un mio amico"
Le dita cominciarono a risalire lungo la coscia.
"E come si è ridotto così?"
"Gliele ha mangiate un drago, l’estate scorsa"
"Un drago?" la ragazza parve meravigliata "Credevo si fossero estinti"
"Qualcuno c’è ancora"
Le dita avevano raggiunto l’inguine e stavano pizzicando le mutandine.
"Tu sei sposato?"
Francesco annuì.
"Da undici anni"
"Hai figli?"
"No. Mia moglie è sterile"
"Mi dispiace. Dev’essere terribile!"
"Lo è. Mia moglie ha tentato il suicidio per il dolore di non potermi dare dei
figli. Un paio di volte ci è anche riuscita; a suicidarsi, intendo, mica a partorire"
Le dita avevano superato l’orlo delle mutandine e sfioravano i peli pubici della
ragazza.
Lei tossicchiò nervosa.
"Non sarebbe meglio scopare? Così mi diverto un pò anch’io"
Francesco ritirò la mano e accostò.
Scesero dalla macchina e si inoltrarono nel bosco; lei aveva pescato una
coperta di lana dallo zaino, e un paio di fazzoletti di carta.
"I preservativi ce li hai?" gli chiese.
"Credo di sì"
"Controlla"
Ne trovò tre infilati dentro una tasca del giubbotto.
"Sì, li ho"
"Meglio così. Una mia amica ha preso l’AIDS scopandosi uno sconosciuto"
"Mi chiamo Francesco"
"Cosa?"
Lui le sorrise.
"Mi presentavo. Così non sarò più uno sconosciuto e non potrò attaccarti
nessuna malattia"
Lei cominciò a ridere e non smise prima di un bel pò.
Fecero l’amore sotto un pino, in fretta e con rabbia.
Francesco venne prima che lei godesse e per questo si prese un pizzicotto
dietro la nuca.
"Sei un bastardo!"
"Gesù, mica l’ho fatto apposta. E poi possiamo rifarlo.."
"Sicuro di farcela?"
Lui non rispose; si limitò a ricominciare a baciarla.
"Hei! Ti si sta staccando la pelle della faccia!" strillò lei.
Francesco si ritrasse di colpo.
"Scusa, mi succede sempre quando sono eccitato"
Lei storse il naso.
"Mica continuo in queste condizioni. Ce l’hai qualcosa per riattaccarla, che so,
un adesivo?"
"Non qui"
"Allora non se ne fa più niente"
Lui osservò un lembo della propria pelle dondolargli davanti al naso; gli mollò
un colpettino con le dita.
"Come vuoi" disse.
"E tu ci credi in Dio?"
"In che senso?"
La macchina filava veloce lungo la statale; non c’era quasi traffico.
"Nel senso se ci credi oppure no"
Lela si stava riabbottonando la camicetta.
"Fai sempre di queste domande alle ragazze che ti scopi?"
"Qualche volta. E allora?"
"Allora cosa?"
Sembrava stizzita; lui preferì sorvolare.
Sorpassarono un furgoncino Iveco blu scuro che zigzagava un pò sulla
carreggiata.
"Lo vedi quello?" chiese Francesco.
"Bè?"
"Tra qualche giorno l’autista di quel furgoncino investirà mia moglie"
"Mi stai prendendo per il culo?"
"Certo che no!" sbottò Francesco "Cazzo, è di mia moglie che stiamo parlando"
"E come lo sai?"
"Lo so e basta"
"Cazzate!"
Francesco si rabbuiò ma non aggiunse altro. Accelerò un pochino.
"Io l’ho conosciuto Dio" disse dopo un pò.
"Certo" disse lei; il tono era molto meno ironico di quanto avesse voluto.
"Dico sul serio. Non il tuo dio, certo; il mio"
"E quando lo avresti conosciuto?"
"Molto tempo fa"
La macchina sobbalzò su un dosso e la ragazza vomitò un fiotto di sangue
scuro sul cruscotto.
"Vuoi che mi fermo?"
"No" disse lei pulendosi la bocca con la mano "Mi succede spesso, è che sono
incinta e quindi faccio fatica a controllare la cosa"
"Sicura che non vuoi che mi fermo?"
"Sicura. Dimmi piuttosto del tuo dio"
"E’ molto alto e veste sempre di nero. Indossa una specie di... pigiama; bè,
credo che pigiama renda l’idea"
"Il tuo dio va in giro in pigiama?"
"Una specie di pigiama, ho detto. Ha i capelli lunghi e spettinati e parla con
una voce da brividi. Ha una cosa in testa"
"Che cosa? Un cappello?"
Francesco soffocò con un colpo di tosse la risata che gli era spuntata in gola.
"Un cappello, dici? No, intendevo che ha una cosa dentro la testa; lo fa soffrire
parecchio e dice che morirà presto"
Lela gli mollò una gomitata.
"Vedi che mi prendi per il culo? Gli dei non sono immortali?"
"Il mio non lo è. E comunque non riderci sopra. Queste cose portano
sfortuna..."
"Già, anche mia nonna lo diceva"
"Lui dice che mi ha creato per noia, e con me tutto quello che mi sta attorno.
Dice che esisto perchè lui vuole così. Credi sia possibile una cosa del genere?"
Lela si voltò verso di lui.
"Tu ci credi?"
"A volte sì; ma per la maggior parte del tempo non tanto"
"Se ci credi, allora diventa vero. Così diceva mia nonna"
"Tua nonna era un gran chiacchierona, mi pare "
Lela cominciò a ridere; la sua risata era limpida come acqua di fonte.
"Mi piace come ridi" le disse con dolcezza.
La fissò negli occhi per la prima volta e si accorse che erano bellissimi; due
magnetici cristalli d’un verde scintillante.
Lei distolse lo sguardo, imbarazzata.
"Hai mai pensato che potrebbe essere vero anche il contrario?" gli chiese.
"Come?"
"Ti ha detto che tu esisti perchè lui ti ha creato; bè, non hai mai pensato che
sia invece lui ad esistere solo perchè tu credi che lui esista? E che se smettessi
di crederci lui morirebbe di colpo, come tua moglie sotto le ruote del furgone?"
"Non è che ci abbia capito molto"
"Fa niente. Come si chiama il tuo dio?"
"Non me l’ha detto; forse nemmeno ce l’ha un nome"
"Come vorresti chiamarlo?"
"Io? Bè, non so. Odino mi è sempre piaciuto"
"Vada per Odino, allora"
"Aspetta! Non è che ne sia tanto sicuro..."
"Del nome?"
"Già"
"E allora cosa preferisci?"
"Che te ne pare di Baal?"
"Naaa, meglio Odino"
"Mmmmm, e Ishtar?"
"Ish-cosa? Come cazzo ti vengono certi nomi?"
"Occhei, lasciamo Odino allora. Ma come funziona adesso?"
"Funziona che la prossima volta che lo vedrai gli dirai <Ciao Odino> e lui ti
risponderà; a meno che non sia un gran maleducato"
"Gesù, tutto qua?"
"Tutto qua"
"E dici che funzionerà?"
Lela guardò fuori dal finestrino. Il paesaggio stava sfumando in una imprecisa
scala di malinconici grigi, e le pareva incominciasse a nevicare; una sottile
pellicola di ghiaccio cominciò a formarsi sul parabrezza.
Si voltò verso Francesco; stava frugando nel cruscotto in cerca delle sigarette.
"Se ci credi, allora diventa vero" gli sussurrò all’orecchio.
CATENA ALIMENTARE
Catena alimentare: (biol.) successione di organismi in cui ogni anello della
catena si nutre a spese del precedente
La nostra razza è al vertice della catena alimentare.
Così è sempre stato, secolo dopo secolo, da quando le viscere della Terra ci
hanno partorito alla bianca luce della Luna, nostra dea e sorella. Ci nutriamo
del sangue degli uomini, così ricco di vita e di passione, alimento necessario
per chi come noi è consumato dal tempo in un modo che le vostre menti non
potrebbero comprendere.
Non abbiamo nemici: siamo semplicemente una razza di letali predatori.
Per questo rido delle vostre ridicole definizioni… catena alimentare? E’ una
piramide, piuttosto, e noi ne siamo il vertice.
Sono a caccia con Antoine, stanotte.
Vaghiamo tra le colossali rovine di questa triste metropoli, affamati in modo
insopportabile.
E’ Antoine il primo a vedere il bambino.
Il destino lo ha favorito; tocca a lui.
Scivola elegante e silenzioso tra le ombre e sparisce nel buio.
Quanto a me, non mi resta che sedermi, aspettando che tutto abbia fine, ma
l’attesa diviene intollerabile.
Mi muovo sulle sue tracce, silenzioso e torvo anch’io come lui.
Lo trovo dietro un cumulo di spazzatura putrida.
E’ morto.
Giace sventrato e divorato in un modo che mai i miei centenari occhi avevano
visto prima.
Mi avvicino ai suoi resti, il cervello istupidito dalle troppe domande, e quando
sento dietro a me un rumore raccapricciante e maledetto, è già troppo tardi.
Una grottesca cosa d’ombra si avventa su di me, mi avviluppa, mi schiaccia, mi
consuma.
E mentre, terribilmente, sento la mia carne sbriciolarsi sotto i morsi di denti
invisibili, la catena alimentare chiude il suo circolo.
Catena alimentare: (biol.) successione di organismi in cui ogni anello della
catena si nutre a spese del precedente ed alimenta il successivo.
FLUSSO DI (in)COSCIENZA # 1
Cerco di scrivere.
Non roba buona, nè decente, nè passabile; cerco di scrivere qualcosa, tutto
qua.
Qualcuno dice che ho stoffa, talento, che dovrei insistere, che qualcosa ne
uscirà.
Intanto io cerco di scrivere.
Son più le volte che le cose non girano e faccio coriandoli della carta imbrattata
dalle mie cazzate; il cestino in camera mia è sempre pieno di cartaccia
appallottolata.
Cerco di essere un buon scrittore; a volte cerco solo di mettere due sostantivi
uno dietro l’altro, con qualche verbo nel mezzo, tanto per far scena. I miei
temi piacevano molto alla mia insegnante delle medie; non tanto a quella delle
superiori, la prima che ho avuto; la seconda semplicemente li odiava.
All’università il sole è tornato a splendere e le bozze della mia tesi non
sembravano il cimitero di croci rossi che mi aspettavo sarebbero state.
Una volta un mio amico mi ha detto che se Hemingway avesse bevuto solo
aranciata, avrebbe probabilmente fatto il postino. Non so quanto possa essere
vero. Mi ha spiazzato, perchè sapeva che adoro Ernest, e ciò che scrive, e
come lo fa. Lui non beveva solo aranciata, comunque. Io cerco di scrivere e il
mio cestino è sempre pieno di lattine di birra vuote.
Ma bastano della carta stracciata e delle lattine vuote ammonticchiate in un
cestino per far di un uomo un buon scrittore?
Forse sì; a volte un uomo lo si valuta dalla sua spazzatura.
NIDI DI RAGNO DISCHIUSI
Lui era sdraiato sul divano, nudo come un verme, a palle all’aria, come gli
piaceva dire. Soffiava aria dal naso e scopriva i denti, arricciando il labbro;
russava, ma sembrava dovesse morire da un istante all’altro; russava, ma
sembrava espirare con rabbia tutta la vita che ancora gli soffocava dentro la
gola. Era l’immagine stessa del fallimento, l’intonaco crepato che scopri
spostando una vecchia cornice, la muffa che trovi dentro una confezione
dimenticata aperta nel frigo.
Era suo padre, e per questo Nicola si sentì morire un pò anche lui, come
sempre, come ogni volta.
C’era un forte odore di alcool e di sudore dentro la stanza; un odore sempre
uguale, da quando aveva memoria di sè, che aveva sempre sentito addosso a
suo padre e che non aveva mai fiutato da altre parti, che da piccolo lo faceva
star male e piangere. L’odore di quando lui beveva fino a perdere i sensi, e la
ragione, ed ogni altra cosa dentro la sua stupida testa.
L’odore di mio padre.
Appoggiò il piccolo zaino da moto sullo sgabello, cercando di fare meno rumore
possibile, ma sapendo in cuor suo che era già troppo tardi. Le chiavi nella
vecchia serratura che si inceppava sempre, quelle fanno
un casino da
svegliare un morto e tu rimani sempre ad armeggiarci intorno, bestemmiando
nella testa e stringendo i denti dalla rabbia, e la porta che cigolava sui cardini e
scricchiolava, e più faccio piano più quella puttana cigola e sembra lo faccia
apposta ma un giorno vaffanculo la sfondo quella porta, a testate se occorre, e
poi i passi sul pavimento e la tivvù accesa nella stanza senza luce e mio padre
a palle all’aria, ormai sveglio, e non posso più fare a meno di appoggiare lo
zaino e poi il casco e poi il mazzo delle chiavi e tormentarmi le labbra con gli
incisivi, e salutarlo, alla fine, quello stronzo.
Non gli piaceva aver a che fare con suo padre quando lo beccava ubriaco; non
gli piaceva doverci parlare e far finta di capire ciò che gli diceva. Era meglio
scivolare dentro casa come un’ombra ed andare a letto, a smarrire ogni cosa
dentro un sogno.
“S-sei tuuu?” farfugliò una voce dal divano, strascicando le parole.
“Ciao” rispose il ragazzo voltando la schiena e sfilandosi il giubbotto. Sui ganci
ce n’erano già appesi due, uno da donna, mai visto prima, di tessuto jeans,
scolorito, che puzzava di un profumo aspro, te e le tue puttane da due lire, e
perciò il ragazzo lasciò cadere il suo sullo sgabello.
Suo padre ruttò qualcosa d’altro che Nicola faticò a decifrare; parole
sconnesse, ma qualche senso ce lo dovevano avere; lui comunque non ci
arrivò.
Immaginò che gli chiedesse della serata.
“Tutto bene, mi sono divertito, spero anche te, e no, non è piovuto, non
ancora, ma è appesa, è lì che sta per cadere, e per questo son venuto via un
pò prima; ero con Sergio, sì, e Lollo pure, no, niente donne stasera, serata da
uomini. Una birra al Tixie e un pò di chiacchiere. Sergio è giù, ha casini con la
donna.”
Ma non disse niente di tutto quello; quelle cose le aveva in testa, quello e
molto altro, e ne avrebbe parlato con piacere, ma preferì tenerle ancora una
volta per sè solo.
“Buonanotte” rispose.
Suo padre già era tornato al proprio dormiveglia agitato e confuso; si sarebbe
svegliato ancora un paio di volte prima che lui si infilasse a letto,
probabilmente scuotendo la testa e sbattendo gli occhi e biascicando qualche
puttanata incomprensibile.
Nicola si lavò le mani e le strofinò a lungo nell’asciugamano, prima di ritenerle
davvero pulite. Uscì dal bagno ed andò nella sua stanza da letto; la camera era
al buio perciò Nicola inciampò in qualcosa che non poteva vedere; gli mollò un
calcio ed intuì dal rumore che fosse un malloppo di vestiti.
Vestiti? E che cazzo ci fanno qui a terra? E di chi caz...
Quando accese la luce vide una ragazza sul letto, che dormiva su quello che
doveva essere il suo lato; non russava, per questo non l’aveva sentita,
semplicemente soffiava aria dalla bocca, ma in modo dolce, quasi carino. Era
nuda, tranne un paio di mutandine color pesca, un pò calate sulle cosce, e
dormiva scomposta, a pancia sotto, con i capelli sparsi ovunque, sulle spalle,
sul cuscino; capelli morbidi e biondi. Doveva avere più o meno la sua età.
Nicola chiuse gli occhi e poi spense la luce; la ragazza non si era accorta di
niente, meglio così.
Rimase un pò in piedi, a pensare, solo nel buio della stanza, ascoltando il
respiro regolare della ragazza.
Un modo per non pensare al fatto che oggi l’ho mandato a cagare di brutto e
me ne sono andato di casa con sedicimilalire in tasca e un cazzo di niente dove
andare, se non da Federica, ma lei non c’entra con questa storia e meno ne sa
meglio stiamo tutti. Ha rimorchiato questa bagascia (bagascia? E che diritto hai
tu di chiamarla così? Cosa cazzo ne sai di lei e della sua vita?) e se l’è scopata
un pò, tanto per ingannare il tempo.
