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RASSEGNA STAMPA
mercoledì 18 marzo 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
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IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
del 18/03/15, pag. 24
«Coalizione sociale». Cgil: il leader Fiom
chiarisca la natura sindacale della
mobilitazione del 28
Nuovo movimento e manifestazione, tra Landini e Camusso è scontro
aperto
ROMA
È “muro contro muro” tra la Cgil e il leader della Fiom. Ieri mattina il faccia a faccia di circa
40 minuti che si è svolto nella sede di Corso d’Italia, tra Susanna Camusso e Maurizio
Landini, non è servito a trovare una posizione comune, ed ha messo in luce - ancora una
volta - l’esistenza di una spaccatura sulla proposta di creare una coalizione sociale,
giudicata dalla confederazione come una minaccia all’autonomia del sindacato.
L’attenzione è rivolta alla manifestazione del 28 marzo convocata dalla Fiom - sostenuta
dalla Cgil - nell’ambito delle mobilitazioni delle categorie contro la politica del governo
Renzi, considerata però da Landini come un banco di prova della capacità di mobilitazione
della nascente coalizione sociale. Camusso ha chiesto a Landini di chiarire che la
manifestazione del 28 marzo ha una natura squisitamente «sindacale e non politica», su
una piattaforma comune con la Cgil. «Vedremo se ci sarà una risposta, allo stato non
l’abbiamo», ha detto Camusso ribadendo che il sindacato ha una sua «autonomia e non
può essere confusa con la costruzione di un movimento politico che non è coerente al
bisogno di sindacato che c’è nel paese».
Ma all’indomani della presa di distanza della segreteria della Cgil sulla coalizione sociale,
Landini ha deciso di rilanciare, con una nota diffusa alla fine dell’incontro con Camusso:
«Pensiamo sarebbe utile che la Cgil insieme alla Fiom si attivasse per costruire una
coalizione sociale, a partire dall’interesse e dalla disponibilità espressa dai partecipanti alla
discussione dello scorso sabato». Pur escludendo di voler creare un nuovo partito, Landini
non intende fare marcia indietro, ritiene necessario che come sindacato «si superi la
semplice associazione di interessi» anche «attraverso una reale interlocuzione con
associazioni di volontariato, sociali, culturali e personalità su obiettivi comuni e condivisi».
È rimasta inascoltata, dunque, la richiesta avanzata da Camusso a Landini di «cancellare
qualsiasi ambiguità» sul rapporto con la politica: «Il bisogno di politica che ha Landini - ha
aggiunto Camusso - non può stravolgere la natura della Cgil. Il sindacato ha una sua
soggettività politica, ma una sua fortissima autonomia e proprio per questo non può essere
confusa con la costruzione di un movimento politico. Se il segretario Fiom dice che non ha
intenzione di costruire una formazione politica rinnoviamo la richiesta di una nota
congiunta che ponga fine al dibattito che si è creato».
Critiche a Landini arrivano dai leader dell’agrindustria Stefania Crogi (Flai), e del pubblico
impiego Rossana Dettori (Fp) che in una nota comune sottolineano come «il sindacato
non ha mai abdicato alla propria funzione ed al proprio ruolo fatto di mobilitazione,
negoziazione e contrattazione». Sulla stessa lunghezza d’onda Emilio Miceli, numero uno
della Filctem (chimici, tessili, manifattura, energia) che spiega la sua contrarietà alla
coalizione sociale ribadendo l’autonomia della Cgil come fattore di credibilità nello scontro
con il Governo sulla riforma del lavoro. Dal progetto di Landini si sfila il presidente di
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Libera, Don Luigi Ciotti: «Ben venga la coesione sociale - afferma - Libera non aderisce,
perché è un coordinamento di associazioni, ogni associazione è libera di partecipare, ma
Libera è al di sopra: disposta a collaborare con tutti, però non è una sigla da mettere lì».
Mentre l’Arci «è disponibile a dare il proprio contributo alla coalizione sociale».
Da Avvenire del 18/03/15, pag. 8
Landini non demorde, Cgil:via ambiguità
Landini «cancelli qualsiasi ambiguità» sul carattere del suo progetto di coalizione sociale.
La Cgil «sia parte del percorso», perché «c’è bisogno di riformare tutto il sindacato
confederale». Anche dopo l'incontro di ieri restano su posizioni distanti il segretario
generale della Cgjl, Susanna Camusso e Maurizio Landini, leader della Fiom e promotore
del nuovo movimento incentrato sui temi del lavoro. Nel corso del colloquio, durato poco
meno di un'ora, Landini ha consegnato una lettera alla Camusso in risposta a quella a lui
indirizzata dalla segreteria della Cgil lunedì sera, nella quale si escludeva la "coalizione
sociale" dalla prospettiva di azione del sindacato, Il contenuto della missiva dei
metalmeccanici ha ribadito il concetto opposto, ricordando ancora una volta che la sigla
sindacale di sinistra dovrebbe attivarsi «a partire dall'interesse e dalla disponibilità
espressa da tutti i partecipanti a una prima discussione sviluppatasi il 14marzo». E a sera,
in tv, ha detto che la Cgil deve allargarsi al lavoro autonomo, «altrimenti sarà cancellata».
La lettera contiene un'ulteriore assicurazione sul carattere non partitico dell’iniziativa.
Intenzione ribadita nel colloquio, ha detto Landini al termine dello stesso. Ma la Camusso
ha chiesto che questo orientamento venga messo nero su bianco in una nota congiunta
per porre fine al dibattito che si è innescato. Nota che al momento non c'è stata.
«Ho chiarito tutto, non ho interessi personali. Non capisco a chi e a cosa erano riferite le
obiezioni della segreteria della Cgil», sottolinea il leader della Fiom, ricordando che i
rapporti tra confederazione e metalmeccanici è sempre stato «dialettico ». Su una sua
futura scalata alla segreteria nazionale fra tre anni, Landini non si sbilancia: «Farò ciò che
la Cgil mi chiederà di fare. Non sono un ragazzo ambizioso». La numero uno di Corso
d'Italia, più tardi, ha tenuto il punto. «Il bisogno di politica di Landini - ha detto - non può
stravolgere la natura della Cgil». Che, pur avendo una «soggettività politica», non intende
né costruire movimenti, né sostituirsi ad essi. Obiettivo è concentrarsi sulla manifestazione
del 28 marzo per unificare il mondo del lavoro. «Siamo in attesa-ha concluso - di una
risposta della Fiom». Intanto qualcuno si tira dentro, qualcuno fuori dal progetto. L’Arci
prepara un documento, assicurando il suo contributo. Mentre il presidente di Libera, don
Luigi Ciotti, dice che l'associazione non aderisce, poiché a sua volta coordinamento di
associazioni libere. «Sui temi ci siamo, però non è una sigla da mettere lì».
del 18/03/15, pag. 2
Anche l’Arci si “coalizza”
«L’Arci è disponibile a dare il proprio contributo alla Coalizione Sociale auspicata dalla
proposta della Fiom, alla pari con gli altri soggetti coinvolti, dopo aver avviato una
riflessione approfondita all’interno della propria base sociale diffusa».
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Con una nota, diffusa ieri, l’Arci ha deciso ufficialmente di collaborare con l’organizzazione
lanciata dalla Fiom, e di entrare a far parte del vasto arco di associazioni coinvolte.
«Nelle settimane scorse abbiamo ricevuto l’invito da parte della Fiom a partecipare a un
incontro presso la loro sede — spiega ancora la presidenza Arci — Le questioni,
costituzionalmente rilevanti, della promozione della partecipazione alla vita pubblica come
sostanza della democrazia, del valore dell’intermediazione e della rappresentanza sociale,
della rimozione degli ostacoli sociali e culturali che impediscono il contributo di ciascuno al
bene comune, rappresentano per l’Arci punti fondanti della propria identità».
Da Redattore Sociale del 17/03/15
Coalizione sociale, l'Arci elabora un
documento: "Pronti a dare il nostro
contributo"
La presidenza dell'Arci, riunita a Roma, ha approvato un documento
sulla coalizione sociale proposta dalla Fiom. "È diffusa a tutti i livelli
l'urgenza che vive il nostro Paese di riscoprire un pensiero di sinistra
rinnovato, fondato su una reale cultura della responsabilità pubblica"
ROMA - "Nelle settimane scorse abbiamo ricevuto l'invito da parte della Fiom a
partecipare ad un incontro presso la loro sede, avente come oggetto la riflessione sulla
nascita di una 'coalizione sociale'. Le questioni, costituzionalmente rilevanti, della
promozione della partecipazione alla vita pubblica come sostanza della democrazia, del
valore dell'intermediazione e della rappresentanza sociale, della rimozione degli ostacoli
sociali e culturali che impediscono il contributo di ciascuno al bene comune,
rappresentano per l'Arci punti fondanti della propria attività". Così l'Arci ha accolto l'invito
della Fiom all'incontro con le associazioni, organizzato dal segretario Landini, per lanciare
progetto di 'coalizione sociale' che intende fare politica nel Paese. Un progetto al quale
l'Arci è disponibile a dare il proprio contributo, partendo da alcuni importanti presupposti,
elencati in un documento, e dopo aver avviato una riflessione approfondita all’interno della
propria base sociale.
"L'Arci - si legge nel documento, approvato oggi dalla presidenza nazionale riunitasi a
Roma - è un'associazione culturale, di carattere popolare e progressista. E' impegnata
nella promozione della cultura dei diritti, della dignità di uomini e donne, della pace, della
giustizia sociale. Alla base della sua elaborazione teorica e della sua azione c'è un
principio che le ha consentito di sviluppare la sua esistenza nel segno dell'unità tra
sensibilità diverse, di essere un soggetto radicato nei territori, di essere un'organizzazione
inclusiva di tutte le opinioni che attraversano il pensiero e le pratiche di sinistra del nostro
Paese, di partecipare alla costruzione di reti e alleanze con altri soggetti della società civile
italiana. Quel principio è l'autonomia che ci rende ancora oggi, uniti e forti del nostro
pluralismo, in grado di promuovere tante iniziative, dalle grandi città alle più piccole
comunità in modo indipendente e, allo stesso tempo, ci permette di mettere a disposizione
delle comunità locali la nostra identità e il nostro bagaglio di pratiche sociali".
Uguaglianza e giustizia sociale sono tra i punti cardine che l'associazione pone al centro di
ogni riflessione politica: "Siamo impegnati - continua il documento - anche attraverso
pratiche e vertenze locali, nel tenere viva l'attenzione (troppo bassa, secondo noi,
nell'attuale dibattito pubblico) sui temi dell'uguaglianza sostanziale dei cittadini e della
giustizia sociale. È diffusa a tutti i livelli della nostra associazione l'urgenza che vive il
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nostro Paese di riscoprire un pensiero di sinistra rinnovato, capace di aggregare e fondato
su una reale cultura della responsabilità pubblica. E con questo spirito abbiamo deciso di
rispondere positivamente a quell'invito, così come facciamo ogni volta che veniamo
chiamati per portare un contributo di esperienza e di idee".
L'Arci è quindi pronta ad abbracciare il percorso proposto dalla Fiom, che intende
rianimare la democrazia italiana, e si dichiara estranea alle logiche di partito ma
interessata all'idea della coalizione sociale "che porti avanti le sue battaglie sui temi del
lavoro, dei diritti, della scuola e della lotta alla povertà".
"Contemporaneamente - si legge infine nel documento dell'Arci - alla stregua di quanto
afferma la nostra Carta costituzionale, siamo convinti che la funzione dell'indirizzo politico
spetti oltre che ai partiti anche alle organizzazioni sociali. Quest’ultime quindi possono e
devono contribuire alla costruzione dell’indirizzo politico e culturale del Paese senza
scardinare tale principio. Per questo ribadiamo che il nostro ruolo è quello di promozione
sociale e culturale e che le nostre iniziative non hanno alcun carattere elettorale".
Da Ansa del 17/03/15
Ansa, POLITICA,
LANDINI: ARCI, DISPOSTI A DARE IL
NOSTRO CONTRIBUTO.
(non è stato possibile rintracciare il testo del lancio di agenzia)
Da AskaNews del 17/03/15
Arci: sì a Landini, facciamo politica ma non a
fini elettorali
17 mar. (askanews) - L'Arci aderisce alla coalizione sociale proposta dal leader della
Fiom-Cgil, Maurizio Landini, ma non fa politica a fini elettorali. E' il senso di un documento
approvato dalla presidenza nazionale Arci che precisa le condizioni dell'alleanza "di
movimento". Alla base "della sua elaborazione teorica e della sua azione" i dirigenti della
storica associazione di sinistra ricordano che "c'è un principio che le ha consentito di
sviluppare la sua esistenza nel segno dell'unità tra sensibilità diverse, di essere un
soggetto radicato nei territori, di essere un'organizzazione inclusiva di tutte le opinioni che
attraversano il pensiero e le pratiche di sinistra del nostro Paese, di partecipare alla
costruzione di reti e alleanze con altri soggetti della società civile italiana. Quel principio è
l'autonomia che ci rende ancora oggi, uniti e forti del nostro pluralismo, in grado di
promuovere tante iniziative, dalle grandi città alle più piccole comunità in modo
indipendente e, allo stesso tempo, ci permette di mettere a disposizione delle comunità
locali la nostra identità e il nostro bagaglio di pratiche sociali".
Le questioni poste dalla Fiom "della promozione della partecipazione alla vita pubblica
come sostanza della democrazia, del valore dell'intermediazione e della rappresentanza
sociale, della rimozione degli ostacoli sociali e culturali che impediscono il contributo di
ciascuno al bene comune, rappresentano per l'Arci punti fondanti della propria identità".
"Alla stregua di quanto afferma la nostra Carta costituzionale, siamo convinti - si legge
ancora nel documento - che la funzione dell'indirizzo politico spetti oltre che ai partiti
anche alle organizzazioni sociali. Quest'ultime quindi possono e devono contribuire alla
costruzione dell'indirizzo politico e culturale del Paese senza scardinare tale principio. Per
questo ribadiamo che il nostro ruolo è quello di promozione sociale e culturale e che le
nostre iniziative non hanno alcun carattere elettorale".
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"All'interno di questo quadro - conclude la nota - l'Arci è disponibile a dare il proprio
contributo alla Coalizione Sociale auspicata dalla proposta della Fiom, alla pari con gli altri
soggetti coinvolti, dopo aver avviato una riflessione approfondita all'interno della propria
base sociale diffusa".
Da Vita.it del 17/03/15
Arci: siamo con la coalizione sociale di
Landini. Per ora
di Daniele Biella
"Non ci piace l'eccessiva esposizione mediatica, ma siamo interessati a
fare la nostra parte per far ritornare gli italiani alla partecipazione
attiva", spiega Filippo MIraglia, vice presidente dell'associazione più
grande e storica d'Italia, presente all'incontro indetto dal leader della
Fiom
“La coalizione sociale proposta dal leader Fiom Landini ci interessa, ma stiamo attenti ai
rischi di eccessiva esposizione mediatica: puntiamo a uno strumento per fa riprendere in
mano ai cittadini la partecipazione alla sfera pubblica, non ci interessa un’iniziativa con fini
elettorali”. Filippo Miraglia, vice presidente nazionale di Arci, mette in chiaro la posizione
dell’ente associativo più grande d’Italia (5mila sedi, un milione di iscritti) all’indomani della
sua partecipazione alla riunione voluta da Landini per lanciare un nuovo soggetto sociale
che lotti contro la disaffezione per la politica dei buona parte dell’opinione pubblica italiana.
“Ci è arrivata una lettera di invito all’incontro, la presidente Francesca Chiavacci era già
impegnata, così sono andato io, pensando a una riunione come tante. Invece mi sono
trovato davanti tutte le televisioni nazionali e un incontro che ha avuto risonanza che non
m’aspettavo”, precisa Miraglia. Un fatto positivo? “Sì, se ci permette di trattare in modo
ampio i temi a cui siamo più legati, con la necessaria autonomia e libertà di azione”. La
presidenza nazionale Arci si è riunita questa mattina per mettere nero su bianco
“l’adesione a un inizio di percorso che sarà lungo e coinvolgerà tutte le nostre realtà locali
nel capire se e come potremo fare la nostra parte”, specifica Miraglia.
L’Arci, che ha rinnovato la presidenza nel 2014 non senza qualche affanno per la scelta
delle nuove cariche, è oggi nel pieno di un percorso che sta portando l’organizzazione a
rinnovare il modello di appartenenza verso un modello che deve tenere conto delle nuove
dinamiche sociali, in cui la componente giovanile è in aumento e slegata da appartenenze
politiche marcate. “Si tratta di una socialità diversa in tempi diversi: si gioca ancora a carte
nei circoli, ma ci sono anche diversi luoghi di partecipazione, legati per esempio alle
battaglie per i diritti ambientali e delle migrazioni”, prosegue Miraglia, “noi stiamo cercando
di leggere questo cambiamento e trovare il modo di adattamento migliore, in particolare
verso un ruolo di mediatore sociale che l'Arci dovrà essere in grado di potenziare. Ciò
significa più presenza nei luoghi di partecipazione, così come nei mass media, che oggi
come mai prima d’ora, la televisione in particolare, sono diventati la principale e a volte
l’unica fonte di informazione per tante persone”.
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Da il FattoQuotidiano.it del 14/03/15
Landini, coalizione sociale: “Politica fuori dai
partiti. Qualcuno già ci teme”
All'incontro organizzato dal segretario della Fiom per dare il via al suo
progetto tanti rappresentanti di associazioni e categorie professionali.
Miraglia (Arci): "Non sarà un partitino di sinistra". Bonsanti (Libertà e
Giustizia): "Faremo massa critica". Ex M5S: "Noi pronti al sostegno in
Parlamento". Matarazzo (Articolo 21): "Spazio anche alla tutela
dell'informazione"
di F. Q.
Il dado è tratto, Maurizio Landini ha rotto gli indugi. Lanciando il suo progetto: «Una
coalizione per difendere i diritti di tutti». Non sarà un partito, «ma una coalizione sociale».
Che resterà fuori dalle istituzioni per portare avanti le sue battaglie e fare politica
direttamente nel Paese. L’incontro con le associazioni organizzato dal leader della Fiom è
stata «un’occasione per guardarsi in faccia», racconta chi a quella riunione ha preso parte.
Dalle associazioni (Libera, Arci, Emergency, Articolo 21 e Libertà e Giustizia) ai singoli
(come gli ex del M5S Maria Mussini, Maurizio Romani e Alessandra Bencini). Più o meno
tutti positivamente colpiti e interessati dall’iniziativa di Landini.
Non sarà un partito – «E’ andata molto bene», assicura a ilfattoquotidiano.it il vice
presidente dell’Arci Filippo Miraglia. «L’obiettivo è quello di avviare il percorso proposto
dalla Fiom per rianimare la democrazia italiana dando vita ad una coalizione di
associazioni che restituisca un’opportunità alla politica. Una politica sempre più distante
dai cittadini a loro volta sempre più esclusi dalla partecipazione. Un progetto interessante,
insomma, rispetto al quale ho chiesto tempo per discuterne al nostro interno». Un
interesse che ruota intorno alla fondamentale premessa partenza. «Non c’è alcuna
intenzione di fondare l’ennesimo partitino di sinistra, su questo Landini è stato chiaro –
continua Miraglia –. Ad un’ipotesi del genere l’Arci non sarebbe assolutamente
interessata, mentre è molto interessata all’idea della coalizione sociale che porti avanti le
sue battaglie sui temi del lavoro, dei diritti, della scuola e della lotta alla povertà». Esclusa
la formazione di liste e, di conseguenza, la partecipazione a competizioni elettorali, come
si pensa di far valere le rivendicazioni della coalizione nelle sedi istituzionali? «L’obiettivo è
fare politica nella società rapportandoci con i partiti, ma rimanendone distinti – osserva il
vice presidente dell’Arci –. Strumenti come il referendum abrogativo o la legge di iniziativa
popolare possono essere, ad esempio, delle strade percorribili». E alla manifestazione del
18, a Francoforte, contro l’austerity, anche l’associazione di Miraglia si farà vedere.
«Qualcuno dell’Arci sicuramente ci sarà – continua –. Per dire basta a questa politica
economica che, a livello comunitario, sta solo aggravando il divario tra ricchi e poveri».
Temi per la verità che richiamano molto quelli cavalcati in Grecia da Syriza, il partito
dall’attuale premier Tsipras. «Una convergenza che al massimo si può scorgere su singoli
temi condivisi – conclude Miraglia –. Ma loro sono un partito, noi no».
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Qualcuno già ci teme - «Il progetto è di fare politica fuori dai partiti – spiega a
ilfattoquotidiano.it la presidente nazionale di Libertà e Giustizia, Sandra Bonsanti –. Già in
passato era accaduto una cosa del genere, ma questa iniziativa è molto diversa perché è
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scesa in campo la Fiom nel suo insieme. Non è solo l’impegno di Maurizio Landini». Il
tratto distintivo dell’incontro era «l’entusiasmo delle associazioni presenti». Sulla natura
del progetto, la presidente di Libertà e Giustizia esprime un giudizio netto: nessuna
vicinanza con gli attuali partiti presenti in Parlamento. «L’obiettivo è di mettere in piedi una
massa critica, ma soprattutto capace di elaborare delle proposte», ribadisce. In merito ai
commenti polemici provenienti dal Pd, Bonsanti replica: «La coalizione sociale è una
novità che spaventa qualcuno, specie chi ci definisce un partitino perdente di sinistra.
Forse le nostra urla potranno rompere questa cappa di silenzio. Mi dispiace per l’udito di
Speranza, ma si dovrà abituare a sentirle». Infine Libertà e Giustizia illustra cosa bolle in
pentola: «Noi vogliamo elaborare proposte. Ci sono già incontri in agenda nelle prossime
settimane e il 28 marzo c’è la grande manifestazione della Fiom». In conclusione
l’annuncio di una mobilitazione tra le persone: «Metteremo insieme delle pratiche di aiuto
sociale sul territorio per parlare con disoccupati, studenti e cittadini comuni per riprendere
contatto con le persone. Si tratta di studiare un modello per il Paese contro il partito unico.
Per questo è evidente che non abbiamo alcun collegamento con i partiti».
Referenti parlamentari – All’incontro non solo le associazioni, ma anche i singoli. Come i
senatori ex Movimento 5 Stelle, Maria Mussini, Maurizio Romani e Alessandra Bencini. E’
quest’ultima a tirare le somme della riunione. «Non si è trattato in alcun modo di una precostituente di un nuovo partito, ma di un confronto per capire se e come portare avanti
battaglie sui diritti, a cominciare dai temi del Welfare e del lavoro – spiega la parlamentare
–. Per quanto mi riguarda la mia adesione è sia diretta che indiretta: essendo una
senatrice posso farmi carico di tramutare in atti parlamentari le istanze di questa coalizione
sociale, traghettandole in sede istituzionale». Adesione convinta e condivisa, assicura la
Bencini, anche dai colleghi Mussari e Romani. «Il metodo? Lavorare affinché le parti
sociali siano sempre più radicate sul territorio per dare vita ad una forma di democrazia il
più possibile partecipata – prosegue –. Inoltre, relazionarsi con quei partiti, come ad
esempio Sel, disposti a portare avanti le istanze della coalizione sociale in sede
parlamentare». Il primo collaudo potrebbe arrivare con l’eventuale referendum sulle
riforme costituzionali. «Sì, potrebbe essere un banco di prova – conclude –. Fermo
restando che, per quanto mi riguarda, non sono contraria alle riforme ma a questo tipo di
riforme».
Informazione e uguaglianza - Presente, in rappresentanza di Articolo 21, anche Elio
Matarazzo. E’ però Vincenzo Vita, contattato dal fattoquotidiano.it a chiarire i termini della
partecipazione della sua associazione all’incontro con Landini. «Ci battiamo, come noto,
per la difesa del diritto all’informazione – spiega –. E in questo contesto guardiamo al
progetto di Landini con attenzione per capire se, nell’ambito della difesa dei diritti, che è
l’obiettivo prefissato dal segretario della Fiom, può esserci spazio anche per quello
all’informazione». Il fondatore di Emergency, Gino Strada, non poteva far mancare il suo
sostegno all’iniziativa di Landini pur non potendo partecipare in prima persona all’incontro.
Il medico, attualmente impegnato in Sierra Leone, ha manifestato la sua vicinanza con un
collegamento audio in cui ha salutato i presenti. Peraltro, già a fine febbraio, aveva
pubblicamente sposato il progetto di Landini: «Io ci sono per sostenere un polo di
aggregazione impegnato sui diritti, la pace, l’uguaglianza». Strada farà comunque un
punto sulla situazione al rientro in Italia: prima di esprimere un giudizio completo vuole
avere un quadro chiaro del contesto in cui opera la coalizione sociale.
di Antonio Pitoni e Stefano Iannaccone
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Da La7 – Piazza Pulita del 16/03/15
Citazione dell’Arci.
L’Arci e la tessera dell’associazione citati nel video satirico de ‘Il Terzo Segreto di Satira’
https://www.youtube.com/watch?v=4tneRjZSoGE
del 18/03/15, pag. 3
Liguria, Pastorino lascia il Pd, sarà l’anti-Paita
Daniela Preziosi
Regionali. Democrack a Genova, è un civatiano il candidato della
sinistra, dem nel caos. Dopo le primarie inquinate, associazioni, civici e
partiti tutti d’accordo (o quasi). Lui: «Serve una strada unitaria». E
stavolta Civati deve scegliere
Colpo di scena nelle regionali ligure, e per una volta, non è una cattiva notizia per la
sinistra in cerca di un candidato. Proprio quando la situazione sembrava disperatamente
incartata, e la burlandian-renziana — eletta con primarie inquinate che avevano provocato
l’addio polemico al Pd di Sergio Cofferati — cominciava a dormire sonni tranquilli, ieri Luca
Pastorino, deputato Pd di area civatiana, ha annunciato di essere «pronto a lasciare il Pd»
per «mettersi a disposizione per un’alternativa alla proposta di governo regionale di
Raffaella Paita».
Pastorino, genovese, classe ’71, ex sindaco di Bogliasco (Genova), è l’unico civatiano a
Montecitorio oltre a Civati. Ormai da mesi vota contro i provvedimenti del governo Renzi.
Da mesi l’addio è nell’aria. La sua scelta arriva il giorno dopo dell’endorsement-appello
che gli ha rivolto Sergio Cofferati sul genovese Primocanale (ripreso dal manifesto). Dopo
decine di riunioni a vuoto, negli ultimi giorni la situazione della sinistra ligure stava
toccando vette disperanti. Il parecchio attivo don Paolo Farinella aveva riunito le
associazioni nella parrocchia di San Torpete e poi con un gruppetto di cittadini e
associazioni — fra cui l’Altra Liguria ma anche esponenti di Prc, Pcdi e Sel — aveva
lanciato la candidatura dell’ex sindaco di La Spezia Giorgio Pagano. Una scelta che però
non aveva convinto molti, (anche in Sel e Prc). Che poi era stata seppellita dagli
sghignazzi a causa della pubblicazione di una lettera del ’don’, inviata per errore a
destinatari sbagliati, zeppa di giudizi ben poco pii sugli ’alleati’: ce n’è per tutti, dai civatiani
«che si venderanno alla Paita» ai «pericolosi cretini» della Rete a sinistra. Prima che il
vaudeville esploda, lunedì arriva la mossa — decisiva — di Cofferati, che scarta Pagano e
indica Pastorino. Ieri la disponibilità del deputato, una lunga riunione della Rete a sinistra
— in cui sono presenti Comunità di San Benedetto al Porto, Lista Doria, civatiani, Arci,
Prc, pezzi di Cgil e Sel — della quale ora si aspetta il via libera ufficiale ad ore. In serata
l’assemblea regionale di Sel si orienta sul nuovo nome. «L’uscita di Pastorino dal Pd
produce un fatto nazionale, ed era quello che chiedevamo per la Liguria», certifica il
deputato Stefano Quaranta, comapgno di battaglie parlamentari di Pastorino. «Questa
scelta produce una novità a sinistra in tutto il paese, dà una rotta, una bussola a una
navigazione fin qui al buio», spiega Domenico ’Megu’ Chionetti della Comunità fondata da
don Gallo. «Ci abbiamo creduto con pazienza. Le riunioni della Rete si sono tenute sin dal
principio da noi. Da qui rinasce una speranza per i liguri e per tutti. Certo, è sui contenuti
che voteremo Luca. Ma Luca dà garanzie su tre temi-spartiacque: la riforma
costituzionale, a cui ha votato no, il lavoro, e anche qui ha votato no al jobs act, e la
sanità».
