Sugo di coniglio di Imelde Mosca
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Sugo di coniglio di Imelde Mosca
SAN ROCCO: LA BENEDIZIONE DEL SASO DEVOZIONE CHE SI RIPETE OGNI ANNO A VALLIERA Intanto c’è da sciogliere l’enigma del nome: Valiera o Valliera? Nel 1631, il nobile Valier fa erigere presso un suo casone da pesce, a beneficio dei valligiani, l’oratorio dedicato a S. Rocco e perciò vi è chi vuole Valiera da Valier. Ma in quei luoghi insistevano le valli di Adria per cui se ne ricava Valliera, la cui natura, incerta sulla terra e galleggiante sulle onde, mutevole ed oscillante, per bisogno di identità ancorata alle porte certe di Adria, si manifesta ancor oggi nel pranzo di S. Rocco che porta sulla tavola minestra di tagliolini fatti in casa 1 o gnocchi terragni di patate novelle ed anitra arrosto, volatile che più d’ogni altro contiene acqua e terra, piatto etnico di tutte le sagre estivo-autunnali polesane. Secondo un’usanza che si perde nei meandri delle valli, il 16 agosto di ogni anno, i valieranti, ma tanti e tanti dei paesi circostanti, si ritrovano a festeggiare il patrono San Rocco e alla cerimonia della benedizione del saso, una cordicella colorata che il fedele lega al polso per impetrare il favore e la grazia dal santo. Saso prende nome da “sazum”, un anello 2 in uso a pescatori e pescivendoli adriesi, gli sprochani, con il quale determinare le esatte dimensioni dei pesci che secondo gli statuti erano destinati alla salatura. Tale “sazum”, che secondo Francesco Antonio Bocchi deriva da esagio, sesta parte dell’oncia 3 , doveva essere necessariamente di misura identica a quello che stava infisso ad una delle colonne del Comune in Castello e serviva a selezionare il pesce destinato 1 Era piatto d’obbligo che tutti dovevano avere sulla tavola. E chi non poteva permetterselo? Si racconta a mo’ do scherzo che tutti gli abitanti di Valliera uscivano a passeggio ostentando stecchino fra i denti ed una tagliatella sulla punta della scarpa: “Oh che sbadato! Mi è caduta ‘na taiadèla oggi a pranzo…”. Tutto il vicinato era così informato che l’indigenza non aveva impedito il piatto della festa. Ma l’aneddoto valeva in genere per tutti i paesi. 2 Penso non dovesse essere altro che un anello di ferro o di legno, simile a quello che sino agli anni ’50 i commercianti di uova, ovaròi, usavano per misurare e determinare il prezzo delle uova stesse: quelle che “ballavano” nel passare entro l’anello venivano pagate naturalmente di meno. 3 F. A. BOCCHI, Lo Statuto di Adria nel Veneto, estr. da Archivio Veneto, 1880, p. 90. alla salatura, che non doveva essere inferiore ad un certo limite al fine di impedire la raccolta indiscriminata ed a preservare così il patrimonio ittico. Prese. E infatti, onde di evitare qualsivoglia equivoco, si prescriveva: “Li pisci vivi chavedagni 4 , li quali se dano al salame nel tempo del salame non si debano dare minore del sazo del Comun e ch’alcuno sprocano non debia tegni mazor sazo del predeto del Comun né altro sazo tuor pesse. […] Anch’ora alli Zuradi della Iusticia siano tenuti dare alli Merchatanti di Hadria quella misura a sallare li pessi quando se sallano cioè ogni tempo quello sazo e mesura la qual è posta ne le colone de la Casa del Comun del Castello et ciascuno sia tegnudo haver quella mesura così il pescadore quanto il sprochano…” 5 . Quindi la benedizione del saso coinciderebbe con un’antica festa dei pescatori durante la quale erano benedette le arti della professione, esito di scadenze precedenti come i ludi tiberini che ai primi giugno vedevano il raduno in Campo di Marte a Roma dei pescatori d’acqua dolce, coloro che, a detta del poeta Ovidio, “raccolgono le umide reti e che nascondono gli ami uncinati sotto la piccola esca”. 