La ragazza si agitò nel letto, forse l’aveva sentito dopotutto. Nicola smise di
respirare per un attimo, stringendo i pugni. Si sentiva in imbarazzo, ma era
normale, no? Dovrei sentirmi così o cosa? E si accorse di aver avuto
un’erezione. La cosa lo umiliava e lo deprimeva, ma era successo, se n’era
accorto solo ora, ma aveva avuto un’erezione.
C’è una ragazza nuda, e piuttosto carina a quanto ho visto, che dorme nel mio
letto, e non ci vedo niente di male a sentirmi eccitato, almeno un pò. Avrà la
mia età, potrebbe essere una mia compagna d’università. Avrei potuta
conoscerla al bar e rimorchiarla io. Proprio lei, proprio questa sera. Cosa c’è di
male? Vuoi scopartela? Dorme sul tuo letto, cazzo! Che vuoi fare? Dopo tuo
padre, a te; in fondo cosa cambia? Tale padre...
Ma la cosa lo disgustava al punto di fargli venire voglia di prendere a calci quel
letto e quella ragazza e suo padre e tutto quanto, vaffanculo!
Non me lo merito, non credo di meritarmi una cosa del genere.
Piangendo tornò sui suoi passi. Aveva la gola come foderata di carta vetrata;
aveva sete.
Andò in cucina, attento a non fare rumore più del necessario, ed accese solo la
lucina sopra il frigo, quella che dava una fastidiosa luce blù, abbastanza
intensa per vedere cosa faceva ma non per svegliare suo padre. Prese uno dei
bicchieri dalla mensola in alto e lo riempì d’acqua. Ci schiacciò sopra una fetta
di limone, aiutando il succo ad uscire con la punta di una forchetta, ruotando
con una mano e spremendo con l’altra. L’acqua si intorbidì, si fece più densa e
più acida. Era così che gli piaceva; l’acido copriva ogni cosa, ogni odore, ogni
sapore; ogni cosa.
Bevve un sorso e scoprì che l’acqua sapeva di vino.
Vino dozzinale, di poco costo.
Deve essere colpa del bicchiere, per forza; del bicchiere, solo di quello.
Probabilmente è stato mal lavato; dev’essere colpa di chi lo ha sciacquato, l’ha
fatto male e c’è rimasto un pò di vino, sul fondo.
Sapeva che non era così.
Appoggiò il bicchiere sul lavandino, tra le chiazze di sugo rappreso.
Chi si prende la briga di lavare dovrebbe farlo meglio; Gesù, quando io mi
prendo la briga di fare qualcosa cerco di farlo al meglio.
Sapeva che non era così.
Aveva semplicemente contenuto troppo vino quel bicchiere, troppo vino e per
troppo tempo. Il vetro aveva finito per averne anche il sapore.
Ma è davvero possibile una cosa così? Una sorta di... osmosi? O sono io che ho
in bocca questo sapore? Che ce l’ho in testa e lo sento dappertutto?
Prese un altro bicchiere e lo annusò; poi lo rimise dov’era prima.
Anche quello sapeva di vino.
Tutto in quella casa aveva finito per sapere di vino.
Sentiva dentro lo stomaco una nausea violenta, terribile, che gli serrava la
gola.
Fa niente, ci sono abituato.
Andando verso l’ingresso, sfiorò il divano; suo padre non si accorse di nulla;
dormiva profondamente ora, e russava forte; avrebbe coperto ogni altro
rumore. Era nudo anche lui e i genitali gli pendevano flosci tra le gambe
divaricate ad U. Nicola tirò su col naso, poi afferrò un lembo del copridivano e
lo tirò a sè, poco alla volta, fino ad averne abbastanza per quello che voleva
fare. Ricoprì suo padre con la tela a fiori e se ne andò di lì.
Prima di uscire riprese giubbotto, chiavi, casco e zaino; riprese ogni cosa che
aveva lasciato entrando in quella casa; ma c’era qualcosa che aveva perso e
che non sarebbe riuscito a trovare più per quella notte, anche se avesse
buttato tutto all’aria e frugato dappertutto.
Perciò non se ne curò troppo ed uscì dalla porta.
Ogni posto è meglio di qui, per stanotte.
Quando ebbe chiuso, lentamente, la porta e si fu allontanato sul pianerottolo, e
poi giù, lungo le scale, l’unico rumore nella casa rimase il rabbioso russare di
suo padre.
SCATOLETTE DI CARNE MARCA LAH
Le scatolette di carne marca Lah sono speciali per un sacco di motivi.
Anzitutto la loro forma, unica nel suo genere: la riconosci subito quando la
cerchi con le dita in fondo agli scaffali alti dei supermercati. Non c’è nient’altro
di simile in commercio, sacrosanto, né quella merda che vendono nei grandi
magazzini Ripley né quella accidenti di carne argentina che pare andare tanto
di moda in questi ultimi tempi. Naaaa, credetemi signori: non c’è niente come
la carne in scatola Lah; la riconosci subito, solo a passarci sopra i polpastrelli.
A ben vedere la scatola ha una forma…bè, curiosa: è ovale, con la punta
inferiore appiattita, in modo tale da poter rimanere in piedi. Sembra proprio un
piccolo uovo sodo schiacciato sopra il tavolo. Un uovo, già, ed è perfettamente
logico a pensarci, visto la sorpresa che contiene.
Ma su questo punto conto di tornare tra breve.
Il tappo è un’altra nota del tutto particolare di questa carne prodotta e
confezionata da quel gruppo di limoncini che è la famiglia Lah, sbucata fuori da
chissà quale maledetto buco brulicante di batteri e scimmie, magari proprio dal
Viet-fottuto-Nam. E’ a pressione, e si svita con una facilità che affascina, se
paragonato a quelle insidiose lamine affilate delle altre scatolette.
Ma ancora non è questo il punto.
C’è una terza cosa che da quasi tre mesi mi spinge a cercare come uno
psicotico malato di mente quelle scatolette in ogni negozio di NY, ed è una cosa
di cui non mi piace molto parlare, eh già, di cui a nessuno piace parlare, in
effetti, ma che non può essere sfuggita a molti. Non è il gusto di quella
porcheria asiatica, quello, bè, è proprio il punto debole della carne in scatola
Lah. A volte sembra che il buon Mr Lah si sia divertito a cagarci dentro il suo
cazzo di riso al curry. Naaaa, gente, siate svegli, perdio! Non è la carne che fa
vendere questa roba.
Sono le sorprese.
All’inizio ero piuttosto perplesso (si dice così negli stronzi telefilm della tivvù
via cavo, no? Il tizio di fronte al cadavere si gratta i coglioni e dice “cavolo,
sono piuttosto perplesso”). A 56 anni, con un cancro ai testicoli che mi ha
costretto a ridurre del 90% la mia vita sociale e del 100% la mia vita sessuale,
non è che abbia più molto di che aspettarmi dalla vita, ma questa, bè,
questa…cosa, Gieeesù!, devo dire che mi ha proprio sorpreso.
Non aveva l’aspetto di una qualche forma di pubblicità (ed infatti non lo era),
perché nessuno ne ha mai parlato alla televisione, né ho visto in questi mesi
manifesti attaccati ai muri o graziose ragazzine nei supermercati, che si
chinano mostrandoti le tette (come se la cosa potesse ancora eccitarmi, Dio
Cristo!), tutte sorrisi ed occhiolini, e ti spiegano cosa c’è di tanto speciale in
questa particolare carne (che ti fa venire un’erezione da guinnes, tanto per
cominciare, ma in questo la carne c’entra quanto un negro nel Klan). E poi
sarebbe una pubblicità davvero disgustosa. Magari avrebbe un po’ di presa su
qualcuno di quei macaroni di Little Italy, ma una brava massaia WASP la
comprerebbe? Col cazzo che lo farebbe, fidatevi: non è questa la strada per il
suo cuore, se il Darvon ancora non mi ha fottuto del tutto il cervello!
E allora cosa? Mister Lah è stato troppo occupato a cagare riso nel suo
macinatore negli ultimi tre mesi per rispondere alle mie lettere (15, cazzo!) Mi
sono sentito un pò come quel fan psicotico di Eminem; non che ascolti quella
merda rap, ma la ascoltava mio figlio prima che quella puttana traslocasse
armi e bagagli da Piotr! Ho provato a chiedere in giro, specialmente ai miei
vicini di casa e soprattutto a quell’ebreo che vive due piani sotto. Non so come
si chiama, so solo che ha uno schifoso bubbone sulla guancia che gli cola roba
giallastra sul colletto della camicia, ma anche lui non ha detto niente. Ho visto
però un luccichio nei suoi occhi e la cosa mi ha rincuorato; pensavo di essermi
immaginato tutto. Un giorno dovrò affrontare la cosa in modo diretto con lui.
Perché potrebbe avere dei pezzi doppi che mi mancano e Dio solo sa se ne ho
un bisogno urgente. Potremmo organizzare uno scambio, come si faceva da
piccoli a scuola con le figurine del baseball.
Mmmm, sembra che non sia ancora venuto al sodo; è un difetto, quello di
girare intorno alle cose, che mi trascino dietro da quando ho memoria di
esistere. La mia insegnante al College, Mrs Hoover, ad esempio… ma già,
cazzo, non divaghiamo.
Il sodo è, alle corte, che dentro ogni scatoletta di carne Lah ci si possono
trovare pezzi anatomici umani molto, molto, molto piccoli.
Pezzi umani, già, ma meglio sarebbe dire umanoidi.
Perché non potrebbero appartenere ad un essere umano, nemmeno appena
nato, nemmeno ad un feto. Troppo piccoli per appartenere a qualunque cosa
non sia una bambola per nani.
All’inizio pensavo che dentro il macinatore fosse scivolato qualche bambino,
perché so che i Viet-fottuti-namiti vendono i loro figli al mercato degli schiavi e
stuprano le loro figlie con canne di bamboo. Gente di merda, credetemi: io nel
Nam ci sono stato.
Ma non era così.
Anzitutto in ogni scatoletta c’è un pezzo diverso; almeno all’inizio era così,
perché poi sono venuti i doppioni: mani, piedi, organi interni e altro. Una
coincidenza? Non credo affatto. E poi i pezzi si incastrano tra loro che è una
meraviglia, come nei Lego, come nei Meccano. A volte però il lavoro di…uh,
assemblaggio è davvero uno schifo, come quando ho dovuto infilare gli occhi
dentro le orbite del teschio e non ci riuscivo, e sudavo come un negro, e
schiacciavo tra pollice ed indice quelle pallette viscide sempre un tantino
troppo forte e quelle esplodevano. Più di una mezza dozzina di occhi ho fatto
fuori prima di riuscire a finire il lavoro. Per parecchio ho lavorato sul mio
ometto, ed ora è quasi finito: è ancora un groviglio di tendini e ossa, ma
almeno ha una forma ora, una forma quasi precisa.
E, circa due giorni fa, ha cominciato a muoversi.
Non ho più molto tempo. Il cancro galoppa dentro di me come un apaloosa e
mi sento sempre più stanco. Non so fino a quando riuscirò a reggere, ma prima
di rendere l’anima a Nostro Signore devo finire quell’essere. Devo completarlo,
perché, mio Dio!, sento sempre i suoi luridi occhietti fissi sulla mia nuca e
sento che desidera essere completo, a costo di venire lui stesso la notte a
prendere i miei organi.
Cosa sia quell’essere non lo so proprio. La lingua ancora non ce l’ha (non l’ho
trovata, ma anche se così fosse stato non so se avrei avuto il coraggio di
mettergliela. Avrebbe potuto parlarmi, Gesù, dirmi cose!). Ma non mi interessa
cosa sia, davvero. Io so solo che devo finirlo.
Ho poco tempo, gente, e molti pezzi ancora da montare. Per questo, mi
chiedevo, se foste clienti abituali dei supermercati Lah e aveste dei pezzi doppi
(ma non la lingua, non la lingua!), sareste così gentili da farmelo sapere?
Magari si potrebbe organizzare qualche scambio, come ai vecchi tempi delle
figurine del baseball.
IL TRIBUTO DEL DIAVOLO
“Fermati!” gridò.
Lei lo fece; poi si voltò.
Si guardarono in faccia per molto tempo, senza parlare, dicendosi tutto con lo
sguardo, anche quello che sarebbe stato meglio tenere nascosto.
Lei chiuse le palpebre e cominciò a piangere; quasi d’istinto, l’uomo impugnò la
pistola che portava nella fondina sotto l’ascella, tese il braccio e fissò pensoso il
metallo che gli scintillava fra le dita; quando le sparò la canna ebbe un sussulto
e la pistola gli saltellò nella mano; il particolare lo fece sorridere. La donna
cadde all’indietro, lasciando una nuvola di sangue nell’aria che brillò per pochi
istanti alla luce del sole. Aveva la bocca aperta quando la testa incontrò lo
spigolo del marciapiede.
“Puttana” le disse guardandola morire; poi appoggiò la pistola sul suo corpo e
se ne andò da quel posto.
Finì in un caffè, uno di quei posti in periferia dove si affoga la rabbia in una
bottiglia e si chiacchiera con cameriere falsamente interessate, per lo più
brutte e zitelle, che cercano di rimediarsi una scopata facile. Entrò e si
appoggiò al bancone. Il locale puzzava di ammoniaca ed aveva specchi enormi
alle pareti. Lui ci guardò dentro e ci vide riflesso uno sconosciuto, dalla barba
lunga e spettinato.
Si aggiustò il nodo alla cravatta, poi sorrise ad una cameriera.
“Ho appena ammazzato mia moglie” le disse.
Lei annuì e gli servì da bere; due ore dopo l’uomo si costituì.
Raccontò ogni cosa ad un poliziotto magro e nervoso, e poi ancora al
commissario e ad altre persone, ogni volta diverse. Ad ognuno raccontò la
stessa cosa.
Solo quando gli chiesero il perchè, appoggiò il mento al petto e cominciò a
fissare le piastrelle del pavimento e non aprì più bocca.
“Aveva un amante?”
“No”
“Allora una questione di soldi?”
“No”
“E allora perchè le ha sparato, in nome di Dio?”
Le piastrelle erano lucide e riflettevano la sua ombra.
Al processo rinunciò a parlare in sua difesa. Anche il pavimento dell’aula del
tribunale era bello e lucido, di un legno molto chiaro, solcato da sottili venature
ramificate, come una specie di ragnatela appiccicata per terra. Cominciò a
contarle e cercò di ricordarsi quel numero, ma c’era una gran confusione tutto
attorno, per cui ci rinunciò. C’era un sacco di gente seduta ad ascoltare e molti
di loro lo fissavano senza mai distogliere lo sguardo, e poi c’era chi parlava di
lui ad alta voce e lo indicava, ed il giudice annuiva, ed altre persone
prendevano nota di tutto.
La testa gli ronzava ed aveva nausea.
Forse aspetto un bambino, pensò.
Lo condannarono e finì in una piccola cella, sporca e fredda, ma lui ci rimase
solo tre giorni. Corruppe un secondino e si procurò una corda di nylon, di
quelle che di solito si usano per appendere il bucato in cortile.
Si impiccò una mattina di Dicembre; fuori stava iniziando l’inverno.
Lo seppellirono in fretta, senza cerimonie; nessuno parlò al suo funerale ed il
prete sbagliò il suo nome per due volte; ebbe una lapide ed una manciata di
terra sopra la bara; ebbe tutto quello che bastava e forse anche di più.
La terra era nera e grassa ed in primavera cominciarono a spuntare erbacce.
Per un pò il guardiano del cimitero le tirò via, poi se ne disinteressò e le lasciò
crescere. Alcuni gufi, di tanto in tanto, si posavano sulla lapide, di notte; ci
rimanevano il tempo di stanare un topo e di mangiarselo, poi volavano via. Più
spesso, durante il giorno, ci sonnecchiavano sopra delle grasse cornacchie.
Un pomeriggio di fine Marzo si posò sul bordo della lapide un maestoso corvo
nero di passaggio; si lisciò le penne e cagò sulla pietra, e quando, alla fine, se
ne volò via, il guardiano pensò che il diavolo era venuto a riscuotere il suo
tributo.
FLUSSO DI (in)COSCIENZA # 2
Bè, il fatto è che non si può vivere con la paura, si può solo strisciare.
Immaginatevi a strisciare come un lumacone per tutti gli anni della vostra vita.
