La manipolazione degli embrioni, a Londra, è un
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La manipolazione degli embrioni, a Londra, è un
ANNO XXI NUMERO 27 - PAG 4 Si parte dall’Iowa I numeri di Trump nel fortino evangelico smontano tutte le teorie sull’elettorato di destra (segue dalla prima pagina) Se anche Cruz dovesse vincere ai punti, la straordinaria performance di Trump fin qui in Iowa è rilevante, perché è difficile immaginare un candidato più irreligioso ed eterodosso di lui. Significa che la regola elettorale dell’Iowa non è affatto una regola, l’ipotesi interpretativa comunemente accettata non calza più, e così la domanda ricorrente fra gli analisti politici è passata da “è davvero importante l’Iowa?” a “per quale motivo, esattamente, l’Iowa è importante?”. In un certo senso si scolora anche l’immaginetta dello stato atipico e remoto, quello che non rappresenta nulla se non se stesso, che ogni quattro anni viene offerta dai commentatori. Piuttosto, come suggeriva Jean Baudrillard, ogni pezzo della nazione contiene un microcosmo americano, e dentro questo ordine è scritta la legge del cambiamento. Ronald Brownstein ha scritto che Trump “può distruggere gli allineamenti demografici che hanno definito le precedenti sfide per la nomination del Gop, e sgretolare le idee dei suoi rivali riguardo alle coalizioni che credevano fossero determinanti per ottenere la vittoria”. Più in generale, la capacità di penetrazione di uno come Trump in uno stato come l’Iowa – meglio: della caricatura ideologico-religiosa che ne è stata fatta – segnala che la costante nel comportamento dell’elettorato americano è la strutturale assenza di costanti. La costruzione dell’elettorato non procede per progressione e consolidamento, in modo lineare, ma per salti e balzi, con improvvisi capovolgimenti e ritorni, quelli che gli storici elettorali chiamano “riallineamenti”. Il sud è stato a lungo una roccaforte democratica prima di diventare totalmente repubblicano, le varie confessioni cristiane hanno cambiato sponda politica innumerevoli volte, fra i repubblicani ci sono internazionalisti e isolazionisti, conservatori sociali e libertari, e ognuno è certo di esprimere l’ortodossia del partito. Geografia e demografia cambiano, la composizione ideologico-religiosa dell’elettorato è una questione fluida, il più formidabile conservatore dell’epoca recente, Ronald Reagan, era l’uomo del “fusionismo” fra le varie correnti conservatrici, altro che purezza ideologica, e l’Iowa non l’ha mai vinto. Otto anni fa un gruppo di ricercatori di politica ha pubblicato un libro fortunatissimo intitolato “The Party Decides”. La tesi era che le posizioni dei candidati contano poco nella selezione dei candidati alla Casa Bianca, quello che conta è la struttura del partito, la logica dell’establishment. Trump ha già dimostrato che anche quello schema interpretativo non s’applica. Mattia Ferraresi Follow the money Cruz piace anche ai donatori “non tradizionali”. I contributi medi per Sanders sono di 27 dollari ciascuno (segue dalla prima pagina) I finanziatori che ancora sperano in una rivolta moderata preferiscono, al momento, più Marco Rubio che Jeb Bush – il derby della Florida, che fin da subito pareva fratricida, conferma la sua anima cannibale. Un SuperPac legato a Rubio, scrive il New York Times, ha raccolto negli ultimi sei mesi 14,3 milioni di dollari, elargiti in parte da ex finanziatori di Jeb, il quale in totale ha però raccolto il doppio dei fondi di Rubio: 155,6 milioni di dollari vs 77,2 milioni, ma ne ha spesi tantissimi, senza aver ancora ottenuto qualche riscontro degno di nota, a differenza di Rubio. L’altra tendenza nel campo repubblicano è l’aumento dei fondi a favore del conservatorissimo texano Ted Cruz, che raccoglie consensi anche al di fuori dei tradizionali contribuenti e anche al di fuori del mondo repubblicano: questi finanziatori sostengono il conservatorismo anti Washington di Cruz in chiave anti Trump, sì, ma anche in