la storia di Marieta - Comune di Carmagnola
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la storia di Marieta - Comune di Carmagnola
LA STORIA DI MARIETA Marieta aveva conosciuto Mentin a una festa di paese, si erano piaciuti e sposati. Non proprio piaciuti, ma poteva andar bene così. Lui l’aveva notata, anche se così discreta che quando le aveva rivolto il saluto lei era avvampata di timidezza, e forse proprio per questo ci aveva fatto un pensierino. Entrambi di origini contadine, in una terra, al confine tra langhe e roeri, bella e selvaggia che produce solo se lavori sodo e non hai grilli per la testa. Lui ottavo in una famiglia numerosa e patriarcale, lei con un fratello, entrambi orfani troppo presto di madre, cresciuti presso degli zii che avevano fretta di sistemarli. Così quando Mentin s’era fatto avanti Marieta aveva acconsentito di cambiare casa e andare a servizio presso un’altra famiglia anche se questo significava sposarsi a 18 anni. Nella sua giovane vita aveva imparato solo questo: a obbedire, servire e accontentarsi. La casa era piena di cognati e cognate, la suocera organizzava le incombenze delle donne mentre gli uomini lavoravano fuori: chi la terra, chi come falegname, che a garzone presso terzi. C’era sempre da lavare, pulire, cucinare, accudire al pollaio, solo la padrona andava al mercato a procurare il necessario per tutti. Così doveva essere. La sera tutti nella stalla, gli uomini a giocare a carte, intrecciare ceste, raccontare storie, le donne a sferruzzare, rammendare e ricamare corredi. Le veglie erano lunghe non solo d’inverno, ma anche d’estate quando le giornate non finivano mai e i prodotti dell’orto raccolti al tramonto erano destinati ai pasti del giorno dopo o a essere trasformati in conserve per i mesi più scarsi. Marieta si faceva andar bene tutto, mite, buona e remissiva. Non avere desideri le lasciava l’animo in pace, compiere il suo dovere la rendeva tranquilla, servire quella grande famiglia non le pesava, intanto imparava il mestiere di madre crescendo i figli delle cognate. Poi arrivarono quattro figli suoi e la casa divenne un po’ piccola per tutta quella tribù. Quando Mentin decise di cambiare paese perché con la buonuscita da casa poteva comprare una piccola cascina con qualche appezzamento di terra e due mucche, lei lo seguì, contenta di avere una casa tutta loro. I debiti, che anche i figli avrebbero contribuito a sanare non la preoccuparono. Non si sentì mai padrona, sempre a servizio; l’uomo che aveva sposato, un po’ burbero ma in fondo buono, la rispettava e non faceva mancare il necessario, e questo bastava. I figli crebbero, le figlie si sposarono, il maschio, il prediletto perché portava il nome della famiglia, un po’ scavezzacollo, un po’ scansafatiche, era un burlone simpatico, a lui non negarono divertimenti alle feste e quando fu grande il capriccio della moto, la “iso”. Prese a corteggiare la figlia dell’oste e presto la sposò e la portò in casa. Ma la nuora non era una figlia, faceva un po’ la signora e Marieta ne era un po’ intimorita. Il suo rifugio era sempre stato la preghiera, in ogni difficoltà il rosario era la sua ancora, adesso ancor di più, perché doveva digerire cose e parole che non le piacevano tanto. Per il bene della famiglia e per l’onore della casa, lavorava e pregava di più. Le figlie andavano a trovarla, ma non ad alleggerirla perché anche loro avevano famiglia e figli e preoccupazioni. Marieta aveva una parola buona per tutti, sempre, regalava una dozzina d’uova, un barattolo di marmellata e raccomandava di portare pazienza che tutto s’aggiusta. Confidare nell’aiuto della Provvidenza era la sua forza, mai un lamento, mai uno sfogo, mai parole dure. A modo suo era serena, e s’illuminava