L’immagine, alla fine, risulta abbastanza deprimente io credo. Ho avuto paura
un bel pò di volte nella mia vita. Paura di essere pestato, di essere preso in
giro, di essere deriso dalle ragazze; paura di sbagliare tutto.
Ho avuto paura sin da piccolo.
Ho questa immagine di me, rannicchiato sul divano, mentre piango in modo
incontenibile.
Paura.
P-A-U-R-A.
Ti blocca il cervello ed il cuore si riduce ad un pugno chiuso.
Ho avuto paura di essere chiamato a giocare a pallavolo, perchè non ne sapevo
un cazzo di niente di come si giocava, ed ero comunque negato, sia per
ricevere, sia per schiacciare.
Ho avuto paura do provarci con quella ragazza, perchè Dio sa cosa avrebbe
potuto inventarsi per ferirmi. Una volta tre ragazze dissero “noi giochiamo al
gioco della bottiglia solo se lui non ci gioca” I loro indici erano puntati su di
me; a volte li rivedo, quegli indici, e sono enormi e gonfi come palloni
aerostatici, e si innalzano verso il cielo, fino a diventare nuvole.
Ho avuto paura di vedere l’Esorcista; del mostro che abitava sotto il mio letto;
del buio che prende forma di zanne ed artigli e fa quadratini delle tue budella.
Questo solo so, dopo tanti anni, che non si può convivere con la paura. O lei o
noi.
Un personaggio di un mio racconto dice di non aver mai avuto paura in vita
sua, fino all’età di sette anni, quando ha saputo da sua nonna che esistevano
gli spettri; da loro non ha più smesso di avere paura, e tanta ne ha accumulata
che vive di immondizie e di elemosina.
Sai quand’è paura vera quando senti che hai mani di cera, che si squagliano
piano piano, e dentro la pancia c’è una intera tribù di gremlins che fanno festa
e dentro la testa c’è qualche idiota che spara fuochi d’artificio. E ti viene una
tale nausea.
A volte credo non esista abbastanza aria da riempirmi per intero i polmoni, e
cominciò a soffiare, come una foca.
Ci si sente come uno staccio conteso dai cani, avete presente? Ognuno lo tira
verso di sè e lo staccio si lacera. E’ inevitabile: prima o poi si lacera.
Alla TV c’è Kurt Cobain, qualcuno di voi lo ricorderà ancora. Canta su MTV, le
parole sono confuse, a stento le capisco. It smells like a teen spirit. Ha i capelli
così biondi che sembrano bianchi sullo schermo e ha gli occhi da bambino
spaventato. Ha la chitarra, e la usa come Linus usa la coperta. Lui ha avuto
paura, e ha mollato; forse un giorno mollerò anch’io.
La cosa buffa è che non ho paura delle cose vere. La gente mi reputa
sfrontato, forse un pò eccessivo nelle mie cose. Mi butto sempre per primo. La
mia ragazza dice che non c’è cosa che mi faccia paura, e se a lei sembra così,
io ne rido, e dentro di me qualcosa cigola, come minacciasse in una lingua che
non conosco. Ciò che cigola si spezza. Mio nonno lo dice, quando ha le mani
unte e la faccia sporca di grasso e di olio motore.
Ho combattuto da bambino con un coraggio che non troveresti in un soldato,
perché il coraggio c’è stato davvero: era però del tutto sbagliato l’avversario
contro cui rivolgerlo. Così non ho fatto altro che accelerare il naturale processo
di decomposizione mentale.
E’ così che è andata: ho combattuto ed ho perso, sin dall’inizio avevo perso.
Non è sempre così quando prendi a pugni il tuo riflesso nello specchio?
ISSONFUL
"Stasera c'è una festa" buttò lì Paolo, sbirciando distrattamente l'affannoso
andirivieni degli studenti nel cortile della facoltà “E’ dalle parti di Crevari. In un
vecchio magazzino, o roba simile. Ti andrebbe?"
Andrea emise un grugnito, accennando d'aver capito, ma continuando a
sfogliare con poco interesse una rivista universitaria.
“Mmmm, può anche darsi. Tu ci vai sicuro o cosa?”
"Cazzo, non so. In realtà è Federica che ci vuole andare. Io lì non conosco
praticamente nessuno"
"Certo. Come al solito: tu guidi, lei ti dice dove andare”
“Uh, bè, non è che le cose vadano propr”
“O.K., O.K., non farla tanto lunga. Chi la organizzerebbe ‘sta festa?”
Paolo allargò le braccia.
“Non so. Amici di amici, credo. Sai come funziona; uno lo dice ad un altro,
questo passa parola ad altri due e come niente ti trovi cento sfigati a bussare
alla tua porta”
“E in questo caso saremmo noi gli sfigati che si imbucano non invitati, giusto?”
“Er.. non l’avevo vista sotto questa luce, comunque credo proprio di sì”
“Dalle parti di Crevari hai detto?”
“Già; allora vieni?”
"Ci penserò"
Il ronzio del telefonino di Andrea si confuse con il trillo della campanella che
annunciava la fine della lezione di Economia Politica.
Urla soffocate e sangue vomitato sul prato.
Imbrattava tutto, quel sangue rosso cupo. Finì per inzaccherare anche le
scarpe lucide dell'agente di polizia che fumava placido appoggiato ad un
pioppo.
"Perdio, guarda che cazzo fai, stronzo!" abbaiò menando un colpo alle reni del
marocchino con un nodoso ramo raccolto per l'occasione.
Non usavano certo manganelli; non volevano sporcarli per quel pezzo di merda
di un negro.
Il marocchino rantolò appena per quel colpo. Non aveva più nemmeno la forza
di urlare. Restò semplicemente appeso ai rami come un Cristo, a braccia
larghe, testa bassa a sfiorare il torace imbrattato di sangue.
Penzolava inerte come un qualsiasi insaccato da un macellaio.
L’agente Ferri sbadigliò annoiato, poi gli sferrò un calcio, dritto ai coglioni, ma
quello restò immobile; neppure più un rantolo.
"Ormai non c'è più gusto"
Bettini finì di giocherellare con la pistola; poi alzò gli occhi obliqui e bestiali
verso il negro.
Il sangue sgorgava a fiotti dal volto massacrato, dai tagli sulla pelle, dalla
schiena martoriata.
"Ecco come deve essersi sentito Gesù Cristo"disse.
"Non infilarci dentro la religione! Che cazzo c'entra Cristo con questo negro
bastardo?" sibilò duro Ferri.
Lui era un vero credente: cultura cattolica insegnata a forza di cinghiate e dura
da smaltire.
"Hei, non ti scaldare tanto. Volevo solo dire che è ridotto piuttosto male"
"E allora dillo senza bestemmiare".
Ferri mollò con odio un altro calcio all'insaccato e si sedette sbuffando.
Un fazzoletto di carta macchiato di sangue volò dietro un cespuglio. Il terzo
agente aveva finito di pulirsi la scarpa inzaccherata.
"Che si fa con 'sto stronzo, ora?" chiese
"Io mi sono rotto i coglioni di picchiarlo, e poi non c'è più gusto"
"La lezione l'ha imparata di sicuro"
Bettini annuì.
"Lo credo anch'io" si avvicinò al marocchino e gli spostò il volto all'altezza della
sua bocca "E' vero, stronzetto, che la lezione l'hai imparata e che non verrai
più a spacciare dalle nostre parti? E' VERO? Rispondi, perdio, o ti brucio le
palle!" e strinse la presa sulla gola.
Come risposta ebbe un gemito terribile, farfugliato a mezza voce con uno
sbocco di sangue.
"Slegatelo"
Gentile tagliò le corde che segavano i polsi al negro e quello piombò a terra
con un tonfo.
"Lo lasciamo qui?"
"Che cazzo ti dice il cervello, eh? E se poi lo trovano? Lo scarichiamo sulla
strada per Savona e che se la vedano i nostri colleghi di là. E fai sparire le
corde, bruciale, mangiale, ficcatele nel culo MA FALLE SPARIRE!"
"Hai paura che vada in giro a raccontare qualcosa?"
Bettini lanciò uno sguardo alle chiazze di sangue sul prato e ridacchiò.
"No, non credo proprio, ma, come si dice, la prudenza non è mai troppa..."
disse cominciando a trascinare il negro verso un telone di plastica.
In due lo caricarono, ben avvolto nel telone, nel portabagagli.
"Dio...quanto puzza" gemette Ferri.
Dopo qualche minuto l'Alfetta azzurra cominciò a saltellare sul sentiero
accidentato.
Dove cazzo sono quei bastardi acidi? Eppure, cazzo di un cazzo,
erostrasicurodiaverlimessiqui... DOVE CAZZO SONO?
Pissing era fuori di testa.
Ubriaco alle nove di sera, stava smontando pezzo per pezzo camera sua in
cerca di una manciata di pillolette multicolori che aveva nascosto la sera prima,
ancora più ubriaco, ed ora, porca puttana troia ladra, il mio fottuto cervello non
vuole proprio ricordare un cazzo di niente, più stupidamente coglione di un
dannato mulo!
Dove Eva bagascia le ho messe?
Bestemmiava e sudava.
I capelli rossi, ricci e spettinati, gli sballonzolavano dovunque. Sfilò persino il
materasso, buttando per terra il portacenere con una culata.
CRASH; volò in mille pezzi, cicche e cenere appresso.
"PORCATTTROIA"
Pissing si passò le mani sudate tra i capelli, roteando gli occhi come una
bambolina impazzita.
"E ora?"
"Antonio che cazzo stai facendo?"
Era suo padre.
"N-Niente...ecco..mmmm....metto a posto.." farfugliò di rimando.
"Cosa hai detto? Parla chiaro ecchecazzo! Ora vengo lì"
"NO! Cioè...io ho finitoedevoandare..." le parole gli scivolavano fuori dalla
bocca a caso, senza che potesse coordinarle.
Pensava veloce.
DOVE SONO QUEI BASTARDI ACIDI?
"Eccomi"
La paura mise a Pissing le ali al culo. E ricordò.
Afferrò il salvadanaio che Canna gli aveva regalato per i diciotto, che di solito
riempiva di preservativi. Lo scosse e ascoltò il dolce e rassicurante tintinnio
delle pillolette. Sgusciò sotto le ascelle di suo padre e filò via.
"Cèunafestastraficaenonpossomancaretornotardistasera"
Il padre arricciò il naso di fronte alla camera vandalizzata.
"Guarda che merdaio" ebbe appena il tempo di dire, prima che il portone
tonfasse sui cardini.
Si grattò le palle e tornò a guardare la tivvù.
La festa fu un FLOP, uno schifo: niente fica, centinaia di bambocci urlanti,
musica di merda. Ripensando a come aveva buttato via preziosissime ore della
sua vita, Canna cristava al volante della Panda strappata con la forza alla
sorellina.
Urghhhhh-h!
Dietro, Pissing vomitava dal finestrino abbassato; aveva bevuto di nuovo
troppo e si era anche riempito di acidi.
"Proprio dove sta posato il tuo culo, avevo programmato di fotterci una gran
fica, cazzo. E ora, invece, ci sta posato il tuo culo, amico" ringhiò Canna, gli
occhi incollati a quella merda di strada di campagna, tutta buche.
Le sospensioni non erano un granchè, perciò la macchina rollava e
beccheggiava come una scialuppa infilata in un cazzo d'uragano, ma di quelli
seri, da film, dove l'equipaggio raccomanda l'anima a Dio e c'è il solito capitano
schizzato di testa che insiste ad affrontare cavalloni e fulmini, legato al timone.
Lì quanto meno non si rischiava di affogare, se non nel vomito che Pissing
stava disseminando per tutta la strada.
"Stai attento, pezzo di stronzo, che se schizzi un pò di quella roba sui sedili, ti
taglio le palle!"
Canna ci teneva che la Panda, che non era né sua né della sorella, bensì della
madre, un’isterica quasi-cinquantenne in menopausa ed incazzosa di brutto,
finisse quel viaggio immacolata e linda come la passera di una vergine.
Gli rispose un rutto, o qualcosa di simile.
"E lascialo stare che sta male forte..." protestò Fabrizio, mollando una pacca
sullo schienale del guidatore. Stava dietro anche lui, cercando di dare una
mano come poteva all’amico, talmente pallido da far venire un infarto secco a
Michael Jackson, se solo lo avesse visto.
"Lo vedo anch’io, e LEVA LA BIRRA DAL SEDILE! Se i miei trovano la macchina
sporca, nella merda non ci finisco solo io, ricordatevelo!"
Fabrizio rise, sbavando birra.
Dio, quanto odio chi non regge l'alcool, lo fulminò Canna.
"Perdioporcaputtanatuamammaspompinapreti" borbottava Pissing.
"Con chi ce l'ha?"
"Con te! Bell'amico che sei! Neanche vomitare in pace..."
Canna bestemmiò, evitando un cratere in mezzo alla strada.
"Perlamadonna, che cazzo di posto!" sbuffò.
"Canna..." era Pissing, piagnucolante.
"Sì?"
"Non t'incazzi?"
"Cosa?"
"Ti sto chiedendo: t'incazzerai?...."
Canna inchiodò in mezzo alla strada e piantò uno sguardo folle tra gli occhi di
Pissing.
"Che cazzo hai combinato?"
Appena vide la chiazza sul sedile e l'aria contrita dell'amico, gli si ammosciò
l'uccello.
"...è stato quando hai sterzato..."
"Fuori!"
"...non è stata colpa mia..."
"Scendi da questa cazzo di macchina! Fuori e prendi uno straccio! FUORI!"
Scese bestemmiando e mollò un calcio ad un sasso che volò tra i cespugli a
lato della strada.
"Che serata di merda...."
Paolo si appoggiò stancamente al bordo del lavandino di ceramica bianca. Un
po’ dell’acqua che si era buttato in faccia colò sulla camicia, disegnando
fantasiose chiazze sul tessuto grigio chiaro. Soffiò un po’ d’aria dal naso prima
di voltarsi verso la fila di porte alle sue spalle. Da una di queste, ben chiusa
dall’interno, arrivavano gemiti e colpi secchi, ritmici.
"Lì si fotte..." disse.
Andrea spense la cicca nel lavandino; sfrigolò sulla ceramica umida.
"E allora?"
"Niente, così"
I gemiti aumentavano.
"Dev'essere Federica" aggiunse Paolo.
"La tua tipa?"
C'era una lievissima nota di sorpresa nella voce di Andrea; lievissima.
"E si fotte un altro?"
Paolo scrollò le spalle.
"Fa quello che vuole; è maggiorenne. E poi dice che ce l'ho piccolo"
"Non ha tutti i torti"
"Può essere. Piaciuta la festa?"
"Uno schifo. Non c’era una ragazza decente in tutta la sala!”
"Sei fidanzato, Andrea"
"E allora? Quella stupida troia studia, stasera; ha un esame in ballo. Cazzi suoi!
Non è l'unica ad avere la sorca!"
"Beh, se proprio volevi scopare, c’era Antonella libera...”
Andrea rise di gusto, malevolo.
"Quella baldracca? Se l'è fatta il mondo. E' tanto piena di malattie che le
escono anche dal buco del culo!"
"Gesummaria! Spero di no!"
"Non te la sarai mica fatta, eh?!"
"Come tutti. Solo stasera è stata con tre tipi"
"Dove?"
"Nel bagno delle ragazze"
"Tra il vomito? Mi fai schifo a guardarti"
"Non c'era ancora, prima."
Federica in bagno se ne venne. Cacciò un urletto stridulo e dimenò i piedi
contro la porta.
I due amici si scambiarono un veloce sguardo velato d’imbarazzo.
Andrea fece schioccare la lingua; tentennò qualche secondo, poi si decise.
"Ti dispiace se gli dò il cambio?" chiese.
"A chi?"
"Al tipo là dentro.Ti spiace?"
"Perchè dovrebbe?"
"Perchè è la tua ragazza quella là dentro, ecco perchè dovrebbe."
"Fai pure, se ti va."
Un tizio sudato uscì abbottonandosi i jeans, si lavò le mani ed uscì.
Non aveva aperto bocca né degnato d’un solo sguardo i due ragazzi, come se
nemmeno fossero stati lì, a sentire quello che aveva fatto fino a quel
momento.
Federica era seduta sul cesso, le gambe larghe e l'aria stravolta.
"Diodiodio" borbottava.
E' ubriaca, cazzo, si disse Andrea infilandosi nel bagno; poi a voce alta "Sicuro
che va bene?"