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Intanto Pastorino, saggiamente, cerca di sminarsi il campo dagli ormai proverbiali conflitti
a sinistra: «Dobbiamo essere tutti uniti per creare un modello Genova. C’è tempo, ma non
troppo. Nelle prossime ore parlerò con Giorgio Pagano per trovare una soluzione»,
annuncia. Il Prc è pronto a lavorare per un candidato unitario: «La divisione sarebbe folle e
immotivata», spiega il segretario nazionale Paolo Ferrero, «ora serve un processo largo.
Tutti diano un contributo in quella direzione». Ma al puzzle ancora manca qualche tessera.
Quello dell’Altra Liguria, per esempio. Fin qui convintamente schierata con Pagano e
comunque «molto scettica» sul civatiano sia per la provenienza piddina, come spiega
Simonetta Astigiano, che per l’imprimatur ’cofferatiano’. Ma anche in questa famiglia c’è
baruffa: l’Altra Europa per Tsipras, cioè la casa-madre, è più che favorevole a Pastorino.
Le riunioni di oggi dovrebbero chiarire la situazione.
Ma quella più a rischio resta la famiglia dem: un altro che sbatte la porta, altri seguiranno.
Sarà Civati? Lui per ora se la cava con le battute: «Luca Pastorino è il mio migliore amico
alla camera dei deputati». La scelta del «suo migliore amico» provocherà conseguenze a
catena fra i dem. Forse anche espulsioni. Forse anche per Civati sarà «la volta buona»
per decidere definitivamente della sua appartenza al Pd. Si schiererà al fianco di
Pastorino? «Io non sono ligure», risponde. È solo un’altra battuta, e poi un’altra più amara:
«La diaspora prosegue, ma al Pd non sembra interessare».
del 15/03/15, pag. 53 (Umbria)
Asilo politico, aspettano in 250
L’Arci e la Caritas: «Amine Aassoul non lo conoscevamo»
Provengono soprattutto dall’Africa, quasi mai dal Marocco
Sono 250 i richiedenti asilo politico presenti in tutta la provincia di Terni. Dislocati
principalmente tra Terni, Ferentillo, Orvieto, Narni e Amelia sono seguiti da Arci e Caritas,
che lavorano in sinergia da quando, in seguito alla Primavera Araba, è esplosa
l’emergenza Nord Africa, trasformatasi poi in emergenza Sbarchi. Tra i 250 richiedenti, ci
sono anche profughi e rifugiati che fanno parte del progetto Sprar (Sistema di protezione
per richiedenti asilo e rifugiati), gestito sempre da Arci e Caritas. Amine Aassoul ilmarocchino di 29 anni che giovedì notte ha ucciso in piazza dell’Olmo a Terni David
Raggi con un colpo alla gola sferrato con un pezzo di vetro - non faceva parte né del
progetto emergenza Nord Africa né del programma Sprar, sebbene fosse un richiedente
asilo politico; in attesa, però, del verdetto dell’Appello dopo il no pronunciato alcuni mesi fa
dal tribunale di Caltanissetta alla richiesta inoltrata nel maggio del 2014.
IL DIRITTO INTERNAZIONALE
«Non era seguito da nessuno dei nostri progetti - fa sapere Francesco Venturini della
Caritas - la sua richiesta di asilo politico era legata al ricongiungimento familiare con la
madre che vive a Terni». Anche Francesco Camuffo dell’Arci ribadisce il concetto: «Noi
non lo conoscevamo. Questa vicenda - aggiunge Camuffo - è la prova provata che quando
questi soggetti non vengo seguiti da alcun progetto succedono i casini». Amine, per
giunta, era già stato espulso dall’Italia nel 2007, dopo che nelle Marche aveva collezionato
una serie di reati, principalmente spaccio di droga e furti. Nel 2014, però, è rientrato in
Italia, passando per Lampedusa, per raggiungere appunto la madre che dalle Marche si è
trasferita a Terni, nel quartiere di Campomaggiore, ed è sposata con un connazionale, che
non è il padre naturale di Amine. «Il diritto internazionale - spiega Camuffo - dà la
possibilità a chiunque di fare richiesta di asilo politico, anche se, come in questo caso, il
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soggetto proviene dal Marocco, che non è una zona considerata a rischio. A Terni aggiunge Camuffo - non è mai capitato un marocchino richiedente asilo».
CIFRE E PROGETTI
Eritrei, somali, sudanesi, curdi e nigeriani. Queste le principali nazioni d’origine dei
richiedenti asilo che si trovano in provincia di Terni. «La maggior parte di loro, tra i 150 e i
160 - spiega Venturini - fa parte dell’emergenza Sbarchi, il resto è seguito tramite lo Sprar.
Entrambi i progetti hanno un costo di 35 euro al giorno a persona, finanziati dal Viminale
tramite due canali: Prefettura e Comune. Le richieste di asilo politico - prosegue Venturini inizieranno ad essere esaminate dalla prossima settimana da parte di una speciale
sottocommissione istituita di recente a Firenze per valutare le domande di Terni, Perugia e
Arezzo ». Insomma, le domande (alcune delle quali risalgono a dicembre del 2013)
inizieranno ed essere licenziate, ma i tempi non saranno brevi. «All’incirca - prevede
Venturini - ci vorranno sei mesi per smaltire le richieste che in tutta l’Umbria ammontano a
mille». Ma una volta ottenuto l’asilo politico cosa accade. «La stragrande maggioranza dei
rifugiati - fa sapere ancora Venturini - se ne va dall’Italia per raggiungere la Francia o le
nazione del Nord Europa in cerca di lavoro».
Sergio Capotosti
Da Corriere dell’Umbria del 18/03/15
«Coi rifugiati non c’entra, era un balordo che
non doveva essere lì. Qualcosa non torna»
Camuffo e Venturini: Aziz mai stato da noi
Accoglienza necessaria I responsabili di Arci e San Martino: quanto
accaduto dimostra che i nostri servizi e centri sono un sistema che può
evitare certi fatti
di ANDREA GIULI
TERNI - Non era e non è mai stato un rifugiato o profugo politico. Caso mai un delinquente
che non si spiega come potesse essere a piede libero e ancora in Italia. Parlano i due
responsabili dei progetti ministeriali e dei Centri di accoglienza sul territorio, destinati agli
stranieri e immigrati richiedenti asilo, Francesco Camuffo dell’Arci e Francesco Venturini
dell’associazione San Martino-Caritas. Prevedono che, dopo il fattaccio di piazza
dell’Olmo, saranno probabilmente anch’essi chiamati in causa nel putiferio della polemica
politica che si scatenerà. E, sollecitati, dicono la loro. «Anzitutto - dice Camuffo - questo
marocchino non è un rifugiato e dunque non ha mai fatto parte dei nostri programmi di
accoglienza. Non lo abbiamo mai visto. Tanto che la sua domanda di riconoscimento in tal
senso gli è stata negata. Semmai è un delinquente che, presumibilmente con una serie di
mezzucci o chiedendo il ricongiungimento con uno dei genitori che sarebbe in città, è
riuscito a reintrodursi nel nostro Paese. Ma quella sera maledetta non sarebbe dovuto
essere lì. In giro. Anzi, eventualmente quanto accaduto è la riprova che progetti e servizi
come quelli che noi gestiamo a Terni e nella provincia, in base a programmi europei e
governativi, sono tra i pochi in grado di fare filtro e controllo. E dovrebbero essere estesi. A
noi questi rifugiati e profughi arrivano condotti in pullman, dopo essere stati controllati ad
uno ad uno dagli organismi e autorità preposte: foto segnalati, screening sanitario,
impronte digitali, riconoscimento ».
«Non solo. Tanto per essere chiari - continua Camuffo - , il nostro sistema non è
lontanamente paragonabile ad altre degenerazioni, tipo quelle recenti accadute a Roma.
Le nostre spese sono documentate al centesimo, tutto è seguito passo passo e la
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collaborazione con le forze dell’o rdine è costante. Direi, invece, che quanto successo è
responsabilità di burocrazie farraginose e di leggi che non si applicano a dovere. Si
evadono le richieste con tempi biblici e, per fortuna, proprio la settimana scorsa si è
insediata una sotto-commissione toscoumbra che riguarda anche Terni che esaminerà le
richieste e deciderà in merito, speriamo senza i tempi della commissione di Roma. Strano
che Aziz possa essere sfuggito ai controlli capillari dopo gli sbarchi. Certo, questo è un
caso singolare. Servono leggi e controlli. Ma alimentare la caccia è la cosa più sbagliata.
Attenzione. Inoltre, dei 170.000 sbarcati l’anno scorso solo 60 mila hanno fatto richiesta di
rifugiati. E in molti sono solo passati dall’I t alia ».
A Camuffo fa eco il responsabile della San Martino, Venturini: «Questo marocchino non è
mai stato sotto le nostre cure, nè mai avrebbe potuto esserci perchè non aveva lo status di
rifugiato. Questo è bene ricordarlo. Potrebbe qualche volta, negli anni, essere venuto alla
mensa della Caritas per un piatto di minestra? Non lo escludo, ma noi non chiudiamo le
porte ad alcuno, nè facciamo i poliziotti. Certo, questo caso, oltre che drammatico, appare
piuttosto strano, almeno dalle notizie che si leggono. Concordo sul fatto che un soggetto
con quei precedenti non doveva essere in giro come se niente fosse. Ma evidentemente,
nella trafila burocratica qualcosa non ha funzionato».
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ESTERI
Da Repubblica.it del 18/03/15
Elezioni Israele, Netanyahu ha vinto. Olp:
"Israele ha scelto la via dell'occupazione"
Si afferma la netta vittoria del Likud che conquista 29 seggi sui 120 della
Knesset. Nel 2012 ne aveva solo 18. Il fronte sionista sarebbe fermo a 24
seggi. I partiti arabi coalizzati, invece, riescono a collocarsi al terzo
posto con 14 seggi. Il premier: "Governo in 2-3 settimane". Hamas:
"Terroristi Netanyahu e chi lo ha votato"
GERUSALEMME - La rimonta c'è stata. Smentiti, o almeno corretti, gli exit poll che
parlavano di un testa a testa tra Netanyahu ed Herzog. Alle prime luci dell'alba la vittoria
del premier israeliano uscente è certa. E netta.Netanyahu può formare una maggioranza
di destra forte di oltre 60 seggi (su 120). Terzi, con 14 seggi, i partiti arabi, uniti per la
prima volta in un'unica lista.
Gli altri partiti. A seguire i centristi di Yar Lapid con 11 deputati (in forte calo contro i 19 di
due anni fa) membri del governo uscente. Al quarto posto si registra l'exploit di Kuluna, il
movimento sempre centrista, fondato solo lo scorso novembre da Moshe Khalon, con 10
seggi, che diventano l'ago della bilancia. Khalon, prima di conoscere i risultati, aveva
annunciato di essere pronto a governare sia con Netanyahu che con Herzog e che si
sarebbe regolato in base ai risultati. Dietro i centristi, con 8 deputati per la destra
nazionalista dei coloni di 'Focolare Ebraico' di Naftali Bennet (ne aveva 12), alleato di
Netanyahu. Con 7 deputati a testa i due partiti religiosi: la destra ultraortodossa dello Shas
(ne aveva 11) e lo United Torah Judaism, che conferma quelli che aveva. Batosta invece
per la destra di Yisrael Beitenu, del 'falco' per eccellenza, il ministro degli Esteri, Avigdor
Lieberman, che ha ottenuto solo 6 seggi contro i 13 della precedente Knesset. La sinistra
del Meretz arretra a 4 seggi (2 in meno). La leader del partito, Zahava Gal-On, si è
dimessa. Gal-On, alla guida del partito dal febbraio del 2012, aveva portato Meretz a
guadagnare sei seggi in parlamento in occasione delle elezioni del 2013, raddoppiando il
risultato precedente. Nel frattempo il numero due della forza politica, Ilan Gilon, ha
affermato di non accettare le dimissioni di Gal-On e di non essere pronto ad assumere la
guida di Meretz.
Le reazioni. L'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) ha commentato con
durezza e preoccupazione la vittoria di Netanyahu: Israele "ha scelto la via
dell'occupazione e della colonizzazione e non del negoziato e del collaborazione", ha
dichiarato Yasser Abed Rabbo, segretario generale dell'Olp. Chiaro il riferimento alle
ultime dichiarazioni in campagna elettorale di Netanyahu, che ha escluso la nascita di uno
Stato palestinese in caso di sua vittoria e che per il suo ultimo comizio ha scelto un luogo
simbolico come Har Homa, uno degli insediamenti più contestati non solo dai palestinesi,
ma da gran parte della Comunità internazionale. Durissimo il commento di Hamas:
"Terroristi Netanyahu e chi lo ha votato", ha detto Izzat al-Rishq, esponente di Hamas. "La
vittoria di Benjamin Netanyahu indica che la società sionista tende sempre più verso
l'estremismo", ha detto Rishq, prevedendo un "prossimo collasso del cosiddetto 'processo
di pace' alla luce della vittoria di Netanyahu". Questo "confermerà che la resistenza in tutte
le sue forme, prima fra tutte quella armata, è il metodo giusto", aggiunge Rishq,
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sottolineando che Hamas "va avanti con il suo progetto di resistenza, a prescindere dal
terrorista che guiderà il governo d'occupazione". Secondo l'esponente del movimento,
dalle elezioni israeliane "non scaturiscono altro che attacchi e crimini. I leader dello Stato
ebraico - sottolinea - costruiscono sempre il loro futuro politico sui crimini contro il nostro
popolo, la nostra terra e i nostri simboli sacri".
Con questi numeri la soluzione di un governo di unità nazionale, per cui si era espresso il
presidente Reuven Rivlin, sembra ormai tramontata. Subito dopo la fine delle operazioni di
voto, ieri sera Netanyahu ha rivendicato la vittoria e ha annunciato di aver "chiesto a tutti i
leader dei partiti di destra di formare senza indugio un governo forte e stabile capace di
occuparsi sicurezza e benessere per tutti i tutti cittadini di Israele". Il riferimento è agli
alleati di Focolare Ebraico, il partito dei coloni di Naftali Bennet, i centristi di Kulanu, di
Moshe Khalon (ex Likud ed ex ministro di Netanyahu), Yisrael Beiteinu del falco ministro
degli Esteri Avigdor Lieberman, la destra religiosa sefardita dello Shas di Aryeh Deri, e
quella dello United Torah Judaism. Sulla carta Netanyahu può contare quindi su 67
deputati sui 120 della nuova Knesset.
L'Unione europea si è "congratulata" con il primo ministro israeliano uscente, auspicando
una "leadership audace" per rilanciare il processo di pace in Medio Oriente. "L'Ue si
impegna a lavorare con il nuovo governo israeliano per relazioni bilaterali proficue e per un
rilancio del processo di pace", ha scritto in un comunicato l'alto rappresentante Ue per la
politica estera e di sicurezza, Federica Mogherini. "Congratualazioni a Netanyahu per i
risultati delle elezioni. Come uno dei più fermi amici di Israele, il Regno Unito non vede
l'ora di lavorare con il nuovo governo", ha scritto su Twitter il primo ministro britannico
David Cameron. Riguardo all'approccio del governo di Londra al processo di pace nella
regione, ha fatto sapere il portavoce di Cameron, "non è cambiato e il primo ministro lo
aveva delineato nella sua visita in Israele circa 12 mesi fa. (Cameron, ndr) vuole vedere la
pace, vuole vedere una soluzione a due Stati e continueremo, in quanto tra i più fermi
amici di Israele, a fare ciò che possiamo per sostenere quell'obiettivo".
Subito nuovo governo. Il premier ha promesso che formerà il suo nuovo governo "di
centro-destra", e non di unità nazionale come avrebbe voluto il presidente Reuven Rivlin,
"entro due/tre settimane". Anche se la decisione di affidare l'incarico spetta al presidente,
è molto probabile che questi decida di dare il mandato a Netanyahu, leader della
coalizione che ha preso più voti.
L'Anp, per bocca del capo negoziatore Saeeb Efrekat, si prepara a rispondere seguendo
la linea tracciata da quando lo scorso aprile sono naufragati i negoziati di pace: ottenere il
riconoscimento unilaterale dello Stato palestinese all'Onu e dal maggior numero possibile
di Paesi. "È chiaro - ha detto Erekat - che il primo ministro Benjamin Netanyahu formerà il
prossimo governo e per questo, diciamo chiaramente che andremo avanti con la denuncia
(di Israele) al tribunale dell'Aja (per i crimini di guerra) e che accelereremo e
intensificheremo" gli sforzi diplomatici per ottenere il riconoscimento dello Stato
palestinese. L'Autorità nazionale palestinese non è preoccupata da chi sarà il prossimo
premier israeliano, ma vuole che, chiunque sia, riconosca la soluzione a due Stati con
Gerusalemme est capitale di uno Stato indipendente palestinese, ha detto Nabil Abu
Rudeina, portavoce del presidente Abu Mazen. "Se il governo di Israele - ha aggiunto non mostra di essere impegnato della soluzione a due Stati, allora non c'è speranza di una
ripresa del processo di pace".
Tensione con Usa. Netanyahu è il primo ministro israeliano più longevo (in carica dal 1996
al 1999 e dal 2009 ad oggi): la sua vittoria infligge un duro colpo a Barack Obama, con cui
i rapporti sono sempre stati pessimi. Israele rischia di ritrovarsi più isolata. Non solo
l'attuale amministrazione Usa, ma anche l'Ue insistono da sempre sulla soluzione "due
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popoli, due stati", osteggiata da Netanyahu che da ultimo ha promesso che uno Stato
palestinese non vedrà mai la luce con lui al governo.
Parola d'ordine: sicurezza. Netanyahu ha vinto puntando tutto sulla destra e senza
corteggiare il centro: oltre a bocciare ogni ipotesi di Stato palestinese ha martellato gli
elettori con la minaccia alla sicurezza dello Stato ebraico rappresentata dal programma
nucleare iraniano e dall'avanzata dello jihadismo di Isis e delle altre sigle del terrorismo
islamico. Scelte rivelatesi vincenti.
Pronostici smentiti. In ogni caso, Netanyahu ha comunque ribaltato le previsioni della
vigilia che lo davano sfavorito rispetto al rivale di centrosinistra e su Facebook ha parlato
apertamente di "grande vittoria": "Contro ogni previsione, grande vittoria del Likud, dello
schieramento nazionale guidato dal Likud, grande vittoria del popolo di Israele". Dopo
poco era arrivata la replica di Herzog, poi smentita dai risultati elettorali effettivi: "Il Likud
sbaglia, il blocco di destra è crollato. Tutto resta aperto sino ai risultati definitivi, solo allora
saremo in grado di sapere quali partiti abbiano passato la soglia e quale governo potrà
essere formato". E ancora: "Il nostro team negoziatore per la formazione del futuro
governo, con Herzog a capo, è già stato formato".
Alla luce di quello che si profilava come un pareggio elettorale, il presidente israeliano
Reuven Rivlin, come detto, aveva invocato ieri sera un governo di unità nazionale. "Sono
convinto che solo un governo di unità nazionale possa impedire la disintegrazione della
democrazia israeliana e nuove elezioni molto presto", aveva affermato Rivlin citato da
Haaretz. Secondo Haaretz, Netanyahu sembrava disponibile ad un governo di coalizione
nazionale.
Tutta la giornata elettorale ieri è stata accompagnata da scambi di accuse e veleni tra i
due leader due maggiori partiti. Secondo Yuli Edelstein, speaker della Knesset (il
Parlamento israeliano) e deputato del Likud, i risultati delle odierne elezioni in Israele non
si sapranno prima di venerdì. Edelstein ha spiegato che sono risultati "molto vicini" e che
non sarà chiaro, finché giovedì non verrà pubblicato il conteggio ufficiale finale, quali partiti
hanno passato la soglia del 3,25%.
del 18/03/15, pag. 1/25
Kahlon, l’ex alleato deluso che deciderà il
destino d’Israele
BERNARDO VALLI
GERUSALEMME
DALLE urne israeliane è uscito un enigma. Va detto subito che dalle prime proiezioni
risulta la tenuta di Benjamin Netanyahu. Il primo ministro non ha consolidato la sua
situazione come sperava sciogliendo in anticipo il Parlamento, ma non ha neppure subito
la sconfitta che speravano di infliggergli gli avversari, euforici nella corsa finale per
l’eccezionale crescita dei consensi al centro sinistra rinnovato. C’è stata sia la
sorprendente tenuta di Netanyahu, sia la promessa crescita della coppia sfidante HerzogLivni. Dalle urne è uscito un pareggio, dicono le prime proiezioni, nell’attesa dei risultati
finali: 27 seggi ciascuno nella Knesset che ne conta 120.
Per il presidente della Repubblica, Reuven Rivlin, è un rompicapo. Nelle prossime ore
dovrà assegnare a uno dei leader l’incarico di formare il nuovo governo. Chi designare?
Netanyahu o Herzog? Con saggia prudenza Rivlin ha accennato a un governo di unione
nazionale, soluzione già adottata nel passato. Comunque egli non è tenuto a indicare il
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capo del partito che ha ottenuto più seggi, ma piuttosto quello che ha più probabilità di
creare una coalizione con una maggioranza in Parlamento. Sia Netanyahu sia Herzog
sono ben lontani dall’averla.
La legge dà tempo quattro settimane, più due se non bastassero, per cercare gli alleati. La
caccia a questi ultimi, nei limiti designati dalla legge, è un vero enigma. Lo è quasi sempre
nella vita politica israeliana. Questo volta lo è in particolare. La situazione dà a Moshe
Kahlon, capo del nuovo partito Kulanu, un ruolo particolare. L’ex ministro delle
Comunicazioni e poi della Sicurezza sociale è stato nel governo di Netanyahu fino al
giorno in cui, stanco della sua prepotenza, lo ha abbandonato e ha formato un suo partito.
Popolare per avere ridotto i prezzi dei telefoni cellulari e per avere lanciato una politica
tesa ad abbassare gli affitti, troppo pesanti per le classi medie, Kahlon, ebreo proveniente
dalla Libia, è un uomo di destra, a lungo membro del Likud. Ma non sopporta Netanyahu.
Il quale gli ha tra l’altro giocato un brutto scherzo negli ultimi giorni della campagna
elettorale. Usando una vecchia registrazione della voce di Kahlon, che diceva “votate
Netanyahu“, gli uomini del Likud hanno fatto migliaia di telefonate agli elettori. Nonostante
questo trucco l’ex ministro delle Comunicazioni ha ottenuto tra i 9 e i 10 seggi alla
Knesset. Seggi che hanno fatto di lui l’arbitro della situazione. La sua alleanza deciderà
infatti la sorte di Netanyahu o di Herzog. La fedeltà di destra gli farà dimenticare l’ostilità
nei confronti di Netanyahu o lo condurrà a schierarsi con Herzog? La sua scelta
contribuirà alla nomina del futuro primo ministro. Altrettanto decisivi saranno gli umori di
altri partiti. Il laico centrista Yair Lapid con i suoi 12 seggi dovrebbe allearsi con l’Unione
sionista, l’alleanza di centrosinistra formata dal laburista Isaac Herzog e dalla liberale Tzipi
Livni. Ma la sua presenza nel governo provocherebbe il rifiuto degli altrettanti
indispensabili ebrei ortodossi, che non perdonano a Lapid, un ex giornalista, di essersi
opposto alle sovvenzioni e ad altri privilegi concessi ai religiosi. Per dissipare il dissidio
Herzog dovrà usare il fatto di essere nipote di un celebre grande rabbino.
Per risalire la china, per recuperare i consensi perduti Benjamin Netanyahu ha appesantito
la sua intransigenza: ha chiarito che non accetterà mai uno Stato palestinese, nonostante
nel passato si sia dichiarato in favore, sia pure senza slancio; ha garantito che non
smantellerà un solo insediamento israeliano nei Territori palestinesi, nonostante siano
considerati illegali dall’Onu, dagli americani e dagli occidentali in generale; ha ribadito che
non accetterà mai di condividere con i palestinesi Gerusalemme come capitale. Questo ha
senz’altro rassicurato non pochi elettori di destra. Il partito estremista Habait HaYehudi di
Naftali Bennett ha perduto infatti dei voti.
Pur essendo ferite dal forte aumento dei prezzi e degli affitti, in un’economia che pur
conosce una crescita invidiabile (più del 3 per cento) e una disoccupazione attorno al 5, le
classi medie non hanno seguito come si pensava gli appelli dei partiti di centrosinistra
sensibili ai problemi sociali. La sicurezza ha prevalso. E malgrado la forte avanzata
dell’Unione sionista di Herzog e di Livni, Benjamin Netanyahu ha continuato ad apparire il
vero garante. Anche se la sua rinnovata presenza alla testa del governo renderà difficili i
rapporti con gli Stati Uniti, che della sicurezza di Israele sono in sostanza i garanti.
Un franco successo del centrosinistra avrebbe cambiato la dinamica della politica
israeliana. Avrebbe riconciliato lo Stato ebraico con le democrazie occidentali che
vorrebbero un miglioramento nei suoi rapporti con i palestinesi. Dopo il voto, le
contrattazioni per la formazione del nuovo governo lasciano aperte le strade. Ma non
come molti speravano.
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del 18/03/15, pag. 1/4
Una volta il Paese era una società egualitaria Oggi sperimenta una
drammatica disparità di reddito. Per questo il premier
ha cercato di spostare l’attenzione dai problemi interni alle minacce
esterne
La mossa di Bibi cancellare la crisi per
illudere il popolo dei kibbutz
PAUL KRUGMAN
PERCHÉ il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha sentito il bisogno di sollevare
un polverone a Washington? Perché questo è stato quello che ha fatto con il suo discorso
al Congresso contro l’Iran. Se stai cercando di influenzare la politica estera americana,
non insulti il presidente, allineandoti con la sua opposizione politica. No, il vero scopo di
quel discorso era distrarre l’elettorato israeliano con una retorica bellicosa per spostare
l’attenzione dall’insoddisfazione per l’andamento dell’economia.
Un momento, però: perché gli israeliani sono scontenti? Dopo tutto, l’economia israeliana
ha avuto dei buoni risultati, entro i limiti abituali. Ha sopportato la crisi finanziaria con il
minimo danno. Nel lungo periodo, è cresciuta più rapidamente della maggior parte delle
altre economie avanzate e ha sviluppato una politica energetica ad alta tecnologia. Di che
cosa ci si lamenta?
La risposta, che non credo qui sia molto apprezzata, è che l’economia israeliana è
cresciuta, ma questa crescita è stata accompagnata da un’inquietante trasformazione
nella distribuzione del reddito nel Paese e nella società. Una volta Israele era un paese
dagli ideali egualitari: il popolo dei kibbutz è sempre stato una piccola minoranza, ma
aveva un grande impatto sulla percezione di sé della nazione. Ed in realtà era anche una
società abbastanza egualitaria fino ai primi anni Novanta.
Da allora, tuttavia, Israele ha sperimentato un drammatico aumento delle disparità di
reddito. I termini fondamentali della disuguaglianza sono saliti alle stelle; Israele è ora,
come l’America, una delle società meno egualitarie del mondo avanzato. E l’esperienza di
Israele dimostra che questo ha un peso, che l’estrema disuguaglianza ha un effetto
corrosivo sulla vita sociale e politica.
Si consideri quanto è successo alle due estremità dello spettro economico: da una parte,
la crescita della povertà, dall’altra, una ricchezza estrema.
Secondo i dati del Luxembourg Income Study, la quota di popolazione israeliana che vive
con meno della metà del reddito medio del paese (una definizione ampiamente accettata
di povertà relativa) è più che raddoppiata, salendo dal 10,2 per cento al 20,5 per cento tra
il 1992 e il 2010. La quota dei bambini in condizioni di povertà si è quasi quadruplicata,
passando dal 7,8 per cento al 27,4 per cento. Entrambi questi dati sono i peggiori nel
mondo avanzato, e con ampio margine.
