progettazione regata

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Articolo pubblicato sulla rivista SoloVela
Forme
nel tempo
di Pietro Fiammenghi
e voluminose forme degli yacht esaltano, meglio di qualunque altro oggetto al mondo, il pensiero che le hanno
ispirate. Spinti dalla ricerca della prestazione assoluta i
veloci Racer - le barche a vela espressamente concepite per primeggiare nelle competizioni veliche - hanno da sempre, con le
loro forme estreme ed essenziali, anticipato le tendenze e influenzato le mode dell’intero mercato nautico, scandendo inequivocabilmente non solo lo scorrere del tempo, ma anche l’evoluzione dello stesso gusto estetico strettamente correlato al
design nautico. Vediamo come.
L
Le forme delle
barche da regata
sono figlie dei
regolamenti che le
hanno concepite e rappresentano meglio
di qualunque altro oggetto l’epoca in cui
sono nate. Impariamo ad apprezzale
come tali individuando l’esatto periodo
storico che rappresentano
DUE PASSI NEL PASSATO
Foto G. Mancini
46 Luglio 2004
Immaginiamo, per un momento, di passeggiare lungo una tranquilla banchina di un porto. La nostra però, non è una passeggiata qualunque. Infatti, ci troviamo a camminare dentro il
tempo, in una banchina particolare, unica nel suo genere. Al
nostro molo immaginario sono ormeggiati, in ordine cronologico uno accanto all’altro, le decine di splendidi yacht che hanno caratterizzato la storia della vela mondiale. Tutti gli yacht
che, nel momento in cui sono stati concepiti nelle menti dei
progettisti, hanno racchiuso nelle loro sezioni un pensiero di
rottura col passato. Le barche, insomma, che hanno lasciato un
segno.
I primi scafi della lunga sequenza, quelli ormeggiati alla radice della banchina, sono splendidi velieri realizzati interamente
in legno. Cutter e Schooner di quasi due secoli fa, caratterizzati da vistosi slanci e ingombranti bompressi. Poi, scorrendo
la banchina e con essa gli anni, le loro forme e i loro piani velici, perdono progressivamente sia quelle buffe antenne sia le
grandi rande auriche che tanto li hanno caratterizzati, per lasciare posto lentamente a scafi che assumono dimensioni e fattezze se vogliamo più banali, ma decisamente più vicine all’attuale pragmatica concezione di barca a vela. Stiamo ora passeggiando quasi alla fine della nostra lunga banchina e le barche ormeggiate davanti a noi, sono dotate di forme dolci, morbide e sfinate. I progettisti che le hanno ideate, hanno tracciato delle linee assolute e molto marine, senza curarsi minimamente nè dei volumi interni nè dei vincoli di stazza. Scafi
classici ed eleganti, svincolati dalle rigide misure regolamentari e per questo estremamente proporzionati e puri. Yacht splendidi, ideati fuori dal tempo, fuori dai regolamenti, incuranti dei
problemi di abitabilità interna. Linee d’acqua senza compromessi, figli di una visione ancestrale dello yachting, per questo
dotati di bellezza e proporzioni eterne. Sul molo, mentre osserviamo gli ultimi esempi di questa stirpe, è inciso un Luglio 2004
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Nella foto si notano i grandi
genova ed i piccoli timoni tipici
degli IOR di fine anni settanta.
Le vele in dacron unitamente
all’abbigliamento
scompagnato degli
equipaggi identificano
chiaramente quell’epoca
pionieristica
dell’altura
internazionale
Sopra, Yeoman poppa stretta, prua profonda e baglio
massimo pronunciato. Questo Two-Tonner proggettato dal
californiano Doug Peterson nel 1974, rappresenta molto
chiaramente l’essenza delle linee caratteristiche della stazza
IOR. A sinistra, “Diva” un progetto Joubert-Nivett il One
Tonner vincitore dell’Admiral’s Cup dell’83
L’ERA MODERNA
anno, è il 1969. Da quell’anno in poi, le barche da regata, pur
non essendo di forma poi molto diversa da quelle che tanto ci
hanno colpito, sono concettualmente rivoluzionarie. Da loro ha
inizio l’era moderna dello yachting. L’era, di cui noi volenti o
nolenti, siamo i figli.