"Mmmm..."
"O.K."
Andrea le piantò subito due dita nella fica e la baciò. Sapeva di alcool e
sigaretta, un alito del cazzo.
Smise subito.
"Sono qua, amore" le sussurrò in un orecchio.
Federica aprì gli occhi, vuoti di intelligenza.
"Abbiamo appena scopato, sono stanca"
Andrea abbozzò un sorriso e abbassò la testa, infilandola tra le cosce e
cominciando a leccargli la sorca, ma puzzava anche quella.
Smise subito.
"Sono stanca" si oppose lei.
Andrea si menò l'uccello e, quando fu duro abbastanza, le sollevò la gonna e
glielo spinse dentro.
"SONO STANCA, CAZZO!" latrò furiosa lei; poi gli piantò le unghie nella
schiena.
Andrea levò l'uccello e le mollò uno schiaffo.
Lei cadde a terra tra le chiazze di piscio, piangendo "...sono stanca..." mugolò.
"Fottiti" le disse Andrea uscendo.
"E allora?"
"Allora un cazzo. Ho voglia di una canna"
La pista era quasi deserta; la musica continuava a rimbombare nella discoteca
ma era troppo stanca, ormai, e perdeva d'effetto. Comunque c’era chi non
mollava ancora e, strafatto di acidi, si dimenava come andasse avanti caricato
a molla; qualcun’altro preferiva limonare a bordopista, o scopare, infrattato sui
divanetti. Un ragazzino di forse sedicianni si stava sparando una sega in mezzo
alla pista; senza smettere di seguire il ritmo.
Andrea e Paolo raggiunsero Cristhian, che beveva, affondato in un divano. La
sua ragazza gli stava spompinando il cazzo con un certo entusiasmo, ma lui
pareva disinteressato e fissava il soffitto.
"Non vengo con voi" disse.
"Come? Che cazzo ti dice il cervello. Non vieni?"
Andrea sembrava parecchio incazzato.
"Tra un mese ho l'esame in polizia e se mi beccano il piscio pieno di fumo, ce
l'ho nel culo..."
"TU? In polizia?" ridacchiò Paolo.
Cristhian si alzò di colpo, lasciando la sua ragazza a bocca aperta, con un'aria
piuttosto stupida, e afferrò Paolo per la camicia.
"Sì, buco di culo. Io in polizia!"
“Giesù, occhei, occhei! Va tutto bene, brò! Mollami ora... Ti prego”
“Mollalo” disse Andrea, e Christian lasciò la presa.
"Quella roba rimane parecchio nel piscio" disse tornando a sedersi.
E con questo tornò a disinteressarsi dei due ragazzi e delle sorti del pianeta.
C’erano un pacco di macchie d’umidità sul soffito che chiedevano solo di essere
contate.
Paolo si allontanò da lì, viola in faccia; Andrea lo seguì con lo sguardo mentre
sgattaiolava verso il cesso, poi tornò ad occuparsi dell’amico.
"Quanto ci rimane?" chiese
"Non lo so, ma parecchio tanto, e se fumo stasera il mese prossimo mi si fanno
con calzoni e tutto"
"Allora non vieni?"
"Sei sordo o rincoglionito?"
"Come vuoi"
Lo straccio bagnato volò sull'erba.
Canna si sedette sbuffando sul cofano della Panda e, dopo essersi sfregato le
mani umide sui pantaloni, si accese una sigaretta. Non riusciva a togliersi dalla
testa l’immagine dello schifo che Pissing aveva lasciato sul sedile. Sperò che il
tabacco triturato da qualche negro della Virginia gli togliesse almeno l’odore da
dentro le narici.
"Non riesci a capire cosa sia l'Infinito, quello vero, finchè non sei in acido di
brutto" borbottò Pissing.
Canna squadrò il sorriso beato dell’amico che stava sdraiato sull'erba a
contemplare le stelle.
Sembra un fottuto idiota, pensò, e, dopotutto, lo è davvero.
"Che minchia dici? E allora, secondo te, Leopardi si strafaceva di acidi tutti i
giorni?" intervenne il vocino di Fabrizio.
"E ora che cazzo c'entra Leopardi ?"
"Tu hai parlato di infinito...."
"Baciami il culo! Leopardi scriveva coglionate! Un gobbo sfigato e ricco
sfondato, ecco quello che era. Che mi frega di lui? Io parlo di vera poesia:
Elliot, ad esempio. O Blake"
"Blake era checca"
Pissing gli lanciò un'occhiataccia.
"Per niente"
"Ti dico di sì. L'ho studiato l'anno scorso"
"E allora hai studiato male! Wilde era la checca, Blake era strafatto d'oppio e
basta. Non era un pigliainculo" intervenne Canna.
Fabrizio parve rifletterci sù qualche secondo, poi annuì.
"Hai ragione. Wilde era la checca"
"Dobbiamo proprio parlare di queste stronzate?"
"Io vorrei farmi una bella scopata"
"Beh, stasera ormai te lo scordi. A meno che Fabrizio non presti gentilmente le
sue terga..."
“Vaffanculo, tu!”
"Qua di sicuro passera zero, ma, forse, cazzeggiando un pò in qualche bar..."
"E' tardi...."
Fabrizio ruttò "Dio, sto male...."
"Non sei l'unico" sghignazzò Canna; poi, rivolto a Pissing, aggiunse "Se ne
avevi proprio tanta voglia, potevi darti da fare alla festa"
"Dio Cristo! La festa...e hai il coraggio di chiamarla così?"
"Ragazze ce n'erano, però."
"..'fanculo. Passera in fasce! Mi avete portato all'asilo!"
"Anna ha sedici anni"
"E io ventuno! Ti pare normale? Quella non sa nemmeno come è fatto un
uccello, te lo dico io!"
"Stronzate. E' la migliore succhiacazzi di Genova. Lo sanno tutti" gorgogliò
Fabrizio, la pancia sul punto di esplodere.
"Sicuro?" chiese Canna.
"Certo"
"Come che Blake era checca?"
"NO CAZZO! Questo lo so per certo"
"Mmmm...." Canna si lisciò il mento "Te ne ha fatto qualcuna, per caso?"
"Proprio stasera, cazzo. Ha una bocca che pare un'aspirapolvere"
Fabrizio pareva molto fiero della propria metafora: si premiò con un lungo
sorso di birra e con un rutto di soddisfazione. Ma non durò a lungo, no
davvero.
"E tu cosa ne sai di come ciuccia un'aspirapolvere? Ci hai mai provato?"
Tutt'a un tratto Fabrizio non parve più molto fiero del suo estro poetico.
"Vaffanculo"
"Te lo immagini eh, Canna? Fabrizio che si dimena con quel grosso bidone
attaccato alla fava e lui che urla STACCAMELO, MAMMA, STACCAMELO!"
Pissing accompagnò le parole con ampi gesti e ghignatine eloquenti.
"Tappati quella fogna" abbaiò Fabrizio.
Scosse la lattina, la trovò vuota e, deluso, la scagliò verso l’amico.
"Hei" berciò quest'ultimo evitandola.
"Piuttosto Sabry, allora"
Questo era Canna.
"Ha due poppe.... “ e agitò le mani davanti al torace.
"Sabrina ha tredici anni..."
"E allora?"
"E allora, se ti pescano che ti dai da fare tra le cosce di una tredicenne, sei più
fottuto di una mignatta all’ora di chiusura di un bordello, fratello mio..."
Canna gli mostrò il medio e tornò a tuffarsi con la testa tra quelle grandi,
immense pere.
"Che si fa adesso?"
"Avete una canna?"
Pissing rise "No, le hai già fumate tutte tu"
"Occhei, allora leviamo il culo da qui..."
Bettini spintonò il ragazzo pallido dal terrore contro la macchina.
Era una Lancia Delta rossa fiammante, un vero gioiello; ma il ragazzo non
ebbe il tempo di poterla ammirare. Rimbalzò con la faccia contro la lamiera del
cofano e una frustata di dolore gli spaccò in due il cervello.
"Chi cazzo pensi di prendere per il culo, eh, bamboccio?" ruggì l’enorme
poliziotto.
"N-non volevo...." squittì il ragazzino.
"TU NON VOLEVI?! Che grossa, tremenda, fottuta sfiga....”
Paolo deglutì a vuoto.
"Ma resta il fatto, stronzetto, che stavi fumando Marjuana, e nessuno, cazzo,
nessuno ti stava obbligando!"
"N-no, è che... Gessummariahopaura..."
"Fai bene perchè oggi è davvero la giornata più brutta della tua vita"
"Ho solo vent'anni..."
"Bastano ed avanzano per venire con me, stronzetto"
"Era solo una canna..."
Bettini lo colpì con una manata al volto. Esagerò e Paolo piombò a terra,
mugolando.
"Cristo, per poco non gli rompe il naso"
Era Andrea, in piedi vicino alla Delta.
Bettini gli afferrò il collo.
"E a te mangio i coglioni. Dirai che è caduto"
"Manco per il cazzo che lo dirò"
Bettini colpì anche lui, con rabbia, al fegato. Doloroso e non lascia segni;
l’addestramento serviva sempre, in ogni circostanza.
"Ed ora in macchina"
Piegato in due Andrea scoppiò a piangere "No! Mio padre mi ammazza se lo
scopre, per piacere…”
"Io non voglio portarti in questura, ragazzo" e si chinò su di lui, quasi
amorevole “Ti voglio solo ammazzare di botte" aggiunse colpendolo al volto.
"Non.. non sappiamo nemmeno se è un poliziotto..." sibilò Paolo; si era rialzato
e barcollava, stringendosi le mani intorno al naso.
"Perdio se lo sono"
Bettini sfiorò la fondina di cuoio sotto l'ascella.
"Non ha la divisa, ed è solo..." continuò Paolo, rivolto all'amico.
"Mettiamola così, allora" l’agente slacciò la fondina "Che io lo sia o non lo sia
non ha una grande importanza a questo punto" sfilò la Beretta "Quindi stringi i
denti finchè te ne rimane qualcuno" e infilò la canna di freddo metallo nella
bocca del ragazzo.
"Dillo ancora che non sono un poliziotto!" gli urlò dritto nelle orecchie.
"MMMM...."
"Cazzo, la smetta!"
"Dì che ti piace, pezzo di merda!"
"La tolga di lì, per piacere…"
"Dimmi che ti piace, DILLO"
"Mmmpiace"
"Così va bene, ed ora in macCCCAZZO!"
Il ramo lo aveva colpito con forza e violenza alla base del collo.
Bettini cadde sulle ginocchia, imprecando.
"Dio...sei morto, figlio di puttana. SEI MORTO!"
La seconda bastonata di Andrea fu ancora più rabbiosa.
Alla testa.
Con odio il ragazzo continuò a calare quel ramo sul poliziotto finchè non rimase
del tutto immobile, il cranio aperto.
"Diomadonna! L'hai ammazzato"
"Dovevo farlo... E tu, ricordalo, TU mi hai aiutato"
Per qualche secondo i due rimasero zitti, in piedi.
Andrea ebbe un conato di vomito, dettato dal panico che gli tormentava le
budella.
"Che cazzo vuoi fare?" gli chiese l’amico.
"Non lo so, vaffanculo! Ma dobbiamo toglierlo di qui"
Paolo cominciò a piangere.
"Dobbiamo andarcene....dobbiamo andarcene....dobbiamo...."
I fari di una macchina lo illuminarono di colpo, violentemente. Paolo non trovò
di meglio che buttarsi a terra. Quando vide le luci rimpicciolire fino a sparire
del tutto, si coprì gli occhi lucidi di pianto.
"Mi sono cagato sotto, Dio, mi sono cagato sotto"
Andrea non gli badò.
"Non possiamo lasciarlo qui, ma dove cazzo possiamo portarlo?" parlava a voce
alta, ma in realtà si rivolgeva a se stesso. Paolo era fuori causa; sarebbe
servito solo come tampone per le mestruazioni di un gigante-donna. Inspirò
profondamente un paio di volte, per ritrovare una parvenza di calma e poter
pensare almeno decentemente.
"Ho una tanica di benzina in macchina, possiamo dargli fuoco...no, è una gran
cazzata. Senti Paolo...MI STAI A SENTIRE, CAZZO? Dobbiamo caricarlo nella
sua macchina e toglierci da qui prima che si fermi qualcuno"
Trascinò l’amico verso il cadavere.
"Dammi una mano, imbecille, prendilo per le gambe"
Paolo lo toccò, timoroso.
"E' proprio morto stecchito"
"E che cazzo ti credevi, idiota ?"
Lo infilarono nel bagagliaio della Delta con cura. Per fortuna era abbastanza
largo. Andrea aveva raccolto la pistola da terra e gliela aveva infilata nella
fondina. Non aveva i guanti, perciò la ripulì con la camicia.
“Alla fine i telefilm americani qualcosa ti insegnano, eh?” ghignò all’indirizzo
dell’amico.
Quello annuì, completamente inebetito. Probabilmente non sapeva neppure più
dove stava in quel momento.
“Oh, merda! Quasi scordavo...”
Andrea tornò indietro ed afferrò il ramo con cui aveva sfondato il cranio del
poliziotto.
“Questo viene con noi” disse; poi salirono in macchina.
Girò la chiave e diede un colpetto al pedale del gas della Tigra, pregando tutto
il Paradiso che non si piantasse proprio in quel momento.
BROAMMMM
Non aveva mai amato di più il rumore di un motore.
"YUPPY! CAZZO!"
Era Fabrizio ad urlare, appeso fuori dal finestrino della Delta che avevano
appena rubato.
"SIAMO DEI FOTTUTI LADRI! E' MAGNIFICO! E' BELLISSIMO!"
"Fin troppo facile, però. Quel povero fesso ha lasciato le chiavi inserite nel
quadro e la macchina sulla strada. Si può proprio dire che ci abbia implorato di
rubargliela"
"Probabilmente era imboscato con qualche tipa davvero calda e ha perso la
testa. Ragionava con l'uccello quando ha mollato lì questa bellezza"
"Gli costerà cara questa chiavata" esultò Pissing.
Lui era andato in bianco, e perciò era più che giusto che chi stava saltellando
tra le cosce di una qualche sorcona, in mezzo al bosco, con la sua copertina, i
preservativi e tutto il resto, pagasse un prezzo per la sua fortuna.
Una Delta, per come la vedeva lui, era il Prezzo Giusto.
La strada filava veloce; la notte era ridiventata calda ed invitante.
"Hei cazzo, guarda là!"
Pissing tese l'indice verso un chiarore rossastro davanti a loro.
"Perdio, il bosco brucia!"
Canna accostò di lato, con un sorriso di VERA gioia.
Niente di meglio che un bel focherello per lo spettacolo della notte.
"Ci chiederanno i biglietti per vedere il Granfalò?"
I tre ragazzi scesero al volo, senza nemmeno chiudere le portiere.
Canna mise al massimo l'autoradio.
"Come colonna sonora...eccovi qua mmmmmComeasyouare dei Nirvana. Ve
gusta?"
“Alza! Alza quella cazzo di musica!”
Le fiamme erano già immense e si dimenavano come ballerine, agitando i loro
seni incandescenti, sculettando provocanti e leccando sensuali gli alberi che
sembravano centinaia di cazzi sull'attenti di fronte a tanto bendiddio.
La metafora di una grande, immensa orgia di fuoco, quello era.
Le fiamme erano parecchio vicine; in più punti lambivano già la statale.
Qualche manciata di scintille delle dimensioni di un pugno picchiettarono
sull’asfalto. Una rimbalzò sul cofano della Delta e finì a sfrigolare dentro un
canale di scolo ai margini della strada.
"Potevamo farlo noi...."
Era Pissing, un pò dispiaciuto di non aver avuto lui quell’idea.
"Già, potevamo" convenne Fabrizio "Ma abbiamo comunque questa" e lisciò la
carrozzeria della Delta.
Fu in quel momento che tutti e tre i ragazzi si voltarono di colpo attirati
dall'ululato di una sirena.
Un paio di volanti inchiodarono a pochi metri da loro, vomitando una mezza
dozzina di sagome blu.
Qualcosa di rosso arrivò slittando dietro loro.
"Un'autopompa, cazzo!"fischiò ammirato Pissing.
"E sei succhiapiselli in blu" aggiunse Canna dardeggiando un'occhiata
preoccupata alla Delta "Meglio levarci dai coglioni, dato che abbiamo le dita
sporche di marmellata"
Un poliziotto si avvicinò sbuffando.