E quando si tratta di bambini, in particolare, la povertà relativa è il parametro da
considerare. Le famiglie che vivono con redditi molto più bassi rispetto a quelli dei loro
concittadini, saranno emarginate in maniera importante dalla società che le circonda,
incapaci di partecipare pienamente alla vita della nazione. I bambini che crescono in
queste famiglie subiscono di sicuro una condizione di svantaggio permanente.
All’altro estremo, anche se i dati disponibili non mostrano una quota particolarmente
grande del reddito nelle mani dell’1 per cento all’apice — cosa sconcertante — vi è
un’estrema concentrazione di ricchezza e di potere in un minuscolo gruppo di persone al
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vertice. E sottolineo minuscolo. Secondo la Bank of Israel, sono una ventina le famiglie
che controllano le aziende che rappresentano la metà del valore totale del mercato
azionario di Israele. La natura di tale controllo è contorta e oscura, opera attraverso
“piramidi” in cui una famiglia controlla una società che a sua volta controlla altre imprese e
così via. Anche se la Bank of Israel si esprime con grande cautela, è chiaro che è
preoccupata dal potenziale di selfdealing che si crea con una tale concentrazione del
controllo. Tuttavia, perché la disuguaglianza israeliana è una questione politica? Perché
non doveva giungere a questi estremi.
Si potrebbe pensare che la disuguaglianza in Israele sia il risultato naturale di
un’economia ad alta tecnologia che genera una forte domanda di manodopera qualificata
— o, forse, riflette l’importanza delle popolazioni minoritarie con redditi bassi, cioè arabi ed
ebrei ultraortodossi. Si scopre, però, che questi alti tassi di povertà riflettono in gran parte
scelte politiche: Israele fa di meno per sollevare le persone dalla povertà rispetto a
qualsiasi altro paese avanzato — sì, anche meno degli Stati Uniti.
Nel frattempo, gli oligarchi di Israele devono la loro posizione non all’innovazione e allo
spirito imprenditoriale, ma al successo delle loro famiglie nell’acquisire il controllo delle
imprese che il governo privatizzò negli anni Ottanta — e probabilmente sono in parte
riusciti a mantenere questa posizione esercitando un’indebita influenza sulla politica del
governo, assieme al controllo sulle banche più importanti.
In breve, l’economia politica della Terra promessa è oggi caratterizzata da un grande
disagio in basso e da una forse non piccola corruzione in alto. E molti israeliani vedono in
Netanyahu una parte del problema. Sostiene una politica di libero mercato; ha una
tendenza a vivere alla grande a spese dei contribuenti, anche se tenta maldestramente di
sostenere il contrario. Dunque, Netanyahu ha cercato di cambiare argomento, spostandolo
dalla disuguaglianza interna alle minacce esterne, una tattica molto familiare a chiunque
ricordi gli anni dei Bush.
del 18/03/15, pag. 6
La Lista unita sarebbe il terzo partito del Paese. In fila con gli elettori del
sobborgo di Abu Gosh: “È la prova che siamo in grado di alzarci e dire
la nostra. Fallite le strategie per spaccarci”
La prima volta degli arabi in massa alle urne
“Basta con le divisioni ora la nostra voce
pesa”
FABIO SCUTO
DAL NOSTRO INVIATO
ABU GOSH
LAFILA ai quattro seggi di questo villaggio arabo-israeliano di seimila anime alle porte
della Città Santa era già lunga alle dieci del mattino, perché l’elettorato arabo ha risposto
in forze all’appello al voto e le percentuali dell’affluenza nel corso della giornata
cresceranno fino al punto in cui non erano mai arrivate. Per la prima volta nella storia i
quattro partiti arabi — sempre litigiosi e diffidenti l’uno dell’altro — si sono presentati uniti.
Una grande affluenza araba potrebbe non solo aumentare il numero dei seggi alla Knesset
dei parlamentari non ebrei, ma anche impedire ad altri piccoli partiti di varcare lo soglia di
sbarramento innalzata proprio a ridosso di queste elezioni.
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Nabila, una giovane mamma di trent’anni, ha appena deposto la sua scheda azzurra nel
seggio. Aspetta il marito Mansour sulla scala di questa scuola elementare. Lui è netto nel
suo giudizio e nell’importanza di questo voto, «decisivo come mai prima». «Ho votato per i
nostri candidati della Lista Unita», spiega, «come tutti nella mia famiglia, abbiamo
l’occasione per la prima volta di presentarci uniti e far pesare il nostro voto».
Saed Kayyal, il capo della campagna della Lista Unita, spera addirittura che 15 dei 120
seggi del Parlamento possano andare a loro. Erano 11 nell’ultima Knesset ma gli arabi
erano andati al voto divisi in quattro fazioni. «Questo è quello che dobbiamo superare tra
la nostra gente», dice Keyal, «far sapere che la nostra vittoria andrà solo a nostro
beneficio: questa volta saremo in grado di alzarci e dire la nostra e dimostrare che tutte le
strategie per tenerci divisi sono fallite». Saleh Rafah, membro dell’Esecutivo dell’Olp,
vuole invece mettere l’accento sull’importanza di bloccare un quarto mandato per
Benjamin Netanyahu. «Non dobbiamo puntare su qualsiasi altra cosa, perché anche
Herzog ha promesso di mantenere Gerusalemme unita come capitale di Israele e ha fatto
dichiarazioni sugli insediamenti nei Territori occupati che troviamo molto negative ».
Eppure, è costretto ad ammettere che Herzog, se formerà il governo «forse prenderà un
altro approccio, diverso da Netanyahu, sul ritiro (dalla Cisgiordania, ndr) e sullo Stato
palestinese ».
La “minaccia” è sentita dal premier uscente Benjamin Netanyahu che ieri mattina ha
postato su Facebook un messaggio in cui lanciava l’allerta contro «gli elettori arabi che
stanno andando a votare in massa, portati ai seggi in autobus dalla sinistra». Il governo
della destra è «in pericolo », ha scritto il leader conservatore, esortando gli elettori a
prendere famiglia e amici e andare a votare per il Likud. L’attacco razzista di Netanyahu
ha provocato l’immediata reazione sia del blocco di centro-sinistra Unione Sionista che dei
partiti arabi. Il parlamentare della Lista Unita, Dov Khenin, si è rivolto alla Commissione
centrale elettorale affinché il messaggio fosse rimosso il prima possibile. «Un premier che
fa campagna contro il voto di cittadini di una minoranza etnica ha superato la linea rossa
dell’incitamento e del razzismo», commenta Khenin amaramente.
Anche se nella notte la Lista araba unita nelle proiezioni diventerà il terzo partito, una cosa
sembra certa: qualunque sia la formazione del governo, non ci saranno ministri arabi,
almeno cosi ci spiega l’avvocato Ayman Odeh, che è il capolista e l’artefice della Lista
Unita, creata in risposta alla controversa legge che ha innalzato la soglia di sbarramento
dal 2% al 3,5% minacciando la sopravvivenza dei pic- coli partiti. Se non è tutto merito
suo, Odeh ha però avuto il pregio di credere nell’alleanza dei partiti arabi e di presentare
all’opinione pubblica un’immagine carismatica ma anche composta, moderata nei toni, che
è piaciuta. Come le sue risposte pacate alle ingiurie e gli insulti che durante un dibattito tv
gli ha lanciato il leader dei nazionalisti Avigdor Lieberman. L’ingresso nel governo non è in
agenda, spiega Odeh, che dal 2006 guida il partito arabo Hadash (comunisti).
La Lista Unita — che comprende comunisti, islamisti e nazionalisti arabi — vuole
mantenere una certa suspense oltre alla certa assenza dal governo. «Nei casi particolari ci
atterremo a un appoggio esterno», spiega Odeh, elencando i temi su cui si batteranno i
suoi deputati: la situazione economica e sociale in cui versa la minoranza araba, la
disoccupazione specie quella femminile, il trasporto pubblico in villaggi e città arabe, lo
sradicamento della violenza.
«Gli arabi», spiega a Repubblica il politologo arabo Sass al-Atrach, «non vogliono entrare
in un governo per evitare casi di coscienza. Cosa farebbero se il governo decidesse di
dichiarare guerra a Gaza o al Libano?». «L’idea — dice Osama al-Saadi, n.12 della Lista
Unita — è quella di essere una leva di influenza». Una volta noti i risultati definitivi, dice
ancora Saadi, «vedremo quale maggioranza sarà possibile e sceglieremo in quel
momento se sostenere una coalizione o restare all’opposizione».
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Del 18/03/2015, pag. 17
La Libia coglie la palla al balzo: “Italia,
mandaci subito le armi”
Mentre decine di famiglie stanno fuggendo da Sirte verso Misurata per l’inasprirsi degli
scontri fra i jihadisti e le milizie dell’operazione Shuruq – legate al governo di Tripoli – il
presidente del Parlamento libico, Akila Saleh, ha confermato che “l’Isis e al Qaeda
possono passare dalla Libia all’Italia e questo è un grande pericolo visto che molti terroristi
sono in Libia”. Ricordando lo storico legame con il nostro Paese, auspica “il sostegno
dell’Italia nella lotta contro il terrorismo e nel pattugliamento del Mediterraneo per impedire
che armi giungano ai gruppi terroristici”. In particolare il presidente Akila Saleh ha chiesto
che “l’Italia tolga l’embargo imposto all ’ esportazione legale di armi verso la Libia,
sostenendola nell’addestramento dell’esercito e assicurandole sostegno militare”. Nel suo
intervento ha chiamato in causa il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e il premier Matteo
Renzi che venerdì scorso a Sharm el Sheikh, durante la Conferenza sullo Sviluppo
economico dell’Egitto, ha promesso che l’Italia sosterrà i negoziati per pacificare la Libia e
le operazioni internazionali contro l’Isis e gli estremisti in Medio Oriente. Un impegno che
Renzi dovrà sottoscrivere il prossimo 17 aprile a Washington quando sarà ricevuto dal
presidente Barack Obama per discutere della crisi libica e del sostegno all’Ucraina. Al
riguardo, la Casa Bianca ha diffuso una nota per sottolineare che l’Italia è un “partner
prezioso” nelle sfide globali e in questo momento è richiesto “uno sforzo nel fare pressione
sulla comunità internazionale perchè siamo rispettati sia gli accordi di Minsk che il
negoziato di Rabat”. La pace in Libia appare lontana e ieri l’Onu ha mostrato
preoccupazione per i raid incrociati tra Fajr Libya (la milizia al potere a Tripoli) e le forze
regolari guidate dal generale Khalifa Haftar, perché turberebbero la riconciliazione in corso
in Marocco. Il comandante generale delle Forze armate libiche – a capo dell’operazione
“Dignità” che si contrappone all’operazione “Alba” (braccio militare del Congresso
nazionale che controlla Tripoli) – da ottobre sta cercando di riconquistare la città di
Bengasi combattendo contro i “partigiani della legge islamica” e ieri ha fatto sapere che la
totale cacciata dei jihadisti avverrà prima della metà di aprile. Di certo c’è che i
combattimenti non conoscono tregua e l’Isis ha portato a termine il sequestro di una
ventina di medici e infermieri filippini che lavorano come volontari sul suolo libico.
del 18/09/15, pag. 16
Jihad e feticci in Mali
Elisa Pelizzari
BAMAKO
Storie. Il Corano e il suo «contrario» in un paese stretto nella morsa tra
ideologia salafita e credenze animiste, dove l’opzione del «non credere»
è scartata a priori
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«Tutto è nel Corano: il testo sacro può dunque essere utilizzato a fin di bene o di male»,
afferma con semplicità Souleymane Maïga, un importante imam di Bamako. La capitale
maliana è ancora incredula per l’attentato di stampo jihadista del 7 marzo scorso
ufficialmente rivendicato dai militanti di Al-Mourabitoune, agli ordini di Mokhtar Belmokhtar,
noto trafficante, un tempo legato ai gruppi armati algerini (Gia) e poi convertito all’ideologia
salafita.
Maïga dirige la preghiera nella moschea di Sébénikoro, uno dei sei comuni del distretto di
Bamako, ed è originario di Gao. La sua figura minuta si sposa perfettamente con il tono
pacato che adopera per spiegare quanto, agli occhi di tanti, nell’islam come al di fuori
dell’ambito religioso, appare incomprensibile: come si possono legittimare atti di estrema
violenza ricorrendo al nome di Dio? Il suo punto di vista – lontano da orientamenti salafiti
che si rifanno, talvolta in maniera pretestuosa, al pensiero del teologo arabo Muhammad
Bin Abd al-Wahhab (XVIII sec.) –, è quello di chi ritiene una realtà tangibile sia la presenza
di satana (shaytan) nel cuore delle persone, sia la facoltà, per gli individui, di utilizzare il
Corano in maniera «inversa», distorcendone il messaggio di misericordia. Non suggerisce
dunque una lettura politica degli eventi attuali, con accenni antioccidentali o di condanna
rispetto a una modernità che relega la fede a una sfera privata, ma rimanda a valori
fondamentali e al libero arbitrio umano. Tali concetti appaiono forse desueti, eppure, per
comprendere l’islam nel contesto saheliano, bisogna adeguarsi al linguaggio utilizzato in
loco, al modo in cui la gente (il Mali è un paese al 90% musulmano) percepisce il mondo,
avendo presente un elemento di fondo: la dimensione del «non credere» all’intervento
divino, cioè all’intromissione di una componente sovrannaturale nella vita quotidiana, è qui
un’opzione scartata a priori.
La portata del fattore religioso è sottolineata, seppure con altra valenza, da Omar Sylla,
consulente del ministero dell’Istruzione e membro della confraternita Tijania. Che rileva –
con malcelata ironia – come l’attacco al bar La Terrasse abbia colpito un luogo
«peccaminoso», simbolo di lussuria. Gli assalitori (uno dei quali sarebbe stato ucciso dalla
polizia in un’irruzione nel suo nascondiglio, il 13 marzo) non si sono dunque diretti in
maniera esclusiva contro gli stranieri, ma hanno preteso di lanciare un messaggio di
carattere «morale», che li avrebbe nobilitati agli occhi della popolazione.
Osservazioni del genere bilanciano una visione che inquadra la crisi maliana in chiave di
strategie e giochi di potere mettendo, al centro, le rivendicazioni di autonomia dell’Azawad.
Paul Poudiougo, di confessione cristiana e direttore della casa editrice Togouna, insiste
con fermezza sulla difficoltà, per il governo in carica, di mantenere posizioni laiche, come
prevede la costituzione del 1992, e giunge ad accusare la Francia d’ingenuità, nei
confronti delle forze del nord che oggi si riconoscono, seppure con sfumature significative,
nella Coordination des Mouvements de l’Azawad (Cma). Egli sostiene che i negoziati di
pace in corso in Algeria non sfoceranno in un accordo duraturo: i tuareg armati e i gruppi
insediati nella regione (dal Mouvement National de Libération de l’Azawad, Mnla, all’Haut
Conseil pour l’Unité de l’Azawad, Hcua, più i relativi sottogruppi nati da scissioni operate
dai singoli leader) ambiscono a mantenere il caos per gestire a piacimento i loro commerci
illegali, nell’ampia fascia del deserto sahariano.
Oltre a tutto ciò, vi è però un elemento che, in un’ottica socio-antropologica, potrebbe
offrire una prospettiva di analisi originale dello scacchiere maliano, incuneandosi nella
realtà interna di questo affascinante paese. Come accennato sopra, la dimensione del
sacro – l’influenza (benefica o funesta) del mondo «invisibile» e delle sue componenti
sull’esistenza della gente – segna in maniera indelebile le mentalità, inducendo le persone
a vivere con un sentimento di precarietà e di timore insormontabili. Questa pervasività del
sacro impone, per essere in qualche modo ammansita, misure di salvaguardia, che si
traducono di solito nel linguaggio della preghiera, dell’invocazione della protezione divina e
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in una sorta di negoziazione col sovrannaturale che passa per il sacrificio rituale o, in casi
estremi, per il martirio.
Paradossalmente, nemmeno il discorso jihadista sfugge a tale dinamica, pur
presentandosi come avulso da superstizioni popolari, rispetto alle quali propugna il ritorno
alla purezza di un islam delle origini, quello dei primi seguaci di Maometto (il termine
«salafita» deriva dall’espressione al-salaf al-salih che, in arabo, designa gli antenati e, in
particolare, gli antichi compagni del Profeta). Il messaggio jihadista è riletto come portatore
di una forza, l’islam combattente oggi vittorioso, che non fa altro se non sovrapporsi ad
altre fedi o ad altre interpretazioni del Corano diffuse in area musulmana. Insomma, vi
sarebbe una sorta di competizione nell’accesso al sacro, in cui risulta man mano imporsi,
perché giudicata più «efficace», una religione piuttosto che l’altra (ad esempio, l’islam
rispetto all’animismo tradizionale) oppure una certa lettura dell’insegnamento del Profeta
rispetto alle molte disponibili (si pensi alla contrapposizione che si è creata in Africa fra
l’islam wahabita e le confraternite di matrice sufi o mistica).
La realtà del Pays Dogon e del suo capoluogo, Bandiagara, situato a circa 800 km a est
della capitale, evidenzia in maniera concreta questi complessi rapporti. In massima parte, i
dogon aderiscono all’islam, ma la presenza, fra loro, di cristiani, non è rara; ciò nonostante
l’influenza dell’animismo rimane un dato incontrovertibile. Durante una serie d’incontri con
guaritori locali, di fede musulmana e residenti in villaggi che ospitano almeno una
moschea e una piccola scuola coranica, abbiamo verificato la capacità della cultura
autoctona di assorbire, nel seno della credenza islamica, il principio cruciale della ricerca
di un contatto col divino per fronteggiare le disgrazie e preservarsi dal male, non solo
rispettando i 5 pilastri della fede (in primis, la preghiera), ma eseguendo sacrifici rituali,
che vengono considerati come segno di un patto stretto col sovrannaturale, dal carattere
provvisorio e da rinnovare costantemente.
Sono la paura e il bisogno d’ingraziarsi l’aldilà a forgiare il rapporto col divino, e ciò
indipendentemente dall’ambito religioso in cui si evolve: fra jihadismo e pratiche feticiste, il
Mali sembra dunque stretto in una morsa in cui è la consapevolezza della fragilità umana
a svolgere il ruolo maggiore.
del 18/03/15, pag. 7
Iran, Mogherini ottimista “Teheran vuole
l’accordo il voto in Israele non inciderà”
ALBERTO D’ARGENIO
BRUXELLES . La notizia rimbalza da Losanna, dove da due giorni, e chissà per quanto
tempo ancora, il Segretario di Stato Usa John Kerry e il ministro degli Esteri iraniano
Javad Zarif sono rinchiusi per negoziare l’intesa sul nucleare di Teheran. «C’è accordo al
90% sulle questioni tecniche», fa sapere il direttore dell’Organizzazione per l’energia
atomica dell’Iran Ali Akbar Salehi, restano divergenze «su un singolo aspetto molto
importante». Ovvero la tempistica con cui cadranno le sanzioni contro Teheran decise sei
anni fa dalla comunità internazionale: gli iraniani le vorrebbero vedere cadere
immediatamente, i negoziatori del 5+1 (Usa, Francia, Gran Bretagna, Russia, Cina e
Germania) vogliono farle sparire gradualmente, lasciando l’embargo alla tecnologia
militare il più a lungo possibile.
Per Obama c’è il 50% delle probabilità di arrivare a un accordo. Forse una prudenza
tattica, mentre a Bruxelles si nutre ottimismo sulla possibilità di un’intesa entro il 31 marzo,
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con tre mesi di tempo poi per mettere fisicamente nero su bianco l’accordo. Federica
Mogherini ha ridato slancio al ruolo europeo presiedendo la riunione con Zarif e i ministri
europei del 5+1 (Fabius, Steinmeier e Hammond). «Siamo molto vicini ad un accordo che
possa realizzare l’impegno preso nel 2013 a inizio negoziato, ovvero che l’Iran si impegna
a non avere la bomba nucleare», ha spiegato a caldo il Capo della diplomazia europea ai
collaboratori. Convinta che l’esito delle elezioni israeliane, qualsiasi esso sia, «non avrà un
impatto su un negoziato» che coinvolge tutta la comunità internazionale (non due singole
nazioni) e che nonostante le pressioni giunte da Israele e dai repubblicani Usa è
comunque entrato nella sua fase finale. A Bruxelles la spiegano così: «Ci sono state
dinamiche interne, legate anche a esigenze politiche ed elettorali, come quelle in Israele e
Stati Uniti, ma alle preoccupazioni si risponde con un accordo buono. E sia chiaro, un
buon accordo prevede che l’Iran non avrà mai l’arma nucleare, altrimenti non ci sarà alcun
accordo».
Ed è proprio questo il punto chiave per rassicurare Tel Aviv e gli scettici a Washington,
una rete di salvataggio che nei prossimi anni preveda ispezioni dell’Aiea ai siti nucleari
iraniani in grado di capire immediatamente se l’Iran dovesse riprendere la strada dell’arma
atomica, dando all’Occidente tutto il tempo per reagire.
Mogherini dunque è ottimista, e dopo avere gestito in prima persona il negoziato parla di
«volontà sincera da parte della leadership iraniana a rinunciare al nucleare militare e ad
investire su questo nuovo capitale di fiducia: sono molto determinati nel voler raggiungere
un accordo anche se poi quando si negozia nessuno regala niente».
D’altra parte, ragionano le diplomazie europee, il presidente moderato Rouhani e lo stesso
Zarif si giocano il proprio futuro e un flop nei negoziati — appoggiati dall’opinione pubblica
iraniana (di ieri il sondaggio Cnn secondo cui, a dispetto dei repubblicani, anche il 68%
degli americani lo sostiene) — potrebbe compromettere il loro futuro politico, ridando fiato
agli ultraconservatori nemici del Grande Satana. D’altra parte, anche gli occidentali
vogliono un accordo altrimenti Teheran tornerebbe a chiudersi e sarebbe libero di
riprendere il programma di arricchimento per la bomba.
Al contrario, in caso di successo gli iraniani potrebbero aprirsi al mondo con benefici
economici e culturali e tornerebbero ai tavoli negoziali che contano, con la comunità
internazionale che ritroverebbe un partner, con tutte le cautele del caso, capace di aiutare
a risolvere crisi come quella di Siria e Iraq, senza dimenticare la Libia e lo Yemen.
Insomma, «l’accordo potrebbe cambiare le dinamiche di tutto il Medio Oriente», spiegano
a Bruxelles. Per questo lunedì sera Mogherini e i colleghi europei del 5+1 hanno deciso di
spingere sull’acceleratore e di dare visibilità al ruolo europeo. Non solo perché i maggiori
benefici economici (in caso di ripresa di scambio commerciali) e politici (specialmente in
un biennio elettorale Usa) sarebbero proprio per l’Unione, ma anche perché un forte ruolo
Ue aiuterebbe l’opinione pubblica iraniana e quella americana ad accettare l’accordo, che
a quel punto non sarebbe più percepito come una questione bilaterale tra i due ex grandi
nemici.
del 18/03/15, pag. 9
Guerra e affari: decennio d’oro per l’industria
bellica Usa
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In un’analisi pubblicata da TomDispach, l’autore Peter Van Buren fa i
conti in tasca all’industria militare statunitense: si spendono in media
7,5 milioni di dollari al giorno nella crociata anti-Isis
di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Per l’industria bellica Usa la guerra è ovviamente un affare. Il terzo conflitto in Iraq in poco
più di due decenni è uno dei più redditizi. Mentre l’amministrazione Obama cercava di
mascherare l’intervento prima con l’impellente necessità di salvare la minoranza yazidi, poi
con il sostegno a Baghdad e infine con una nuova crociata anti-islamista, gli amministratori
delegati delle principali multinazionali della guerra accumulavano profitti.
In un’analisi pubblicata da TomDispach, l’autore Peter Van Buren fa i conti in tasca
all’industria militare Usa. Dietro stanno gli accordi di vendita siglati dal Congresso con il
governo iracheno, su pressione del Pentagono, responsabile del coordinamento tra i
contractor privati statunitensi e gli acquirenti stranieri. A monte sta la legge Usa, per la
quale «la vendita di articoli da difesa e servizi a Stati stranieri viene finalizzata quando il
presidente ritiene che serva a rafforzare la sicurezza degli Usa e a promuovere la pace
globale».
Ovvero, vendete armi se serve a proteggere il cittadino Usa. Che, in molti casi, paga per
quelle armi: nel caso di paesi impossibilitati a spendere cifre astronomiche per difendere i
propri confini dai nemici dell’Occidente, è Washington ad aprire i cordoni della borsa. Ad
oggi gli Usa spendono in media 7,5 milioni di dollari al giorno nella crociata anti-Isis.
Denaro che finisce poi nelle casse dell’industria militare, giovando anche
all’amministrazione pubblica.
La lista dei contractor beneficiari è lunga: la General Atomics per i droni Predator, la
Northrop Grumman per i droni Global Hawk, la AeroVironment per i minuscoli droni di
sorveglianza Nano Hummingbird, la DigitalGlobe per i satellite, la Lockhed Martin per i
missili Hellfire, la Raytheon per i missili a lungo raggio Tomahawk. Dopo i primi raid contro
postazioni islamiste in Iraq e le dichiarazioni del presidente Obama di un conflitto a lungo
termine (che fece sfumare il taglio di 500 miliardi di dollari in 10 anni al budget del
Pentagono) i prezzi delle armi delle compagnie private sono lievitati, insieme alle
quotazioni in borsa.
Prendiamo i contratti siglati con Baghdad. Nelle prime settimane di offensiva i miliziani di
al-Baghdadi hanno occupato con estrema facilità basi militari e magazzini dell’esercito
iracheno, impossessandosi di enormi quantitativi di armi made in Usa. Con l’esercito
iracheno allo sbando e a secco, per i venditori di armi si è aperto un ventaglio di
possibilità: c’era da rimettere in sesto una forza militare saccheggiata. E da bombardare
dall’alto le stesse armi Usa oggi in mano all’Isis.
A soli tre giorni dai primi raid in Siria, invece, il Pentagono ha siglato un contratto da 251
milioni di dollari con la Raytheon per l’acquisto di missili Tomahawk. Al momento sul tavolo
del Congresso è in attesa di approvazione una lista della spesa da 3 miliardi di dollari: 175
carri armati Abrams, 15 veicoli Hercules, 55mila munizioni. Pochi mesi prima, a luglio, la
General Dynamics aveva siglato un contratto da 65,3 milioni di dollari per il programma
Abrams iracheno; ad ottobre è stata data luce verde alla vendita di munizioni per i carri
armati iracheni (600 milioni), veicoli Humvees (579 milioni), camion (600 milioni) e missili
Hellfire (700 milioni).
A far lievitare i profitti c’è poi l’addestramento: sono le stesse compagnie private a
insegnare ai soldati americani e iracheni a utilizzare i nuovi sistemi. Un esempio: nel
contratto per la vendita di carri armati, una clausola prevede che «5 rappresentati del
governo Usa e 100 rappresentanti del contractor privato raggiungano l’Iraq per un periodo
massimo di 5 mesi per consegnare il materiale, verificarne la funzionalità e addestrare».
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Un pacchetto da far girare la testa: alla fine del 2014 il Congresso Usa ha approvato una
legge di spesa che prevede l’investimento di 1,2 miliardi di dollari in equipaggiamento e
addestramento futuri dell’esercito iracheno, altri 500 milioni saranno diretti ad addestrare
l’Esercito Libero Siriano anti-Assad tra Turchia, Giordania e Arabia Saudita.
La disintegrazione dell’Iraq, la modifica irreversibile dei confini suoi e della Siria, la
destabilizzazione del Medio Oriente garantiranno gli affari dei privati Usa per anni. La
catastrofica strategia delle precedenti amministrazioni ha permesso la nascita dei gruppi
estremisti che oggi sognano il califfato e la rimappatura della regione. Come dice bene
Van Burke, «ogni errore di Washington è una manna per le vendite future di armi».