chiave anti establishment, qualsiasi cosa significhi oggi “establishment” nel Partito repubblicano. Mitica è la figura di Mica Mosbacher, biondissima filantropa texana da sempre sostenitrice dei Bush che ora è passata con Cruz perché è stanca di “moderati e di politici in carriera”: “C’è una guerra civile dentro al partito – ha detto – La gente vuole uno forte”. Sul lato dei democratici, si sa che Hillary Clinton è la più ricca e la più strutturata. Ma Bernie Sanders sta cercando di replicare il “miracolo obamiano” (tra le risatine degli obamiani) su due fronti: conquistare il voto dei giovani e ottenere tanti piccoli contributi, che dimostrino come la politica possa essere slegata dai grandi contribuenti ed essere ugualmente di successo. I giovani stanno assecondando le aspettative, si sentono rassicurati da questo vecchietto retrò più che da Hillary (la quale perde anche consensi tra le donne, e questo con tutta la movimentazione femminile che ha messo in piedi è grave), e anche i contributi seguono questo andamento anti élite. Sanders ha raccolto 33,6 milioni di dollari negli ultimi tre mesi del 2015: per il 70 per cento, ogni contribuente dà meno di 200 dollari (vi ricordate i cinque dollari che davano anche i più poveri per Obama, giusto per dire: ci sono anch’io?), soltanto 372 sostenitori hanno dato il massimo concesso, 2.700 dollari. A gennaio, Sanders ha raccolto altri 20 milioni di dollari, il capo della sua campagna dice che di questo passo si può battere Hillary anche sui soldi, soprattutto la si batte sulla mobilitazione: la maggior parte di contributi di questi ultimi 20 milioni è stata fatta online, e ogni contributo vale in media 27 dollari. Paola Peduzzi IL FOGLIO QUOTIDIANO MARTEDÌ 2 FEBBRAIO 2016 La manipolazione degli embrioni, a Londra, è un passo per l’eugenetica Al direttore - Presa diretta: forse era il titolo del programma a spaventare a proposito di educazione sessuale. Giuseppe De Filippi Al direttore - Bene ha fatto Berlusconi a paragonare molte delle parole d’ordine di Grillo a quelle di Hitler. Ma proprio per questo, poi, è inspiegabile e contraddittorio che Forza Italia si ritrovi al fianco dei grillini nel respingere la nuova legge elettorale maggioritaria, l’Italicum, e l’architettura costituzionale che coerentemente l’accompagna. Eh sì, è bene non dimenticare mai la storia, che ci racconta che il partito nazista entrò nel Parlamento della Repubblica di Weimar con le elezioni politiche del 1933, svolte con una legge elettorale proporzionale del tutto opposta al sistema elettivo maggioritario, che invece è il carattere distintivo dell’Italicum. Ma, allora, si tragga lezione dalla storia: Berlusconi respinga l’innaturale “unione civile” con Grillo, riprendendo la strada del matrimonio naturale con lo spirito e le ragioni fondanti – maggioritarie, bipolari, alternativiste, finanche bipartitiche – del berlusconismo delle origini. Alberto Bianchi Il centrodestra ha un futuro se ha la forza di dimostrare due cose. Primo: essere competitivo sul terreno di Renzi, e dunque provare a conquistare gli elettori che sostengono Renzi ma non si fidano del Pd. Secondo: essere percepito come una forza di governo ed essere dunque alternativo e non sovrapponibile al Cinque stelle. Non esiste un centrodestra spendibile se esi- ste una sovrapposizione tra Forza Italia (o quel che resta) e il Movimento 5 stelle. Verrebbe da dire elementare Watson, se non fosse che per qualcuno il fatto che ci sia una sovrapposizione tra Grillo e Forza Italia è un punto di merito. “Un altro dato di quella giornata – ha scritto ieri sul Giornale Augusto Minzolini, senatore di Forza Italia, a proposito del voto di sfiducia al governo sul caso banche popolari – è stato invece completamente ignorato: per la prima volta una mozione del centrodestra è stata votata anche dal M5s, come pure il documento grillino ha avuto il sì di Forza Italia, Fratelli d’Italia e leghisti. Insomma, alcune crepe hanno cominciato a rendere meno solido il