"Meglio che ve ne andiate di corsa, ragazzi"
Pissing ghignò in maniera idiota "Ammiravamo lo spettacolo"
"O.K. ma ora fuori dalle palle, prendete l’auto e.....UN ATTIMO, PER LA
PUTTANA!!!" e sfoderò di colpo la pistola.
“Hei, ma cosa?”
“Fermi lì! Tutti e tre, porco cazzo! TUTTI E TRE!”
I ragazzi smisero persino di respirare, fermi immobili, gli occhi incollati alla
canna della pistola.
Un secondo agente si avvicinò di corsa "Che mischia fai, Ferri? Tira via quella
pistola!"
Il poliziotto non si voltò nemmeno, tenendo d'occhio le tre statue di sale che
aveva di fronte.
"Tappati la bocca e dai un'occhiata a quella macchina, la Delta. Ti dice niente?"
"Cristo d’un Dio! E' la macchina di Bettini"
"Bingo! Ho riconosciuto quella botta sulla fiancata. Sono mesi che deve
portarla dal carrozziere"
Gentile si massaggiò il mento,voltandosi con calma verso Canna & co.,ancora
impietriti dalla paura.
O più probabilmente incazzati contro il destino.
Cazzo! Fregarelamacchinaadunosbirro! Cazzo.....
Canna si sentì sciogliere, e non era per il caldo bruciante dell’incendio.
L’agente Gentile stava sorridendo, e un sorriso di quel tipo visto sopra un
distintivo non porta che merda. Quintali di merda.
"Ho idea che siate nei guai, ragazzi...." iniziò avvicinandosi a loro.
E nessuno aveva ancora aperto il bagagliaio.
Andrea sbuffò dal naso, inarcò le sopracciglia e si dipinse un’artistica aria di
disgusto sulla faccia.
"Che branco di delinquenti"
Aggiunse così la sua personale ciliegina al capolavoro di indignazione che era il
suo volto.
"E pensare che hanno la vostra età, ragazzi. E' questo che mi terrorizza.
Avrebbero potuto essere qui tra voi, ora. Dio mio...."
"Non credo professore" Andrea scosse energicamente il capo "Altro tipo di
gente. Non avrebbero nulla da spartire con noi"
Il professore di Diritto Pubblico ne convenne con un cenno della mano, poi si
avviò verso l’Aula Magna, buttando il quotidiano appena letto su uno dei tavoli
dell’atrio.
“Tra poco inizia la lezione, ragazzi. Sbrigatevi. E non lasciate che simili storie vi
turbino più del necessario”
Il gruppo di studenti fece coda dietro al professore, lasciando come unico
testimone di quella chiacchierata uno spiegazzato giornale, accartocciato su
una superficie di compensato da quattro soldi.
La prima pagina titolava:
"INCREDIBILE OMICIDIO CONSUMATO TRA LE COLLINE DI GENOVA:
ARRESTATI I TRE GIOVANI ASSASSINI DELL'AGENTE LEONARDO BETTINI"
UNA BELLA GIORNATA...
La prima scossa fu violentissima.
La muraglia, vanto ed orgoglio della popolazione, che da tempo immemorabile
difendeva gli abitanti dai feroci attacchi delle bellicose tribù circostanti, crollò
miseramente, trasportando nella sua rovina i numerosi guardiani. Sparirono in
pochi istanti, sommersi dalla pioggia di detriti e terriccio. Il terribile spettacolo
della violenza della Terra si offrì in tutta la sua veemenza agli sguardi atterriti
di chi, paralizzato dall'orrore, assisteva impotente al crollo della Città,
abbarbicata sulle pareti della collina. Quello che secoli di estenuanti e continue
guerre per il possesso dell'interminabile pianura e del diritto di caccia su di
essa non erano riuscite a fare, si compì in pochi, terribili istanti ad opera della
collera divina. Perché non potevano esserci dubbi: se la Città stava morendo
non poteva essere che per volontà degli dei.
Cercando di evitare i frammenti di roccia e la pioggia di terriccio che
minacciavano ad ogni istante di seppellirlo, il guerriero fendeva la folla
impazzita che sciamava verso un'improbabile salvezza. Fino a pochi istanti
prima il guerriero non avrebbe avuto il minimo problema a farsi largo tra la
folla, chiunque si sarebbe scansato rispettosamente e avrebbe ceduto il passo
a lui, Guardiano della Regina, Difensore della Città, ma ora... Tutto stava
crollando, tutto stava per essere cancellato e il suo rango non aveva più
nessun valore in mezzo a quella turba di disperati. Il guerriero continuò ad
avanzare spingendo di lato i cittadini in preda al panico, scavalcando cadaveri
senza degnarli di un misericordioso sguardo di pietà, ignorando i numerosi
feriti che si lamentavano ed imploravano di essere salvati.
Non c'era tempo per commuoversi, non c'era più tempo.
La posta in palio era troppo grande per poter perdere anche un solo secondo.
Da qualche parte, in mezzo a quell'inferno, la sua compagna stava lottando per
la vita. E questa era l'unica ragione che lo spingeva a tornare rabbiosamente
verso ciò da cui tutti fuggivano, la Città condannata dagli Dei.
Orrore; morte; corpi smembrati e fatti a pezzi dalla furia della Terra; volti
sfigurati dalla paura, tesi al cielo in un'ultima invocazione di pietà o instupiditi
dall'incredulità e dallo sgomento, fermi a fissare il vuoto. Tutto ciò sfilava,
come in un vortice impazzito, davanti al guerriero soffocato dall'angoscia.
Forse lei era già morta, sotto uno dei cumuli che già aveva sorpassato nella
sua folle corsa o sotto uno di quelli che doveva ancora incontrare, forse era già
in salvo, al riparo della foresta, e scrutava con la sua stessa ansia i volti di
coloro che continuavano a giungere, forse lei stessa lo stava cercando da
qualche altra parte, in mezzo ad altre macerie, mischiata ad altri gruppi...o
forse tutto quello non stava realmente accadendo ma era frutto della sua
fantasia, e mentre lui si dibatteva in un incubo, lei dormiva tranquillamente al
suo fianco...forse... forse... ma intanto non poteva smettere di correre,
incespicando, barcollando ubriaco di fatica e paura, avvinto a quell'esile filo che
noi chiamiamo speranza, quel filo che, seppure così sottile e fragile, può
reggere tutto il peso della disperazione, quel filo che per il guerriero si spezzò
di colpo quando egli si fermò, ansimante, a fissare colmo d'orrore, il corpo
privo di vita che era stato della sua compagna.
Piegandosi verso di lei, la accarezzò tremante, quasi timoroso di poterle fare
ancora male, e la pianse, esplodendo verso il cielo indifferente un urlo di rabbia
e di ribellione.
Perchè tutto questo?
Perchè questa morte?
Perchè?
Non ebbe per risposta che un gelido silenzio.
Ed allora non gli restò che maledire i noncuranti artefici del mondo, tendendo
verso di loro il corpo che stringeva tra le braccia, il corpo che fino a poco prima
aveva palpitato di vita e che un loro capriccio aveva reso immobile e freddo. Li
maledisse e li sfidò, opponendo alla loro potenza solo il proprio dolore. E gli dei
accolsero la sfida.
In pochi attimi la Città, squarciata fin nelle viscere dai solchi del terremoto,
venne invasa da un mare di fiamme che divorarono in un fragoroso crepitio le
vite di chi ancora fuggiva. Ma non si fuggono gli dei, non si fugge il destino.
Furono raggiunti dove si erano nascosti, vennero snidati dagli anfratti dove si
erano assiepati pregando di aver salva la vita o bruciarono in un immenso rogo
insieme alla foresta che li aveva ospitati. Prima di venire ingoiato con gli altri
dal liquido infuocato che era piovuto dal cielo, il guerriero strinse ancora una
volta la sua compagna e trovò la forza di ridere, una risata roca e demente,
un'ultima insolente sfida lanciata all'indifferenza che lo sovrastava.
Il contadino ripose con cura la bottiglia di alcool sul muretto del giardino,
abbastanza in alto perchè il figlio Paul, di dieci anni, non potesse arrivare a
prenderla; poi, pulendo con uno straccio umido la vanga che aveva usato per
schiacciare il formicaio, gettò uno sguardo di soddisfazione al focherello che
aveva acceso per eliminare del tutto le migliaia di formiche che lo avevano
abitato e che erano fuggite in tutte le direzioni. Sua moglie ne aveva un vero
terrore e si era raccomandata di farla finita una volta per tutte con quella
piaga. Fischiettando, versò un pò dell'acqua minerale che aveva bevuto poco
prima sul fuoco, che si spense sfrigolando, gettò qualche manciata di terra a
ricoprire quel che restava del formicaio, poi alzò gli occhi assonnati verso il sole
primaverile, coprendoli con il taglio della mano.
Il cielo era di un azzurro incantevole e non c'era nemmeno una nuvola.
Niente da dire, era proprio una bella giornata...
COME I RESTI DI UN GATTO SULL’AUTOSTRADA
Prima che tutto iniziasse trovò il modo di allontanarsi dall’aula piena di gente;
si allontanò con una scusa e scese le scale, dapprima lentamente, un gradino
alla volta, e poi sempre più velocemente, di corsa, divorando lo spazio che lo
separava dall’atrio enorme, dai leoni di marmo, dal portone di lucida quercia,
dalle borchie macchiate di ruggine, dalla lama di asfalto che si snodava davanti
all’università.
Assaporò l’idea di mollare tutto, proprio sul più bello, proprio sul nastro di lana,
e fu sul punto di farlo davvero.
“Scusa; per le lauree?”
Nicola si voltò di scatto, come un pupazzo a molla.
Un ragazzo non più vecchio di lui, il mento liscio, ben rasato, una cravatta
scura al collo, un buon odore di dopobarba.
“Cosa?”
Il ragazzo lo squadrò per qualche secondo; forse l’idea di chiedere ad altri; un
rapido sguardo di sottecchi. L’atrio dell’università era deserto, ora; l’usciere
probabilmente si stava bevendo un cappuccino alla macchinetta, due piani più
su.
“Per le lauree, dicevo. Dovrei raggiung”
“Di sopra. Quella scala là, la vedi? Bè è di lì. Due rampe di scale e ci sei. In
cima gira a destra, ma comunque c’è scritto”
Una risposta rabbiosa, rapida; le parole gli erano uscite tutte insieme, come i
colpi di una mitragliatrice. Il ragazzo annuì; sorrise; ringraziò con un cenno
della mano.
“Grazie”
“Uh”
Nicola lo guardò allontanarsi e fare tutto il contrario di quello che gli aveva
detto.
Stupida testa di cazzo.
E fu fuori.
L’orologio da polso segnava le sette e tre quarti; c’era tutto il tempo, tutto il
tempo. La strada era quasi vuota; un camion fermo vicino al bar, le quattro
frecce a bucare la fredda nebbiolina di Dicembre; un autobus, le porte
spalancate ad accogliere nella pancia gente assonnata e nervosa.
Nicola girò l’angolo e fu lontano da tutto quello.
L’odore del vicolo era quello solito, piscio sopra ogni altra cosa.
Tirò un calcio ad un pugno di fazzolettini di carta duri di sperma secco.
E c’è qualcuno che ci scopa appoggiato a questi muri.
Non sapeva se ridere o piangere; era una sensazione comune, che gli viveva
dentro, come un ospite a sbaffo.
Girò un altro angolo e lì incontrò il barbone.
Era seduto per terra, la testa tuffata in mezzo tra le gambe ed il torace;
sembrava morto.
Forse lo era.
Aqualung!
Il pensiero attraversò la mente di Nicola come una freccia, per poi fermarsi
sull’immagine del barbone descritto dai Jethro Tull; quello dipinto sulla
copertina del CD; quello che passava le giornate seduto sulle panchine dei
parchi inglesi a sbirciare sotto le gonne delle ragazzine.
Quello; ma non è lui. Ci somiglia, ma non è lui. Potrebbe esserlo, però, se solo
lo volessi.
“Io lo so chi sei” disse Nicola ad alta voce.
Il barbone tirò su la testa con enorme fatica. Fissò quell’assurdo ragazzo in
piedi di fronte a lui, rigido nell’abito grigioscuro.
“E chi sarei?”
“Sei me, credo. Come dovrei essere, se il mondo non girasse al contrario. Ma
non credo tu esista veramente”
“Sei un professore, tu, o qualcosa del genere?”
“Mi laureo tra..” Nicola gettò uno sguardo all’orologio. Le otto meno dieci “...tra
venti minuti, più o meno”
“Ti laurei; già; hai studiato tu; anch’io ho studiato, sai?”
Il barbone infilò le mani bendate da pezzi di stoffa dentro lo zaino che aveva
tra le gambe; ne pescò un libro.
“Questo l’ho scritto io, ma è passato tanto di quel tempo che le parole si sono
cancellate tutte. E’ bianco ora, vedi?”
Fece scorrere le dita sulle pagine, come accarezzasse i capelli di una donna.
Nicola si avvicinò.
“Posso darci un’occhiata?”
Il barbone piegò la testa di lato; fissò Nicola dritto negli occhi.
“Ne avrai uno tutto tuo un giorno; fino ad allora usa la tua fantasia; immagina
le parole che si sono perse e ritrovale dentro di te”
Nicola si voltò.
“E’ ora che vada; c’è gente che mi aspetta”
Il barbone lo richiamò con un fischio.
“Tu hai studiato tanto per diventare dottore, io invece ho studiato per
diventare.. niente” gli disse; poi rituffò la testa tra le gambe; il libro gli cadde
per terra e si aprì a metà di una storia del tutto dimenticata.
“Sei stato molto bravo”
“Grazie”
“Devi essere piuttosto fiero di te”
“Lo sono”
“Ho adorato il modo in cui parlavi”
“Grazie”
“Complimenti per quella discussione, ragazzo! Ci ho capito ben poco, in effetti,
ma, perdio figliolo, hai steso tutti quanti in quell’aula”
“Bè, ci ho provato”
“Hai già deciso cosa fare?”
“Non ancora”
“Ma avrai pure un’idea”
“Un’idea, sì”
“Oh, lo sapevo! Un ragazzo come te...”
“Già”
“Sai, ho visto tua mamma piangere”
“Sì? Bè, non ci ho fatto caso”
“Naturale... eri preso dal...dalla...”
“...discussione”
“...discussione; già, quella. E, senti, sai già cosa fare?”
“Non proprio”
“Ma come? Ora che sei laureato dovresti sapere cosa fare della tua vita”
“Bè, già, in effetti un’idea ce l’ho”
“Ecco, bravo, non vorrai deludere tua madre”
“No, no di certo...”
“Complimenti Nicola! Sei stato bravissimo!”
“Grazie”
“Mi hai impressionato là dentro! E adesso che hai intenzione di fare?”
“Io, bè... farò pratica in uno studio”
“In uno studio?”
“Già, bè, cercherò di diventare avvocato”
“Avvocato, eh?! Bè, se avrò bisogno, allora, saprò a chi rivolgermi”
“Già, occhèi”
“Che hai figliolo? Ti vedo un pò pallido... Stai male?”
“No, no. Sono solo un pò stanco, solo un pò stanco...”
Solo un pò stanco, e la stanza cominciò a diventare sempre più piccola, fino a
chiudersi come una trappola sulla sua testa.
C’era uno schema? Un qualche fine ultimo preordinato e stabilito già dalla
notte dei tempi, da prima che quello spermatozoo fecondasse l’ovulo sbagliato?
Era già tutto scritto, come in quel polveroso libro che Destino degli Eterni tiene
incatenato al polso? Ma se si può sbagliare si deve poter essere liberi di
scegliere. Forse non siamo noi a sbagliare, ma chi scrive la nostra storia in quel
libro. Un ragazzo che conosco, conoscevo?, è finito tra un treno che stava
partendo ed i binari della stazione. Quello che è rimasto di lui è stato appena
sufficiente per impedirgli di morire. Non so cosa faccia adesso, a parte
sopravvivere. Quello che gli è capitato era stato scritto da qualcuno? E’ stato
un errore che lui saltasse giù dal treno per scappare al controllore oppure non
c’è stato alcun errore da parte sua e ha sbagliato il narratore della storia?