Del 18/03/2015, pag. 32
Superpotenza Usa finita l’egemonia resta la
supremazia
Dai rapidi cambiamenti del mondo globalizzato stanno emergendo
nuovi protagonisti come la Cina Il ruolo dell’America cambierà ma
resterà cruciale
Joseph S. Nye Jr
Nessun paese nella storia moderna ha mai posseduto un potere militare globale pari a
quello degli Stati Uniti. Ma ora alcuni analisti sostengono che gli Stati Uniti stiano
seguendo le orme del Regno Unito, l’ultima potenza egemone a livello globale a declinare.
Questa analogia storica, anche se è sempre più popolare, è fuorviante.
La Gran Bretagna non è mai stata così dominante come sono oggi gli Stati Uniti. E’ vero,
la sua Marina era grande quanto le flotte odierne dei due paesi e il suo impero, su cui il
sole non tramontava mai, si estendeva su un quarto del genere umano. Ma c’erano grandi
differenze nelle relative fonti di potere tra la Gran Bretagna imperiale e l’America
contemporanea. Allo scoppio della prima guerra mondiale, la Gran Bretagna era solo al
quarto posto tra le grandi potenze in termini di personale militare, al quarto in termini di Pil,
e al terzo per le spese militari. L’impero britannico era governato in gran parte ricorrendo
alle truppe locali. Degli 8,6 milioni di effettivi britannici nella prima guerra mondiale, quasi
un terzo proveniva dall’impero d’oltremare. Cosa che rese sempre più difficile al governo
di Londra dichiarare guerra in nome dell’impero quando i sentimenti nazionalisti
cominciarono a intensificarsi. Con la seconda guerra mondiale, proteggere l’impero era
diventato più un onere che un vantaggio. Il fatto che il Regno Unito si trovasse così vicino
a potenze come la Germania e la Russia ha reso le cose ancora più impegnative.
Nonostante il parlare a ruota libera di un «impero americano», sta di fatto che gli Stati Uniti
non hanno colonie da amministrare, e quindi hanno più libertà di manovra rispetto al
Regno Unito. E, circondati da paesi che non li minacciano e da due oceani, si difendono
molto più facilmente. Questo ci porta a un altro problema con l’analogia della potenza
egemone globale: la confusione su ciò che significa in realtà «egemonia». Alcuni
osservatori confondono il concetto con l’imperialismo; ma gli Stati Uniti sono la chiara
prova che una potenza egemone non deve necessariamente avere un impero formale.
Altri definiscono l’egemonia come la capacità di impostare le regole del sistema
internazionale; ma rimane oscuro proprio quanta influenza su questo processo debba
avere una potenza egemone. Altri ancora ritengono che egemonia sia sinonimo di
controllo della maggior parte delle risorse. Ma, secondo questa definizione, la Gran
Bretagna del XIX secolo – che al culmine del suo potere nel 1870 era al terzo posto (dopo
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gli Stati Uniti e la Russia) per Pil e al terzo (dietro la Russia e la Francia) per le spese
militari – non poteva essere considerata egemone, nonostante il suo predominio sui mari.
Allo stesso modo, a chi parla di egemonia americana dopo il 1945 sfugge che l’Unione
Sovietica ha controbilanciato la potenza militare degli Usa per oltre quattro decenni. Anche
se gli Stati Uniti avevano un peso economico soverchiante, il loro margine di manovra
politica e militare è stato limitato dal potere sovietico.
Alcuni analisti descrivono il periodo post-1945 come un ordine gerarchico con
caratteristiche liberali guidato dagli Stati Uniti in cui essi fornivano beni pubblici all’interno
di un sistema non vincolante di regole e istituzioni multilaterali che ha dato voce agli Stati
più deboli. E sottolineano che potrebbe essere razionale per molti paesi preservare questo
quadro istituzionale, anche se il potere americano è in declino. In questo senso, l’ordine
internazionale a guida Usa potrebbe sopravvivere alla supremazia dell’America nel campo
del potere, anche se molti altri sostengono che l’emergere di nuove potenze faccia
presagire la morte di questo ordine. Ma, quando si tratta dell’era della presunta egemonia
statunitense, l’immaginazione si mescola ai fatti. Non era tanto un ordine globale quanto
un gruppo di paesi con la stessa mentalità, in gran parte nelle Americhe e in Europa
occidentale, che comprendeva meno della metà del mondo. E i suoi effetti sui non membri
– tra cui importanti potenze come la Cina, l’India, l’Indonesia, e il blocco sovietico – non
erano sempre benigni. Detto questo, la posizione degli Stati Uniti nel mondo potrebbe
essere definita più correttamente una «semi-egemonia». Naturalmente, l’America ha
mantenuto il predominio economico dopo il 1945: la devastazione portata dalla seconda
guerra mondiale in così tanti paesi ha fatto sì che gli Stati Uniti producessero quasi la
metà del Pil mondiale. Tale posizione è durata fino al 1970, quando la quota statunitense
del Pil mondiale è scesa al livello pre-guerra di un quarto. Ma, dal punto di vista politico o
militare, il mondo era bipolare, con l’Unione Sovietica che controbilanciava il potere
americano. In effetti, in questo periodo, gli Stati Uniti spesso non potevano difendere i
propri interessi: l’Unione Sovietica acquisiva armi nucleari; il comunismo prendeva il
potere in Cina, a Cuba, e in metà del Vietnam; la guerra di Corea si concludeva in un nulla
di fatto; e le rivolte in Ungheria e Cecoslovacchia furono represse. In questo contesto,
«supremazia», sembra più una descrizione accurata della composizione non
proporzionata (e misurabile) di tutti e tre i tipi di potere: militare, economico e «soft
power». La questione ora è se l’era della supremazia degli Stati Uniti stia volgendo al
termine. Data l’imprevedibilità degli sviluppi globali, è, ovviamente, impossibile rispondere
a questa domanda in modo definitivo. La comparsa delle forze transnazionali e degli attori
non statali, per non parlare di potenze emergenti come la Cina, suggerisce che ci siano
grandi cambiamenti all’orizzonte. Ma c’è ancora motivo di credere che, almeno nella prima
metà di questo secolo, gli Stati Uniti manterranno la loro supremazia in termini di influenza
e continueranno a svolgere il ruolo centrale nell’equilibrio globale del potere. In breve, l’era
del primato degli Stati Uniti non è finita, ma è destinata a cambiare in modo importante.
Resta da vedere se questi cambiamenti rafforzeranno la sicurezza e la prosperità globale
o no.
del 18/03/15, pag. 9
Europa dura con Atene “Niente leggi
umanitarie” Rischio default più vicino
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Venerdì supervertice, liquidità agli sgoccioli. Possibile emissione bond
in cambio di prime misure. L’Eurogruppo prefigura il controllo dei
capitali
ETTORE LIVINI
MILANO .
L’Europa alza il cartellino giallo alla Grecia e prova a bloccare le leggi umanitarie di
Tsipras in discussione oggi in Parlamento. «Si tratta di iniziative che vanno discusse prima
con i creditori in un quadro di riforme più ampio», ha scritto una gelida lettera ad Atene
resa nota da Channel 4 Declan Costello, direttore degli affari economici della Ue. Il piano
per garantire luce gratis,100 euro di buoni pasto al mese e 150 di sussidio per l’affitto a
150 mila famiglie povere — dice Bruxelles — va congelato. «Procedere unilateralmente
significherebbe venire meno agli impegni presi il 20 settembre all’Eurogruppo », chiude
durissima la missiva che il governo, secondo le prime indicazioni, avrebbe intenzione di
ignorare. L’irrigidimento dell’ex Troika non è un fulmine a ciel sereno e arriva alla vigilia di
un vertice straordinario previsto per venerdì tra il premier greco (che ha chiesto l’incontro),
Angela Merkel, Francois Hollande, Jean Claude Juncker e Mario Draghi. La tensione tra il
governo ellenico e i partner è da giorni al livello di guardia. L’Eurogruppo ha giudicato
insufficienti e generiche le proposte arrivate da Yanis Varoufakis all’ultimo meeting (ieri i
suoi tecnici ne hanno discusso in una teleconferenza straordinaria). Le polemiche tra
Atene e Berlino hanno gettato altra benzina sul fuoco. Jeroen Dijsselbloem è arrivato per
la prima volta ad evocare lo spettro del controllo dei capitali sotto il Partenone: «Potrebbe
essere una decisione utile per tenere il paese nell’euro se la situazione precipitasse.
L’abbiamo fatto a Cipro nel 2013 chiudendo le banche per qualche giorno e limitando i
prelievi e ha funzionato», ha detto minaccioso il presidente dell’Eurogruppo. «Penso sia
inutile ricordargli che nessuno può ricattarci », ha risposto a stretto giro di posta il
portavoce del governo.
L’allarme è rosso. Atene è senza soldi. Ue, Bce e Fmi sono la sua unica fonte di
finanziamento. E le incomprensioni delle ultime ore rischiano di far saltare i negoziati
riavvicinando il rischio di un’uscita della Grecia dall’euro. «Dovete darci una chance, visto
che l’austerity imposta dalla Troika ha messo il paese in ginocchio», ha scritto Yanis
Dragasakis, responsabile delle politiche economiche di Tsipras, in un editoriale sul
Financial Times . La pazienza dei creditori è però quasi esaurita. «Anche noi stiamo
facendo grandi sacrifici per riportare il bilancio dello Stato sotto controllo — ha detto il
presidente del Consiglio sloveno Miror Cerar — Capisco la solidarietà, ma anche quella ha
i suoi limiti e sarebbe un pessimo segnale ai miei concittadini».
Il tempo per trovare una soluzione è pochissimo e non a caso Atene ha moltiplicato nelle
ultime ore gli sforzi diplomatici per riallacciare il filo del dialogo. E Tsipras è sceso in
campo in prima persona per negoziare con i partner. Il vertice a cinque di domani è solo il
primo passo. Lunedì prossimo avrà un bilaterale con Merkel e l’8 aprile, un mese e mezzo
prima del previsto, vedrà Vladimir Putin, leader di quella Russia che ha fatto capire di
esser pronta a dare una mano alla Grecia sfilandola dall’abbraccio soffocante dell’Europa.
L’obiettivo immediato del governo ellenico è trovare i soldi necessari per pagare stipendi,
pensioni e onorare i prestiti in scadenza. Questa settimana Atene dovrà staccare un altro
assegno da 350 milioni per il Fondo monetario, rimborsare (dice Bloomberg) un vecchio
derivato con Goldman Sachs e rinnovare 1,6 miliardi di euro di titoli di Stato. L’esecutivo
ha già messo mano alla liquidità dei fondi pensione e a 550 milioni dell’ex fondo salvabanche. Il crollo delle entrate (un miliardo in meno tra gennaio e febbraio) ha però
prosciugato la liquidità in cassa. Varoufakis ha chiesto — a volte in modo un po’ brusco —
alla Bce di ricevere gli 1,9 miliardi di profitti di Eurotower su titoli ellenici. Bloccati a
Francoforte in attesa di un piano di riforme credibile. L’incontro di dopodomani potrebbe
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servire a far saltare il tetto di emissioni di titoli di Stato imposto dall’ex Troika, dando così
un altro po’ d’ossigeno al Paese. L’ipotesi sul tavolo, dice la stampa nazionale, è lo
sblocco di uno di questi due fronti in cambio dell’approvazione immediata di qualcuna delle
prime misure chieste da Bruxelles. Senza quei soldi, la Grecia rischierebbe il default.
Del 18/03/2015, pag. 16
La scelta di Nadia, top gun in cella «Meglio
morta che schiava di Putin»
KIEV Non muore di fame perché vive di rabbia. «Io sono nata libera, non posso stare qui
dentro!». Quando le lasciano vedere qualcuno e parlare è faticoso, 81 giorni di sciopero
della fame e 25 chili persi non sono uno scherzo, Nadia Savchenko non ha neanche il
permesso di dirlo in ucraino: nelle prigioni di Putin è obbligatorio usare il russo. L’ultima
volta ha appoggiato una mano sulla barriera di plexiglass, come giurasse. E alzato la
voce, così la sentivano bene anche in russo: «Per me è più facile morire a Kiev che vivere
a Mosca!». Vira, la sorella più giovane, ha cercato di distrarla: «Le avevo portato il suo
shampoo, un flacone piccolo, per dirle che non gliene servirà tanto e che uscirà presto…».
Ma lei niente, l’ha interrotta: «Me lo sono promesso! Continuo a fare lo sciopero della fame
finché non torno a casa! O fino al mio ultimo giorno in questa cella!». Vira la conosce bene
e ha paura: «Io lo so che la mia Nadezhda andrà fino in fondo…».
Je suis Nadia . Prima della Crimea perduta o del Donbass conteso, c’è una soldatessa da
salvare che il governo ucraino ha trasformato nel simbolo d’una resistenza collettiva.
L’unica pilota donna dell’aviazione militare. Nove mesi fa, i filorussi l’hanno catturata a
Luhansk e portata di nascosto a Mosca, per consegnarla a chi sapeva che farne:
rinchiuderla nel manicomio di Matrosskaya, dove già fu ammazzato di botte l’oppositore
Magnitsky; ridicolizzarla, offrendole asilo politico; infine processarla per crimini di guerra,
minacciandola di vent’anni di galera. «Putin credeva di fare il solito teatrino staliniano e
dimostrare che gli ucraini mangiano i bambini — dice Vira —, invece ha trovato quella
sbagliata». Di mangiare, la pilota ha smesso proprio: solo un tè per il Natale ortodosso, poi
più nulla. S’alimenta con glucosio e aminoacidi. «E’ ancora lucida – spiega il neurologo
Andriy Strokan, uno dei tre medici ucraini ammessi a visitarla -. Aveva interrotto lo
sciopero della fame, ma ora l’ha ripreso. Vuole arrivare così all’udienza di maggio. E’ già al
punto di non ritorno, da anoressica estrema: perde mezzo chilo ogni due giorni. Una crisi
cardiaca o danni intestinali possono avere effetti catastrofici». «E’ solo propaganda, ha un
peso normalissimo – gli risponde Anton Tsuetkov, ombudsman del governo russo -: è
pieno il mondo di donne che smettono di mangiare per stare un po’ a dieta!…».
«Figlia di Satana», la chiama la stampa di Mosca. O «macchina della morte». L’accusano
d’avere fornito le coordinate per ammazzare a colpi di mortaio due giornalisti russi. «Sono
stanca delle vostre bugie, io quel giorno non stavo volando, mi avete letteralmente rapita»,
protesta la pilota, ormai eroina d’apertura dei tg di Kiev. E’ stata eletta alla Rada col partito
di Yulia Tymoschenko («All’inizio ero perplessa, perché Yulia ha fatto affari col Cremlino,
ma poi ho detto ok»), i suoi colleghi deputati s’appellano alla Convenzione di Ginevra e
vanno in aula con la maglietta «free Nadia», per lei s’è mosso il Parlamento europeo e il
presidente Poroshenko ha chiesto d’intervenire anche a Hollande e a Renzi, quando sono
passati di qui. «La gente — racconta la sorella — mi ferma per strada coi cesti di cibo da
mandarle». Figlia d’un ingegnere e d’una sarta, per la prigioniera era pronto un futuro da
stilista: «Si sa che il 90% delle ragazze vuole sposarsi. Lei era diversa anche dal restante
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10%. A sedici anni le piacevano solo le moto. Poi è passata agli aerei». Per entrare in
accademia, allora solo maschile, vinse una causa e diventò radiotelegrafista, parà, tiratrice
scelta. Nel 2005 era in Iraq: «Una volta, i peacekeeper ucraini saltarono sulle mine.
Nessuno voleva recuperare i corpi, vomitavano tutti dalla paura. Ci andò lei. E li raccolse
pezzo per pezzo».
La top gun tutta d’un pezzo ha vacillato una volta sola: in febbraio, quando nel parlatorio di
Mosca è comparsa sua madre. Che è dovuta arrivare a 77 anni, una figlia che ne ha 34 e
sa bombardare coi Su-24, per parlarle come a una bambina: «Mangia, Nadezhda! Ti
supplico, mangia!». Nadia ha finto d’obbedire. Poi ha fatto di testa sua, come sempre. La
prossima settimana, mamma Maria andrà a Berlino: chissà che non ci riesca la
Cancelliera a liberare Nadia, se non dalla gabbia che l’imprigiona, dalla rabbia che può
perderla.
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INTERNI
del 18/03/15, pag. 19
Veneto, patto del caffè tra Tosi e la Rossi
Incontro tra l’ex leghista e la tesoriera di Forza Italia: Berlusconi tiene
aperta l’alternativa all’alleanza col Carroccio Segnale bellicoso in
Campania: la lista “Noi con Salvini” correrà da sola e drenerà voti alla
coalizione di Caldoro
CARMELO LOPAPA
ROMA .
Sono passate da pochi minuti le 16 e una “strana” coppia siede al tavolino interno e un po’
in disparte di una nota caffetteria romana di Piazza di Pietra. Da una parte, la senatrice e
tesoriera forzista Maria Rosaria Rossi, dall’altra, il sindaco di Verona Flavio Tosi. La
chiacchierata è lunga. Su quel tavolino, oltre ai due caffè, si dispiega la complicata partita
veneta nella quale l’aspirante governatore, in rotta col suo ex partito, con Salvini e Zaia, ha
ormai fatto irruzione come un bulldozer.
«Il colloquio è andato bene», farà sapere poi il primo cittadino ai senatori amici, pronti a
scendere dal Carroccio per seguirlo. Lui ricorda alla senatrice la sua formazione
«garantista », come non abbia mai attaccato personalmente Silvio Berlusconi per le sue
vicende giudiziarie, come anzi lo abbia difeso in più occasioni, «a differenza di Salvini».
Tosi, al lavoro a Roma per tessere la sua trama assai ambiziosa, conferma poi che fa sul
serio. Che lui in questa storia va fino in fondo e non si ferma al Veneto, che proverà a dare
vita a gruppi parlamentari autonomi con tutti coloro che non si riconoscono più nella
«guida dispotica» del nuovo leader leghista. La Rossi, che oltre a essere tesoriera è uno
dei consiglieri e collaboratori più fidati dell’ex Cavaliere, per l’occasione indossa i panni
dell’ambasciatrice. Spiega che Forza Italia guarda con attenzione ai suoi movimenti, che
dagli ultimi sondaggi anche a loro risulta che l’outsider parte già da una buona
percentuale. Ma il discorso è ancora aperto, lo fa presente la Rossi e ovviamente lo ripete
Berlusconi, rimasto anche ieri ad Arcore, a tutti i suoi interlocutori.
L’incontro con Salvini per adesso non è in agenda. E non lo sarà prima di venerdì, trapela
da Villa San Martino. Oggi pomeriggio il capo forzista tornerà a Roma, domani dovrebbe
riunire la commissione per le regionali, il faccia a faccia potrebbe esserci tra venerdì e
sabato. Anche perché l’alleanza con la Lega e dunque il sostegno a Zaia in Veneto resta
l’ipotesi “A”, per Forza Italia. E se l’ex premier adesso sta accarezzando anche l’idea della
corsa in solitaria e, perché no, proprio al fianco del “ribelle” Tosi, è giusto per provocare e
tenere sulle spine un Salvini sempre più rampante e aggressivo ma che non può perdere
nel Nordest. L’opzione “B”, è il messaggio, resta sul campo se la situazione dovesse
precipitare. Segnali di guerra, anche perché proprio ieri i leghisti hanno minacciato una
lista “Con Salvini” a dir poco di disturbo in Campania per far vacillare l’unico governatore
uscente forzista, Stefano Caldoro (reo di aver dichiarato ieri nell’intervista a Repubblica:
«Via dalla Campania la felpa del capo lumbard». Raffaele Volpi, senatore leghista e
coordinatore del movimento “Noi con Salvini” sbarcato al Sud, lo dice con chiarezza:
«Prendiamo atto delle dichiarazioni del presidente Caldoro e dunque in Campania stiamo
valutando seriamente la possibilità di correre in solitaria». Il clima insomma resta teso.
«Dove c’è Alfano non c’è Lega Nord» ha ribadito del resto ieri sera il capo del Carroccio in
tv. Mentre con l’Ncd, Forza Italia non solo vorrebbe, ma deve allearsi se vuole
sopravvivere appunto in Campania. «Salvini è simpatico e bravo, è il giocatore della
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squadra, ma non può fare l’allenatore» taglia corto Laura Ravetto. Ma il leader leghista
punta dritto alla leadership della nuova coalizione. Se Forza Italia ci starà, bene.
L’ex Cavaliere quella leadership se la giocherà nella campagna di queste regionali. Nei
prossimi dieci giorni si terrà in trincea, prima uscita ufficiale già fissata con la kermesse
organizzata a Roma da Tajani e altri per la mattina del 29 marzo, domenica delle Palme.
del 18/03/15, pag. 24
Salta il divorzio lampo, lite nel Pd
Stralciata la norma che permetteva alle coppie senza figli minorenni di
evitare la separazione. Elena Cattaneo: “Un errore” E oggi il Senato vota
sul “breve”: se l’addio è consensuale i tempi di attesa saranno tagliati
da tre anni a sei mesi
ROMA .
Sembra (quasi) fatta. Il divorzio “immediato” lascia il posto al divorzio “breve”. Legge che
oggi dovrebbe essere approvata dall’aula del Senato, per tornare poi alla Camera per una
terza lettura. Quindi, per vedere la rivoluzione dei tempi di divorzio e separazione, si dovrà
aspettare ancora qualche mese. Ma sperando che non ci siano nuovi inciampi, questi
saranno i cambiamenti sostanziali: tra la separazione il divorzio si dovranno attendere sei
mesi se il procedimento è consensuale, e un anno se l’addio è conflittuale. Un iter uguale
per tutti, sia per le coppie con figli, sia per quelle senza figli. Finisce dunque l’attesa infinita
tra i due gradi di giudizio, quei tre anni che spesso diventavano cinque, ma resta intatto
invece l’impianto che prevede ben due processi prima di poter ottenere il divorzio.
Dal testo che sarà votato oggi, è stata stralciata infatti la norma, proposta dalla senatrice
Pd Rosanna Filippin, che prevedeva l’accesso “immediato” al divorzio senza passare per
la fase della separazione, in caso di addii consensuali, e per coppie senza figli minorenni.
Norma approvata in commissione Giustizia (con l’opposizione di Ncd) ma che
probabilmente sarebbe stata bocciata in aula. Così, esattamente come era già successo
per le adozioni ai single, nel Pd, e non senza divisioni, è prevalsa la linea favorevole
all’approvazione del divorzio “breve” sacrificando quello “immediato”. Senza dimenticare,
pur nel rischio di confusione, che l’Italia ha già scelto alcuni mesi fa il divorzio “facile”.
Ossia la possibilità di lasciarsi non soltanto davanti al giudice, ma anche in Comune con la
“negoziazione assistita” degli avvocati, o direttamente davanti al sindaco.
Sofferta la dichiarazione della senatrice Filippin, che dopo l’assemblea del gruppo, si è
vista costretta a mettere ai voti lo stralcio del divorzio “immediato”. «L’ho fatto per ottenere
rapidamente il risultato più importante che è la riduzione dei tempi per il divorzio».
M5s e Sel hanno votato contro la proposta di stralcio. Pd, Ncd, Udc, Fi a favore. Duro
invece il commento della senatrice a vita Elena Cattaneo, favorevole al divorzio “lampo”:
«A due persone sposate, adulte e senza figli o con figli maggiorenni, non può essere
negato di accedere subito al divorzio se è consensuale. Non si tratta di scelte etiche o
morali, ma della tutela dei diritti di ogni persona a poter decidere di se stessa. In queste
materie l’interferenza dello stato deve essere il più vicina possibile allo zero».
( m. n. d.)
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del 18/03/15, pag. 33
MODELLO DI GOVERNANCE E LOGICA DI
PROFITTO
NADIA URBINATI
ILGOVERNO ha in cantiere due riforme importanti, quella che ridisegna la Rai e quella
che riorganizza la scuola. Due settori fondamentali, da anni maltrattati: la Rai a causa
della legge Gasparri che sacrifica il pluralismo e la libertà di informazione sull’altare del
duopolio Stato-Mediaset, e la scuola a causa dello stillicidio delle risorse al quale vari
governi l’hanno condannata, mortificando l’educazione nel suo complesso: gli educatori e
gli studenti. In un precedente articolo avevamo messo in dubbio alcune proposte, come
quella della parziale detassazione della retta per chi iscrive i figli alle private parificate e
quella del contributo del 5 per mille che i cittadini possono destinare, se lo vogliono, alle
scuole, secondo una logica di scelta privata che è in contraddizione con il bene istruzione.
Una critica in questo senso è venuta anche da Chiara Saraceno su questo giornale.
Comune ad entrambe queste due proposte di riforma vi è inoltre un tratto distintivo non
ancora sottolineato e che merita attenzione: l’accentramento delle funzioni dirigenziali
secondo il modello della «governance », una trasformazione non di poco conto dei sistemi
di decisione nella gestione dei beni pubblici. Circa la nuova Rai, per esempio, si propone
un cda eletto dal Parlamento con “il capo azienda” nominato dal presidente del Consiglio
(con voto di conferma del cda). Circa la scuola, la figura dei presidi diventa simile a quella
degli amministratori delegati nelle aziende private: formano la loro squadra (un vero e
proprio cda) scegliendo da appositi albi territoriali costituiti dagli Uffici Scolastici Regionali i
docenti che ritengono più adatti per realizzare i loro piani di offerta formativa.
Il successo di una governance nelle aziende private si misura con i profitti. Quale sarà il
successo che convaliderà l’offerta formativa nel caso delle scuole statali, forse il numero
dei diplomati o l’attrazione di studenti mediante la creazione di attività ricreative, come
avviene negli Stati Uniti? Si sostiene che l’accentramento dei poteri nella mani di un
preside e del suo consiglio consentirà di realizzare l’autonomia scolastica, di avere cioè
maggiori strumenti per gestire risorse umane, tecnologiche e finanziarie. Autonomia di
gestione per ottenere che cosa? La scuola statale deve mirare all’inclusione degli studenti
nell’attività formativa (universale nel caso della scuola dell’obbligo), non a caso a partire
dagli anni Settanta, lo Stato e gli enti locali hanno approntato risorse per gli insegnanti di
sostegno e per il diritto allo studio (risorse che tutte le riforme hanno teso a ridurre
fortemente). Ora, supponiamo che l’istituto pubblico A voglia competere con l’istituto
pubblico B (per avere, si spera, gli studenti migliori). Che cosa metterà sul mercato della
reputazione per diventare competitivo? Troverà davvero conveniente fare scelte che
impiegano risorse per l’inclusione dei disagiati?
Il merito di uno studente portatore di handicap può implicare dover investire più risorse:
siamo certi che nel mercato dell’autonomia competitiva questo si traduca in politiche giuste
e in eguali opportunità? Certo, quasi tutto dipenderà dal preside e dalla “squadra” che
sceglierà in base ai suoi obiettivi (e alle sue visioni) e che predisporrà piani triennali con
grande autonomia decisionale (sentiti gli insegnanti, il consiglio di istituto e le realtà
territoriali — organi che però danno pareri non vincolanti; del resto, nella struttura
piramidale aziendalistica gli insegnanti diventano dei dipendenti del preside più che dei
collaboratori).
La logica della governance è, come si sa, di tipo mono issue — la direzione amministrativa
dell’impresa ha uno scopo unico intorno al quale tutto il resto ruota (dal servizio di chi
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lavora e all’oggetto prodotto): il profitto, non la coerenza a principi o a criteri di merito e di
giustizia come dovrebbe essere nelle strutture amministrative che gestiscono i beni
pubblici (certamente la scuola). Il perseguimento di un obiettivo quantificabile risponde a
una logica che non è ispirata alle stesse condizioni normative di un’amministrazione
pubblica; per questo, dovrebbe impensierire l’applicazione del modello-governance alla
scuola, che non sforna automobili ma forma persone. I referenti della scuola sono i futuri
adulti, persone che devono essere stimolate a sviluppare le loro potenzialità (secondo
tempi che, nonostante tutto, non sono programmabili come quelli della fabbricazione di
un’auto) — un lavoro che è un processo misurabile solo molto approssimativamente in
termini quantitativi. Una domanda che il legislatore dovrebbe porsi nel valutare questa
proposta di riforma è quindi la seguente: che cosa esattamente significa offerta formativa e
successo di gestione nella scuola pubblica?