Muro su cui Renzi ha costruito le sue fortune”. Ma si può? Al direttore - Per la prima volta nel Regno Unito un gruppo di ricercatori è stato autorizzato a manipolare embrioni umani per scopi scientifici. La sperimentazione si svolgerà al Francis Crick Institute di Londra e incomincerà nei prossimi mesi. L’obiettivo è quello di capire come si forma la vita e trovare nuove tecniche per combattere le anomalie genetiche. Verrano analizzati embrioni a sette gior- Alta Società Celebrato con grande soddisfazione dagli organizzatori il Family Day. Ma in Italia sono in tanti che potrebbero celebrare il Two Families Day. Il Circo Massimo li attende. ni della fecondazione a scopo di identificare le cause degli aborti spontanei. Attualmente circa il 50 per cento degli ovociti fecondati non si sviluppa correttamente e, secondo gli esperti, questo potrebbe essere collegato a un’anomalia nel codice genetico. I ricercatori useranno la tecnica “Crispr”, che permette di fare un “taglia e incolla” del Dna. Con il via libera della Hfea si apre anche il capitolo delle polemiche su questo fronte di ricerca. In molti infatti ci vedono la possibilità di aprire le porte all’eugenetica, cioè di selezionare in laboratorio le caratteristiche fisiche più gradite. Faust personaggio mitico che simboleggia la ribellione ai limiti dell’umana natura, l’aspirazione all’eterna giovinezza e l’avidità di conoscere ogni cosa. Faust è molto cambiato, un tempo la natura si identificava con il divino, ora egli vede nella natura un’energia che l’uomo può domare e rendere proprio strumento esperienza dell’azione e creazione. “L’azione è tutto, la gloria nulla”. Poi, la retromarcia, Faust vince su Mefistofele quando capisce che il vero senso della vita è nell’acccogliere entro di sé, l’accettazione della realtà senza che, spenta la luce degli occhi, si spenga quella dell’anima. Magari faccio confusione, ma la laicità e i deliri d’onnipotenza saranno obbligati a fare lo stesso percorso di Faust. Moreno Lupi La questione è semplice. Questo processo apre la possibilità di selezionare in laboratorio le caratteristiche fisiche più gradite. Questo, dunque, non è solo un passo per la ricerca, è un passo per l’eugenetica. Al direttore - Se dopo la benemerita iniziativa fogliante per la Giornata della memoria per caso fosse avanzata qualche kippah, propongo di regalarla simbolicamente a quegli incauti omosessuali che hanno osato partecipare al Family Day al Circo Massimo, implacabilmente bollati dal tollerante, dialogante, laico e rispettoso leader di Gaynet, Grillini Franco, “come gli ebrei filonazisti”. Non lo scopriamo certo ora che fare a sportellate con la realtà è, come dire, il marchio di fabbrica di certo pensiero unico. Per restare sul Family Day: quando c’è stata la manifestazione nelle 100 piazze a favore del ddl Cirinnà, l’Arcigay ha sparato la strabiliante cifra di un milione di partecipanti, e tutta la stampa che conta ha ripreso senza fiatare e senza controllare quella che poi si sarebbe rivelata una bufala colossale; allo stesso modo, gli organizzatori del Family Day hanno detto “siamo due milioni”, e che succede? Che stavolta non va mica bene. E non solo per Grillini (maddai?), che si è subito affrettato a dire che il Circo Massimo può tenere al massimo 300 mila persone, ma soprattutto per la stessa stampa di cui sopra, che di nuovo all’unisono ha sentito il dovere questa volta di approfondire, di verificare, con tanto di numeri e piantine del Circo Massimo e l’immancabile verifica con la questura. Risultato: secondo il Giornalista Collettivo al Circo Massimo c’erano, ma tu guarda le coincidenze, circa 300 mila persone. Ora io capisco che vedere il Circo Massimo strapieno a qualcuno l’ha fatto rosicare col botto, ma è chiedere troppo un minimo di onestà intellettuale? Ovviamente sì, è chiedere troppo. Eccola, la parte migliore del paese. Luca Del Pozzo La corte di Renzi, le rivalità, l’orgoglio ferito di Delrio e degli altri renziani (segue dalla prima