6 Su questa festa potrebbe essersi innestato il culto di S. Rocco, ovunque venerato come protettore della peste cui i pescatori erano preferenzialmente esposti, sia per l’ambiente acquatico in cui si muovevano sia perché l’attività della pesca era professione marginale, lavoro da “poveri”, i sottoalimentati che il contagio più facilmente insidiava. “Homo sine pecunia imago mortis”; il detto latino, se valeva per tutti, si confaceva ancor di più ai pescatori che non avevano greggi ed armenti [pecus], dalla rendita certa, esposti com’erano al caso, agli accidenti del tempo e della fortuna, alla possibilità aleatoria di riempire le reti nelle acque perigliose, sempre paurose. S.Rocco, bastone e mantello da pellegrino, zucca per l’acqua e conchiglia per attingerla alle fonti 4 Secondo Francesco Antonio, “Pisces vivi chavedagni” non sono certamente, o non soltanto, i cavèdani, “il moderno, fetido cavedàn”, IVI, p.89, quanto qualsiasi pesce di fosso. Circa l’importanza del pesce salato, si veda ad esempio Catone il quale dà precise disposizioni al fattore della villa perché provveda entro settembre, (Ne la luna setembrina la sardèla la se rafina, dice un proverbio veneto), a far salare le sarde che i romani, proprio come i nostri nonni, mangiavano di primo mattino per colazione perché nettavano l’organismo dagli umori accumulatisi durante la notte, CATONE, De agri cultura, XXIII. E i “clientes” si presentavano alla casa del proprio protettore con l’augurio di un vasetto di sarde salate in omaggio. Da noi, “quando si mettono via”, chi non ne ha mai ricevuto in regalo da un parente o da un vicino? 5 Accademia dei Concordi di Rovigo, Ms. 199 in Concordiana. Si tratta della riduzione in volgare di due rubriche degli statuti adriesi (Cfr. IUS MUNICIPALE ADRIAE, Apud Jacobum Valvasensem, In Venetiis, 1707, p. 62) che nel 1516 vennero estesi a Corbola e, per questo motivo, tradotti dal latino. 6 “Festa dies illis, qui lina madentia ducunt / quique tegunt parvis aera recurva cibis”, OVIDIO, Fastorum Dies, VI, vv. 239-240. Vi erano poi le cerimonie per il dio Neptunus (23 luglio), divinità fluviale tirrenica prima di diventare marina per influenza greca, per Portunus (17 agosto) protettore dei porti, per Volturnus (27 agosto) cui era sacro il corso del Tevere, cfr. J. Bayet, La religione romana, trad. it. G. Pasquinelli, Einaudi, Torino, 1955, pp. 101-102. Ma saso può esser passato a comprendere per somiglianza quel laccio che si annodava al polso al fine di prevenire la cosiddetta vèrta: “Quando vi erano lavori particolarmente pesanti come lo sfalcio del fieno, la mietitura, il far zocca, andavo dalla Vècia Tòpa, che mi legava un sulo rosso attorno al polso, perché io non ero tanto robusto e avevo paura che mi venisse la vèrta. Prendeva uno spago fra altri che aveva lei, diceva le sue preghiere e poi me lo stringeva. Così ero salvo e potevo finire la mia medanda altrimenti mi lasciavano a casa. E non voleva mai niente. Mi diceva: Va là, va pure che sei solo tu che lavori e devi mantenere la tua famiglia…” 7 . La vèrta, sorta di rigonfiamento provocato da un sovraccarico di lavoro, è documentata pure da Pio Mazzucchi nel secolo scorso: “Per guarire occorre farsi cingere il polso stesso da una cordicella di color rosso: ma questa semplice operazione vuole esser fatta da persona che