Del 18/03/2015, pag. 15
Il governo: troppe cinque polizie. Forestali
verso l’accorpamento
L’annuncio del presidente del Consiglio confermato dal ministro Madia: dovranno
scendere a quattro ROMA Una rivoluzione epocale, ridurre i corpi di polizia dello Stato. Se
ne parla de tempo ma adesso, forse per la prima volta, ci si avvicina concretamente. Il
premier Renzi l’ha annunciato durante l’inaugurazione dell’anno accademico alla scuola
superiore della polizia di Stato. Il ministro della Pubblica amministrazione Marianna Madia
più tardi conferma: i corpi passeranno da 5 a 4, e quello che sembra destinato ad essere
«accorpato» è quello della Forestale. L’ok arriva dalla commissione Affari costituzionali del
Senato, con un emendamento alla legge delega sulla P.A, con lo scopo di razionalizzare
le funzioni, ed eventualmente assorbire quelle del corpo Forestale nelle altre forze di
polizia. «Siamo tutti d’accordo — ha detto Renzi, alla presenza di Alfano e del capo della
Polizia Alessandro Pansa —. È difficile che dopo la riforma della Pubblica
amministrazione, i corpi di sicurezza siano ancora cinque». Da parte del Senato c’è stato
solo il no all’accorpamento anche delle forze provinciali, perché l’operazioni avrebbe
comportato una spesa troppo grande.
Che cosa accadrà nei fatti? Si vuole una reale razionalizzazione o solo puntare ai «tagli»?,
si chiedono i critici e le opposizioni. Il segretario dell’Anfp (funzionari di polizia) Lorena La
Spina dice che la sicurezza «non può essere considerata come un costo da tagliare ma
come una risorsa su cui investire», e se è vero, interviene Pompeo Mannone della
Federazione Sicurezza della Cisl, che «5 corpi sono troppi», è pure vero che va tutelata
«la sicurezza dei cittadini, l’obiettivo giusto è sì diminuire le spese ma anche migliorare i
servizi, quindi unificare i centri di spesa, razionalizzare il dispiego di uomini e mezzi sul
territorio, chiarire le competenze di ogni forza in modo esclusivo invece di limitarsi ad
unificare i corpi che, accorpati, non garantirebbero analogo risultato».
Il Sapf, sindacato autonomo polizia ambientale e forestale, nelle parole del segretario
Marco Moroni, vede necessario mantenere i forestali come corpo a sé. Dice che bisogna
riformare non accorpare, «eliminando le sovrapposizioni» con i Carabinieri e
«implementando le funzioni di polizia ambientale» del corpo Forestale. Critica
l’opposizione. Roberto Maroni: «La “fusione a freddo” è una forzatura, i corpi hanno una
loro storia, una loro identità». Maurizio Gasparri: «Renzi non vuole razionalizzare, solo
tagliare». Sì, invece, dal sindacato di polizia Sap; «Bisogna puntare all’unificazione delle
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forze», dice il segretario Gianni Tonellio. Via libera anche dal capo della polizia Alessandro
Pansa, che apre ad una riforma complessiva che punti a razionalizzare e a modernizzare.
Mariolina Iossa
del 18/03/15, pag. 2
La Cgil si abbatte sulla coalizione sociale
Antonio Sciotto
Lo scontro. Categorie compatte a sostegno di Camusso e contro
Landini. La confederazione chiede di «abbandonare qualsiasi
ambiguità» e di chiarire la natura della manifestazione del 28 marzo in
una nota congiunta. Ma il segretario Fiom insiste: «È ora di cambiare,
unitevi a noi»
Per tutta la giornata è un piovere di comunicati, dalle principali categorie della Cgil e dai
territori: i piani alti del sindacato si stringono intorno a Susanna Camusso, chiedendo a
Maurizio Landini di non spingersi troppo oltre con la sua coalizione sociale, andando a
occupare lo spazio della politica. Ed è quello che ha chiesto la stessa leader Cgil in un
tesissimo faccia a faccia con il numero uno delle tute blu, in mattinata, in Corso d’Italia: si
chiede a Landini di scrivere una nota congiunta in cui si definisce la manifestazione del 28
a Piazza del Popolo come «sindacale e non politica». Ma quest’ultimo non ci sta a
piegarsi, e rilancia: «La Cgil si attivi con la Fiom, partecipi alla coalizione sociale».
Torna il «loop» del Congresso
Siamo tornati insomma in pieno loop da Congresso, perché alla fine la coalizione sociale
non è altro che lo sviluppo di quella (già avanzata da Landini) richiesta di «rinnovamento
del sindacato»: solo che adesso è stata portata in un terreno piuttosto sconosciuto e
inedito, e questo spiazza e spaventa tutti gli altri. D’altronde, la Cgil come è oggi, seppure
impegnata in battaglie importanti se prese singolarmente, ha fallito su tutti i fronti: la
precarietà ha dilagato, le pensioni e il welfare sono stati tagliati, il contratto nazionale è in
crisi. E andare a chiedere riforme al Pd, o alla “sinistra Pd”, è ormai out, fuori tempo
massimo. Quindi si pone comunque, con la Fiom o no, un’esigenza di rinnovamento.
Landini ci sta solo provando, a modo suo.
Uniti con la Cisl?
Un altro tema importante, posto dalla nota della segreteria Cgil di lunedì sera, in cui si
diceva che «sì, una coalizione sociale è possibile, ma non per sostituirsi alla politica», è
quello dell’unità con gli altri sindacati. Susanna Camusso, dopo aver bocciato e
scomunicato la linea Landini, tornava a fare un appello all’unità sindacale: «l’obiettivo è
l’unità con Cisl e Uil», scriveva. L’unità è importante, e spessissimo è proficua. E se la
nuova Uil a guida Barbagallo ha portato a uno sciopero generale sicuramente progressivo,
dall’altro lato la Cisl di Annamaria Furlan — del tutto legittimamente — è però
completamente ferma: perché evidentemente ha individuato altri obiettivi rispetto a Cgil e
Uil, e rispetto al Jobs Act le critiche sono minori, di tono ben diverso. Questa ossessiva
richiesta di «unità» non blocca anche la Cgil?
Comunque Landini, alla critica mossa da Camusso, secondo cui «la proposta di coalizione
sociale implica in se stessa la negazione della prospettiva unitaria», ha risposto con una
lunga nota, seguita al faccia a faccia. «La coalizione sociale proposta dalla Fiom Cgil —
spiega la Fiom — non si configura in alternativa a un processo di unità con Cisl e Uil (in
ogni caso non certo facile, date le profonde divergenze in essere) né tanto meno in
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contrasto alle forze politiche esistenti». E qui la proposta: «Pensiamo che perciò sarebbe
utile che la Cgil, insieme alla Fiom, si attivasse per costruire una tale coalizione sociale a
partire dall’interesse e dalla disponibilità espressa da tutti i partecipanti a una prima
discussione sviluppatasi sabato 14 marzo».
La Fiom risponde anche alla richiesta Cgil di «uscire da qualsiasi ambiguità» (parole della
stessa Camusso), e in qualche modo — seppure non in forma di una nota congiunta —
tenta di fugare il sospetto che la coalizione sociale voglia sostituirsi alla politica: «La Fiom
Cgil è contraria a che qualsiasi struttura della nostra organizzazione, tantomeno la
confederazione, promuova formazioni politiche o sostenga questa o quella componente
politica o di partito», scrive la Fiom, ripetendo ancora che la Cgil era informata da tempo:
«Tale scelta della Fiom Cgil è avvenuta dopo mesi di discussione e si è conclusa con il
voto dell’Assemblea nazionale a Cervia a cui ha partecipato ed è intervenuta la segreteria
nazionale Cgil, senza tra l’altro sollevare alcuna obiezione di merito né di metodo».
«Chiudiamo in modo trasparente»
Ma Camusso insiste, vuole che non si possa accusare la Cgil di diventare un soggetto
politico: «Bisogna cancellare qualsiasi ambiguità — ha detto — il sindacato ha una sua
soggettività politica ma anche una sua fortissima autonomia e non può essere confuso con
la costruzione di movimenti politici».
«Bisogna chiudere la discussione in modo trasparente — conclude Camusso —
Dobbiamo lavorare sulla contrattazione, abbiamo tanto da fare senza inventarci dell’altro»,
e ha ribadito di aver fatto «una proposta precisa: si dicano insieme le ragioni e la
piattaforma sindacale della manifestazione del 28. Siamo in attesa di una risposta di
Landini». Landini, comunque, ribadisce di «non avere nessun interesse personale», che
farà «il sindacalista per altri 3 anni» e che non sta «costruendo nessun partito». E quanto
all’accusa di volersi “prendere la Cgil” al Congresso del 2018, conclude: «Non sono un
ragazzo ambizioso, ho cominciato come apprendista e sono sempre stato a disposizione
del sindacato. Farò quello che il sindacato mi dirà di fare».
Ma lo scontro dentro la Cgil sembra soltanto all’inizio: ieri sono usciti, in appoggio alla
linea della segreteria confederale, Flai e Fp, Filctem, la Cgil Lazio, mentre il giorno prima
erano usciti la Fillea e la Cgil della Lombardia. Per Carla Cantone, dello Spi, «più che
coalizione ci vuole coesione sociale». Intanto l’area «Democrazia e Lavoro» ha aderito alla
manifestazione del 28.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 18/03/2015, pag. 2
MILLE RAGIONI PER DIMETTERSI
IL MINISTRO MAURIZIO LUPI NON È INDAGATO MA L’INCHIESTA HA RIVELATO
CHE NON HA ALCUN CONTROLLO O COMPETENZA SULLE GRANDI OPERE E HA
AFFIDATO MILIARDI SENZA VIGILARE
Il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi avrebbe dovuto dimettersi già nel settembre
2013, quando Ercole Incalza, l’uomo a cui ha consegnato tutto il potere sulle opere
pubbliche, è stato indagato dalla Procura di Firenze per associazione a delinquere,
nell’ambito dell’inchiesta che portò all’arresto del presidente della società pubblica Italferr
Maria Rita Lorenzetti. L’uomo di Comunione e liberazione, che evidentemente non
padroneggia gli argomenti, ha letto in Parlamento un testo scrittogli dall’avvocato di
Incalza, Titta Madia: “Incalza non è mai stato interrogato né è stata avanzata richiesta di
rinvio a giudizio”. Diciotto mesi dopo, la stessa procura ha arrestato il burocrate
supercompetente. Forse avrebbe dovuto dimettersi lo scorso 12 novembre, quando in
un’intervista ha spiegato che la Orte-Mestre, nuova autostrada del suo compagno di
partito e finanziatore Vito Bonsignore oggi sospettata di essere fondata su patti corruttivi,
“è strategica perché si aggancerà al corridoio europeo Baltico-Adriatico”. E allora faceva
bene a delegare a Incalza ogni forma di pensiero se riteneva sensato spendere 10 miliardi
di euro per collegare Orte con Danzica. Da Formigoni al cemento L’ultima frontiera di Cl
Proprio per la sua incompetenza Lupi è stato una garanzia per la banda di Incalza e
Stefano Perotti, padroni dei miliardi per le Grandi opere. Non importa se il ministro per le
Infrastrutture non è indagato. A Lupi non va contestato il reato, piuttosto la furba
insipienza. Che per un ministro è più grave. Forse Enrico Letta ha nominato Lupi al
ministero di Porta Pia per la sua invidiabile capacità nell’accontentare tutti. Lupi non era
soltanto l’uomo che ha ereditato da Roberto Formigoni la leadership politica di Comunione
e liberazione in Lombardia, ma anche quello col profilo più adatto per inondare di cemento
l’Italia, stanziare finanziamenti per il Tav Torino-Lione, il Mose di Venezia, le Pedemontane
piemontese, lombarda e veneta. E persino il ponte sullo Stretto. Dalle interviste alle
nomine tutto sotto dettatura Lupi è un uomo che s’adatta, subisce, sa farsi usare. Ercolino
Incalza scrive il programma del ministero delle Infrastrutture, ma anche quello del Nuovo
Centrodestra. È il capo che detta al telefono, per istruire Lupi impegnato con un’intervista,
su dove il denaro vada puntato e dove ritirato, che cosa avanza e che cosa retrocede, la
Pontina no e l’Orte-Mestre sì. E prima di lasciare Porta Pia, Incalza impone a Lupi la
successione: sarà Paolo Emilio Signorini il reggente della Struttura di missione per le
Grandi opere. Lupi non ha esitato neanche un momento di fronte all’indicazione precisa di
Denis Verdini che a maggio 2013 gli ha imposto come sottosegretario Rocco Girlanda,
oggi indagato con Incalza. Gli ha subito dato la preziosa delega al Cipe, mai assegnata a
un esponente di governo che non fosse proveniente da Palazzo Chigi o dall’Economia. Le
bande, i dossier e il salotto televisivo Lupi incassa pure il simil-commissariamento di
Giacomo Aiello, capo di gabinetto proveniente dalla squadra di Guido Bertolaso, scelto
direttamente da Gianni Letta. Mentre negli uffici del ministero bande rivali s’affrontano a
colpi di dossier, Lupi va nei salotti televisivi o racconta ai giornali il prontuario di grandi
opere stilato da Incalza. Se non correo, Lupi è molto distratto: non s’accorge che “l ’ amico
di famiglia” (testuale) Perotti, che fa assumere il figlio Luca Lupi subito dopo la laurea per
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la quale gli dona un Rolex da 10. 000 euro, che ospita l’amico ministro nella sontuosa villa
in Toscana, ha in mano la direzione lavori di appalti per 25 miliardi di euro. (Il ministro ha
dichiarato che il figlio ha lavorato a New York, però Ballarò ha scoperto che in quella
società non lo conoscono). Il tavolo dell’Expo e la vecchia guardia di Milano Lupi non
s’accorge neanche di quelle vecchie volpi e compagni di partito, da Gianstefano Frigerio a
Gigi Grillo, che si siedono al gran tavolo per l’Expo di Milano. Eppure Lupi di Milano è un
esperto, fu un giovane democristiano nel consiglio comunale con il leghista Marco
Formentini sindaco, catapultato nelle liste per coprire quel versante ciel-lino-cattolico
devastato da Mani Pulite, e fu assessore per l’edilizia di Gabriele Albertini. Ma Frigerio,
vecchia gloria di Tangentopoli, spiegava a Mal-tauro, costruttore esperto di mattoni e
tangenti, che con Lupi non c’erano problemi: “Lì c’è una persona che è un comune amico
nostro, che gli fa proprio da assistente… che è Gigi Grillo e questa qua si può benissimo
affidare a Gigi, perché Lupi e Gigi si vedono in continuazione perché lui gli fa praticamente
da sottosegretario… sempre lì… perché… io quando gliene ho parlato (a Lupi, ndr) poi mi
ha detto ‘ tu con Gigi’… gli ho detto ho capito non andare avanti col discorso”. Dai
pellegrinaggi alle intercettazioni Quando Frigerio, Grillo e Maltauro furono arrestati,
maggio 2014, Lupi era ministro e candidato per le Europee di Ncd. Una volta eletto, Lupi
ha tenuto in sospeso il partito e il governo perché non sapeva se andare a Strasburgo o
tenersi il velenoso ma promettente scrigno ministeriale. Matteo Renzi tifava per l’esilio, lui
è rimasto a Roma. Il cattolico praticante Lupi, padrino di battesimo di Magdi Allam,
animatore dei pellegrinaggi dei deputati e vicino all’ex cappellano di Montecitorio
monsignor Rino Fisichella, solo ogni tanto tradisce la sua immagine mansueta. Gli saltano
i nervi quando Renzi prova a togliergli la Struttura di missione di Incalza, e promette al
potente vero ministro di far cadere il governo pur di difenderlo. Ma senza l’allegria di un
tempo, quando sfidava le intercettazioni al telefono con Dario Maniglia (galassia Cl),
dirigente della cooperativa Fiorita: “Sono l’onorevole Maurizio Lupi, tuo amico fraterno,
così si registra meglio. Non me ne frega un cazzo, possono venirmi anche a fare una
pompa”. Questa ai magistrati di Firenze, città di Renzi, non deve avergliela detta.
Del 18/03/2015, pag. 5
Le chiamate del ministro per il figlio e i
manager con le tangenti dell’1%
FIRENZE Pressioni, interventi, richieste. Sono decine le telefonate del ministro Maurizio
Lupi allegate agli atti dell’inchiesta di Firenze che ha portato in carcere l’alto funzionario
Ercole Incalza e l’imprenditore Stefano Perotti. E dimostrano come sia stato proprio il
titolare delle Infrastrutture a chiedere di trovare un lavoro al figlio Luca, da poco laureato in
Ingegneria. Non solo. Almeno in un’occasione lo stesso Lupi si sarebbe speso
direttamente per garantire a Perotti un incarico per un appalto pubblico.
È un vero e proprio sistema di potere quello svelato dall’indagine dei pubblici ministeri,
coordinati dal procuratore Giuseppe Creazzo, che hanno accertato l’esistenza di una
maggiorazione sui lavori assegnati dalla Struttura guidata da Incalza. Secondo l’accusa
almeno per essere favorite le aziende dovevano riconoscere ai due manager almeno l’1
per cento della somma incassata. Tenendo conto che Perotti ha gestito appalti per 25
miliardi di euro, si parla di tangenti per almeno 250 milioni di euro. Per questo gli ulteriori
accertamenti si concentrano sulla società «Green Field System», ritenuta la «cassaforte»
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di entrambi. E su quei conti esteri che la famiglia Perotti risulta aver movimentato negli
ultimi anni.
«Incontra mio figlio»
I contatti per trovare una sistemazione a Luca Lupi cominciano i primi giorni di gennaio
2014. Le numerose conversazioni intercettate dai carabinieri del Ros guidati dal generale
Mario Parente, dimostrano che è stato proprio il ministro a chiedere a Incalza di avere un
incontro con il ragazzo e poco dopo il funzionario si è attivato con Perotti. Alla fine del
mese, tutto è risolto. Il giovane ottiene un incarico in un cantiere dell’Eni dove anche
Perotti ha ottenuto la direzione dei lavori. Evidentemente però non è sufficiente. Scrive il
giudice nell’ordinanza di cattura: «L’aiuto fornito da Stefano Perotti a Luca Lupi non è
limitato al conferimento dell’incarico sopra descritto. Il 4 febbraio 2015 Perotti chiede
all’amico Tommaso Boralevi che lavora negli Stati Uniti, di dare assistenza ad un loro
ingegnere che al momento lavora presso lo studio Mor e verrà impiegato a New York. E
dice: “Lavorerà in una prima fase per lo studio Mor come commerciale per cercargli delle
opportunità eccetera. Gli abbiamo dato anche noi un incarico collegato per le nostre
attività di direzione lavori, management, te lo volevo mettere in contatto che sicuramente
tu che sei una specie di motore acceso qualche dritta gliela puoi dare no?».
L’amico di Luca
Il «sistema» viene evidentemente utilizzato da Luca Lupi anche per aiutare i suoi amici. Si
scopre intercettando l’account di Franco Cavallo, definito nelle conversazioni «l’uomo di
Lupi», ma collaboratore stretto anche di Perotti e molto legato ai proprietari della
cooperativa «La Cascina». Il 10 novembre 2013 riceve una mail con la seguente nota:
«Ciao Franco, sono Paolo, l’amico di Luca Lupi, in allegato il mio CV. domani ti scrivo,
grazie mille ciao. Paolo Androni». Tre giorni dopo lui la gira a un amico imprenditore
Rizzani de Eccher: «Claudio ti inoltro il CV di un amico del figlio di Mauri interessato a
lavorare in Russia/Ucraina. È un bravo ragazzo. Se puoi valutarlo te ne sarei grato. Nel
frattempo lo farò conoscere a Giovanni Come sempre grazie Frank». E dopo altri quattro
giorni lo stesso testo viene mandato a Giovanni Li Calzi, anche lui indagato con l’accusa di
far parte dell’entourage di Incalza e Perotti .
«Ho sentito il ministro»
Nell’ottobre 2013 Perotti e i suoi amici mirano ad ottenere un incarico per la costruzione
del terminal del porto di Olbia. Quando capiscono di avere almeno una ditta concorrente si
attivano presso il ministero. Le intercettazioni dimostrano che Lupi interviene direttamente
contattando Fedele Sanciu, Commissario dell’Autorità Portuale. Ad occuparsi della pratica
è Cavallo. Cosi il giudice ricostruisce la vicenda: «Il 21 ottobre 2013 Cavallo chiede un
appuntamento ad Emanuele Forlani della segreteria del Ministro Lupi. Dieci giorni dopo
Perotti anticipa a Bastiano Deledda (responsabile unico del procedimento) che il 12
novembre 2013 sarà in Sardegna con Cavallo per incontrare il capo, alludendo a Sanciu:
“Abbiamo deciso di intervenire perché sennò qua...”. Cavallo telefona a Sanciu, e,
presentandosi come “l’amico di Maurizio”. Dice: “È impegnato? Sono Cavallo l’amico di
Maurizio quello che l’ha telefonato ieri sera... Lupi... la richiamo dopo, non si preoccupi ci
sentiamo dopo perché vengo a trovarla grazie”. Lo stesso giorno Cavallo ritelefona a
Sanciu il quale subito fa presente che è stato già telefonato dal ministro: “Mi ha telefonato
il ministro”. Cavallo, nel riferire che ha presenziato a questa telefonata, anticipa a Sanciu
che il 12 novembre andrà in Sardegna a trovarlo: “Sì sì so tutto ero con lui, ma noi ci
siamo visti, ci siamo già conosciuti sulla sua barca, ero con Maurizio qualche volta. Senta
io vorrei venire da lei a trovarla se fosse possibile. Martedì 12, allora mi arrangio io e poi,
diciamo che verso mezzogiorno le va bene?”». L’accordo viene trovato, l’incarico a Perotti
però rimane in sospeso perché nel marzo 2014 Sanciu risulta indagato proprio con Lupi in
un’inchiesta avviata in Sardegna e viene sostituito.
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I conti svizzeri
Scrive il giudice: «Nel caso in esame una direzione dei lavori ha assunto, grazie a un
collaudato sodalizio criminale, la funzione di mero strumento per far transitare su società e
soggetti privati enormi somme di denaro (per compensi non inferiori all’1 per cento
dell’importo dei lavori appaltati, ma in molti casi fino addirittura al 3 per cento), prive di
sostanziale giustificazione quanto alle prestazioni professionali realmente rese, ed
inquadrabili piuttosto nel prezzo di una dazione corruttiva, ossia di utilità illecite in favore
del sodalizio medesimo, costituite dallo stesso conferimento dell’incarico professionale di
direzione lavori, e spesso anche da una miriade di assunzioni od incarichi di consulenza
collaterali alla gestione dell’appalto, del tutto fittizi, in favore “di amici degli amici” del
pubblico ufficiale o di suoi prestanome o accoliti».
Proprio per rintracciare questi soldi che, dice l’accusa, sono finiti a Incalza e Perotti, si
continua a battere due piste. La prima si concentra sugli affari della società «Green Field
System». L’altra porta in Svizzera e in particolare alla Banca Julius Baer & Co. Sa
con sede in Lugano, dove Christine Mor, moglie di Perotti, risulta avere un conto
movimentato con un trasferimenti di denaro in Italia nel febbraio 2014, tanto da essere
indagata per riciclaggio. I carabinieri del Ros hanno documentato alcuni viaggi in territorio
elvetico della coppia e adesso si concentrano proprio su queste trasferte.
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Del 18/03/2015, pag. 5
Renzi vuole le dimissioni ma punta a evitare
scontri
E sulla corruzione è scontro tra l’associazione magistrati e il premier
Fabio Martini
«Caro Maurizio, non credi che...». È con un tono ancora amichevole che Matteo Renzi in
queste ore sta cercando di convincere Maurizio Lupi a mollare. Nelle chiacchierate
telefoniche Renzi ha lavorato ai fianchi il suo ministro, lo ha fatto ragionare sulle cattive
sorprese che l’inchiesta potrebbe ancora riservare, gli ha chiesto se ci siano lati oscuri che
potrebbero aggravare la situazione e alla fin fine gli ha fatto capire che sarebbe meglio
fare un passo indietro. Renzi fortissimamente vuole che Lupi si dimetta, ma non ha
affondato, non gli ha ancora chiesto in modo formale le dimissioni. una richiesta che fatta
in tono ultimativo non darebbe scampo al ministro.
Se Renzi, per ora, usa le buone maniere un motivo c’è. Il premier non ha ancora
affondato, perché spera che sia il suo ministro a rassegnare le dimissioni, più o meno
spontaneamente. Dimissioni imposte d’imperio, Renzi lo sa, segnerebbero uno strappo
con l’Ncd e con Lupi in particolare, uomo di punta di Cl, movimento ramificato, di potere,
ancora forte in Lombardia. Al Senato sono pochi i seguaci di Lupi ma al Senato non si
scherza. Certo, le minacce attribuite genericamente a Lupi, attenti che così cade il
governo, hanno fatto imbufalire Renzi, ma non cambiano la strategia: a palazzo Chigi
vogliono che l’operazione-sgancio sia la più soft possibile.
Ma comunque vada a finire questa storia, in cuor suo Renzi una decisione strategica l’ha
già presa: la Struttura tecnica di missione, la cabina di regia di tutte le grandi opere,
passerà presto dal controllo del ministero delle Infrastrutture a quello di Palazzo Chigi.
Tutte le grandi opere - dalla Tav all’Expo, dal Metro C di Roma a quella di Milano, ma
anche tutti i grandi tratti autostradali - fino ad oggi sono passate al setaccio del
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Coordinamento presso il ministero delle Infrastrutture, con una gestione che nei mesi
scorsi aveva allarmato Palazzo Chigi e, dietro le quinte, aveva portato ad uno scontro tra
Renzi e Lupi.
Uno scontro del quale si trova traccia nelle carte dell’inchiesta, in particolare in un
colloquio, nel quale il ministro Lupi ad un certo punto, riferendosi alla Struttura tecnica,
dice al suo amico Ercole Incalza: «Su questa roba ci sarò io lì e ti garantisco che se viene
abolita la Struttura non c’è più il governo! L’hai capito, l’hanno capito?!”». Ora Renzi
sarebbe intenzionato a portare a complimento l’operazione bloccata mesi fa per
l’opposizione del ministro delle Infrastrutture: o tenendosi per qualche tempo l’interim o
spostando il coordinamento a palazzo Chigi. In entrambi i casi l’uomo più indicato per
guidare la struttura sembra essere Luca Lotti, il sottosegretario alla Presidenza che al
governo ha confermato le caratteristiche, di affidabilità e di efficienza operativa, che ne
avevano fatto l’uomo di fiducia di Renzi a palazzo Vecchio. Ma l’inchiesta sulle grandi
opere ha acceso una polemica davvero irrituale. Parlando ad UnoMattina, Rodolfo Sabelli,
il presidente dell’Anm, il “sindacato” dei magistrati, ha testualmente detto: «Uno Stato che
funzioni dovrebbe prendere a schiaffi i corrotti e accarezzare chi esercita il controllo di
legalità», ma in Italia è accaduto il contrario: «I magistrati sono stati virtualmente
schiaffeggiati e i corrotti accarezzati». Parole lapidarie e al tempo stesso generiche alle
qual Renzi ha risposto così: «Dire che lo Stato dà carezze ai corrotti e schiaffi ai magistrati
è un falso, una frase falsa. Sostenere questo, avendo responsabilità istituzionali, è triste».
del 18/03/15, pag. 1/4
Chi decide per il decisionista
Michele Prospero
Le carte della procura di Firenze sollecitano, per la politica, la domanda più classica. Chi
comanda in Italia? È tutto nelle mani del premier che governa con le slide, fa il selfie con
chi capita, scrive tweet a ritmo febbrile e interviene su ogni inezia del creato? Se la politica
fosse solo comunicazione, Renzi avrebbe già risolto l’enigma del potere. È tutto nella sua
stanza di palazzo Chigi, con la lampadina notturna sempre accesa in segno di permanente
lavoro sulle scartoffie. Le scolaresche che cantano inni di giubilo in sua presenza sono la
conferma dello scettro ritrovato.