pagina) E dunque si contorcono tra avvertimenti, grida sommesse, passi indietro e critiche più o meno evidenti al “giglio” e persino, con ovvia precauzione, al grande (e permaloso) capo. Ma come Graziano Delrio, isolato ministro delle Infrastrutture un tempo “fratello maggiore di Renzi”, anche loro battono i pugni contro un muro muto. I loro colpi non producono nessuna eco. E così Bonafè chiede un’attenzione che le viene negata, mentre Delrio, che doveva essere il Gianni Letta di Renzi ma è stato sostituito da una squadra di toscani (Luca Lotti e Antonella Manzione), osserva preoccupato l’avvicinarsi di Denis Verdini, “l’affiliazione” al Pd, e pure il pericoloso dissidio che divide Renzi dalla minoranza di Bersani, di Speranza e di Cuperlo, tutta una guerra che Delrio vorrebbe evitare “per il bene di Renzi”, perché – pensa lui – “il partito della nazione è una marmellata di trasformismi”. E dunque c’è Bazoli che vede nelle unioni civili, ma anche nel silenzio sulla riforma della giustizia, il tradimento di certe premesse del renzismo. E ci sono Chiamparino e Gori che, finiti anche loro nell’ombra, si lamentano per i tagli a comuni e regioni. E c’è Guerra che ha lasciato Palazzo Chigi perché a quanto pare non riusciva a fare quello che avrebbe voluto, colpa del giglio, ancora una volta, ché la rottamazione “non arriva fino in fon- do”. E insomma ciascuno di loro esprime il paradossale rimprovero a Renzi di non essere più renziano. Un lessico, come si vede, non da traditori, ma da traditi e umiliati, da “diversamente renziani”, dice qualcuno. “Il cambiamento della Leopolda a tutt’oggi nel Pd fatica ad arrivare”, aveva detto Richetti a dicembre, con l’orgoglio ferito dell’ortodosso, in polemica violenta con i cacicchi locali benedetti dai fiorentini di Palazzo Chigi. Lasciando capire che lui, Richetti, come tutti gli altri, resterà sempre con Renzi, o perlomeno con il Renzi a immagine e somiglianza di Richetti, di Delrio, di Rughetti, di Bazoli, di Gori, di Chiamparino e di Bonafè. Un Renzi che tuttavia non è il Renzi di Lu- ca Lotti, l’architetto di retrovia di Palazzo Chigi, l’uomo che secondo tutti loro ha la violenza dell’apostolo ma non ne ha la passione: incarna la linea, la riproduce con furia, ma senza fantasia né libertà. “Un Renzi più Renzi di Renzi”, lo descrivono, alludendo al fatto che la troppa fedeltà è in qualche modo un tradimento. E insomma intorno al presidente boy scout, ora che s’è fatto potere vero, si rilevano le tensioni, i malumori, i possibili scollamenti di corte. Vorrebbero purificare il Renzi di oggi innaffiandolo con il Renzi d’antan. Accadeva anche a Berlusconi, nel suo regime autocratico, carismatico e un po’ padronale. Salvatore Merlo Girotondo di sindacalisti molto scettici sull’unità sindacale a tutti i costi Roma. L’unità sindacale ricorda la Tour Eiffel: larga e solida alla base che si va assottigliando man mano che sale verso vertice, per sparire nei giorni di nebbia. Ne è convinto Luciano Scalia, un solido passato nelle formazioni giovanili comuniste, comprensive, appunto, di un soggiorno parigino, nei katanga del movimento studentesco romano, poi nella segreteria dei metalmeccanici cislini ed infine capo del personale (come si diceva una volta) di Italtel, Stet, Telecom e Almaviva, insomma uno che può vantare molti punti di vista. Ma anche Giuseppe “Pino” Acocella, docente alla Federico II di Napoli e storico del sindacato, si dice convinto che l’unità è solida alla base, anzi la definisce una prassi consolidata. Gli fa eco Giuseppe “Beppe” Casadio, faentino e comunista, già segretario generale della Cgil dell’Emilia Romagna e poi in segreteria confederale a Corso d’Italia, che però alla domanda del cronista sulla attualità dell’unità tra sindacati, non si fa scrupoli e sostiene che la domanda non è quella giusta. Dobbiamo in- terrogarci sul ruolo della rappresentanza e sul futuro dei corpi intermedi, sostiene Casadio, se non sciogliamo questo nodo tutto il resto sono chiacchiere. Ecco