quando i nipoti passavano a farle visita, per loro c’erano sempre le pastiglie di zucchero colorato nel barattolo sopra il camino e quando se ne andavano riempiva loro le tasche. Quando Mentin rimase solo a lavorare i campi perché il figlio e soprattutto la nuora avevano scelto un’altra vita in città, lei gli fu accanto ancora di più: a fare il fieno, a portare gli animali al pascolo, a coltivare l’orto, e tra carote, zucchine e insalata piantava anche zinnie e lillà che rallegravano il suo animo e quel fazzoletto di terra. Così la domenica quando faceva la visita al cimitero aveva anche i fiori da portare ai suoi morti. La sera c’era la radio a tenerle compagnia mentre rammendava le calze che tutti le affidavano, mentre Mentin dormiva, perché lui era stanco. Poi la lasciò sola dopo un ictus, pochi giorni nel letto di casa, accudito e riverito come sempre, ma non si riprese più. Sola così non era mai stata. La casa grande e silenziosa, i lavori che non finivano mai, ma anche per lei gli anni erano passati, la schiena curva per le tante fatiche, i dolori alle mani che avevano lavato tutta la vita allo stagno o al canale quando era colmo d’acqua: doveva rallentare. Con un po’ di pena e un po’ di magone accettò di vendere le mucche, solo più l’orto e quattro galline, ma rimase operosa: composte e conserve, pizzi e ricami e preghiere per tutti coloro che le facevano visita. Solo non le piaceva dormire da sola, aveva una sorta di timore che la induceva a ritirarsi presto la sera, chiudere bene tutte le imposte non prima di aver salutato il fido cane, ultimo rimasto a farle la guardia. Lasciava sempre una lucina accesa vicino alla statuina della madonna sul comodino, si scherniva dicendo che le serviva per andare al bagno di notte, ma sicuro le faceva una gran compagnia. Invecchiò serena anche quando la poca salute non le consentì più di stare da sola e allora cominciò la “via crucis” a casa di una figlia e poi dell’altra e poi dell’altra, ancora adattandosi a nuove abitudini e orari, senza mai lamentarsi. Marieta era mia nonna. Conservo gratitudine per la saggezza e la trasparenza della sua vita semplice. Ricordo ancora lo sguardo dolce di quegli occhi azzurro cielo contornati da miriadi di rughine su una pelle che non aveva mai conosciuto una crema, uno sguardo sempre accogliente. Ero la sua nipote prediletta e andavo a trovarla spesso, anche solo per fare due passi e distrarmi quando ero studente, una visita veloce ma sempre gradita. Non mancava mai di offrire qualcosa, anche solo uno spicchio di frutta fatta seccare su quel balcone che era diventato il suo respiro. Le fettine di mele essiccate al sole e al vento, infilate su uno spago a fare collane appese a una canna erano la mia passione e spesso tornavo a casa con un sacchetto di tela e una nuova provvista. Quando mi sono sposata non ha voluto partecipare alla cerimonia perché i vecchi non sono belli e non sanno più festeggiare, ma non voleva offendermi, voleva che comprendessi il suo desiderio di riservatezza; e io la capivo: c’era gente lontana dal suo stile e dal suo mondo e non potevo farla stare sulle spine. Il giorno che è tornata a casa, sì perché ce l’ha mandata Dio, era ospite di zia da qualche giorno, non si alzava da mesi, forse soffriva ma non lo dava a vedere, aveva il respiro difficile e affaticato, sbirciava chi le stava intorno ma non comunicava più. Mi ha fatto un cenno di sorriso quando mi ha riconosciuta e ha capito che ero passata per salutarla tornando dal lavoro. In cucina piangevano perché il medico aveva annunciato che non sarebbe arrivata a sera. Le ho preso la mano e ho recitato per lei la “salve regina” che tanto le piaceva, ha chiuso gli occhi in pace. Grande donna mia nonna. Clementina