Se, oltre la scintillante scena della rappresentazione, si osservano però altre variabili, il
quadro del potere si complica. Il governo dei «senza retroterra», come è stato
autorevolmente battezzato, ovvero l’esecutivo degli incompetenti, non riesce davvero a
recuperare lo spazio della politica in un mondo che scivola sulla richiesta di
neutralizzazione dei valori alternativi avanzata dalla tecnica e sull’espropriazione degli
ambiti di democrazia ordinati dalle agenzie del capitale e della finanza.
I ministri che ignorano i risvolti delle grandi opere, si perdono nei labirinti
dell’amministrazione, e anzi si vantano di aver portato al potere tutta la loro inesperienza,
non allarmano perché decidono troppo. Inquietano perché decidono cose che ordinano
loro dei poteri che non controllano. E sono proprio queste oscure agenzie, un misto tra
pubblico e privato, impresa e grandi commessi di stato, funzionari e lobbisti, che hanno
appiccicato i galloni sulle spalle agli statisti della porta accanto e sono pronti a strapparli
alla prima occasione.
Renzi si vanta per aver imposto il suo decisionismo veloce. Ed esplicita la sua filosofia
delle istituzioni in questi termini, molto semplificati: «Per il governo io ho in testa il modello
di una giunta che funziona con un forte potere di indirizzo del sindaco». Se davvero fosse
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possibile tramutare il presidente del consiglio in sindaco e il governo in una giunta,
sarebbe certificata la fine della politica, la sua riduzione ad amministrazione spicciola e
l’ingresso in un mondo della favola, senza grandi conflitti sociali. Solo che, anche quando
annuncia di avere concentrato tutto il potere in una stanza, Renzi inciampa in un ennesimo
annuncio che è, come gli altri, inattendibile.
Nessun osservatore assennato è disposto a riconoscergli competenze reali nell’arte di
governo. Improvvisa, esagera, ignora, semplifica, forza. E mostra tutta la sua fragilità nel
ruolo di statista, quando dichiara che «vorrebbe Putin nella sua squadra» o celebra un re
degli Emirati come «campione della libertà». Nel gioco della simulazione infinita, che è
diventata l’opera di governo nell’età leggera del pubblico, il premier narra, si diverte tra
telecamere amiche, viaggia servendosi dei simboli del potere e illustra le norme giuridiche
con le slide. L’agenda però la scrivono altri. Non solo il governo privato (economisti e
imprenditori amici, come l’ex amministratore delegato Guerra), ma la Confindustria, i poteri
europei, le burocrazie inossidabili che resistono al mutar dei ministri.
Renzi è velocissimo quando si tratta di dare esecuzione agli ordini dei forti poteri che
esigono la precarizzazione del lavoro ed è poi di un imbarazzante immobilismo nelle scelte
(evasione fiscale, legge anti corruzione) che colpiscono gli interessi consolidati, i privilegi e
le rendite di posizione. Il sociologo Luca Ricolfi ha effettuato sul Sole 24 Ore una
radiografia dell’azione di governo certificando nel referto l’impossibile rinascita di una
destra liberale. «Renzi — scrive — è già abbastanza di destra da lasciare ben poco spazio
a un’opposizione dello stesso tipo».
E, in effetti, tutte le sue rapide scelte (dalla riforma costituzionale, al taglio dell’Irap per le
imprese, dalla cancellazione dell’articolo 18 alla responsabilità civile dei giudici, dai tagli
alla spesa pubblica al preside manager) sono «abbastanza di destra». Proprio sul solido
terreno destrorso delle politiche pubbliche è possibile la nascita del partito unico della
nazione che sposa gli interessi di potenze private che dettano i programmi e lasciano che
il leader pseudo carismatico occupi la scena della rappresentazione con simulazioni di
nuovo, velocità, simpatia.
In parlamento non c’è più una dialettica politica che incrini il dominio della coalizione
sociale che ha, quale suprema guida spirituale, la finanza e il grande capitale e, per suo
docile esecutore materiale, il governo dei senza retroterra, selezionati perché in rapporti
privati con influenti centri di potere. Senza promuovere un’altra coalizione sociale legata al
lavoro, l’autonomia della politica sfuma e anzi bisogna cestinarla nel novero delle grandi
utopie. Le carte fiorentine svelano la trama affaristica del circolo governo-burocrazieamministratori-imprese impegnato nel gran ballo dell’opulenza in un tempo di politica al
tramonto.
del 18/03/15, pag. 5
Lupi
Uomo forte. Ma con i poveri
Roberto Ciccarelli
Grandi opere. Ritratto del ministro che ha voluto l’insensata autostrada
Orte-Mestre, una «grande opera» da 10 miliardi di euro. E con il piano
casa vuole tagliare le utenze alle case occupate e nega la residenza agli
occupanti
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Amico dei potenti delle autostrade, nemico degli occupanti delle case. Sono i due volti
mostrati nella sua azione di governo dal ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi,
cattolico ala Comunione e liberazione, perno del governo con delega ai progetti faraonici
dello Sblocca italia e alla sua guerra ai poveri contenuta nell’articolo 5 del Piano Casa,
quello che minaccia di tagliare acqua luce e gas alle occupazioni abitative e nega la
residenza a migranti e poveri. È il mix di crudeltà sociale e politica degli interessi emerso
nel primo anno del governo Renzi.
Esponente dell’Ncd, piccolo partito ex berlusconiano ma potente per numero di ministeri
occupati, Lupi si è tra l’altro contraddistinto per avere difeso con i denti l’insensato progetto
di autostrada Orte-Mestre contenuto nello Sblocca Italia. Trecentonovantasei chilometri
che collegheranno il Lazio al Veneto, devastando terreni agricoli e campi coltivati. Costano
9,844 miliardi di euro e rappresentano la più costosa «grande opera» italiana. Da far
impallidire il Tav in Val Susa. La sua gestazione è stata complessa, ma Lupi ha maturato
un’ossessione. Coltivata sin da quando è diventato ministro alle infrastrutture
nell’amplissimo governo Letta quando era ancora un fedelissimo di Berlusconi. Nel
novembre 2013 il Comitato interministeriale per la programmazione economica, il Cipe,
approvò la mega-opera. Lupi sostenne che l’autostrada rientrava tra le opere
infrastrutturali strategiche europee, i progetti Ten-T. Il giornalista economico Luca
Martinelli ha ricordato ieri in un articolo su Altreconomia che la Commissione Ue ha negato
la rilevanza strategica della Orte-Mestre e ha smentito Lupi. Per la Commissione è solo un
intervento «complementare alla rete Ten-T».
Il mostro autostradale è stato inoltre bocciato dalla Corte dei Conti nell’estate 2014 perché
l’opera realizzata in «project financing», già prevista dalla Legge Obiettivo approvata da un
governo Berlusconi, era finanziata con un aiuto pubblico indiretto da 1,8 miliardi di euro
attraverso una defiscalizzazione. Ma il governo non si è scoraggiato e nello Sblocca Italia
ha approvato un comma (il quarto dell’articolo 2) che risolve il problema. Convertito in
legge a novembre 2014, lo Sblocca Italia ha dato il via libera a un’opera voluta dall’ex
eurodeputato Pdl Vito Bonsignore, oggi nell’Ncd, indagato dalla procura di Firenze
nell’inchiesta «Sistema» che ha portato in carcere, tra gli altri, il supermanager delle grandi
opere Ercole Incalza. Per proteggere la sua direzione alla struttura tecnica di missione che
gestisce le grandi opere Lupi sembra fosse disposto a far cadere il suo governo. Secondo
l’ordinanza del Gip, Incalza avrebbe favorito l’avvio dell’iter amministrativo del
finanziamento e assicurato un trattamento di favore al consorzio Ilia Or-Me che ha
proposto il project financing della cosiddetta «Romea commerciale». In cambio il consorzio
avrebbe promesso di affidare l’incarico di direzione dei lavori a Stefano Perotti, col quale
Incalza «aveva instaurato un rapporto corruttivo». Perotti, agli arresti, ha accumulato 17
incarichi come direttore di lavori di grandi opere. «Chi oggi ha ancora il coraggio di
sostenere il sistema delle “grandi opere”, con tutto il corollario di norme straordinarie
pensate ad arte per promuoverle ha una responsabilità politica enorme» sostiene la Rete
nazionale Stop Orte-Mestre.
Capitolo meno appariscente in queste ore, ma altrettanto importante, è la politica della
casa di Lupi. Un fallimento, a guardare i dati sull’andamento degli sfratti nei primi sei mesi
del 2014. I nuovi sfratti sono stati 39.427 (di cui 35.257 per morosità), le richieste di
esecuzione 74.718, gli sfratti eseguiti con la forza pubblica hanno raggiunto la cifra
astronomica di 18.465, quasi 2 mila in più rispetto al 2013, al ritmo di 142 in media al
giorno. «Sono fallite le mirabolanti promesse del piano Casa – afferma Walter De Cesaris
(Unione Inquilini) — Troppo poche le risorse per il fondo sociale affitti e per la morosità
incolpevole, troppo complesse e lunghe le procedure burocratiche per l’erogazione dei
contributi, non c’è alcun intervento pubblico che consenta il passaggio da casa a casa».
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Del 18/03/2015, pag. 10
Il Csm: trasferire Di Matteo ovunque, mai in
Antimafia
LA COMMISSIONE: “VIA DA PALERMO PER MOTIVI DI SICUREZZA”.
MA IL PM RIFIUTA
Quella nomina non si deve fare. Il Csm le sta provando tutte pur di non far arrivare alla
Procura nazionale antimafia (Dna) il pm Nino Di Matteo, da oltre 17 anni impegnato in
prima fila nella lotta a Cosa Nostra e ai suoi fiancheggiatori, anche istituzionali. Venerdì il
magistrato ha ricevuto dalla Terza commissione una convocazione a “comparire
personalmente per essere ascoltato in relazione alla pratica di trasferimento extra ordinem
tesa a tutelare le esigenze di sicurezza in base alla normativa vigente, fermo restando il
principio di inamovibilità (in questo caso il magistrato può essere trasferito solo
volontariamente, ndr)”. La pratica è stata aperta il “5 marzo”, giorno in cui alcuni giornali
hanno dato la notizia che proprio la Terza commissione aveva escluso Di Matteo la
settimana precedente dalla corsa alla Dna. CON LA CONVOCAZIONE di ieri ha cercato di
mettere una toppa che è peggio del buco perché, in base alla circolare sui trasferimenti
straordinari, preclude a Di Matteo qualsiasi incarico direttivo, semi direttivo e, guarda caso,
anche la Procura nazionale antimafia. Il pm è arrivato ieri al Csm intorno alle 10: 30 in
gran segreto ed è rimasto un paio d’ore. I commissari hanno voluto sapere quali fossero le
sue richieste per l’eventuale trasferimento, ma il magistrato ha risposto che qualsiasi
valutazione doveva essere rinviata all’esito del concorso a cui aveva partecipato: ritiene
inopportuno esprimersi, eventualmente, per un suo trasferimento da Palermo prima
ancora che il Plenum voti i candidati alla Dna. Di Matteo ha anche fatto osservare ai
componenti del Csm che la questione sicurezza, peraltro aperta due anni fa con le
condanne a morte pronunciate da Totò Riina, non lo riguarda da alcune settimane. Già da
giugno 2013 il comitato per l’ordine e la sicurezza ha istituito un servizio di protezione di
livello 1, cioè quando c’è il massimo rischio di vita. La Terza commissione, in grande
imbarazzo per non aver scelto Di Matteo nonostante i suoi titoli, ha provato a giocarsi la
carta del trasferimento per motivi di sicurezza. Una mossa che sembra voler mettere le
mani avanti: noi non scegliamo Di Matteo per la Procura nazionale antimafia, ma ci siamo
preoccupati della sua incolumità. L’ESCLUSIONE del magistrato dalla Dna non è ancora
definitiva perché il plenum della scorsa settimana è stato aggiornato grazie agli interventi
di due consiglieri: Aldo Morgigni, togato di Autonomia e Indipendenza e Piergiorgio
Morosini, di Area. Morgigni ha sostenuto che Di Matteo non era stato valutato nel giusto
modo rispetto ai titoli e all’esperienza, quindi da undicesimo lo ha spostato al primo posto,
con il meccanismo dei punteggi assegnati per ogni titolo. Il consigliere ha ricordato che il
pm ha oltre 17 anni di carriera esclusivamente nell’antimafia, il suo curriculum “spicca
rispetto a quello vantato dagli altri aspiranti per le caratteristiche di qualità e quantità del
suo impegno professionale”. Il consigliere Morosini aveva chiesto che la pratica tornasse
in Commissione per una “ulteriore riflessione” dei componenti sul lavoro svolto dal pm Di
Matteo, ma la sua proposta è stata bocciata. Il Plenum è stato rinviato perché
sull’emendamento Morgigni era necessario il parere del procuratore nazionale antimafia
Franco Roberti. Parere che è già arrivato ed è favorevole. Ma oggi al plenum non si
affronteranno le nomine alla Dna. Ci sono ancora mediazioni in corso. C’è chi spinge – e
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la Terza commissione sarebbe d’accordo – perché Di Matteo possa passare al prossimo
giro, tra un mese, quando il Csm dovrebbe aprire altri due posti. MA DI MATTEO il giorno
del rinvio del Plenum ha dichiarato che attende di “comprendere per quali ragioni nella
proposta della Commissione in Csm sono stato collocato in graduatoria dopo molti colleghi
che possono vantare un’esperienza temporalmente molto più limitata presso le direzioni
distrettuali antimafia rispetto alla mia”. Di questo, all’audizione di ieri, non si è parlato.
del 18/03/15, pag. 5
Il “casalese” che ricostruiva L’Aquila
Serena Giannico
L'AQUILA
Persona su cui il boss Michele Zagaria, detto «capa storta», faceva affidamento e molto
amico dei casalesi. Nella cerchia di un giro malavitoso che gli si è stretto attorno: Raffaele
Cilindro, 51 anni, impegnato, con la propria azienda, negli appalti per la ricostruzione post
terremoto a L’Aquila, è finito in manette con l’accusa di associazione camorristica, in
un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli. L’uomo, originario di San
Cipriano d’Aversa (Caserta), è stato stato arrestato dai Ros a Casapesenna. Oltre alle
manette, gli sono stati anche sequestrati beni per un milione e mezzo di euro.
Il legame di Cilindro con il capoluogo abruzzese passa per Alfonso Di Tella, imprenditore
originario di Caserta ma che da trent’anni vive in Abruzzo e che è stato rinchiuso in
carcere lo scorso giugno, insieme ai figli e ad altri costruttori dell’Aquila, nell’ambito
dell’inchiesta denominata Dirty job sulle infiltrazioni della camorra, e in particolare dei
casalesi, nella ricostruzione privata e nella spartizione della torta dei subappalti. Il gip
dell’Aquila, Marco Billi, scrisse che ad accomunare i due è «una lunga amicizia», che salta
fuori anche nell’ordinanza del giudice delle indagini preliminari di Napoli, Egle Pilla, che ha
accolto le richieste dei pm antimafia Catello Maresca e Maurizio Giordano e del
procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli. Pilla parla di «stretta relazione». Cilindro, secondo
gli inquirenti, avrebbe partecipato alle attività della fazione Zagaria, finanziandola con
somme di denaro periodiche, mantenendo i contatti con gli affiliati e, soprattutto, ospitando
il capo durante la latitanza.
La relazione con Zagaria agevolava Cilindro nella propria attività. Bastava presentarsi e,
negli affari, le porte gli si spalancavano, grazie al potere intimidatorio del clan. Commesse
pubbliche e non solo, per le quali versava «spontaneamente» il 5% dell’importo nelle
casse della camorra. Accordo che, col tempo, gli ha fruttato fior di appalti e di quattrini:
così è arrivato anche a L’Aquila. Dove, appunto, era forte il rapporto con Di Tella,
conosciuto prima del sisma ma frequentato intensamente dopo. Negli atti figura una
conversazione in cui Cilindro, chiamato al telefono, invita Di Tella, che sta partendo
dall’Aquila, al compleanno della madre. Tra i due, stando a quanto accertato, c’era un
patto. Di Tella doveva consentire di lavorare alle ditte di Casapesenna e «un pensiero era
sempre rivolto a Cilindro», fa presente il gip Billi. In un’intercettazione, Di Tella dice al figlio
Domenico: «Vediamo un poco di far lavorare a quello… o sennò un poco a Cilindro… gli
facciamo fare un subappalto». «Nei mesi di gennaio e giugno del 2013 Di Tella Alfonso —
afferma ancora il gip — dava disposizione ai propri figli di girare le somme di denaro
direttamente a Cilindro effettuando prelievi o dalla cassaforte di famiglia o direttamente dai
conti correnti facenti capo alla società di famiglia. Dalle conversazioni degli indagati era
subito chiaro che le somme di denaro consegnate a Cilindro derivavano dalle estorsioni
delle indennità della Cassa edile percepite dagli operai gestiti dai Di Tella».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 18/03/15, pag. 6
Alghero oltre il campo, liberati tutti i Rom
Costantino Cossu
Alghero
Reportage. Con i soldi dell’Unione europea il comune catalano chiude il
campo nomadi e dà il via a un progetto di integrazione che diventa un
modello per tutti. Aperto trent’anni fa il centro di Arenosu spianato dalle
ruspe. 12 famiglie vanno a vivere in città, uno schiaffo al razzismo
Che cosa hanno sentito quando i denti d’acciaio di una ruspa hanno ridotto in macerie il
luogo dove avevano vissuto per trent’anni? Lì erano arrivati quando i loro figli erano
piccoli. Lì erano diventati vecchi. A cercare scampo tra le baracche avevano visto arrivare
altri come loro, altri romà, in fuga da una guerra schifosa. Case di lamiera e roulotte nel
folto di una pineta, con il mare a due passi che fa salmastro il vento. Vita da nomadi in un
angolo lungo la costa che i gagé hanno chiamato Arenosu, perché la terra rossa del
sottobosco è sabbiosa e quando piove si trasforma in un fango che sembra volersi
divorare tutto.
Ho pensato ai vecchi romà quando sono andato a vedere ciò che è rimasto del campo
nomadi di Fertilia, piccola frazione di Alghero, sgomberato il 29 gennaio scorso. Ho
pensato ai ricordi, buoni e cattivi, che i vecchi romà hanno lasciato sotto le rovine, quando
ho visto il lavoro che avevano fatto le ruspe mandate dal Comune. Tutto è stato raso al
suolo; restano solo lamiere contorte, cocci, taniche arrugginite. Era appena piovuto e il
fango era lì, sotto i resti di una scaletta che doveva portare all’ingresso di una baracca,
intorno a una piccola spianata sulla quale erano ancora impressi i segni delle gomme di
una roulotte. Dove fino a poco tempo fa vivevano dodici famiglie, cinquantuno persone di
cui trenta bambini, ora non c’è più niente. L’ombra dei pini custodisce solo il silenzio.
Fine dell’esclusione
Non lo hanno subìto, però, i romà di Fertilia, lo sgombero del loro campo. Niente polizia,
niente carabinieri, nessuno sgombero coatto. Rom in italiano si traduce «uomo libero». I
romà dell’Arenosu hanno liberamente deciso di lasciare quel posto per andare a vivere tra
i gagé, in città, ad Alghero.
Lo hanno fatto quando il sindaco, Mario Bruno, ha trovato a Bruxelles i soldi di un fondo
comunitario che finanzia progetti di inserimento dei nomadi. Chiudere i campi e far vivere i
romà come tutti gli altri. Fine della segregazione abitativa che fa tutt’uno con
l’emarginazione, l’esclusione, il razzismo. Con i denari della Ue, Bruno (che è diventato
sindaco alla guida di una lista civica vittoriosa, alle elezioni, sia sul centrosinistra sia sul
centrodestra) ha aiutato i romà a trovare un tetto in mezzo ai gagé. Decisivi i finanziamenti
europei, ma altrettanto decisive altre due cose. La prima è il ruolo giocato dalla
Associazione contro l’emarginazione (Asce) e dalla sua presidente, Irene Baule. La
seconda è la funzione di garante che presso gli algheresi che hanno accettato di locare
abitazioni ai romà si è accollato il Centro di ascolto della Caritas di Alghero.
«Non è stato per niente facile – racconta Irene Baule – Verso i romà c’è molta diffidenza.
E anche razzismo; usiamola, la parola. Ma alla fine siamo riusciti a far capire che le paure
erano del tutto infondate». C’è voluta pazienza perché nel muro di ostilità preconcetta si
aprisse una breccia. I romà dell’Arenosu sono di origini bosniache e di religione
musulmana. Il campo è stato aperto nel 1984. Negli anni Novanta è arrivata una seconda
45
ondata di famiglie che fuggivano dalla guerra dei Balcani. Le baracche erano alle porte di
Fertilia, un piccolo borgo costruito alla fine degli anni Trenta dall’«Ente di colonizzazione
ferrarese», istituito da Mussolini per dare una risposta alla fame di terre dei contadini della
Bassa: una delle «colonizzazioni interne» volute dal regime. Nel secondo dopoguerra a
Fertilia sono arrivati i profughi dell’Istria e della Dalmazia.
Sono loro, i più vecchi, che ora rappresentano, insieme con figli e nipoti, la maggioranza
dei duemila abitanti di Fertilia. Strano incrocio di culture intorno all’Arenosu: Alghero è una
città di fondazione aragonese gemellata con Barcellona, la gente parla catalano; a Fertilia
nei bar e nelle piazze suona, stretta e rapida, la lingua dei giuliani; in entrambi i luoghi,
quasi a fare da contrappunto, le cadenze antichissime del romanì. «Con i giuliani c’erano
un sacco di problemi», dice Luca Hadzovic, nato nel campo nel 1984, artigiano del rame
che lavora nella raccolta di materiali ferrosi e che dall’Arenosu è venuto via con la moglie e
tre bambine.
«Potrei raccontare diversi episodi di intolleranza di cui io e altri romà siamo stati vittime.
Noi però abbiamo sempre cercato di parlare con loro. Di fare capire. Io, tutte le volte che
qualcuno si alzava su contro di noi, gli ricordavo che anche loro, i dalmati e gli istriani,
erano arrivati profughi da terre non lontane da quelle che anche noi abbiamo dovuto
lasciare. Ora però ho una casa, e questa è la cosa importante. Non è stato un gioco
abbandonare il campo. Era la nostra dimora comune. Lì avevamo memorie e affetti. Lì
abbiamo vissuto, abbiamo celebrato nascite e morti, matrimoni e feste. Per gli anziani,
soprattutto, è stato complicato. Ma è meglio così. Meglio chiudere il campo. Che noi
abbiamo una lingua e una religione diverse non significa che non possiamo essere
cittadini come gli altri. Io sono cittadino algherese, sono cittadino italiano esattamente
come quelli che ora sono i miei vicini di casa. Ci hanno accolto bene, i vicini di casa e gli
altri, ad Alghero. Il progetto del Comune è una buona cosa. È il futuro, per me che ho
trent’anni, ma di più per le mie tre figlie, che hanno diritto a una vita dignitosa. Il campo è il
passato, dobbiamo continuare a lavorare perché l’integrazione diventi una realtà, ad
Alghero come dappertutto».
Non è che al progetto del Comune e dell’Asce non ci siano state resistenze. Quando s’è
saputo che Bruno e Baule avevano trovato casa per le famiglie del campo di Fertilia, i
giornali locali e la segreteria del sindaco sono state subissate di email e lettere di algheresi
che protestavano indignati: «Come, tanti di noi non hanno un alloggio e Bruno, invece di
preoccuparsi dei suoi concittadini, trova un tetto ai nomadi?». «Ecco vede — commenta
Luca — noi non siamo cittadini. Prima vengono i cittadini veri, gli algheresi, e poi noi, i
nomadi. Ma io sono cittadino come gli altri, ho gli stessi diritti; non voglio togliere niente a
nessuno e però non voglio che niente sia tolto ai cittadini romà. Per fortuna chi ragiona
così alla fine è una minoranza. Alghero ha risposto in maniera diversa. Abbiamo fiducia».
È solo il primo passo
Bruno conferma: «Sì, le tensioni ci sono state. Ma poi hanno prevalso il dialogo e la
ragionevolezza. Le risorse finanziarie per i romà erano stanziamenti europei vincolati, che
potevamo spendere solo per il progetto di integrazione. Per l’edilizia popolare i soldi li
abbiamo trovati da un’altra parte: sono arrivati dalla Regione Sardegna. Credo che lo
spirito di accoglienza sia prevalente. Bisogna però creare le condizioni perché si
concretizzi. Ciò che abbiamo fatto è solo il primo passo. Ora bisogna sostenere
l’integrazione con un lavoro quotidiano, che faremo con l’Asce e con l’apporto prezioso dei
nostri servizi sociali».
La commissione tutela dei diritti umani del Senato ha recentemente approvato una
risoluzione che chiede il superamento dei campi nomadi e impegna il governo ad attuare
l’insieme di misure previste dalla «Strategia nazionale di inclusione di rom, sinti e
cammninanti» approvata tre anni fa su sollecitazione dell’Ue. «È la strada — dice Irene
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Baule — che l’Asce indica da sempre. Ad Alghero è stato possibile muoversi finalmente in
questa direzione per una serie di circostanze favorevoli. Tutte, però, riproducibili altrove.
Anche dove i campi nomadi sono molto più grandi di quello di Fertilia, a Roma ad esempio
o in altre grandi città, è possibile mettere in atto pratiche amministrative e strategie di
coinvolgimento sulla base delle quali avviare il processo virtuoso che in Sardegna s’è
dimostrato possibile. La nostra esperienza è un modello. Una realtà concreta che toglie
ogni alibi al mantenimento delle vergognose pratiche di segregazione dei romà».
del 18/03/15, pag. 6
«Quanto costa all’Italia segregare nei
megacampi?»
Roma Sinti Fest. Dopo mafia capitale
Il sindaco di Alghero Mario Bruno ha raccontato l’esperienza compiuta in Sardegna con la
chiusura del campo rom di Fertilia al «Roma Sinti Festival», che si è svolto sabato scorso
nella capitale nel Nuovo Cinema Aquila, organizzato da ZaLab. Mario Bruno ha
partecipato a una tavola rotonda intitolata «Oltre i campi attrezzati. Buone pratiche per il
superamento della segregazione abitativa».
Insieme a tanto altro, il «Roma Sinti Fest» è servito anche a lanciare la petizione «Oltre i
megacampi», promossa dalla Associazione 21 luglio e da ZaLab.
«Il recente scandalo di Mafia Capitale — si legge nella petizione lanciata all’iniziativa — ha
portato finalmente alla luce una situazione complessa, che molti di noi denunciano da
anni. Non solo quella della distrazione di milioni di euro di fondi pubblici da parte di
individui senza scrupoli, ma anche gli interessi celati nell’alimentare con ingenti risorse
pubbliche la profonda iniquità e inefficienza del sistema dei megacampi per rom». «Sulla
scia di quanto emerso a Roma — dicono Associazione 21 luglio e ZaLab — è oggi
quantomeno lecito porsi delle domande per accertarsi come vengano spesi i fondi rivolti
alle comunità rom e sinte anche in altre parti d’Italia e chiedere dunque trasparenza
sull’impatto territoriale, sociale e umano di anni di politica dei megacampi nomadi. Se solo
Roma per rispondere all’emergenza abitativa di 8.000 rom e sinti ha speso 130 milioni di
euro in cinque anni, quanto è costato alla collettività italiana aver violato sistematicamente
i diritti umani di decine di migliaia di rom e sinti segregandoli nei megacampi nomadi in
Italia?».
«Chiediamo perciò ai sindaci e alle amministrazioni delle città italiane — conclude la
petizione — di impegnarsi concretamente per promuovere reale inclusione delle comunità
rom e sinti presenti sul territorio attraverso il superamento della politica ghettizzante dei
mega-campi nomadi, come vuole la “strategia nazionale d’inclusione dei rom, sinti e
camminanti” sottoscritta dal governo italiano nel febbraio 2012 e come raccomandato più
volte da Commissione europea, Consiglio d’Europa e Nazioni unite».