allora tornare in campo il recente documento che Cgil, Cisl e Uil hanno approvato sul nuovo modello contrattuale e sulla rappresentanza. Un documento che poteva essere fatto prima e meglio. Parola di Aldo Amoretti, altro cigiellino doc che ha diretto importanti federazioni come quella dei lavoratori tessili e quella del commercio, oltre a essere stato segretario della Cgil siciliana. Amoretti sembra indicare nella frenesia, nel dover fare in fretta, dunque nella paura, il maggior difetto del documento unitario. La paura del nuovo avversario, non i padroni o le forze conservatrici e reazionarie, bensì il segretario del Pd nonché presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Analisi che trova una sponda anche in Acocella, che si preoccupa anche dello “scippo” della rappresentanza da parte della politica. Dunque i sindacati si sono trovati nella necessità di trovare un punto d’in- contro obbligato. Un documento di tregua, sostiene Bruno Manghi, maître à penser e guru dei processi formativi dei gruppi dirigenti del sindacato di matrice cattolica. Di tregua tra i sindacati in qualche modo ne parla anche Amoretti, anzi sostiene la necessita di ripristinare almeno la buona educazione nei rapporti tra confederazioni. E questo la dice lunga sugli attuali rapporti, dietro le quinte, tra Cgil, Cisl e Uil. Sembrano passati anni luce quando esisteva la federazione unitaria con tanto di uffici e personale assegnato in modo rigorosamente paritario, in via Sicila a Roma. Ne dà testimonianza Francesco Guzzardi, allora redattore di Ausi, una specie di Ansa dei sindacati unitari. Di quegli anni Guzzardi ricorda le interminabili riunioni che immancabilmente terminavano con un documento frutto di esasperate mediazioni al ribasso piuttosto che di nuove idee. Guzzardi, che per quasi vent’anni ha diretto il giornale della Cisl, “Conquiste del Lavoro”, “l’unico quotidiano sindacale al mondo”, sottolinea con un certo orgo- glio, non ha dubbi, come non ne ha Scalia: questa unità così com’è non serve a nessuno. Oggi più che unità dovremmo parlare di utilità del sindacato, chiosa Manghi. Vuoi per le comuni origini emiliano-romagnola, vuoi per la stessa estrazione politico-sindacale, Casadio e Amoretti, sembrano averla una ricetta e cioè quella di un avvio di una fase nuova che porti a un sindacato unico che riconosca i nuovi soggetti e nuovi lavori. Storce il naso Manghi che ricorda che a parte la fusione, negli anni cinquanta tra Afl e Cio, i potenti sindacati americani, non ci sono altri esempi di fusioni degne di tale nome. Insomma chi nasce tondo non muore quadrato. Dunque le idee, per quanto diverse, non mancano, così come non manca la percezione che un ciclo storico si sia esaurito e forse anche l’unità tra diversi ha fatto il suo tempo. C’è solo d'augurasi che alla Tour Eiffel non si sostituisca il Colosseo dove il saluto d’obbligo era: “Ave, Caesar, morituri te salutant”. Valerio Gironi L’austerity funziona, ma non fa audience. Caro Renzi, è l’ora della verità N on è una novità: a volte bisogna mentire per rendere più digeribile una verità in sé sgradevole. Per ultimo, si veda il caso del presidente del Consiglio italiano che, nella conferenza stampa che ha seguito l’incontro con la cancelliera tedesca, ha testualmente affermato che “le politiche di austerità da sole non funzionano. Le politiche di austerità da sole portano alla sconfitta dei governi”. La prima affermazione è semplicemente falsa. Nei quattro paesi che fra il 2010 e il 2011 hanno usufruito di un programma di assistenza finanziaria da parte dell’Unione europea e che di conseguenza sono stati sottoposti alla sorveglianza congiunta di Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale, non solo le politiche di austerità hanno posto termine a tendenze evidentemente insostenibili ma si è registrato un fenomeno piuttosto evidente di convergenza strutturale rispetto alla configurazione macroeconomica media dei paesi membri dell’Eurozona. Dal momento che in presenza