Magari ha sbavato un pò d’inchiostro in quel punto, e il racconto si è fatto
confuso, incoerente; forse da quella macchia d’inchiostro ha preso vita una
nuova storia; forse però non c’è alcuna macchia d’inchiostro e nessun
narratore.
Siamo liberi di scegliere la nostra vita? Anzi, ed è ciò che mi tormenta
maggiormente, siamo liberi? Semplicemente liberi, intendo? Perchè le catene
che pesano di più sono quelle che i nostri occhi non vedono e che non lasciano
nessun segno sui polsi.
Aqualung è stato solo un sogno?
C’era uno schema ed io non l’ho visto?
Sono libero?
Sono vivo?
Finì che dovette guidare lui, perchè il padre aveva bevuto troppo e le patenti
rimaste coprivano giusto il numero delle macchine; finì che si trovò a guidare
la Polo di sua nonna nel traffico delle dieci e mezza, in un posto dove il sale
disciolto nell’aria rendeva la gente folle e perversa.
Il termostato era rotto dalla Primavera precedente; allora faceva caldo e i soldi
erano finiti a coprire altre urgenze. Il freddo appannava il parabrezza. Nicola ci
passò il palmo della mano sopra, ma peggiorò le cose.
“Così rovini il vetro”
Sua nonna si sporse in avanti, dai sedili posteriori indicandogli l’alone opaco.
“Vedi? Così non hai risolto granchè”
“Già”
Il serpentone delle auto si bloccò ad un semaforo e Nicola mise in folle e tirò il
freno a mano; ebbe le mani libere per sfregarsele sulle cosce.
“Freddo?” chiese sua nonna.
“Un pò”
“A casa ti faccio un bel tè caldo; che ne dici?”
“Grazie”
“E’ un bambino che ha in mano quella donna?”
“Quale donna?”
“Quella là, quella al semaforo. Ha in mano un fagotto. E’ un bambino, quello?”
Nicola guardò nella direzione indicata.
Vide in effetti una zingara vestita di stracci e sudiciume che aveva qualcosa tra
le braccia.
“Già, pare anche a me”
Chiedeva l’elemosina bussando ai vetri delle auto.
“Non dovrebbe stare là fuori”
Nicola si strinse nel cappotto.
“Già, fa un bel freddo, no?”
“Non è per quello. Anche fosse Agosto quella zingara non dovrebbe starsene là
a chiedere i nostri soldi, che poi ci vengono in casa e ci rubano tutto.
Dovrebbero mandarli via dall’Italia, tutti quanti sono. Un bel treno e via casa
loro!”
Nicola sbirciò nello specchietto retrovisore; la zingara era due macchine più
dietro, una mano sul fagotto ed una, tutta nocche spellate e viola, a bussare ai
muti vetri di plexiglas.
Pare un fantasma, pensò il ragazzo.
Si alitò tra le mani a coppa.
“Sai, ho visto un tizio strano stamani, proprio prima che iniziasse la sessione di
laurea; un barbone; ma da come parl”
“No! Niente soldi! Via! A casa tua!”
La testa della nonna di Nicola era saettata verso il vetro posteriore, la faccia
indurita d’odio.
La maschera impenetrabile che era il volto della zingara la fissò per qualche
istante, dritta negli occhi; poi scrollò le spalle e passò ad un’altra auto.
“Ecco, brava... via te e tuo figlio, che qui di soldi per voi non ce n’è!”
Scattò il verde e ci fu qualche colpo di clacson. Il serpentone ripartì, alla fine,
snodandosi con lentezza oltre il semaforo. Anche Nicola fu oltre, con la Polo, il
suo cappotto, il termostato rotto.
“Hai detto qualcosa?”
“Uh?”
“Prima avevi detto qualcosa, ma non ho capito. Cosa volevi?”
Nicola sbirciò alle sue spalle.
“Cosa volevo?”
La zingara zigzagava tra le auto verso il marciapiede.
“Già, dimmi pure”
Uno scooter la sfiorò; lei gli urlò dietro, agitando la mano libera.
“No, niente... niente di davvero importante”
La zingara raggiunse il marciapiede e ci si sedette sopra, con le gambe stese
sulla strada; aveva appoggiato il figlio di lato, come un involto di panni sporchi,
e rimestava attenta nella mano sinistra, chiusa a coppa, contando le monetine
che aveva raccolto.
Il futuro può essere davvero un brutto posto dove vivere...
E questo fu tutto ciò che Nicola riuscì a pensare, prima che tutto il suo mondo
tornasse ad essere i fanalini di coda dell’auto davanti.
FLUSSO DI (in)COSCIENZA # 3
Arrivano di colpo, fendenti di mannaia.
Non sono attesi; non chiedono permesso. Entrano e basta, come ospiti
maleducati ed insolenti, sfrattati più volte, le ingiunzioni sono carta
appallottolata nel profondo del giubbotto. Si fanno breccia nella mia testa e lì si
accomodano, come a casa loro; mozziconi sul tappeto e piedi sul divano. Certe
volte vedo il mio cervello, e lo vedo come un corpo gelatinoso, un budino, ad
esempio, dal quale spariscono enormi cucchiaiate di materia grigia, come
bocconi di creme caramel; altre volte ho l’impressione che i miei neuroni
giochino all’autoscontro tra di loro, prendendosi a testate. Brividi di dolore mi
salgono dal collo. Ed è come morire, a volte. Ma la cosa più fastidiosa è il
caotico casino nel quale lasciano i miei pensieri, e quando li guardo non vedo
che pappa informe e flaccida, come cartapesta fradicia d’acqua.
Il mio cervello cola neuroni.
E questa è la sola verità.
A volte penso di essere nato nell’epoca sbagliata, di essere stato partorito con
grave ritardo, di essere stato preparato per qualcosa che quando sono nato era
già passato. Non è questa la mia epoca; non è questo il mio posto. E non è
solo per la fitta bruciante al petto quando MTV trasmette vecchi video primi
anni ottanta, nè è per il calore che mi sa dare JC Superstar o Hair. E’ il quadro
generale che non mi torna. E’ questo il mondo che abbiamo creato? Non ve lo
chiedo io; lo ha fatto Freddy Mercury, per me, ed è un gran bel portavoce.
Negli anni settanta è stata data una grande opportunità a questo mondo, e mai
mi perdonerò di non esserci stato anch’io. A volte, nel buio della stanza, mi
rimprovero di aver perso una battaglia che c’è stata quando io nemmeno ero
nato, e se non è pazzia questa, cosa lo è?
Il futuro è a due passi; irraggiungibile. Ha senso ciò che dico, meglio, ciò che
penso? Perchè io in realtà non dico, nel senso che non parlo; tutto rimane
dentro di me, come i resti di sugo dentro la pentola. Nessuno fa mai scarpetta
con i miei pensieri, comunque. Troppo orribili; troppo indesiderabili. Ma, mi
chiedo, ha senso quel che penso? Niente atti di magia, mi ha detto quel tale, il
giorno della mia laurea, assaporando una birra; niente atti di magia, dunque,
ma solo pensiero solido, che fa male perchè picchia duro e punge a toccarlo. E’
spigoloso e pesante. Puzza di muffa vecchia e di piscio. Niente atti di magia,
perchè non sono necessari per sopravvivere, ma in generale semplicemente
perchè non funzionano. Nemmeno un pò. E’ solo questione di paura,
dopotutto; e quella ce l’hai addosso, ben stretta, e morde con i denti di un
lupo. Opposti pensieri, incroci di destini (in una strana storia?), ma la magia,
quella, deve starsene fuori; non c’è ragione che ci sia anche lei; abbiamo fin
troppe mistificazioni in questa porca vita. Ma guarda al futuro, figliolo, mi disse
mio padre sul balcone, prima di buttarsi di sotto, perchè il passato è per i
perdenti. E tu vivi nel passato, giusto? gli chiesi, ma lui era già poltiglia
sull’asfalto.
HOBBIES
China sulla scrivania, le dita imbrattate e l’aria seria di un chirurgo, Natalie si
godeva il proprio hobby.
Collezionava articoli di giornale e, per quanto potesse apparire buffa la cosa (e
suo padre non mancava mai di farla apparire come tale), Natalie la prendeva
dannatamente sul serio. Forbici dalla punta un pò rovinata, messe da parte
dalla mamma, un barattolo di colla sempre appiccicoso, un righello metallico e
un album dalla spessa copertina di cartone erano i suoi ferri del mestiere e lei li
usava con scrupolosa attenzione e meticolosità. Era già quasi un anno che
aveva deciso di trascorrere in questo modo il proprio tempo libero, un tempo
sufficientemente lungo da renderla sicura che non fosse solo un’infatuazione
passeggera, come per il nuoto o le lezioni di danza.
Questa era vera passione.
Le prime pagine del suo album erano fitte e confuse, zeppe di articoli poco
interessanti, mal ritagliati ed incollati ancora peggio. Col tempo però la ragazza
aveva acquisito un pò più di esperienza e competenza, non si faceva più
incantare dai titoloni a lettere cubitali nè dai pezzi impreziositi da una foto:
badava al sodo e conservava solo ciò che davvero le interessava. Custodiva
gelosamente ogni dettaglio di cronaca nera perchè, e un pò se ne vergognava,
solleticava una parte del suo animo come mai aveva creduto possibile. Si era
persino convinta di poter, in futuro, far parte della polizia, e la cosa le aveva
creato una specie di speranza, di illusione, di ambizione, qualcosa, insomma,
per cui poter lavorare duro. Odiava invece gli articoli di politica, soprattutto
quelli che parlavano di quell’odioso Hitler e di come le cose andassero
velocemente mutando in peggio, sul continente: quelle pagine finivano sempre
appallottolate ai piedi della scrivania.
Ogni domenica mattina Natalie, prima della messa, passava un paio d’ore a
sforbiciare ed incollare; quello era il suo speciale momento di intimità.
Per questo Michael sapeva esattamente dove l’avrebbe trovata e a fare cosa
ancor prima di girare la maniglia ed aprire la porta.
Natalie stava aggiungendo un nuovo, ghiotto pezzo alla propria collezione,
quando la testa dell’amico fece capolino dentro la stanza, sbuffando qualcosa
che avrebbe dovuto sembrare spiritoso.
La ragazza sobbalzò, incollando il ritaglio storto.
Con un solo, lungo sguardo torvo si rese conto che il danno era stato fatto: se
solo avesse tentato di rimuovere il ritaglio per poi incollarlo meglio avrebbe
fatto un disastro. La carta si sarebbe staccata a pezzi, là dove la colla aveva
aderito di meno, e il suo prezioso trofeo sarebbe finito lacerato. Carta straccia.
Aveva sufficiente esperienza alle spalle per non desiderare di tentare
quell'esperimento.
Perciò rivolse la sua ira verso un altro bersaglio.
“CHE DIAVOLO CI FAI IN CAMERA MIA TU?!”
"Bè...tua madre mi ha detto che potevo entrare, che eri già vestita e che non
disturbavo....ti ho dato fastidio?
Che domanda stupida, pensò Natalie.
“E' OVVIO MALEDETTO IMBECILLE CHE MI HAI DATO FASTIDIO. GUARDA
COSA STAVO PER ROVINARE..”
L'aveva detto così tanto per dire, senza alcuna intenzione di renderlo un invito.
Michael, al contrario, afferrò l'album al volo, cominciando a leggere l'articolo
che vi era stato incollato sopra.
Raymond Parker aveva appena visto svanire in un lampo un nuovo pezzo per
la sua collezione di farfalle.
Quel dannato insetto gli era sgusciato di mano proprio all'ultimo istante,
lasciandolo col retino abbassato su un cespuglio e la bocca semiaperta dallo
stupore. Il disappunto e la rabbia erano arrivate a pungerlo solo dopo qualche
istante, soprattutto perchè lì vicino si aggirava da qualche minuto un uomo e
sicuramente doveva aver visto la figura da stupido che aveva fatto.
Serrò la destra con una certa forza sul manico di legno del retino e sentì
arrossarsi le guance, perciò rimase a fissare il prato davanti a sè per qualche
minuto, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Poi si decise a lasciare quella scomoda posizione e si accucciò come se stesse
cercando qualcosa.
Quell'uomo era fermo, seduto su una grossa roccia vicino al Salto Seamur,
quel maledetto crepaccio dove Jan Seamur era caduto qualche anno prima, e,
dannazione, sembrava guardare PROPRIO verso di lui.
La cosa, per quanto stupida, lo metteva in un tremendo stato di agitazione, lo
faceva sentire a disagio.
Perchè aveva lasciato scappare la farfalla?
Perchè era rimasto fermo come un idiota, piantato come un palo?
Non era quello, o forse sì, anche un pò per quelle cose, ma gli dava fastidio
soprattutto il fatto che quel tizio lo stesse FISSANDO.
Non c'erano dubbi a riguardo: stava guardando verso di lui ed in quella
direzione non c'erano altro che erba, vacche e le prime case del paese.
E di certo quel tizio non era di Peacetown.
Raymond aveva solo undici anni ma conosceva tutte le trecento anime di
Peacetown, non benissimo magari, ma almeno aveva una vaga idea del volto,
della fisionomia, ed era certo che quel tizio non fosse del paese.
E’ arrivata una nuova famiglia, pensò raccogliendo una manciata di terra e
fingendo di esaminarla con un certo interesse, I Rawson, Rabson, qualcosa del
genere.
Ma li aveva visti. E quello, chiunque fosse, non faceva parte del mazzo che
aveva sbirciato da dietro la casa di Lester.
Di questo era certo.
E allora chi diavolo era? Turisti non ce ne venivano a Peacetown, e poi per
vedere cosa?
Qualche merda di mucca o un bel pò di campagna tutta verde, tutta uguale,
tutta vuota?
(Lawson, ecco com'era quel nome...)
Raymond fece scorrere la terra tra le dita, formando un bel mucchietto proprio
sotto di lui, un mucchietto nel quale infilò un atterrito lombrico che stava
strisciando da quelle parti.
Il senso di disagio era quasi del tutto sparito. ormai. In fondo che gli importava
se uno straniero imbecille lo aveva visto mancare una stupidissima farfalla e,
anche fosse, fare una figuraccia. A chi poteva dirlo? Nessuno lo avrebbe
sfottuto il giorno dopo, perciò era come se quel tizio non ci fosse mai stato.
Però c'era.
E Raymond si sentì sfiorare dall'alito fetido della curiosità.
Già, c'era; e continuava a guardare verso di lui.
Ogni tanto abbassava la testa e poi la rialzava. Non riusciva a vedere cosa
facesse, aveva il grembo coperto dalle gambe accavallate, ma aveva le braccia
piegate e le mani sparivano dietro il ginocchio.
Sembrava sorridere e, comunque, appariva del tutto rilassato.
Sembrava proprio una lucertola stesa al sole, sennonché lui non aveva la coda,
e di sole, quel pomeriggio di Settembre, ce n'era davvero pochino.
A quel punto s'arrese.
La curiosità era montata su troppo forte e lui era da sempre un tipo poco
propenso a resisterle, perciò si pulì le mani sporche di terriccio sui pantaloni e
brandì il retino come una lancia, incamminandosi verso la cima del Salto
Seamur. Ad ogni metro che si avvicinava a quel tizio (ora riusciva a distinguere
meglio: non sorrideva ma appariva orgoglioso e soddisfatto), continuava a
torturarsi il cervello su come avrebbe attaccato bottone.
Non lo fissava, ovvio, ma lo inquadrava di tanto in tanto nelle lunghe
panoramiche con cui spaziava dai bordi cespugliosi del Salto all'orizzonte reso
lattiginoso da una leggera foschia.
Cercava di darsi un'aria del tutto indifferente.
Iniziò anche a fischiettare, per poi fermarsi roso dal dubbio che fosse una cosa
del tutto idiota.
Giunto a metà salita si rese conto del primo dei suoi errori: quel tipo non stava
per niente fissando lui. Guardava oltre, verso il paese, e lui era semplicemente
in traiettoria. Se ne rese conto perchè aveva dovuto deviare, seguendo il
serpeggiante sentiero, ma gli occhi di quel tipo non lo avevano per niente
seguito. Dopo pochi passi, arrivatogli a poco meno di venti metri, riuscì a
notare che lo straniero stava disegnando e che era un prete, già, proprio un
reverendo.
Il collarino bianco al collo non lo portava nessun altro, per quanto ne sapeva
lui.