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Dai primissimi anni settanta, un nuovo materiale ha infatti fatto la sua comparsa sulle barche da regata. Un materiale povero, freddo ed economico. Un materiale non profumato come il
legno e neppure luccicante come l’alluminio, un ibrido metà lana di vetro e metà resina. Il suo poco fantasioso nome - vetroresina - stravolgerà però profondamente la storia dello yachting
moderno.
Questo polimero amorfo, anche se inizialmente ha fatto gridare
allo scandalo i cultori delle classiche barche in legno, ben presto ha dimostrato di possedere le caratteristiche ideali per un
suo diffuso uso nella nautica, tanto che le barche da regata più
significative, da qui in avanti, avranno tutte una caratteristica
comune: non verranno quasi mai più costruite in legno.
LA FORMULA IOR
Nei primi anni Settanta, quasi contemporaneamente alla vetroresina, compare nel mondo dell’altura una nuova formula di
stazza. Si chiama IOR (Intermational Offshore Rule) e vuole finalmente armonizzare i regolamenti statunitensi con quelli europei. La neonata formula si basa sul corretto
principio che più una barca è immersa, più
deve essere necessariamente pesante e quindi lenta. Per “leggere” questo parametro essenziale, venivano effettuate due misurazioni
salienti sull’opera viva dello yacht da stazzare. Una a circa un metro dalla prua e l’altra a
un metro dalla poppa. Le forme e i volumi
esterni a queste due “catene” di stazza, incidevano solo marginalmente nel computo del
rating. Facendo ancora qualche passo in avanti sulla nostra lunga banchina e, innanzi al posto barca contraddistinto dall’anno
1973, troviamo lo scafo che per primo ha saputo interpretare,
o forse sarebbe più esatto dire “approfittare”, i buchi del nuovo regolamento. E’ un “One Tonner” di 27,5 piedi di stazza IOR.
Uno yacht di undici metri, piuttosto largo, dalla coperta pulita
e dal pozzetto ampio. E’ uno scafo rivoluzionario. Lo ha disegnato un giovane scanzonato californiano dai capelli rossastri,
Doug Peterson.
Studiando attentamente il regolamento, questo ragazzo aveva
scoperto che se avesse asportato tutto il volume della carena racchiuso tra le due misurazioni, la stazza non se ne sarebbe praticamente accorta. Lasciando voluminosi solo i
due punti di misurazione, avrebbe creato
una carena apparentemente immersa e pesante, ma realmente molto piatta e veloce.
Era nato il “Ganbare”, il primo racer dell’era
moderna, costruito esplicitamente per aggirare la formula di stazza IOR, poi prodotto in
serie con il nome Impala 36. Per un ventennio, le barche da
regata non hanno fatto altro che esasperare l’intuizione materializzata dal “Ganbare”, dando vita a una nuova generazione di scafi dalla forma assai particolare, somigliante a quella
di un limone.
“”
Lo IOR fu la
prima formula
di stazza
internazionale
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L’EVOLUZIONE DEL PIANO VELICO
Sopra, equipaggio tutto a poppa per tenere le barche in
assetto. Le linee d’acqua sempre più tese dei primi anni
‘80 pretendevano assetti sempre più estremi. Se uscivano
dalle linee d’acqua studiate, i racer dell’epoca
diventavano rapidamente ingestibili
L’EPOPEA DEL LIMONE
Poppe scavate, strette e profonde. La stazza così le voleva e così gli yacht designer degli anni settanta avevano imparato a disegnarle. La prua, segnatamente dove avveniva la misurazione
prodiera, era naturalmente anch’essa fine e ben immersa per far
apparire lo yacht decisamente più dislocante di quanto lo fosse realmente. Un’autentica finzione regolamentare che, unita
all’incremento costante del baglio massimo, ha originato delle
barche che, soprattutto se raffrontate alle equilibrate forme del
decennio precedente, i puristi non esitano a definire orrende.