di un’unione bancaria ancora incompleta, di un’unione fiscale di là da venire e di un’unione politica più lontana che mai una qualche convergenza strutturale è necessaria se si vuole che l’euro abbia un futuro, è francamente difficile se non impossibile sostenere che “le politiche di austerità non hanno funzionato”. L’esempio più evidente è offerto dall’Irlanda, ma Portogallo e Spagna non sono poi così da meno e, sia pure molto parzialmente, non lo è anche la stessa Grecia. Quel che è ancora più interessante è che, anche dopo l’uscita dalla fase di sorveglianza della cosiddetta troika, Irlanda, Portogallo e Spagna hanno proseguito sulla strada della progressiva convergenza rispetto alla media dell’Eurozona (la Grecia, come si sa, è ancora sotto osservazione). Chi ne volesse una prova può utilmente consultare l’Indice dell’Istituto Bruno Leoni sulla distanza macroeconomica fra i paesi membri dell’Eurozona recentemente presentato a Bruxelles nella sede del Parlamento europeo. La seconda affermazione è probabilmente vera. I partiti che hanno gestito i programmi di assistenza finanziaria in Portogallo e Spagna non hanno perso, ma non hanno nemmeno vinto le recenti elezioni politiche e, se in Portogallo hanno già dovuto cedere il passo ad un governo composito tenuto insieme pressoché esclusivamente dalle critiche nei confronti delle politiche di austerità, in Spagna potrebbero doverlo fare presto. E quel che è accaduto in Grecia è troppo noto per doverlo ripetere. Potrebbe quindi non essere sbagliato osservare che “le politiche di austerità portano alla sconfitta dei governi”. Ora, è perfettamente comprensibile che il presidente del Consiglio italiano, come è accaduto a molti prima di lui e come accadrà a molti dopo di lui, non voglia perdere i prossimi appuntamenti elettorali (cosa che diverrebbe, dal suo punto di vista, forse un po’ più probabile se dovesse davvero comportarsi nei prossimi mesi in maniera finanziariamente responsabile). Ed è umano che, per rendere digeribile questa sua comprensibile aspirazione, travisi la realtà: se le politiche di austerità non avessero funzionato, sarebbe certamente più accettabile farne a meno. Ma così non è andata e pertanto è bene essere espliciti: abbandonare il binomio riforme strutturali-disciplina finanziaria significa fare forse solo l’interesse del governo di turno ma certamente non quello del paese che quello stesso governo dovrebbe governare. In fondo noi semplici cittadini non chiediamo poi troppo. Visto che per il momento non si può fare molto altro, chiediamo che, almeno, ci si risparmi – un giorno sì e uno no – il solito ritornello: “Noi pensiamo al paese”. Così non è. Non gridiamo allo scandalo, perché sappiamo com’è fatta la politica (anche quella che vorrebbe essere nuova) ma segnaliamo rispettosamente che ancora non abbiamo l’encefalogramma piatto. Nicola Rossi Facciamo così, l’onta del fumo passivo è l’ultima nostra chance erotizzante I l fumo passivo fa ingrassare. Il fumo passivo ammazza cani e gatti. Il fumo passivo mette a rischio la fertilità. Il fumo passivo rovina i denti dei bambini. Il fumo passivo ha gli stessi effetti del logorio della vita moderna. Ecco, il fumo passivo è come lo stress, è la bestia su cui ci si accanisce per qualsivoglia sintomo dall’eziologia poco chiara. Philippe Even, famoso e controverso pneumologo francese, si è battuto per anni perché venisse riconosciuta l’inesistenza scientifica della nocività del fumo passivo – poi è stato sospeso, per aver difeso il colesterolo e accusato le industrie che producono farmaci anticolesterolo. Insomma, non che avessimo mai voluto ammazzare qualcuno, fumando, ma la battaglia di noi fumatori è persa, e mestamente riconosciamo la sconfitta. Da oggi entra in vigore il decreto legislativo n. 6 del 12 gennaio 2016, che recepisce la direttiva 2014/40/UE. Non si può fumare in macchina con un mi- nore, non si può fumare in macchina con una donna incinta – e ci si chiede però perché le due categorie possano