La cosa, stranamente, lo rilassò del tutto; sono un vero idiota, pensò
voltandosi, ma proprio mentre stava per deviare e tornare indietro, il
reverendo staccò gli occhi dal blocco di carta e lo salutò.
Bastò quel "Ciao ragazzo" per gelare Raymond e renderlo incapace di
qualunque tipo di risposta anche un timido cenno di risposta col capo.
"Stavi cacciando farfalle?"
Raymond ciondolò la testa.
"Lo dico per il retino e perchè ti ho visto indaffarato laggiù, qualche minuto fa"
La situazione era insostenibile.
"S-sono stato...sfortunato, prima....di solito le prendo"
"Certo ragazzo. Si vede che sei in gamba" e gli occhi tornarono sul blocco.
Bastò questa tiepida fiammella per scongelare la lingua di Raymond.
"Bè, per dire la verità sto ancora imparando. Non è molto che colleziono
farfalle e davvero non è facile acchiapparle. Sono veloci e furbe come faine.
Mio cugino dice che ci sentono arrivare e aspettano l'ultimo momento per
scappare via per prenderci in giro, ma per me sono ball..bugie."
Il reverendo gli rispose con un sorriso complice che fugò via gli ultimi dubbi del
ragazzo.
"...sta disegnando? Posso vedere?" chiese d'un fiato Raymond avvicinandosi.
"Certo"
Gli occhi di Raymond si riempirono di uno stupendo paesaggio tratteggiato a
carboncino.
“E’... bellissimo” disse il ragazzo.
“Non esagerare, figliolo. Disegnare è il mio hobby, mi rilassa e mi diverte.
Cacciare farfalle, a quanto pare, è il tuo”
Raymond annuì serio.
“Ognuno ha il suo hobby” disse.
“Secondo i doni concessi da Nostro Signore, certo” aggiunse il reverendo
fissando Raymond a lungo.
Il ragazzo abbassò lo sguardo sul prato, confuso.
“Sì, è come dice il nostro pastore, secondo i doni del buon Dio” si sentì in
dovere di aggiungere.
Ci fu del silenzio, poi.
Il reverendo pareva assorto nelle sue riflessioni e Raymond temeva di averlo
offeso, in qualche modo. I preti, si sa, sono uomini strani...
“Senti” disse d’improvviso l’uomo, alzando la testa “Mi piacerebbe disegnare
qualche angolo nascosto di Peacetown. Tu ne conosci, per caso?”
Raymond s’illuminò tutto.
“Ma certo” disse “Mi segua, reverendo”
E il reverendo lo seguì.
“Cosa ha poi di così prezioso questo pezzo di giornale?” chiese Michael
ributtandole l’album tra le braccia.
“Ma come?” esplose la ragazzina “Non l’hai letto, stupido ottuso gallese? Parla
dell’ultimo omicidio del ‘collezionista’, l’assassino che ammazza la gente e si
prende un pezzo del loro corpo in ricordo”
Michael impallidì.
“E ti sembra un buon motivo per tenere roba del genere nel tuo album?”
Natalie sorrise furba.
“Mi sembra anzi un ottimo motivo”
Si chinò e raccolse l’album.
“Trovato il corpo dell’ultima vittima del maniaco che terrorizza le campagne
inglesi” lesse ad alta voce “Si tratta di un ragazzo undicenne, Raymond Parker,
di Peacetown: la polizia brancola ancora nel buio” poi chiuse la pagina ed alzò
gli occhi sull’amico.
“Un giorno, sai” disse “Io lo arresterò”
Lester Adams sigillò il barattolo di vetro dove aveva immerso nella formalina i
genitali del ragazzino di Peacetown, Raymond gli pareva si chiamasse.
Gli aveva fatto un bel ritratto prima di strangolarlo, un ritratto che ora faceva
bella mostra di sè sulla parete dei suoi trofei.
Appoggiò il barattolo sulla mensola.
Una volta conteneva marmellata, pensò arretrando di qualche passo per
ammirarlo meglio.
Si accese un sigaro, poi decise di sedersi in poltrona a leggere i quotidiani.
Il Times in particolare lo incuriosiva. C’era sempre qualche buon articolo su di
lui, e poi non poteva dimenticare che era stato proprio un giornalista del Times
a battezzarlo con quel soprannome arguto, ‘il collezionista’.
C’era del vero in quel nome.
A lui piaceva portarsi via dei ricordi delle proprie vittime e catalogarli in
qualcosa che era molto simile ad una collezione; si sarebbe detta una vera e
propria passione, in effetti, una sorta di hobby.
Sbuffò del fumo da un angolo della bocca e rimase ad osservarlo, sospeso
intorno alla sua testa.
Stava ripensando a quanto aveva detto quel ragazzo quando lo aveva
conosciuto.
Vero come la morte, ogni essere umano ha il proprio hobby, si disse, poi
chiuse gli occhi e assaporò il gusto del sigaro.
LA ZANZARA CHE NON VOLEVA MORIRE
Leandro Preziosi aveva all’incirca quarant’anni ma viveva ancora con la madre
e la sorella in un vecchio casermone grigio ed umido, alla periferia di Milano;
dormiva in una stanzetta stretta e lunga, le cui due finestre davano sulla
torbida e stagnante acqua di un canale di scolo. Nonostante la puzza, quel
canale non era affatto un problema per il Preziosi; le sere d’estate, infatti,
amava fumarsi una dopo l’altra le sue Marlboro, appoggiando i gomiti sul
davanzale ed ascoltando ad occhi chiusi il fitto gracidare delle rane, come fosse
un’armoniosa sinfonia classica. Per questo, durante la notte, lasciava spesso
una delle due finestre, oppure entrambe, aperte: per poter pregustare l’amato
concerto notturno anche in comoda posizione orizzontale, sul suo morbido
materasso. Non aveva paura delle zanzare che, grosse e feroci come tigri,
esercitavano la loro odiosa tirannia su tutto il quartiere: un enorme zampirone
sonnecchiava proprio sotto le finestre, in attesa di aggiungere altre tacche alla
sua già ampia lista di vittime. E poi, per di più, il Preziosi aveva ormai
l’abitudine di tenere due bombolette di insetticida sul comodino, accanto al
bicchiere d’acqua ed alla Bibbia. Rinchiuso dentro il suo fortino, il Preziosi
dormiva sonni tranquilli; nulla aveva mai turbato il suo riposo, nei ventitrè anni
che aveva abitato quella stanza, e così sarebbe continuato a lungo se quella
sera non avesse aperto gli occhi di colpo e non avesse scovato, alla luce della
luna che pioveva in una cascata di raggi pallidi dentro la stanza, una carnosa
zanzara che si stava ingrassando, adagiata sul suo naso.
“Gesù” disse in un soffio, sbuffando aria dalle narici.
La zanzara non si mosse e, se avesse avuto gli occhi, si sarebbe potuto giurare
che stesse fissando con ironica sufficienza quella che era la fonte del suo
ristoro.
“Gesù” ripete ancora il Preziosi, alzandosi sui gomiti e scuotendo la testa.
Questa volta la zanzara se ne volò via, ma placida e tranquilla, senza fretta
alcuna, andandosi a posare proprio sopra una delle due bombolette spray.
Il Preziosi sbattè le palpebre, incredulo. Il sonno gli intorpidiva ancora i sensi e
perciò non era ben sicuro di quello che stava accadendo. Che quella piccola
cosetta che aveva, sa Dio come, aggirato le sue poderose difese, lo stesse
sbeffeggiando o addirittura sfidando?
L’uomo accese la luce e scattò in piedi, inferocito; fosse come fosse, aveva
accettato la sfida.
Afferrò una delle sue ciabatte e la tirò con forza verso l’alato avversario. Era
stato solo lo sfogo di un poveraccio svegliato in piena notte (ma che diavolo di
ore erano? Gettò una rapida occhiata all’orologio che aveva inchiodato sopra il
letto) da un insetto molesto e provocatore; non sperava di ucciderlo con quella
velleitaria ciabattata; voleva solo dargli un ultimo avviso, l’ultima possibilità di
andarsene da lì senza ingaggiare battaglia.
La zanzara tracciò un fantasioso ghirigoro nell’aria e tornò a posarsi dov’era
prima.
“Benissimo” sibilò il Peziosi ormai ben sveglio, e marciò deciso verso lo spray.
Ancora una volta la zanzara si allontanò, ma di poco; fermò il suo volo sulle
gocce di cristallo del lampadario. Il Preziosi ghignò feroce afferrando l’arma
della propria vendetta e puntandola sul nemico. Fece fuoco senza pietà,
tenendo il pollice premuto per ben più del necessario. Una fetida nuvoletta
verdastra avvolse lampadario e zanzara e l’uomo rimase a fissare orgoglioso i
risultati della sua offensiva, come generale veterano ritto nei propri scintillanti
stivali di cuoio.
La zanzara ronzò un poco, ad intermittenza, come facesse piccoli colpi di tosse,
poi si aprì un varco fuori dalla nebbia che l’aveva inghiottita e zigzagò ubriaca
di tossine fino al televisore, muto ed immobile testimone dei fatti. E li si posò.
Il Preziosi rincarò la dose, inseguendola con i rapidi spruzzi del suo spray. Per
tre volte la intossicò mortalmente, senza rimorso alcuno; poi giudicò la cosa
sufficiente e si fermò. Anche perchè gli era venuto un certo affanno. Si sedette
sul letto, accoccolandosi lo spray in grembo, e fissò la nemica moribonda. Nei
suoi occhi brillava tutto l’orgoglio di chi l’aveva, alla fine, spuntata; nel profilo
delle labbra aveva disegnata una curva di autentica cattiveria. Si rassegnò ad
attendere che i centri nervosi della zanzara si paralizzassero e che lei cadesse
stecchita sul pavimento. Un colpo di scopa avrebbe, la mattina seguente,
messo la parola fine alla sua piccola guerra personale.
Il Preziosi sbadigliò; avvertiva in effetti un torpore strano ed improvviso lungo
tutto il corpo e, specialmente, nelle membra. Gli sembrava che gli si fosse
addormentata la gamba sinistra ed aveva una leggera nausea.
In fondo son le tre di notte e domani ho l’ufficio e tutto questo trambusto mi
ha un pò innervosito. Ora che cade per terra me ne torno a letto; ma prima
voglio vederla lì morta sul pavimento.
Ma quella non cadeva ed anzi, dopo un’iniziale stordimento, sembrava
rinvigorita e rinforzata; volava agile e provocatoria da una parete all’altra della
stanza ed il suo ronzio sembrava uno sberleffo alle orecchie intorpidite
dell’uomo. Il Preziosi la osservava con odio, ingobbito nel proprio innaturale
torpore; stiracchiò le dita delle mani, che gli formicolavano impazzite.
Ora che cade me ne vado a letto, che son stanco morto. Ora che cade.
Ma la zanzara volava fiera e selvaggia, con la protervia di un maestoso corvo,
altrettanto nera ed altrettanto irritante.
Forse il veleno che le ho messo in corpo è poco. Strano perchè qui dice che,
dice (le lettere sulla confezione gli si incrociavano davanti agli occhi, confuse in
un’unica chiazza; rinunciò infastidito a decifrarle); bè comunque dovrebbe
essere già stecchita! Domani vado a cambiare questa porcheria che non
funziona per niente... Forse però ancora un pò gliela spruzzo addosso, che
magari è poca...
Con enorme fatica il Preziosi si issò in piedi, ondeggiò un pò, e con passo
barcollante raggiunse la zanzara. Quei pochi metri gli sembrarono lo spazio più
lungo mai percorso in tutta la vita; aveva la testa immersa in una nebbiolina
soffice e candida, e tutto gli turbinava attorno.
Sarò mica malato? si chiese spruzzando con sconosciuta cattiveria lo spray
sull’inerme insetto e fissando quel puntolino nero con tanto odio da sentirsene
quasi inebriato.
La gola gli si serrò di colpo e gli mancò il fiato; annaspò con disperata follia alla
ricerca dell’aria, succhiandone quanta più possibile con naso e bocca; portò
entrambe le mani alla gola, come a scardinare l’invisibile morsa che lo stava
soffocando; la bomboletta, lasciata cadere, tintinnò per terra, rotolando poi
verso il tappeto; le ginocchia gli tremarono violentemente e l’uomo si piegò in
due; in un ultimo sforzo pestò i pugni contro il muro, poi piombò a terra.
Chiuse gli occhi ed inspirò profondamente; la crisi stava passando, anzi era già
passata, lasciandogli la gola secca e dolorante e un acuto dolore ai polmoni.
Quella porcheria! Devo essermi intossicato e, perdio se la faccio passare liscia
a quei delinquenti che la vendono!
Si sentiva molto più leggero ora, quasi incoporeo; una sensazione piacevole gli
scivolò in tutto il corpo e riaprì gli occhi.
Quello che vide fu la sua stanza, proprio quello che si aspettava di vedere, ma
ingrandita forse cento volte, ciclopica, immensa, deformata in una
sproporzione mostruosa, quasi le pareti si fossero incurvate; e poi vide sua
madre e sua sorella irrompere dalla porta, lontane, sul fondo della stanza,
forse ad un chilometro, pallide e terrorizzate, strette nelle loro vestaglie da
notte e spettinate, come non volevano mai farsi vedere da lui. Quasi si sentì in
colpa per quel baccano che le aveva svegliate, ne provò un pò di rimorso, in
fondo al cuore; perchè era stato tutto per ammazzare quella stupida zanzara
che non voleva morire e non era niente di serio nè di grave, ed era notte
fonda, per cui, alla fine, era meglio scusarsi e tornare a dormire.
Abbozzò un sorriso sulla faccia che immaginò essere ancora paonazza e provò
a parlare a quelle due donne che amava d’un affetto sincero e profondo.
Doveva scusarsi per ciò che aveva fatto quella notte e voleva farlo subito,
senza aspettare più. Andò da loro, ma quelle due donne, che già quand’erano
in fondo alla stanza erano sembrate giganteggiare su di lui, ma allora ero
ancora a terra, stordito e confuso, si moltiplicarono fulmineamente in altezza e
larghezza, raggiungendo le dimensioni di statue e poi di colonne e poi di
palazzi pallidi e minacciosi e poi di torri svettanti nella tiepida luce artificiale
che tutto invadeva, e, nel chiaroscuro degli angoli deformati che parevano
essere mille, la loro sagoma cambiò e divenne qualcosa di diverso.
Frastornato da quelli che pensava gli effetti dell’intossicazione, il Preziosi si
appoggiò alla parete nivea della sua stanzetta e si portò una mano sulla faccia.
Non vide perciò quella gigantesca ciabatta che, materializzatasi d’improvviso
nella camera, si schiantò su di lui, frantumandogli ossa e carne. Non la vide
arrivare, perciò morì sereno, con una mano sul viso ed il palmo dell’altra
sull’intonaco candido della parete.
Ciò che rimase di Leandro Preziosi, geometra del comune, non ancora
quarant’anni, celibe, non fu che una piccola, microscopica, quasi invisibile,
chiazza di sangue sul muro di quella che era stata la sua stanzetta da letto.
LA
RUOTA CHE NON DOVEVA ESISTERE
La minuscola ruota di metallo non produceva nemmeno il più piccolo rumore
mentre compiva il suo interminabile ed eterno movimento; non il più piccolo
rumore. Ma a fissarla abbastanza a lungo si cominciava a provare l’assurda
sensazione di sentirlo quel rumore inesistente; una sorta di ronzio, in effetti,
qualcosa di molto simile al debole lamentarsi di un malato terminale, appena
percettibile in un deserto corridoio d’ospedale. Si doveva trattare di una
qualche specie di suggestione sonora che i sensi, ipnotizzati dal movimento
circolare e sempre uguale a se stesso, si convincevano dovesse esistere. Era
questa, comunque, la spiegazione che si dava il professor Morgan Mayer,
docente di Fisica all’Università “J. Constantine” di Londra; con il mento
appoggiato alle mani intrecciate, ammirando pensoso quel piccolo giocattolo, il
professore non riusciva a trovarne altre.
Una illusione uditiva; una audio-falsità; un sogno, nient’altro.
Si soffiò il naso, irritato da un fastidioso raffreddore.
Ed in fondo è tutto un sogno, tutta una illusione. Tutta l’intera faccenda.
Perchè tu non puoi esistere! Come puoi muoverti? Come puoi girare e girare e
girare ancora senza fermarti?