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WELFARE E SOCIETA’
del 18/03/15, pag. 1/25
I dati Istat 2008-2013 nel Rapporto Aisp certificano la “partenza” di
30mila persone l’anno dal Settentrione mentre si è praticamente fermato
il flusso dal Sud
La crisi ha capovolto l’Italia degli emigranti
uscite record dal Nord Mezzogiorno disilluso
ROSARIA AMATO
ROMA .
Si parte di nuovo, ma sempre meno dal Sud. La crisi ha ribaltato le statistiche
dell’emigrazione italiana: le partenze dal Mezzogiorno e dalle Isole tra il 2008 e il 2013, gli
anni della recessione, scendono, anche in misura consistente, mentre quelle dal Nord-Est
e dal Centro salgono, e quelle dal Nord-Ovest quasi raddoppiano rispetto al periodo
precedente. Il dato emerge dal “Rapporto sulla popolazione. L’Italia nella crisi economica”,
edito dal Mulino. Tra il 2008 e il 2013 dal Nord sono emigrati in media ogni anno quasi
30.000 italiani, contro i poco più di 17.000 del periodo 2002-2007. «Si tratta di un’area
dove il tasso di disoccupazione si era mantenuto a lungo a livelli molto bassi. Di colpo s’è
innalzato a partire dal 2008, e le persone hanno cominciato a muoversi. Anzi è proprio
nelle aree più dinamiche del Paese che la reazione alla crisi da parte dei residenti è stata
più forte», osserva Salvatore Strozza, docente di Demografia presso l’Università Federico
II di Napoli e coordinatore insieme ad Alessandra De Rose del rapporto, che viene
pubblicato ogni due anni dall’Associazione Italiana per gli studi di popolazione (Aisp)e si
avvale della collaborazione di numerosi ricercatori universitari e dell’Istat.
I numeri sono consistenti (anche se sottostimati, precisano i ricercatori, considerando che
si utilizzano dati Istat e sulle cancellazioni anagrafiche per l’estero, ma molti emigranti non
si preoccupano di trasferire la residenza): tra il 2002 e il 2007 hanno fatto le valigie in
media ogni anno 9.980 italiani residenti nel Nord-Ovest, mentre tra il 2008 e il 2013 la
media annua è salita a 17.209. Al contrario, al Sud si è passati da una media annua di
14.411 a quella di 11.412, e una diminuzione un po’ meno corposa si riscontra anche nelle
Isole. Cosa è successo, nel Mezzogiorno è prevalsa la rassegnazione? Mentre il NordOvest, abituato a livelli migliori di vita e di reddito, non si è arreso alla crisi, e ha deciso di
cercare di meglio oltreconfine? In effetti la situazione è un po’ più complessa: il Sud si è
svuotato negli anni della crisi, tra il 2008 e il 2012 si sono perduti oltre 250.000 residenti (al
netto dei nuovi iscritti per trasferimento provenienti dal Centro-Nord), che si sono trasferiti
nelle altre aree del Paese, soprattutto al Nord. Negli ultimi vent’anni la media è stata di
120.000 residenti persi l’anno: tra il 1995-2012 sono 2,2 milioni coloro che hanno lasciato il
Mezzogiorno per trasferirsi al Centro-Nord. «Dal Sud si va al Nord, dal Nord non si può
che andare all’estero, un estero che in fondo non è così straniero, spesso è relativamente
vicino, Germania, Austria, Francia, Svizzera. — commenta Strozza — Chissà anzi che la
crisi non abbia accelerato un processo naturale, un fenomeno di spostamento interno tra i
Paesi dell’Unione Europea ». In effetti Germania, Svizzera e Regno Unito sono le mete
principali degli emigranti italiani, ma la crisi incide anche rispetto a queste scelte, per cui
nei sei anni della recessione cresce la capacità di attrazione di Regno Unito (più 45%
rispetto al 2002-2007), Francia (più 53%) e Spagna (più 77%). A fare la differenza sono le
prospettive: negli anni della crisi partono molti più laureati di prima, se nel 2005 erano
appena il 15%, tra il 2011 e il 2012 hanno superato il 22%. Non partono necessariamente i
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giovani: si va via anche tra nella fascia d’età 35-44 anni, e in questo caso la percentuale di
laureati supera il 32%. Persone qualificate in cerca di sbocchi adeguati alle loro ambizioni,
e infatti per questo nel quinquennio della crisi si riduce il richiamo della Germania, che
assorbe pochi laureati, mentre aumenta quella di Paesi come gli Stati Uniti, il Brasile o
anche il Belgio, dove circa un quarto degli emigrati possiede la laurea.
Del 18/03/2015, pag. 20
«Più impegno e più soldi all’assistenza
sociale»
ROMA Nella giornata mondiale del servizio sociale, gli assistenti sociali italiani chiedono al
governo, con una lettera aperta della presidente Silvana Mordeglia, «rispetto, dignità» e
«più giustizia». «Per noi significa che gli individui, i gruppi e le famiglie debbano essere
liberi da nuove e vecchie schiavitù, e dai pregiudizi». I soldi ci sono, dice Mordeglia,
«occorre solo cambiare le scelte politiche». Riordinare la professione, chiede il ministro
della Giustizia Andrea Orlando, «a partire dalla riforma calendarizzata al Senato». Bisogna
superare, continua, «il parametro economico» e considerare che «i Paesi che hanno
mantenuto un livello alto di spesa sociale sono quelli dove è maggiore la coesione». Il
capo dello Stato Mattarella condivide, e scrive che «molto rimane da fare»; «il nostro
impegno è quello di mettere sempre in evidenza il punto di vista di chi è più debole,
persone con disagio psichico e fisico, minorenni, anziani soli, migranti». La presidente
della Commissione Infanzia, Michela Brambilla, vede una «discrepanza», tra la protezione
«reale» e quella «legale» dei minorenni, che si supera solo «cambiando prospettiva»,
mettendo le politiche per i bambini in cima all’agenda del governo.
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DIRITTI CIVILI
del 18/03/15, pag. 7
Opg, commissariamento per Veneto e
Piemonte
Eleonora Martini
Intervista. Il sottosegretario alla salute De Filippo annuncia
provvedimenti per Zaia e Chiamparino. Scaduto il termine per la
chiusura degli ospedali pschiatrici, quasi tutte le altre regioni stanno
attuando il programma
Inaspettatamente c’è qualcosa che accomuna il Veneto del leghista Luca Zaia e il
Piemonte del democratico Sergio Chiamparino: sono le uniche due regioni che rispetto
alla chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari non hanno mostrato grande interesse e
impegno. I compiti a casa — presentati domenica scorsa, 15 marzo, termine ultimo per le
regioni per presentare i piani di attuazione della riforma per il superamento degli Opg e per
trasmettere l’elenco delle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza
sanitaria) — sono stati completamente insufficienti. E per questo «rischiano il
commissariamento», spiega il sottosegretario alla Salute Vito De Filippo (Pd) che presiede
l’Organismo di coordinamento che «con 12 riunioni bisettimanali» ha messo a punto il
percorso e che contiuerà a seguire tutto l’iter di dismissione dei vecchi manicomi criminali.
L’Italia è pronta a chiudere definitivamente quella che il Guardasigilli Orlando ha
definito «una pagina triste»?
Secondo la mappa che abbiamo dovuto trasmettere al Ministero di Giustizia, gran parte
delle Regioni saranno pronte dal 1° aprile: Valle d’Aosta, Lombardia, Liguria, EmiliaRomagna, Toscana, Lazio, Campania, Basilicata, Sicilia e Sardegna, e la Provincia
Autonoma di Bolzano. Poi c’è il caso di Abruzzo e Molise dove la struttura congiuntamente
individuata sarebbe pronta ma il comune ospitante ha impugnato la delibera e si è in
attesa del pronuciamento del Tar che potrebbe arrivare entro la fine del mese. I casi molto
a rischio sono due: il Veneto e in parte il Piemonte. Le altre regioni e la Provincia di Trento
hanno individuato soluzioni transitorie che hanno bisogno però di tempi di attivazione più
lunghi e dunque saranno pronte entro l’autunno. Solo in due o tre casi, poi, si è dovuto far
ricorso al privato accreditato, ma solo in forma transitoria. Insomma, mediamente mi
sembra che il Paese abbia colto in maniera puntale non solo quanto prescritto dalla legge
81/2014 ma anche l’ampio dibattito che c’è stato riguardo al superamento di questi luoghi
che si presentano come luoghi arresi.
Perché «arresi»?
Li definisco così perché sono stati luoghi finalizzati solo all’espiazione delle pene. Oggi la
legge stabilisce che nelle Rems i malati siano sottoposti a importanti attività riabilitative e
terapeutiche e che debbano scontare la misura di sicurezza per un tempo che non può
superare la pena edittale, come qualsiasi altro cittadino. Basta con gli «ergastoli bianchi»,
non ci può essere un sistema carcerario diverso per le persone con malattie psichiche.
La legge prevede il commissariamento delle Regioni che non hanno rispetto i tempi.
Procederete in questo senso, almeno con le due regioni che non hanno approntato
alcun piano?
Avendo deciso che non ci sarà alcuna proroga, possiamo tollerare qualche settimana di
ritardo ma il governo indubbiamente utilizzerà lo strumento del commissariamento nel
caso si protraesse il fermo totale.
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Come avverrà il trasferimento dei circa 450 internati che dovrebbero rimanere negli
Opg alla fine di marzo?
Con molto tatto, non sarà certo un trasferimento di massa. Stiamo parlando di persone
mosse da angosce, paure e inquitudini, dunque da manovrare con molta delicatezza. Dal
1° aprile comincerà questo processo con un cronoprogramma costruito con la
magistratura, i Dipartimenti di salute mentale e i servizi sociali. Sanzioneremo le regioni
che non cominceranno.
Il superamento degli Opg passa però soprattutto per un nuovo protagonismo dei
Dsm ma anche delle comunità territoriali. C’è stata una riorganizzazione, un
potenziamento dei Dsm? E come sta reagendo il territorio che dovrà reincludere i
malati dimissibili?
Devo dire che le regioni hanno già risposto con sollecitudine alla prima scadenza che era
quella di valutare quanti internati fossero dimissibili, e predisporre per loro un piano
terapeutico e riabilitativo. Mi sembra, per quello che stiamo monitorando, che il ritorno di
queste persone nelle regioni e nei territori sarà un ritorno consapevole e ben organizzato.
Ma nel provvedimento sugli Opg abbiamo messo ulteriori risorse finanziarie per consentire
a questi servizi di essere adeguati ai bisogni nuovi. Ora si tratta di andare avanti e
chiudere finalmente, entro il 2015, una pagina imbarazzante per l’Italia.
del 18/03/15, pag. 7
In cella un po’ di luce tra le ombre
Luca Fazio
Carcere. L'associazione Antigone ha presentato l'undicesimo rapporto
nazionale sulle condizioni della detenzione in Italia. Si tratta di un
documento ricco di dati e spunti redatto dalla fonte di informazione
indipendente più completa sul sistema penitenziario italiano (info:
www.associazioneantigone.it)
Uno sguardo attento su chi è dentro restituisce sempre l’immagine più nitida su ciò che sta
succedendo qui fuori. Ecco perché l’undicesimo rapporto nazionale sulle condizioni di
detenzione di Antigone è uno strumento di analisi molto utile anche per i non addetti ai
lavori (consultabile sul sito www.associazioneantigone.it).
I detenuti nelle carceri italiane sono 53.982. Nel dicembre del 2013 erano 62.536, dunque
la popolazione carceraria è diminuita di 8.554 unità in un anno e tre mesi. Un calo analogo
si è verificato nelle carceri europee (complessivamente ci sono 1 milione 737 mila
detenuti, 100 mila meno rispetto all’anno precedente). Il dato italiano, se confrontato con il
2011, dice che in tre anni i detenuti sono diminuiti di 12.915 unità. Ma non basta: secondo
il Dap i posti letto sono 49.943, dunque il tasso di sovraffollamento è pari al 108% (108
persone ogni 100 posti letto).
Oggi si entra meno in carcere: nel 2008, ministro degli Interni Maroni, ci sono stati 92.800
ingressi, l’anno scorso 50.217 (in sei anni una diminuzione di 42.683 unità). Il calo è
dovuto alla modifica della legislazione sugli stranieri (non c’è più la norma che prevedeva il
carcere per il mancato rispetto dell’obbligo di espulsione) e alle nuove norme in materia di
arresto che tendono ad evitare detenzioni brevi e custodia cautelare. Ma la “notizia”, da
tenere a mente quando il discorso fa leva sulla paura, è un’altra: calano i detenuti ma
calano anche i reati, quindi non c’è legame tra i tassi di detenzione e quelli di delittuosità.
In carcere ci sono persone non criminali che una volta libere non commettono altri reati.
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Nel 2014, con meno carcerati, l’indice di delittuosità calcolato sul numero di abitanti è
calato del 14% (gli omicidi sono diminuiti dell’11,7%, le rapine del 13% e i furti dell’1,5%).
L’Italia ancora una volta si conferma come uno dei paesi più sicuri al mondo con 0,9
omicidi ogni 100 abitanti, al di sotto della media europea, con un indice più basso anche di
paesi come Norvegia e Finlandia (a livello mondiale è al 157esimo posto, gli Usa con 4,7
omicidi sono al 94esimo).
Altri numeri inducono a una riflessione sulla legalizzazione delle droghe leggere
(cannabis), come ha suggerito al parlamento anche la Direzione nazionale antimafia
evidenziando “l’oggettiva inadeguatezza di ogni sforzo repressivo”. I reati in violazione
della legge sulle droghe nel 2014 sono stati 18.946 ovvero il 15% del totale (erano 10 mila
in più nel 2010 ai tempi della legge Fini-Giovanardi). A fronte di questo calo c’è stato
invece un aumento di detenuti accusati di criminalità organizzata (6.903 a fronte dei 5.227
del 2008). Inoltre, con la legalizzazione della cannabis in Italia, come è avvenuto negli stati
del Colorado e di Washington, lo stato risparmierebbe 100 milioni di euro (tra introiti delle
tasse e riduzione dei costi per la repressione). Ci sarebbero almeno 10 mila detenuti in
meno, e un calo di reati legati al consumo.
Il capitolo più interessante sulla composizione sociale della popolazione detenuta parla
degli stranieri, dunque anche degli italiani. La percentuale di stranieri nelle nostre carceri è
del 32% sul totale (17.462 persone), quasi uno su tre: 11 punti in più rispetto alla media
europea. Ma a livello europeo, su 370 mila stranieri detenuti, uno su tre è di origine
comunitaria: dunque gli extracomunitari sono 250 mila, il 14% del totale. Sono numeri che
spiegano l’infondatezza della propaganda razzista che sta dilagando in tutta Europa.
Tornando a noi, “l’etnicizzazione del diritto penale” comincia nel 1998 con l’entrata in
vigore di Schengen e la lunga teoria di “pacchetti sicurezza” che da quel momento hanno
contraddistinto le politiche migratorie di tutti i governi. Rispetto al 2008 la percentuale di
stranieri detenuti è calata del 5%, ma è probabile che nuove campagne xenofobe possano
invertire la tendenza.
Un’altra “patologia” del sistema penitenziario è il suicidio: 9 persone si sono tolte la vita
dall’inizio del 2015, 44 nel 2014. Una media di 7,7 decessi ogni 10 mila detenuti quando in
Europa è del 5,45, anche se molto inferiore alle percentuali di suicidi in Francia (14,4),
Svezia e Norvegia (10) o Germania (8,2). Sempre nel 2014, 933 persone hanno tentato di
uccidersi e 6.919 si sono ferite con atti di autolesionismo. Ricco di informazioni anche il
capitolo sulla salute. Un dato su tutti: un detenuto su due ha una malattia infettiva, uno su
tre è affetto da un disturbo di natura psichiatrica.
Infine, far di conto aiuta per capire quanto i soldi siano spesi male. Il sistema penitenziario
italiano è piuttosto “caro”. Il costo medio giornaliero per detenuto è di circa 150 euro e la
spesa per il personale è pari all’82,9% del totale. Due record europei. Su altre voci, scrive
Antigone, si tira la cinghia, “e questo forse aiuta a capire la ragione dell’attuale disastro”.
del 18/03/15, pag. 7
Depenalizzare cannabis e immigrazione
Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone
In carcere c’è più spazio grazie alle riforme seguite alla sentenza di condanna della Corte
Europea risalente a due anni fa nel caso Torreggiani. C’è stato un calo significativo della
popolazione detenuta e sono state date direttive per rendere più normali e dunque meno
vessatorie e umilianti le condizioni di vita interna. Non è facile capire cosa accadrà
nell’immediato futuro.
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Tutte le strade sono ancora percorribili. Quella che noi auspicheremmo è quella della
depenalizzazione, della decarcerizzazione e dell’umanizzazione. Due esempi per tutti.
È necessario che in materia di droghe si segua il nuovo modello statunitense e si opti
decisamente per la legalizzazione della cannabis e la decriminalizzazione della vita dei
consumatori.
Il quadro internazionale non è ostile. Gli investigatori nostrani lo auspicano. Sarebbe una
scelta di efficienza e libertà. Invece noi siamo ancora a tartagliare in chiave resistenziale di
fronte alle fronde punitive capeggiate da Gasparri e Giovanardi.
Un secondo esempio è dato dalle norme in materia di immigrazione. Anche qui avremmo
bisogno di un radicale cambio di paradigma nelle scelte legislative al fine di rendere
agevole l’acquisizione e la conservazione del titolo di soggiorno nel nostro Paese sulla
sola base del riconoscimento del percorso di vita del singolo individuo. L’ingresso o la
permanenza irregolari non costituiscono oggi più reato ma centinaia di migliaia di persone
vivono in circuiti forzosamente illegali dove è facile che si opti per la via breve del reato.
Le due questioni – droghe e immigrazione — sono fra loro connesse in modo profondo. Se
agissimo contemporaneamente in chiave anti-proibizionista su entrambi i fronti ne
beneficerebbe il nostro sistema della giustizia finalmente libero nel potersi concentrare sui
reali bisogni di sicurezza del Paese.
Ovviamente all’orizzonte è sempre forte il rischio che invece si torni a perseguire la strada
del securitarismo e dell’emergenzialismo penale, strada che inevitabilmente porterebbe a
riempire nuovamente le patrie galere. Anche in questo propongo due esempi.
In primo luogo quando si annunciano norme più severe e pene più alte per i furti in
appartamento solo perché statisticamente in crescita, pur riconoscendo che tutti gli altri
delitti decrescono, si commette un grave errore concettuale. Il diritto penale deve essere
sempre quello, non deve cambiare a ogni rilevazione Istat. Altrimenti se diminuiscono gli
stupri dovremmo poi ridurre le pene relative.
In secondo luogo non è convincente la discussione intorno all’aumento dei tempi di
prescrizione a partire dalle note vicende di corruzione, anche in questo caso sull’onda
dell’emergenza (qui è ridicolo parlare di emergenza visto quanto accaduto negli ultimi
quarant’anni). La prevenzione della corruzione non avviene allungando i tempi di
prescrizione anche per tutti gli altri reati, oltre che per quelli di concussione e corruzione.
Così si arriva a sostenere che sia normale essere condannati a vent’anni dal fatto
commesso, anche se si tratta di un reato in violazione della legge sulle droghe o di un
furto. È indecente passare un quarto della propria vita in attesa di una sentenza di
condanna. C’è chi invece in Italia non rischia mai alcuna condanna. Si tratta della figura
criminale del torturatore.
In Italia manca il delitto di tortura nel codice penale nonostante gli obblighi internazionali
assunti. Nei prossimi giorni riparte il dibattito in Aula alla Camera. Speriamo che non si
perda o prenda ancora tempo.
del 18/03/15, pag. 14
Droghe, il buon senso dell’antimafia
Sergio Segio
C’è antimafia e antimafia, come ricorda spesso don Ciotti. Ce n’è una che fa della legalità
un feticcio intangibile e un’altra che persegue il cambiamento, anche delle leggi ingiuste.
C’è quella che si affida alla tortura del 41 bis e dell’ergastolo ostativo e quella che
vorrebbe si investisse su cultura, educazione, politiche sociali, responsabilità della politica.
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C’è l’antimafia delle passerelle e quella del buon senso. Quest’ultima, con la recente
Relazione della Dna di Franco Roberti, ha battuto un colpo. Tanto più significativo data la
fonte, certo non sospetta di «permissivismo» o di «cultura dello sballo», per usare gli
epiteti con cui i tifosi della «war on drugs» usano stigmatizzare chi non fa della tolleranza
zero verso i consumatori di sostanze una crociata.
La Relazione annuale (datata gennaio 2015 e relativa al periodo 1° luglio 2013–30 giugno
2014), nel capitolo relativo alla criminalità transnazionale e al contrasto del narcotraffico,
giustamente prende le mosse dalla dimensione statistica. Va detto che i numeri di
riferimento, di fonte Unodc, non sono freschissimi (2010–11, marginalmente 2012) e
anche ciò è indicativo di come all’enfasi allarmistica di organismi Onu non corrisponda poi
uno sforzo adeguato e tempestivo di monitoraggio, né una sufficiente esaustività: per
quanto concerne le droghe sintetiche, definite «fenomeno in grande espansione che
rappresenta la nuova frontiera del narcotraffico», la Relazione Dna afferma che «né
l’Unodc né altri organismi internazionali dispongono di dati sicuri».
Ma, al là delle cifre e sia pure a partire da esse, la Relazione è netta nella valutazione:
ritenere che il traffico di droghe «riguardi un popolo di tossicodipendenti, da un lato, e una
serie di bande criminali, dall’altro, è forse il più grave errore commesso dal mondo politico
che, non a caso, ha modellato tutti gli strumenti investigativi e repressivi sulla base di
questo stolto presupposto». Si tratta, invece, di fenomeno che riguarda e attraversa l’intera
società, la sua economia, la totalità delle categorie professionali. Dunque, ne consegue,
irrisolvibile con lo strumento penale.
Per quanto riguarda l’Italia, e in specie le droghe leggere, i ricercatori della Dna scrivono di
un «mercato di dimensioni gigantesche», stimato in 1,5–3 milioni di chili all’anno di
cannabis venduta. Una quantità, viene sottolineato, che consentirebbe un consumo di
circa 25–50 grammi pro capite, bambini compresi. Coerente la conclusione: «senza alcun
pregiudizio ideologico, proibizionista o anti-proibizionista che sia, si ha il dovere di
evidenziare a chi di dovere, che, oggettivamente si deve registrare il totale fallimento
dell’azione repressiva».
Nel caso si volesse continuare a fare al riguardo come le tre proverbiali scimmiette, la
Relazione non si sottrae dall’indicare esplicitamente, pur nel rispetto dei ruoli, la strada:
«spetterà al legislatore valutare se, in un contesto di più ampio respiro (ipotizziamo,
almeno, europeo ) sia opportuna una depenalizzazione della materia».
Inutile dire che la Relazione è rimasta sinora priva di risposte da «chi di dovere».
La decennale pervicacia dell’ideologia repressiva, e del connesso grumo di interessi, che
condiziona i governi di diverso colore e che ha prodotto, o tollerato, l’obbrobrio della legge
incostituzionale Fini-Giovanardi, è dura da estirpare. Ma il buon senso e i fatti hanno la
testa dura: il muro criminogeno del proibizionismo si sta sgretolando in più di un paese,
come ha riepilogato qui Grazia Zuffa («il manifesto» dell’11 marzo 2015).
Verrà il momento anche dell’Italia, dove ancora, come diceva il compianto Giancarlo
Arnao, è proibito capire.
Del 18/03/2015, pag. 17
Eutanasia, svolta in Francia
Sì alla legge sul fine vita
Via libera dell’Assemblea alla “sedazione” dei malati terminali
Paolo Levi
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«Promessa mantenuta». Dopo due giorni di dibattito, l’Assemblea Nazionale francese ha
approvato a larga maggioranza - 436 voti a favore, 34 contrari e 83 astenuti - la proposta
di legge sul fine vita, uno dei sessanta grandi impegni del presidente, François Hollande,
durante la campagna presidenziale che nel maggio del 2012 lo portò all’Eliseo. Presentato
dai deputati di due opposti schieramenti, il socialista Alain Claeys (Ps) e il neogollista Jean
Leonetti (Ump), il testo non autorizza né l’eutanasia né il suicidio assistito ma instaura il
diritto di «sedazione profonda, continua» e irreversibile fino alla morte per i pazienti in fase
terminale. La proposta di legge, che ora passa al vaglio del Senato, rende inoltre vincolanti
tutte le «direttive» dettate in precedenza dal malato per rifiutare l’accanimento terapeutico.
«Dormire prima di morire per non soffrire»: questo lo spirito del nuovo progetto legislativo,
secondo quanto riferito dallo stesso Leonetti.
Dopo le nozze gay
A quattro giorni dalle elezioni provinciali di domenica - dove la maggioranza socialista
rischia un’ennesima batosta davanti all’avanzata del Front National - Hollande può dunque
vantare una seconda grande riforma sociale, dopo la legge sulle nozze gay del 2013.
Mentre non si fermano le critiche per la sua inefficacia sul fronte economico e
occupazionale. «Ci congratuliamo per il sostegno molto ampio sulla proposta di legge sul
fine vita adottato all’Assemblée nationale», plaude il premier, Manuel Valls, in uno dei suoi
numerosi cinguettii su Twitter. Respinti nei giorni scorsi i circa settanta emendamenti presentati da alcuni membri della stessa maggioranza socialista, ecologisti e radicali della
gauche - che puntavano a legalizzare il suicidio assistito e l’eutanasia. Il ministro della
Salute, Marisol Touraine, che nel 2009 difese una proposta di legge per un «aiuto attivo a
morire» insieme a Valls, ha chiesto di «non forzare la società francese» e accettare «il
progresso significativo» della proposta Claeys-Leonetti.
Proteste in Aula
Il voto all’Assemblée è stato turbato da un breve incidente. Ignoti hanno gettato dalle
tribune del pubblico volantini con la scritta: «No all’eutanasia», «R come resistenza»
suscitando il richiamo del presidente dell’emiciclo, Claude Bartolone. Secondo un
sondaggio Bva, in Francia circa il 96% della popolazione è favorevole a una sedazione
quando a chiederla è il paziente. Lunedì scorso, cinque leader religiosi - un cattolico, un
protestante, un ortodosso, un ebreo e un musulmano - hanno lanciato insieme un
avvertimento. «Chiediamo che questa legge civile sia civilizzatrice, ovvero che aiuti a
vivere e morire, senza mai accorciare la vita, senza mai decidere di dare la morte».
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INFORMAZIONE
del 18/03/15, pag. 14
Il gattopardo Renzi sulla Rai
Vincenzo Vita
Ancora sulle divergenze tra il compagno Renzi e noi. Per parafrasare, con sprezzo del
pericolo e delle proporzioni, la polemica del 1963 tra i comunisti cinesi e Palmiro Togliatti.
Il riferimento, invero più angusto, riguarda la riforma della Rai. In attesa di leggere con
attenzione un qualche cosa di scritto in linguaggio giuridico, ci si attiene al «testo che
seguirà», come ha scritto con arguzia Michele Ainis sul Corriere della sera di sabato 14
marzo.
Per ciò che è dato sapere, però, il quadro che si presenta è persino un po’ peggio di quello
cui ci si era riferiti nei giudizi «a caldo». Infatti, il ritornello autunno-inverno del Governo
«fuori i partiti dalla Rai» –che fa pensare al tormentone estivo di qualche anno fa vamos a
la playa, per insistenza e reiterazione– non trova al momento concreta traduzione nelle
ipotesi avanzate dall’esecutivo. Se tutto si dovesse ridurre, infatti, al passaggio da nove
consiglieri di amministrazione a sette, di cui ben quattro eletti dalle Camere, altro che
rivoluzione copernicana.