liberamente circolare nelle metropoli, dopo certi “dossier choc sull’inquinamento”, non sarebbe meglio chiuderli in casa come a Pechino? – ma da oggi è vietato fumare pure fuori dall’ospedale, se lei sta partorendo. Si dovrà comunque attraversare la strada e allontanarsi il più possibile, ché la “pertinenza esterna” dell’ospedale vai a capire dove inizia e dove finisce. Scappare, con quel senso di vergogna che tutti i fumatori hanno quando sono in minoranza, la stessa che si prova davanti a un consesso di vegetariani, se si prova a rivendicare la libertà di mangiare della carne piena di ormoni. Il surrogato della sigaretta elettronica è durato poco, un fuoco fatuo, prima che la scure della regolamentazione si abbattesse pure sul vapore. I fumatori ormai si muovono volontariamente in processione verso gli angoli a loro dedicati, e non s’interessano più nemmeno di contestare norme illiberali, con fondamenti scientifici poco chiari, come quella che da oggi vieta la vendita dei pacchetti da dieci sigarette, che costando la metà finge di raddoppiare il potere d’acquisto dei tabagisti. Poveracci. Chris Brown, bad boy del pop-rap americano, che non si è vergognato di ammettere gli sganassoni contro Rihanna, ieri è stato accusato di aver provocato l’asma alla figlia Royalty per via del fumo passivo, e si è sbrigato a dire che mai e poi mai avrebbe potuto toccare una sigaretta davanti alla pargola. E un secolo è passato dal 1974, quando David Bowie pubblicò “Rock’n’roll suicide”. La canzone, straziante, si apre con una citazione di “La pipa” di Charles Baudelaire: “Il tempo prende una sigaretta, te la mette in bocca, alzi un dito, poi un altro dito, poi la tua sigaretta”, ed è una metafora della vita quella del fumare in fretta, oppure lentamente. Nella serie tv “The Leftover”, chi si unisce alla setta dei Colpevoli sopravvissuti veste solo di bianco, smette di parlare e fuma tutto il giorno. I Colpevoli sopravvissuti si appostano davanti alle case dei nonadepti, in piedi, in silenzio, con la sigaretta accesa. E’ così che deve vedere i tabagisti l’Organizzazione mondiale della sanità, il carrozzone burocratico che dal 1999 ha una convenzione indipendente “sul controllo del tabacco”, definito “un’epidemia”, e che ha deciso che i pacchetti devono avere immagini raccapriccianti. Noi pure oggi ci adeguiamo, con la solita prontezza. A doverlo trovare, un aspetto positivo, è l’attesa di quel “usciamo a fumare?”, che ormai è più del “ci prendiamo un caffè”, perché anticipa una complicità furtiva, per non dire erotizzante. Se non fosse che poi, il tabacco, di sicuro rende pure impotenti. Giulia Pompili Primarie fratricide Milano come Roma, il Pd combatte contro sé stesso. La vendetta di Veltroni e la nebulosa della destra No, non sarà una passeggiata questa tornata elettorale delle amministrative per il presidente del Consiglio Matteo Renzi. Persino a Milano adesso i renziani coPASSEGGIATE ROMANE minciano a temere. Non tanto per le elezioni in sé, perché sono convinti che con Sala non ce ne sia per nessuno. La vera preoccupazione riguarda le primarie prossime venture. Infatti il timore è che tutti i nemici del premier, che, dentro il Pd come nella sinistra in genere, non sono pochi, tentino la rivincita nei gazebo facendo vincere la candidata di Giuliano Pisapia, ovvero Francesca Balzani. Anche se formalmente il presidente del Consiglio, da quando i candidati sono ufficialmente scesi in campo, non si è espresso per nessuno, non ha nascosto di preferire Giuseppe Sala. E un’eventuale sconfitta di quest’ultimo sarebbe letta come una sconfitta dello stesso Renzi. Pisapia, invece, si è espresso ufficialmente per permettere la volata finale alla Balzani. Il sindaco è convinto che se la sua candidata strapperà la vittoria alle primarie vincerà poi anche nelle urne e si occuperà personalmente di farle la campagna elettorale. A Roma la situazione resta sempre difficile. Sia per le amministrative che per le primarie. E’ vero che Massimo D’Alema