Il professore si tolse gli occhiali e diede una veloce pulita alle lenti, come se
quel gesto, da solo, bastasse a consentirgli di bucare la nebbia della
menzogna; perchè c’era, non sapeva dove, ma doveva esserci una menzogna.
Il pensiero, però, che la menzogna si potesse trovare nella sua vita e dentro la
sua scienza, anzichè in quell’odioso gingillo, lo fece rabbrividire.
Come PUOI fare una cosa del genere?
Debolmente si terse il sudore dalla fronte. Non aveva caldo, Gesù, e come
potrei averlo?, è pieno Dicembre e l'Inghilterra non è certo famosa per la
mitezza del suo clima.
Ho paura.
Questo si disse, con un franco stupore che lo disorientò.
Ho paura di quella bastarda impossibile cosa che ho sulla mensola.
Mayer si premette la testa.
Le vene gli pulsavano dolorosamente e sentiva la gola completamente secca.
Provò a bere un pò d’acqua ma la cosa non lo aiutò granchè. Il senso di nausea
che da qualche giorno lo inchiodava a casa non pareva attenuarsi, nonostante
si fosse imbottito di medicinali.
Maledetta influenza... borbottò alzandosi a fatica. Ho bisogno di un buon
bagno... un bagno caldo...
Fuori, Mayer lo constatò sbirciando dalla portafinestra che dava sul giardino,
aveva ripreso a nevicare: l'intera campagna era diventata una specie di
paesaggio da fiaba scandinava; qualche chilometro più lontano, sullo sfondo, si
intravedevano i primi alberi della fitta foresta che separava la zona residenziale
dal paese.
Zoppicando il professore si diresse verso la cucina, con l'intenzione di
prepararsi un pò di tè caldo e solo in quel momento notò che le sue condizioni
andavano peggiorando. Non riusciva più a camminare diritto, sbandava come
fosse ubriaco e si sentiva svenire ad ogni passo.
Gettò una rapida occhiata all’enorme specchio a parete del corridoio.
Cristo, come sono ridotto...
Ciò che vedeva riflesso era un volto smagrito, occhiaie profonde e nere, labbra
ridotte ad una linea tremolante sotto il naso a becco e ciocche di capelli grigi
che gli pendevano inerti sulla fronte.
Ma sono io quello? Sono DAVVERO io?
Si sfiorò le gote con le dita adunche. La mano gli tremava e gli occhi gli
brillarono di terrore quando tornò a guardarsi in volto.
"Imago animi vultus, indices oculi"
Mayer sussultò, voltandosi di scatto ed inquadrando ad occhi socchiusi una
sagoma seminascosta nel buio della cucina.
“Chi c’è?” gracchiò a respiro corto “Chi cazzo c’è laggiù in fondo?”
La voce, però, quella voce da qualche parte l’aveva già sentita prima.
“Non mi riconosce, professore? Sono così cambiato?”
L'uomo sembrava divertito. Si accese un sigaro, illuminando con la fiamma del
fiammifero gli occhi di un azzurro glaciale.
"Le stavo dicendo, prima, quanto avesse ragione Cicerone a sostenere che il
volto è l'immagine della nostra anima. Un concetto conciso ma efficace, non
trova?"
Mayer non disse nulla.
Rimase semplicemente a fissare quell'uomo che si stava prendendo gioco di
lui.
L’intruso si fece un pò più avanti, un po’ più vicino alla luce.
Sbuffò una nuvoletta di fumo e si mise a ridere.
Solo allora Mayer lo riconobbe.
Tutto era iniziato otto mesi prima, a Boston.
Lord Bernard Baalson, l’eccentrico inventore che sosteneva di aver realizzato
una macchina a moto perpetuo, aveva finalmente accettato di sottoporre la
sua ruota al vaglio di un pool di scienziati provenienti da tutto il mondo.
Il MIT era apparso il luogo più adatto per quel tipo di esame.
Davanti ad un centinaio di occhi increduli la ruota aveva iniziato a girare e non
aveva più smesso.
Prove, controlli, misurazioni, discussioni e litigi.
La ruota aveva iniziato a girare e non aveva più smesso.
"Come ho fatto, dite? Ma io, signori” aveva iniziato a spiegare l’inventore ”Io,
in effetti, non ho fatto assolutamente niente: ho solo avuto la fortuna sfacciata
di aver ritrovato un progetto di un mio lontano parente, dimenticato in qualche
angolo delle nostre cantine. Conoscete la storia di Joahnn Ernest Bessler? Si
faceva chiamare con il curioso nomignolo di Orfyrreus, ed è a lui che va tutto il
merito. E’ stata sua la scoperta del moto perpetuo. Sfortunatamente l’idea che
avrebbe rivoluzionato il mondo venne ritenuta dai suoi compatrioti una favola
per bambini. Eppure la ruota che stasera avete visto girare e avete sezionato
con tanta cura è la dimostrazione di quanto ottusi fossero quei bifolchi."
"Quella ruota non può esistere!" aveva obiettato in un pessimo inglese il
professor Marchese dell’università di Pisa.
“Eppure esiste. Tutti l'avete vista girare e avete constatato che non c'è alcun
trucco: nessun tipo di motore, nessuna fonte di energia esterna, niente di
niente. Un certo Wagner, un matematico di corte, arrivò a pensare che nella
ruota fosse nascosto un nano...dovrebbe essere veramente piccolo per entrare
nella mia, cosa ne dite?"
Nessuno aveva replicato.
La ruota in effetti girava davvero, ed ognuno dei delegati, dentro di sè,
seppure convinto che il trucco ci fosse, non avendolo ancora scoperto,
rimuginava e masticava amaro. Meglio tacere piuttosto che passare da
oscurantisti e retrogradi.
L’evidenza non si poteva contraddire.
"Bessler, deluso dagli ignobili attacchi che gli venivano da tutte le parti, decise
di rivolgersi al conte Karl, langravo di Hassia, una specie di autorità della zona,
proponendogli un piccolo esperimento.Una copia della sua ruota venne
rinchiusa in una stanza accuratamente sigillata dai servi del conte che non
tralasciarono alcuna apertura, nemmeno il camino. Lo stesso Bessler gli
impresse la spinta iniziale e la ruota cominciò a girare. Rimase lì dentro ben
sette mesi finchè il conte, lo stesso Bessler, e un'altra dozzina di persone non
accertarono di persona che la ruota non aveva smesso di girare. I sigilli erano
intatti, nessuno avrebbe potuto entrare, ma la ruota non si era fermata. Il mio
sfortunato parente però, nonostante la convalida del langravio in persona, non
trovò nessuno disposto a dargli credito. Morì abbandonato da tutti, come
sempre accade ai geni. Morì povero perchè non riuscì mai a far brevettare la
sua invenzione. Io però non intendo imitarne la sorte, signori. Ho già pensato a
brevettare la ruota e, mentre voi perderete il vostro tempo in inutili e faticosi
studi sulla mia creatura, io brinderò alla vostra salute."
Mayer aveva stretto i pugni, furioso.
Se quella maledetta invenzione funzionava sul serio, non bisognava avere
troppa fantasia per intuirne le applicazioni pratiche: dal più stupido e inutile
soprammobile o giocattolo per bambini all'utilizzo industriale in ogni campo.
Quella ruota avrebbe invaso il mondo.
"E così è stato, professore. La mia creatura ha invaso ogni fabbrica, ogni casa,
ogni ufficio.Tutti ne hanno una copia”
L’uomo fece una pausa per gustarsi l’occhiata furibonda di Mayer.
“Anche lei, a quanto vedo” aggiunse con studiata lentezza, accennando alla
mensola con la punta del sigaro.
Mayer abbassò gli occhi, confuso, quasi vergognandosi. Non riusciva a
sopportare lo sguardo dell'uomo che lo fronteggiava: era uno sguardo troppo
acuto, lo sentiva penetrare nel cervello e rivoltargli ogni singolo pensiero. Era
una cosa che lo faceva star male; tentò di allontanarsi.
“Come è entrato qui? C-ci sono i cani eppoi... uh, la mia testa...”
"Vedo che le sue condizioni vanno peggiorando” osservò Lord Baalson.
Mayer avvertì una fitta acuta allo stomaco, prima che le gambe gli crollassero e
scivolasse a terra come un fantoccio svuotato dalla segatura.
"Bastardo.." rantolò "Checazzo...cosa mi sta facendo?"
Il sorriso di Lord Baalson si allargò, mentre socchiudeva gli occhi con voluttà.
Sembrava assaporare il dolore di Mayer come se fosse un piatto prelibato.
"Non ha ancora molto da vivere" sussurrò con voce flautata "Qualche giorno,
più probabilmente qualche ora, viste le sue condizioni. Non tanto, comunque,
da vedere sparire l'ultimo essere vivente."
Il tono pacato con cui Lord Baalson aveva pronunciato queste ultime parole
rese Mayer folle di terrore.
Artigliò affannosamente il tavolo, rovesciando il vaso dei fiori, nel vano
tentativo di rialzarsi. Si sentiva ancora più debole e ciò che aveva di fronte si
stava confondendo in una nebbiolina sottile e impalpabile.
"Chi è lei, Baalson?...” borbottò tergendosi il sudore che gli colava dalla fronte
con il dorso della mano smagrita e tremante “Chi è lei veramente? Chi diavolo
è lei?”
Lord Baalson non rispose subito. Con aria rapita aveva afferrato al volo uno dei
fiori che, volteggiando, stava cadendo a terra. Ne assaporò il profumo, poi ci
soffiò sopra e il fiore, all’istante, appassì.
Singhiozzando Mayer si accartocciò contro la parete, cercando disperatamente
un rifugio.
"E' un trucchetto che mi ha reso molto popolare in passato" disse accennando
al fiore che gli si era sbriciolato tra le mani, quasi parlando a se stesso.
Poi fissò lo sguardo sul professore.
"Chi diavolo sono, mi ha chiesto? Ma il diavolo, naturalmente. Ho molti nomi,
Mayer, e molti volti. Ognuno mi dipinge come vuole, ma in realtà non fa molta
differenza. Speravo di trovare in lei una mente aperta a cui confidare il segreto
del mio trionfo. Lei è stato il mio peggior avversario. Le sue perizie, i suoi
articoli, la sua campagna stampa mi hanno creato qualche imbarazzo tutto
sommato piuttosto divertente; ma ora" Lord Baalson scosse leggermente il
capo, deluso “ora si comporta come un qualsiasi bifolco superstizioso."
Rimase in silenzio per qualche istante, osservando corrucciato la figura
tremante ai suoi piedi.
"Non sono neanche sicuro che lei stia capendo cosa succede" riprese facendo
schioccare la lingua "Lei si è sempre chiesto come potesse funzionare la mia
ruota, vero? Non era possibile che non traesse energia da qualche fonte, e su
questo avevate perfettamente ragione. Il nodo gordiano, professore, era
semplicemente stabilire quale fosse questa fonte. E pensare che avevate la
risposta sotto ai vostri occhi, anzi proprio dentro di voi! Lei ha mai riflettuto su
cosa la faccia respirare, mangiare, camminare? Ha mai pensato a cosa sia, in
effetti, la forza vitale di ogni essere umano? Non è forse essa stessa una forma
di energia? Vedo dal suo sguardo che comincia a capire. Eravate voi a far
girare quelle ruote; nel senso più letterale del termine si può dire che eravate il
loro combustibile. E’ stato divertente ideare questo trucco e vedere come vi
mettevate il cappio al collo; divertente ma anche necessario, perchè esiste un
patto più antico di quanto la sua mente possa immaginare che mi vieta di
distruggere direttamente una forma di vita. Questo trucchetto non viola
l’accordo. A me è bastato fornirvi il fiammifero; l’incendio lo avete appiccato da
soli”
Mayer non ci vedeva quasi più, sentiva le forze scivolargli via e non fece alcun
tentativo di opporsi. Si limitò a strisciare verso la mensola, seguito dallo
sguardo di Lord Baalson. Con le ultime forze tese le dita verso la ruota; la
mano ricadde a terra come fosse di piombo; e allora il professore si limitò a
fissarla, dal basso, da terra, dal pavimento dove stava morendo; si limitò a
fissarla, quella ruota, con un odio che gli pulsava, terribile, dentro lo stomaco,
come se il suo sguardo la potesse fermare. Ma quel piccolo giocattolo non
accennava a rallentare il suo vorticoso moto; continuava a girare, a girare,
ancora a girare.
A girare sempre più velocemente.
FLUSSO DI (in)COSCIENZA #4
E’ capodanno, quattro ore e rotti prima del grande boom, quello che spazzerà
via tutte le miserie dell’anno trascorso, quello che ci promette
trecentosessantasei giorni di baldoria e scopate favolose (trecentosessantasei,
già: il 2004 è bisestile mi pare), quello che isolerà i nostri brutti pensieri in un
angolino remoto della mente e darà fuoco a quel cumulo di roba e di spari con
un lanciafiamme di cristallo, quello che donerà al mondo pace ed amore (Mister
Burns, lui, portava pace ed amore, ma solo quando era imbottito di anestetico
fino al buco del culo), quello che vedrà Saddam in prigione e Osama B. in
obitorio, quello che sarà davvero l’anno buono, mica come tutti quegli altri
spregevoli bastardi, capaci solo di illuderci con le loro scintillanti promesse mai
mantenute.
Come il 2003.
Come il 2002
Come il 2001
Come il 2000
Come
…
Guardo quella massa di idioti agitarsi alla TV con l’ottusa frenesia di chi sa che,
comunque, viene pagato bene per fare festa di fronte a chi è costretto
(dall’età, dalla malattia, dalla depressione, dalla povertà) a rimanere in casa la
notte di Capodanno, e i loro piccoli scrupoli, sempre che ne abbiano, annegano
nel mare dell’ipocrita consolazione “bè, almeno noi li facciamo divertire un po’,
per qualche ora scordano i loro dolori e credono con cieca incoscienza nell’anno
che verrà”.
E’ fare un favore questo?
Lo chiamate fare un favore, questo?
Mancano una manciata di minuti al grande boom.
Sono fuori, in strada.
Passeggio con le mani affondate nel cappotto e una musica strana fa danzare
le mie paure, abbracciate fra loro, come squallidi ballerini goffi e vanitosi.
Il valzer delle candele, credo; e cos’altro mai potrebbe essere?
Vorrei un po’ di Eminem tanto per cambiare, ma niente cambia mai davvero.
Tutto cambia perché nulla cambi.
Il crepitio feroce di una salva di petardi mi attraversa la testa, da un orecchio
all’altro, e prosegue nell’aria, diretta ad altre orecchie, ad altre teste. Arriverà
più debole, però, perché ha lasciato una parte di sé nel mio cervello, e questa
parte sta già facendo conoscenza con gli altri ospiti. E’ estroversa, loquace.
Uno scoppio di petardi (una parte dello scoppio) per nulla timido. Ne ho
conosciuti di peggiori.
Una ragazza mi aspetta da qualche parte.
Sarebbe tradizione baciarla sotto il vischio? Naaa, quella è tutt’altra roba, già
passata, già vecchia, già dimenticata.
E’ Capodanno, ora: siate allegri, il 2004 sarà il migliore anno della vostra vita,
passata, presente e futura.
Il migliore.
Il campione.
Un’altra scarica di petardi, come le esplosioni di gas intestinale di un
pachiderma: e mi ricordano, quei rumori così insolenti, altri rumori, altri spari,
altre grida.
Morire e divertirsi non sono poi cose tanto diverse, hanno molto in comune: la
colonna sonora, ad esempio.
Pochi secondi a mezzanotte: è il countdown. Meno dieci (non è stato poi tanto
male l’anno che sta finendo) meno otto (avrei potuto fare meglio, ma questo è
ciò che mi ripeto ogni anno: forse dovrei smetterla una buona volta) meno
cinque (l’estate sta finendo un anno se ne va, piuttosto appropriato no?) meno
quattro (se ne va? E per andare dove? Non hanno mai letto Eraclito? Nulla
inizia e nulla finisce, tutto si trasforma) meno tre (questo vuol dire che il 2004
non è altro che un 2003 a cui è stato appena rifatto il trucco) meno due
(questo vuol dire che non sarà affatto diverso dal precedente) meno uno
(questo vuol dire che mi alzerò domattina e nulla sarà cambiato)
E’ mezzanotte, buon 2004 a tutti!