eserciti l’ufficio di capoboaro, altrimenti non avrà buon effetto” 8 . Anche in questo caso si tratterebbe della cristianizzazione di una serie di atti simpatetici su cui si fondavano tanti rimedi, non solo popolari. Se il polso gonfiandosi dà l’impressione di aprirsi, tale credo il significato di vèrta, allora si ricorre al laccio che con il proprio nodo chiude gli orifizi, impedisce al male di entrare o al contrario ne scioglie i nodi e ne favorisce l’uscita, secondo simbologie archetipiche presenti in tutte le culture. L’uso di fili colorati per affatturare e legare persone e cose è variamente presente anche in autori classici. Apuleio, nella sua opera “Apologia” con la quale deve difendersi dall’accusa di aver plagiato una ricca vedova, si giustifica dicendo di non aver mai usato “licia discolora”, fili di vario colore 9 . Ancor più esplicito Ovidio quando nelle “Metamorfosi” narra della nascita di Eracle. Alcmena, la madre, è presa dalle doglie, ma la gelosa Era invia Ilizia, dea del parto, perché impedisca la venuta alla luce del semidio. Ilizia si pone davanti alla casa della partoriente, sedendo con le ginocchia accavallate e le dita delle mani intrecciate a pettine. 10 L’ancella Galantide, che per questo sarà trasformata in donnola, [piccola donna], accortasi del maleficio, esce ed inganna la dea annunciandole che il bambino è nato. Ilizia scioglie mani e ginocchia e solo così Alcmena può sgravarsi. Si pensi ad analoghe credenze della tradizione polesana sulla gravidanza: la donna incinta doveva evitare di accavallare le gambe, di indossare sciarpe, di portare collane, altrimenti il cordone ombelicale si sarebbe attorcigliato al collo del nascituro strozzandolo. Oppure ai gròpi, grumi di piume, di cartocci di granturco a forma di ghirlanda o di croce, che si credeva di rinvenire nei cavessai e nei paiùn di chi era stato mortalmente stregato. E ancora alle varie modalità per segnare i vermi, riconoscerli ed identificarli, quindi esorcizzarli, per mezzo di pezzi di spago annodato e di groppi degli steli di frumento. Resta, comunque, la devozione a S Rocco di Montpellier, ovunque diffusa per l’insistenza di epidemie colerose che ciclicamente manifestavano la loro virulenza; per questo la sua festa, il 16 agosto del 1831, viene solennemente celebrata anche in Cattedrale ad Adria per uno dei tanti scampati pericoli. Scrive Benevenuto Bocchi: “In 7 Fonte: Frezzati Remigio – Bellombra P. MAZZUCCHI, Tradizione dell’Altopolesine, rist. anast. dell’ediz. di Badia P. del 1912, Forni, Bologna, 1968, p. 66. Nel dialetto veneziano, la vèrta chiamasi vacheta, come documenta il Bernoni: “La vacheta xe quando se sgionfa i polsi de le man, e dipende da gran fadighe e da una gran stanchezza”, D. G. BERNONI, Tradizioni popolari veneziane di medicina, rist. dell’edizione veneziana del 1878, Filippi, Venezia, 1968, p. 60 9 APULEIO, Apologia, XXX. 10 “… subsedit in illa / ante fores ara, dextroque a poplite laevum / pressa genu, digitis inter se pectine iunctis”, OVIDIO, Metamorfosi, IX, v. 297 – 300 8 quest’anno la città tutta fece festa, sebben non lo fosse, molto concorso alla Chiesa e moltissimo nella Villa di Valiera, dove ogn’ano si fa la consueta sagra”. 11 San Rocco comunemente detto San Rochìn perché alquanto piccolo Paolo Rigoni (Grafica: Giorgia Stocco) 11 Archivio Antico del Comune di Adria, Annali di Adria di Giuseppe Lorenzo Guarnirei Nobile Adriese proseguiti da Fran.co Gerol.o Bocchi quindi da D. Stefano Can.co Bocchi e per ultimo da ma Benvenuto Bocchi Adriese, Busta 628.