sembra aver rinunciato all’idea di far scendere in campo Massimo Bray, anche perché lo stesso ex ministro dei Beni culturali alla fine ha seguito il suggerimento del suo mentore Giuliano Amato, che lo sconsigliava vivamente di candidarsi, ma l’ex premier comunque non sembra darsi pace. Giorni fa ha avuto un incontro conviviale anche con Walter Tocci per sondarlo e vedere se voleva scendere in campo lui. Al momento, però, non è riuscito ad avere una risposta positiva. In compenso, Walter Veltroni sta riuscendo a consumare la sua “vendetta”. L’ex segretario del Partito democratico è rimasto molto amareggiato perché Matteo Renzi non lo ha consultato prima di lanciare la candidatura di Roberto Giachetti. Veltroni era convinto che il premier avrebbe chiesto un parere ai maggiorenti che a Roma contano. Ma così non è stato. E adesso a scendere in campo contro Giachetti alle primarie, guarda caso, è proprio un veltroniano come Roberto Morassut. Il quale ha dalla sua ciò che rimane del potere di Goffredo Bettini a Roma, oltre ovviamente all’appoggio di tutti i veltroniani della capitale. Non solo. Pare che la minoranza del Pd abbia intenzione di votarlo alle primarie per dare una lezione a Roberto Giachetti, inviso ai bersaniani perché non solo è un renziani di ferro, ma è anche un ex margheritino e non proviene dalle file dei Ds, come invece Morassut. Lo scontro a Roma si fa quindi più duro del previsto, anche se i renziani ritengono che Giachetti possa tranquillamente battere il suo avversario nei gazebo. A sinistra del Pd, intanto, Stefano Fassina sta facendo carte false per riuscire ad avere l’appoggio dell’ex sindaco Ignazio Marino alle elezioni, anche se qualcuno nel suo staff glielo sconsiglia. Fassina ha però assolutamente bisogno di un altro sponsor anche perché la situazione con Sel, che lo appoggia, si sta complicando. Una parte di quel movimento, infatti, soffre l’eccesso di protagonismo dell’ex piddino e non è d’accordo con tutte le sue uscite. Il fatto che la parte di Sel che soffre i mal di pancia più vistosi sia quella romana complica ancora di più le cose. A Napoli, invece, al di là delle dichiarazioni ufficiali, il Pd dà per persa la battaglia. Tanto più adesso che i grillini hanno fatto sapere che potrebbero non presentare un candidato. Questo significa che il grosso dei loro voti confluirà su Luigi De Magistris, che, stando a tutti i sondaggi, verrà riconfermato sindaco. Con buona pace di Antonio Bassolino, il quale, con tutta probabilità, vincerà le primarie, ma poi verrà sconfitto nelle urne. L’unica speranza del Pd è dovuta al fatto che anche il centrodestra si trova in grandi difficoltà. A Roma non è stato ancora deciso il candidato. In realtà Giorgia Meloni non ha mai voluto correre e la maternità da poco annunciata è solo un pretesto per tirarsi fuori da una contesa che non la interessava. In compenso Francesco Storace ha annunciato la sua candidatura. E questo significa che anche il fronte della destra romana si dividerà. E anche a Milano, dove Corrado Passera si è offerto come candidato del centrodestra, Berlusconi e Salvini sono ancora lontani dall’aver trovato una soluzione. IL RIEMPITIVO di Pietrangelo Buttafuoco Smart working. Ecco una cosa nuova. Significa, in sostanza, “lavorare a casa” e quelli col culo al caldo la raccontano come una meraviglia dell’èra nuova dove da dappertutto si può fare tutto. E’, insomma, la possibilità di farsi l’ufficio a casa con le aziende – ma va? – ben liete di questa variante rispetto alla vecchia maniera. Quella degli uffici con le persone in carne e ossa. Ecco, dunque, lo smart working. In realtà è solo un eufemismo. Significa precariato: prestazione di lavoro senza l’incomodo di garanzie sociali. Col vantaggio, per i potentati, di risparmiare anche sulla luce elettrica. A forza di staccare le parole dal loro significato si accetta tutto. E finirà che la disoccupazione sarà spiegata come un happy end col sazio però – beato lui – che mai potrà capire chi è a digiuno.