Eppure, quelle linee forzate, poppe rastremate e profonde, timoni appesi il più a poppavia possibile nel vano tentativo di
dare direzionalità a una carena che concettualmente non ne poteva avere, hanno ancor oggi un loro fascino. Le sezioni a “limone” stanno all’epopea dello yachting, esattamente come i
Ray Ban, le minigonne e i pantaloni a zampa d’elefante stanno
alla storia della moda. Sono figlie di un’epoca e vanno apprezzate come tali. Valutarle astrattamente, senza calarle nel loro
preciso contesto, non ha effettivamente alcun senso.
Ma lasciamo i primi prototipi dello IOR e facciamo ancora qualche passo lungo la nostra banchina. Le barche, pur mantenendo sezioni poppiere estremamente fini, con lo scorrere degli
anni, divennero sempre più larghe. Sembrano quasi gonfiarsi
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Dai primi anni sessanta a oggi, parallelamente all’evoluzione delle carene, si è assistito a un altrettanto interessante sviluppo degli armamenti delle barche e
segnatamente del loro albero.
Nei primissimi anni ‘60, l’alluminio iniziò a farsi largo
nella selva di alberi in legno che sino ad allora avevano dominato lo yachting mondiale. I primi alberi realizzati in questo nuovo materiale, avevano però le
stesse larghe sezioni degli alberi in legno e talvolta
peso anche maggiore. Col passare del tempo, gli estrusi divennero sufficientemente lunghi da non necessitare più di pesanti giunzioni, mentre anche il numero
delle crocette crebbe sino a triplicare nei primi anni
settanta. Nello stesso periodo, l’avvento della vetroresina permise di ridurre il dislocamento delle barche e
conseguentemente, il carico sul piano velico. Fu quindi possibile realizzare estrusi più aerodinamici, profilati di forma ellittica, capaci di aumentare la resistenza longitudinale senza aggravio di peso. Sino agli ultimi anni ‘70 la superficie velica prevedeva una netta
supremazia della vela di prua rispetto alla randa.
Questa distribuzione del piano velico era dovuta essenzialmente all’estrema rigidità degli alberi. La randa,
inferita su profili tanto rigidi, era difficilmente modificabile mentre le vele di prua, all’aumentare del
vento, si potevano sostituire velocemente. Finalmente,
nei primi anni ‘80 iniziarono a diffondersi i nuovi
armamenti frazionati e gli alberi impararono a curvarsi cazzando semplicemente le sartie volanti, ma
soprattutto il paterazzo, che passava da una funzione
strutturale a una prettamente di regolazione. Di fatto
i nuovi profili consentivano di “smagrire” o “ingrassare” la forma della randa, al minimo variare delle condizioni meteo. Era fatta. Divenuta finalmente duttile,
la randa iniziò a prendere il sopravvento arrivando, sui
racer di metà anni ‘80, ad avere una netta prevalenza
sulla superficie delle vele di prua.
Gli anni ‘90 videro la timida comparsa degli armamenti
in carbonio e il loro successivo consolidamento,
lasciando tuttavia inalterata la supremazia della vela
maestra. Una supremazia che dal 2002 iniziò persino ad
accentuarsi - soprattutto nei recenti progetti di Botin
e Vrolijk - fino a ridurre le vele di prua a “miseri” fiocchetti. Randa padrona. Anche la tendenza delle ultimissime realizzazioni segue fedelmente questo postulato. D’altronde, perché non privilegiare l’unica vela che
durante le regate non viene mai ammainata?
La straorza era sempre in agguato con le sezioni
poppiere “fini”tipiche dello IOR. L’instabilità era
data dall’impossibilità della poppa di potersi
appoggiare su volumi consistenti rollando
costantemente da un lato e dall’altro
con vento teso
progressivamente. Nei primi anni ottanta, l’ottimizzazione delle forme in funzione della stazza ha creato linee di carena talmente tese che il fondo stesso degli yacht è diventato piatto.
La sentina, ridottasi progressivamente col trascorrere degli anni, praticamente scompare. Sotto i paglioli si fa fatica a trovare il posto dove porre persino i pani di piombo, tanto lo scafo
è piatto. A prua e a poppa, sotto la linea di galleggiamento,
Sopra, la poppa stretta di “Matador”
il mini maxi su cui Bill Koch sviluppò
la banca dati che tre anni dopo gli
permise di vincere la Coppa America.
sono intanto sorti degli strani rigonfiamenti. Sono i “bumps”, dei riporti di
stucco per far apparire ancora più immerse le carene nei fatidici punti di misurazione.
A metà degli anni ottanta, condizionati
da un regolamento ormai esausto, Vrolijk, Farr, Frers, Jeppesen e gli italiani
Fontana, Maletto e Navone, elaborano
equilibri dinamici atti a rendere efficienti linee d’acqua molto tese ed esasperate. Sezioni tanto estreme, facevano si che i racer fossero gestibili solo a ridottissimi angoli di sbandamento. Per mantenere
questo assetto piatto, l’equipaggio doveva stare costantemente sporto sopravvento; peso fondamentale, che, da quel momento, entra a far parte del computo del rating. Piatto, largo e
dotato di estremità rastremate. L’identikit del racer degli anni
ottanta è presto fatto. Anche la coperta, nel corso degli Luglio 2004
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ra è una nuova rivoluzione. In un solo istante, un’intera generazione di costosi e sofisticati racer diviene inutilizzabile. La
nuova tecnologica regola, bandisce le vecchie misurazioni prevedendo la scansione dell’intero scafo. L’idea prima, l’utopia,
alla base del machiavellico sistema, è quella di non lasciare
spazi ai buchi regolamentari. Proprio in quegli anni, però, gli
approfonditi studi d’idrodinamica elaborati per l’America’s Cup
del ‘92, stavano fornendo nuovi parametri inerenti alla resiLA FINE DI UN’ERA
stenza all’avanzamento della carena, parametri decisamente
Compiamo ancora qualche passo lungo il nostro molo e arri- sorprendenti e se vogliamo rivoluzionari. Da tali studi emerse
viamo al 1992. La vecchia formula di stazza IOR, proprio in con chiarezza, infatti, che troppa importanza era stata data in
quell’anno, viene archiviata. Al suo posto, dall’America, arriva passato alla larghezza delle barche e che sarebbe stato possil’innovativo e sofisticato regolamento di stazza IMS (Interna- bile disegnare una nuova generazione di scafi decisamente più
tional Measurement System). Per il mondo delle regate d’altu- squadrati e stretti. Interpreti eccellenti di questa scuola di
pensiero sono stati il “solito” Bruce
Farr, il duo Botin e Carkeek e il tedesco
In primo piano la larga e bassa
Rolf Vrolijk.
poppa del Grand Soleil 40 “Naos”.
L’evoluzione degli scafi tra i
Sin dalla metà degli anni novanta, le caprogetti dei primi anni duemila e
rene hanno quindi intrapreso una nuova
quelli del 2003, salta agl’occhi
evoluzione. Questa ha immediatamente
raffrontando il baglio massimo di
preteso una significativa cura dimagran“Naos” con quello di
te, cura che tutt’oggi, malgrado si sia
“Ideal Standard” che naviga
proprio sulla sua prua
oltrepassata la soglia dell’anoressia, non
appare ancora finita. Poi, dopo qualche
anno d’incertezza dovuto essenzialmente agli assestamenti regolamentari apportati alla neonata formula di stazza,
le carene hanno nuovamente intrapreso
la via evolutiva tracciata dall’interpretazione più redditizia della formula di
stazza.
Foto C. Borlenghi/Rolex
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anni, si è razionalizzata. Ora ha perso buona parte dei verricelli diventando spartana ed essenziale quasi come le linee di carena. Centralmente, è dotata di una tuga bassa e stretta, esattamente come imposto dal limite di regolamento. Sono, complessivamente, barche piuttosto belle anche se troppo svasate
e larghe. Riguadagnando, almeno in parte, la proporzione che
le realizzazioni dei primi anni ottanta avevano smarrito.
Foto C. Borlenghi/Rolex
Sopra, un esempio di racer IMS dei primi anni 2000,
“Fram XV”, si notano ancora le sartie volanti e gli slanci
ridotti. Sotto, le poppe dei due ultimi grandi progetti di
Botin. Il rosso “Prozac”, progetto 2003, con la poppa
ancora bassa sull’acqua rispetto al nuovissimo
“Talisman” con le estremità tirate all’insù secondo
l’ultima evoluzione dell’IMS
Due racer dell’utima generazione a confronto.
Il Grand Soleil 42 “Italtel” di Vascotto all’inseguimento del 46 piedi
“World Cargo” di Maffini. Ovvero, Botin all’inseguimento di Vrolijk.
Un binomio tra cui al solo Bruce Farr riesce ancora di inserirsi. Gli
ultimi progetti IMS targati 2004, hanno linee d’acqua
assolutamente estreme con rapporti lunghezza/larghezza di 3 a 1.
Eppure, la stabilità di forma non è poi così scarsa. Le vele di prua
sono piccoli fiocchi frazionati
Foto G. Mancini
ULTIMA EVOLUZIONE
Ancora qualche passo lungo la banchina,
e siamo giunti al XXI secolo. Alla fine del
molo. Ora le carene sono diventate nuovamente strettissime, caratterizzate da
un baglio massimo ridottissimo e da murate dritte a piombo sull’acqua, ricalcando paradossalmente i rapporti di lunghezza/larghezza propri del 1960. Corsi
e ricorsi storici.
Il tutto però non deve ingannare, la differenza c’è ed è sostanziale. L’opera viva
dei moderni strettissimi racer è ridotta all’osso, quasi inesistente. La loro superficie bagnata è essenzialmente piatta e
raccordata alle murate con angoli di 90°
appena stondati. Una soluzione geniale,
Foto G. Mancini
ideata dallo spagnolo Marcelino Botin, che origina uno “spigolo”
simmetrico posto sul fondo di ogni singola murata. L’astuzia attuale, il raggiro regolamentare, risiede nel ridurre drasticamente
la superficie bagnata dello yacht non appena questo naviga
sbandato, facendolo galleggiare sul solo spigolo immerso. La
prua a ginocchio, tipo Coppa America, e la poppa sfuggente,
hanno regalato a quest’ultima generazione di stretti racer l’appellativo di “canoe a vela”. I rigidi alberi in carbonio, hanno ormai fatto entrare nel mondo dei reperti storici le sartie volanti e
i genoa hanno lasciato posto ai fiocchi. Ultime volontà di una
stazza bizzarra, nata per permettere ai cruiser di competere con
i racer ma che di fatto sta lentamente creando una flotta di piccoli America’s cupper.
ESSERE E NON ESSERE
Apparire è una cosa, essere un’altra. Cambiano i regolamenti, si
trasformano le barche, ma comunque la storia è la medesima: il
racer puro, il “One Off”, ha da sempre gelosamente racchiuso
nelle sue linee d’acqua questo sottile dualismo. Una dicotomia
intrigante che ha stregato i regatanti, ma che ha altresì ancorato ogni progetto a un identificato momento della storia dello yachting. Le barche sbagliate, i numerosi flop che popolano
il mondo della progettazione agonistica, altro non sono che carene cronologicamente sfasate. Barche nate vecchie, figlie di
idee già sorpassate nel momento stesso in cui sono state concepite. Perché, nel suggestivo mondo dei racer, conta solo una
cosa: cogliere l’attimo.
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