Tra l’altro, come è stato segnalato in tempo reale da Roberto Zaccaria, l’eventuale
affidamento della scelta al Parlamento in seduta comune richiederebbe una modifica
costituzionale, visto che le casistiche sono tassativamente previste dalla Carta. Quindi, lo
spirito dei partiti rientra dalla porta, neppure dalla finestra.
Prova ne sia che l’obsoleta Commissione di vigilanza (pensata in epoca di monopolio)
rimane e ribadisce la bardatura di un meccanismo di governance nient’affatto semplificato.
Inoltre, due consiglieri sarebbero indicati dal Ministero dell’economia e uno – il prediletto
— assurgerebbe al ruolo di amministratore delegato. E’ lecito chiedersi dove stia la vera
novità.
Se si analizza la questione in punto di forma, c’è solo da ricordare che l’attuale vertice ha
già amplissimi poteri, previsti dalla (ahinoi) legge Gasparri e dallo stesso statuto
dell’azienda. Se, invece, si intende introdurre una «rottura» simbolica, alla Marchionne per
dire, allora articoli e commi contano ben poco. Il contentino offerto alla cultura
partecipativa viene a ridursi al componente designato dai dipendenti: proprio poco e
persino imbarazzante.
Suvvia. Che senso ha dibattere ossessivamente di modalità di nomina, di criteri di scelta,
dei ruoli e funzioni senza chiarire visioni e linee generali?
Cosa deve diventare, insomma, il servizio pubblico nell’epoca in cui le previsioni
sull’evoluzione delle tecniche e dei modelli di consumo si stanno avverando? Servono
tanto una strategia industriale quanto un’opzione culturale. Il resto viene di conseguenza.
Quand’anche resuscitasse Steve Jobs e si accampasse a viale Mazzini che farebbe? E
non è credibile rispondere a simile interrogativo senza rimettere mano all’intero universo
dei media, aprendo la strada ad un effettivo sviluppo integrato, superando concentrazioni
e conflitti di interessi.
Insomma, non di sola governance vive la Rai. Non ha senso tenere i tavoli (editoria, banda
larga, industria dell’audiovisivo, diritti e doveri nella Rete) separati e incomunicanti . Così,
un’altra occasione andrà perduta.
Si è detto in coro che ciò che si annuncia ha il sapore di una controriforma, di un viaggio
nel passato, con il rischio di andare contro la giurisprudenza della Consulta. Non sarebbe
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meglio, allora, prendere in esame le varie proposte di legge già depositate e invitare gli
interlocutori coinvolti ad un confronto impegnativo e trasparente?
Parrebbe logico. A meno che il disegno, a pensar male, sia altro.
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
del 18/03/15, pag. 3
Gli invisibili della scuola in piazza a Roma
contro Renzi
Migliaia di precari della scuola hanno manifestato ieri a Montecitorio e al Miur contro la
riforma Renzi «Buona Scuola». Una pessima riforma, in realtà, per i 140 mila precari con
contratto di supplenza annuale e per almeno 100 mila abilitati dopo il 2011, esclusi dal
governo dalle assunzioni (100.701) previste — forse — già a settembre. Per loro solo un
concorso» e, se non lo vinceranno, la disoccupazione. E questo nonostante il fatto che in
molti casi abbiano anni di lavoro in aula e molti titoli accumulati. Promotori dei sit-in a
Montecitorio il Mida, al Miur l’Anief. Alle proteste si sono unite sigle autonome come
l’Adida o il Co.n.itp, e poi anche il Codacons e il Movimento 5 Stelle. «Per impedire a
Renzi di portare a compimento lo scempio della scuola pubblica italiana è necessaria una
mobilitazione compatta e permanente. Sigle e bandiere in questa battaglia non contano:
serve la volontà di stare uniti per fermare a contrastare le balle sull’istruzione che il
presidente del Consiglio lancia da mesi a telecamere unite. A questa battaglia, per i diritti
del mondo dell’istruzione, noi siamo pronti» hanno detto i parlamentari 5 Stelle della
commissione Cultura. «Si tratta di docenti — ha detto Marcello Pacifico, presidente Anief e
segretario organizzativo Confedir — selezionati e formati su una previsione di posti vacanti
nel triennio o quinquennio successivo. La maggior parte ha già svolto i 36 mesi di servizio
su posto vacante, indicati dalla normativa, confermata dalla curia di Lussemburgo a fine
novembre, per essere assunti a tempo indeterminato. Allo stesso modo, rimane incredibile
l’esclusione dal piano di immissioni in ruolo, ridotto nel frattempo da 150mila a 100mila
posti, di tante altre tipologie di insegnanti, a partire dai maestri d’infanzia. Il no del
Governo, inoltre, si rivela una vera beffa, dopo che per oltre sei mesi era stato detto che
sarebbero stati immessi in ruolo tutti i precari abilitati, cancellando una volta per tutte la
“supplentite”». La protesta a Montecitorio è riuscita a riempire lo speakers’ corner con
striscioni e cartelli di questo tenore: «Vergogna, la buona scuola siamo noi». Diversi gli
striscioni e i cartelli affissi: «La Buona Scuola la fanno alunni e docenti, non i presidipadroni»; «Nero è il futuro dei precari, bianca è la scheda degli elettori»; «Dignità ai
docenti». La richiesta è quella della stabilizzazione di tutti i precari. In alternativa, il
governo verrà sommerso dai ricorsi. Con costi, calcola l’Anief, fino a tre miliardi di euro.
Del 18/03/2015, pag. 15
La scuola del cottimo e i prof ostaggi dei
dirigenti
LE REGOLE DEL DUO RENZI-GIANNINI CREANO L’INDUSTRIA
DELL’OBBLIGO DELL’ISTRUZIONE
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Da insegnanti a venditori di pentole. Da qualche giorno chi entra in classe si sente proprio
così: uno che dovrà conquistare giorno per giorno il posto di lavoro ammaliando il dirigente
scolastico che avrà in mano il destino di professori e maestri. Ci lamentavamo della scuola
azienda pensata dal governo Berlusconi ma Gelmini a quanto pare fa proprio rima con
Giannini: il progetto dell’ex inquilino di Trastevere è stato portato a termine dal premier
Matteo Renzi e dalla fedele Stefania che non manca, a ogni conferenza stampa, di
strizzare l’occhio al premier appena finisce di parlare. Come gli scolaretti più ruffiani. Il
primo ministro ha mantenuto le promesse: addio alle graduatorie a esaurimento, basta con
il precariato. Era il suo ritornello. Sembra di risentirla la voce da imbonitore dell’ex sindaco
di Firenze mentre presenta la “Buona Scuola”. È vero sarà così: non dovremo più restare
in attesa della convocazione di fine agosto all’ufficio scolastico provinciale. Non saremo
più un numero in una lista che scorre. Non dovremo più scegliere in quale scuola fare
lezione dal 1 settembre al 30 giugno. Addio all’ansia di fine agosto, alle code nei corridoi
degli ex provveditorati, agli sguardi smarriti dei colleghi del Sud destinati a innominabili
paesi delle province sconosciuti ai più. ORA FINIREMO tutti negli albi regionali e
territoriali. È cambiato il nome ma non la sostanza: saremo di nuovo in lista. Non tutti per
l’esattezza. I docenti di seria “A” ovvero quelli di ruolo, i colleghi che a oggi hanno un
posto, potranno dormire sonni tranquilli a meno che non chiedano trasferimento in una
nuova sede. I prof di serie “Z” quelli che per decenni hanno mandato avanti ogni anno la
scuola con contratti a tempo determinato, finiranno negli albi. Un sostantivo quest’ultimo
che ricorda il decreto legislativo 227 / 2005. Eravamo ai tempi di Letizia Moratti: l’ex primo
cittadino di Milano ci provò a istituirli ma fu costretta ad abbandonare l’idea per il rischio di
incostituzionalità. Quindici anni dopo il progetto è tornato a galla. I docenti tra qualche
mese dovranno iniziare a pensarci a meno che il Parlamento blocchi il piano aziendale per
l’industria dell’obbligo dell’istruzione partorito da Renzi. Prof e maestri, una volta entrati a
far parte dell’albo regionale potranno esprimere una preferenza territoriale. Ma attenzione:
varrà la pena individuare una zona dove i posti non mancano, pena la mancata
assunzione. Se il prof. di Brugherio sceglierà una provincia che ha poche cattedre, in caso
di indisponibilità, resterà a casa: entrerà a far parte della squadra dei disoccupati. Il resto
lo farà il dirigente. Sarà l’uomo o la donna che stanno seduti nell’ufficio di presidenza a
sfogliare la lista e a chiamare i papabili dipendenti. IL CAPO DELLA DITTA scuola
sceglierà i suoi operai, dovrà (secondo il disegno di legge) ridurre il numero di alunni per
classe, valutare il suo personale, premiare quelli che per lui saranno i migliori. Già mi
sembra di vedere le code di docenti vestiti a puntino, con tanto di curriculum in mano,
davanti alla porta del dirigente. Già mi sembra di origliare le telefonate che l’amico degli
amici farà per chiedere al “sciur padrun” un piacere per il nipote maestro; per quel bravo
ragazzo che dà una mano anche al partito; per l’amante; per la moglie; per il fratello o la
sorella. Certo il comma 3 dell’articolo 7 del disegno di legge ha previsto che ciascun
dirigente dovrà “dare pubblicità dei criteri che adotta per selezionare i soggetti cui proporre
un incarico” ma sarà lui ad avere il libero arbitrio. Una volta assunti, non sarà finita. Gli
incarichi avranno durata triennale, chiaramente rinnovabili. L’insegnante che inizierà il suo
cammino con i bambini di prima elementare, una volta arrivati in terza, qualora non
andasse bene al dirigente, dovrà lasciare la cattedra. Da notare che in questo caso non è
prevista alcuna pubblicità dei criteri adottati dai dirigenti nel caso dovessero “licenziare” un
docente dopo 1. 095 giorni di incarico. Le organizzazioni sindacali potranno
tranquillamente abolire gli scioperi nel settore scuola: se già oggi, infatti, c’è qualche
docente che prima di starsene a casa fa i conti con ciò che potrebbe pensare il preside,
figuriamoci ora che il dirigente avrà nelle mani la vita professionale di chi insegna. AL
TITOLARE della fabbrica spetterà anche dividere il gruzzoletto che servirà a premiare i più
bravi. Tra i parametri di valutazione, oltre alla qualità dell’insegnamento (come si misura?
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C’è uno strumento?), ci sarà il rendimento scolastico degli alunni e degli studenti.
Insomma, se hai una classe di secchioni, di allievi da 10 e 9, potrai entrare nel pantheon
dei migliori ma se sei uno di quei maestri che perde tempo con il migrante tunisino arrivato
in quarta senza saper leggere e scrivere, con quel ragazzino che a casa non ha nessuno
che lo segue o con quello studente dello Zen o di Baggio che ha il padre in carcere, sarai
destinato a non avere un centesimo di più. Con buona pace degli insegnamenti di don
Lorenzo Milani.
Del 18/03/2015, pag. 15
La fabbrica dei temibili imbecilli
L’ultimo proclama del governo si dichiara riformista: annuncia una “Buona scuola”, non
ottima, lasciando intravvedere di volerne esorcizzare una pessima. In questo Paese
bulimico di parole e anoressico di fatti potrebbe significare poco; fatturassimo le intenzioni
il Pil italico sderenerebbe la Merkel. Tra tanti obiettivi encomiabili sfugge però qualcosa.
Quando si discute di scuola si parla di giovani cittadini che devono scoprirsi tali e di
cittadini adulti, gli insegnanti, che dovrebbero concorrere a realizzare questo obiettivo.
UNO È IL FINE, l’altro il mezzo (così come un ospedale è il luogo per provare a curare i
cittadini e non per occupare gli operatori che a questo fine s’impegnano). Dei 12 punti
dell’Esecutivo, almeno 8 sono focalizzati sui secondi. La nostra Italia conserva due grandi
debolezze: è una nazione giovane e acerba per formazione civile, ma abitata da un popolo
antico cresciuto nel disincanto sociale (non crede a nulla pensando di aver visto e provato
tutto). Ogni programma o progetto che migliori la scuola, e quindi la formazione dei suoi
studenti, è un progresso ma se licenzieremo imbecilli civici, il fatto che siano anche
anglofoni, musico-fili, umanisti e digitalizzati significherà solo aver cresciuto un imbecille
ancora più temibile. Se si domanda a un adulto “cos’è lo Stato?” si fatica a raccogliere una
risposta univoca. Se lo si chiede a un bambino, sarà come chiedere a un esploratore,
privo di carte e mappe, di parlarci di un mondo che non ha mai visitato. La prima Terra di
un bambino è la sua casa, il luogo in cui ha vissuto fino a quel momento: è il teatro dei
suoi valori, della sua immaginazione, il suo reale. “Essendo fatti di una stoffa la cui prima
piega non scompare più” – Massimo d’Azeglio – sappiamo che un bimbo vive il mondo
attraverso la sua famiglia e anche nella condizione più umile conoscerà, soprattutto in
Italia, un’attenzione al decoro; e se non avrà capito bene perché i genitori gli impediscono
di distruggere, creativamente, le mura di casa, avrà intuito l’idea del possesso, della
proprietà: non rompere qualcosa che è nostro, della nostra casa sia questo un piatto o un
televisore. La famiglia ti ha perciò insegnato a difendere ciò che è tuo, l’idea del privato.
Quindi, arriva l’incontro con lo Stato, con il Pubblico. Si presenta e lo fa attraverso un
edificio, la scuola, che mostra spesso abbandono, incuria, sciatteria. La scuola pubblica, il
primo luogo di alfabetizzazione civile – gli esterofili scriverebbero imprinting – è
disarmante e t’inculca l’idea che ciò che Pubblico è sinonimo di orfano: ciò che è di tutti è
di nessuno. Fatiscente. E la scuola, pagata dai propri genitori proietta l’immagine plastica
di questo fallimento sociale. Poi, quando sarai più grande, e forse ormai civilmente
compromesso, capirai che quello Stato è il primo a non credere in se stesso, altrimenti non
ti spiegheresti come mai l’ora accademica in cui il Paese si dovrebbe presentare e fare
mostra di sé, Educazione Civica, sia un riempitivo, un calembour nominale, formale, che
ognuno si guarda bene dal praticare. Perché non lavorare su quei principi immateriali che
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molte ricadute materiali possono portare? PER ESEMPIO: se fin dal primo anno di scuola
si facesse adottare a un bambino il suo banco, per il suo intero ciclo scolastico, magari
onorandolo di una targhetta, si trasformerebbe quel perimetro di fòrmica nella superficie
dello Stato; il bambino lo riceve integro e dovrà restituirlo come l’ha ricevuto. Allo stesso
modo, questa assunzione di responsabilità si potrebbe ampliare alla classe, che andrà
restituita rinfrescata a conclusione dell’anno scolastico. Il banco e la classe
rappresenterebbero l’oggetto del primo contratto tra il cittadino-studente e il suo formatore:
lo Stato. Quel banco è in parte suo, perché acquistato con i soldi di tutti. È la traduzione
pragmatica di quel detto persiano che invita a pulire l’uscio della propria casa se si vorrà
vedere la città pulita e della frase di Benjamin Franklin: “Dimmelo e me lo dimenticherò,
insegnamelo e posso ricordarmelo, coinvolgimi e lo imparerò”. Dalla gestione di questo
accordo, che descrive la partecipazione individuale all’uso e alla tutela del bene pubblico,
deriverebbe il voto di educazione civica e una comprensione più immediata e accessibile
dell’insegnamento astratto di questa materia. È sacrosanto spendere altri soldi per nuova
edilizia scolastica; lo è altrettanto formare persone che aiutino a conservare queste
strutture e a tramandarle integre. Così, quando si teorizza la partecipazione degli sponsor
e dei privati alla formazione pubblica, perché non coinvolgere le aziende che
maggiormente subiscono gli effetti del vandalismo e della diseducazione civica diffusa?
Ferrovie dello Stato, club di calcio, Autogrill e tanti altri operatori che pagano
quotidianamente il conto, privato, di un malcostume pubblico. Ho provato a raccontare
quest’idea molto semplice tanto a destra quanto a sinistra con esiti oscillanti tra il
deprimente e l’esilarante (nell’interscambiabile e inconsistente vacuità degli interlocutori
incontrati). Si può questionare su molto ma, se si appartiene a una comunità, esistono
urgenze su cui è obbligatorio trovarsi d’accordo. Trattasi di riforme a basso costo: minima
spesa, massima resa; minimi gesti, massimi effetti.
del 18/03/15, pag. 1/15
Preside e sottoposti
Un affare privato
Piero Bevilacqua
Affari privati. Il preside manager dissolve, per ora simbolicamente, la natura pubblica,
egualitaria della formazione. E nasconde la mancanza di fondi con la distribuzione di
qualche mancia
Non sono state certo poche le critiche mosse al ddl sulla scuola approvato dal Consiglio
dei ministri il 12 marzo scorso, anche da parte di commentatori pronti ad accogliere con
favore le “riforme” del governo. Merita tuttavia qualche ulteriore considerazione
l’innovazione più singolare del progetto governativo: la chiamata diretta dei docenti da
parte del preside-manager, cui si attribuisce anche la gestione di premi e incentivi ( vere e
proprie briciole per pochissimi) da elargire ai professori più meritevoli.
È fin troppo evidente che tanta discrezionalità nelle mani di un capo, sia pure
accompagnato da una “squadra” di docenti, darebbe luogo ad arbitri, pratiche clientelari,
corruzione. Mentre si trasformerebbero gli istituti scolastici in luoghi di tensione e conflitti,
con la lacerazione del corpo docente, non senza risvolti e code giudiziarie, come ha
paventato qualche commentatore. (Il preside dell’Istituto Tecnico Avogadro di Torino
Corriere della Sera, 14 marzo).
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Di sicuro, in pochi anni la scuola perderebbe quel po’ di concordia interna che ha fatto
operare per decenni insegnanti e studenti come un collettivo di lavoro. Un clima di
cooperazione reso possibile dalla impersonalità delle norme, fondate sul merito, che ha
selezionato i docenti della scuola italiana sino a oggi: pubblici concorsi, abilitazioni, corsi di
aggiornamento, ecc . È evidente che l’idea del preside che chiama all’insegnamento e
distribuisce qualche mancia serve anche a coprire la magagna che tutti conoscono:la
condizione di assoluta indigenza in cui sono lasciati da decenni gli insegnanti della scuola
italiana. Giocatore delle tre carte, Renzi si fa pubblicità come riformatore e innovatore, ma
nasconde quel che è drammaticamente necessario alla scuola italiana per farla risorgere:
investire risorse e soprattutto portare a un livello di dignità europea gli stipendi dei
professori.
L’idea del preside-capo si presta tuttavia a considerazioni più generali. Non deve sfuggire
che anche nel campo della scuola si manifesta l’ossessione di Renzi per il comando. Lo si
vede nei suoi rapporti col Parlamento e con i compagni del suo partito, lo si è visto con il
Jobs act, che dà all’imprenditore la libertà di licenziare, ora nella riforma elettorale in
discussione, che dovrebbe fornire il nome del vincitore alla chiusura delle elezioni.
Non è solo un dato caratteriale del presidente del Consiglio. L’evidente incremento di tratti
autoritari nelle società di più o meno antica democrazia è il risvolto inevitabile di un
assoggettamento crescente del ceto politico alle pressioni dei poteri economico-finanziari.
Se i corpi intermedi, le istituzioni, le casematte che hanno regolato i rapporti tra i cittadini e
tra questi e il potere, in una società complessa, sono rappresentati come ostacoli al libero
mercato, alla fine questa società si può tenere insieme solo tramite centri di comando
assoluti. Ma la scuola è un terreno delicato e particolare. L’enfasi che il ddl mette sulla
figura del preside e sull’autonomia scolastica dovrebbe suscitare serie preoccupazioni per
altre ragioni. Si va infatti verso la dissoluzione di quella struttura pubblica che regolava la
vita scolastica, con meccanismi impersonali di accesso all’insegnamento e si simula, per
affermarla poi di fatto, una privatizzazione degli istituti. Non è più lo stato, in
rappresentanza di tutti noi, che comanda, ma il preside, a sua discrezione.
Il rapporto tra insegnanti e preside non è più una relazione tra colleghi, ma un affare
privato tra un capo-azienda e i suoi sottoposti. Tale dissolvimento per il momento
simbolico della scuola pubblica nasconde un altro elemento che scardina assetti storici
consolidati: la sempre più spinta autonomizzazione dei curricula scolastici. Ogni scuola
perseguirà il proprio modello e il proprio programma di studi. Ma la scuola italiana ha
avuto, tra gli altri meriti, quello di fornire agli italiani, emergenti da una secolare storia di
localismi, di differenziazioni regionali, di diversità linguistiche, un comune fondo culturale, il
minimo indispensabile di identità nazionale. Vogliamo che la scuola abbandoni tale
compito? Bene, il presidente del Consiglio e le burocrazie ministeriali devono dirci dove
vogliono andare, a che scopo si fanno queste “riforme”, qual è il modello di società che
essi intendono perseguire.
Io credo di sapere in realtà dove vogliono andare, non per capacità divinatorie, ma perché
da anni i governi intervengono sulla scuola e si possono ben scorgere quali sono le loro
intenzionalità riformatrici. Quel che ossessiona infatti i riformatori è l’efficienza della
macchina istituzionale, senza nessuna preoccupazione della qualità dei saperi, del livello
della formazione che viene fornita ai ragazzi. E questo per una ragione ben precisa. Tutta
la visione progettuale del legislatore si esaurisce in un ben misero intento: adeguare la
scuola alle esigenze mutevoli del mercato del lavoro. E allora occorre porre il quesito:
dobbiamo innovare la scuola in tale direzione, immettere sempre più direttamente anche le
istituzioni del sapere e della formazione nel tritacarne del mercato? Questa domanda è
utile perché mette di fronte a due strade che non sempre sono distinguibili nel dibattito
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corrente, ma che occorre avere ben chiare se si vuole elaborare un progetto di scuola
all’altezza delle sfide che ci si parano innanzi.
Vogliamo una scuola che aiuti la formazione di una società nuova, più giusta e avanzata,
che rielabori per il nostro tempo un nuovo assetto di civiltà, o cerchiamo di farla funzionare
al meglio per rispondere ai bisogni presenti e immediati della società così com’è, con le
sue gerarchie e squilibri? Nel primo caso è evidente che non basta più, alla scuola italiana,
l’affermazione tra i ragazzi di una coscienza nazionale. Oggi occorrerebbe fornire una più
larga visione europea e mondiale. Uno dei compiti del riformatore dovrebbe essere quello
di introdurre elementi di conoscenza cosmopolita nella formazione dei nostri studenti, che
non possono certo esaurirsi nell’apprendimento della lingua inglese. Preparare i nuovi
cittadini del mondo, ecco uno dei compiti da assegnare alla scuola del nostro tempo,
mentre intorno a noi si scontrano storie e civiltà, ribollono guerre sanguinose dipendenti da
ingiustizie e soprusi, incomprensioni e ignoranza. E per tale asse formativo i saperi
umanistici sono irrinunciabili.
Ma oltre a quello civile e storico-politico c’è un campo conoscitivo di prima grandezza di
cui la scuola dovrebbe occuparsi: il campo delle scienze, soprattutto di quelle della natura
e del modo di insegnarle. E’ un nodo decisivo per la formazione culturale dei nostri
ragazzi. Non solo e non tanto perché un apprendimento di buon livello delle scienze
assicura poi una superiore capacità del lavoro professionale che ciascuno andrà a
svolgere.
Ma soprattutto perché oggi un insegnamento interdisciplinare dei saperi scientifici appare
decisivo per formare i giovani alla lettura della complessità del mondo. Un mondo sempre
più interrelato che stiamo distruggendo per l’ ignoranza dei più, oltre che per l’interesse
egoistico dei pochi. L’attuale formazione scientifica dei nostri ragazzi è inadeguata rispetto
ai drammatici problemi che stiamo creando alla casa comune del pianeta. Mentre della
scienza si esalta superficialmente l’aspetto tecnologico, quello che serve al mercato del
lavoro, alla “crescita”.
Eppure si dimentica che perfino la disciplina da cui dipende quasi tutto delle conquiste
tecnologiche del nostro tempo, la fisica, costringe oggi a una visone interrelata della
natura: «Ancora una volta il mondo sembra essere relazione, prima che oggetti»
(C.Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi). Nella nuova scuola la conoscenza
scientifica dovrebbe fare acquisire ai giovani un nuovo sapere scientifico-morale: l’idea di
un rapporto uomo-natura meno arcaica di quello dei loro padri.
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CULTURA E SPETTACOLO
del 18/03/15, pag. 49
Ecco perché la riforma rischia di danneggiare
le nostre città d’arte
La lettera / La riorganizzazione dei Beni culturali ha molti punti deboli,
dall’abbandono del controllo diretto di parti del territorio al disinteresse
per il patrimonio archivistico
MINA GREGORI
CARO direttore, siamo dunque arrivati al tempo finale di questo vero e proprio terremoto
che ha dato un altro volto al ministero dei Beni culturali, e soprattutto alla sua
amministrazione periferica che però ne costituisce l’ossatura determinante. A un primo
sguardo agli organici si è colpiti da due aspetti. Da un lato risulta evidente l’abolizione
delle direzioni regionali, che avevano generato tutta una serie di confusioni,
sovrapposizioni e altro, e delle quali ben pochi possono rimpiangere la scomparsa. Il
nuovo vocabolo scelto per designare i funzionari che sostituiranno i vecchi direttori è
quello di segretari, termine abbastanza curioso in questo contesto e che fa inevitabilmente
pensare al mondo politico.
D’altro canto si è invece voluto riesumare la desueta (e inopportuna) espressione “Belle
arti” per quanto riguarda le normali soprintendenze. Belle arti: espressione che tutti
credevamo ormai confinata fra i vecchi ricordi dell’Italia giolittiana, o poco meno. Ma per
giungere a questioni più sostanziali si noterà invece la conferma dell’istituzione di
cosiddette “Soprintendenze ai poli (museali) regionali”. La separazione, già introdotta in
passato, non sembra un’idea particolarmente felice visto il conflitto di competenze e
l’inutilità di certe operazioni. Soprattutto nel delicatissimo settore delle mostre, delle quali
nel nostro Paese si registra una crescita esponenziale, preferendo sempre e comunque le
mostre alle esposizioni museali.
La prospettiva però più sconvolgente riguarda la scomparsa, da più parti annunciata e ora
sancita dalle nuove nomine, di soprintendenze come Mantova e Modena e di uffici staccati
come quelli di Cremona e di Ferrara, tutti organismi che soffrono da tempo di mali, per
così dire, endemici, che andavano semmai conservati e rafforzati per l’enorme e risaputa
importanza di questi territori. L’idea che i patrimoni di alcune delle corti più importanti,
soprattutto culturalmente, in Europa debbano restare senza un controllo diretto
specialmente nel territorio, lascia esterrefatti e angosciati. Generazioni di valenti storici
dell’arte si sono, spesso eroicamente, confrontati con mille difficoltà per ottenere risultati a
volte appena soddisfacenti, e nel momento in cui si nota una generale, sia pure confusa,
ripresa dell’interesse di tante persone per i beni culturali e ambientali, questi dirigenti si
troveranno ad affrontare da sedi lontane una battaglia con armi ancora più spuntate.
Ci lascia sinceramente sconcertati, inoltre, il fatto che a capo delle nuove soprintendenze
Belle arti e Paesaggio siano stati posti essenzialmente gli architetti, i quali hanno già un
ambito professionale già ben individuato e definito. Non si vede come possano sostituirsi a
coloro che hanno una precisa competenza storico-artistica, fra l’altro col tempo sempre più
complessa. Un altro aspetto importantissimo, a cui deve essere dato il massimo risolto, è
la nuova situazione degli Archivi di Stato, a proposito dei quali si può notare come siano
semplicemente scomparse direzioni come quelle che amministravano i documenti dei
Gonzaga e degli Estensi, a Mantova e a Modena, mentre a Parma mancherà l’opera dei
funzionari addetti al patrimonio farnesiano rimasto dopo le spoliazioni. Per finire non si può
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dimenticare per la sua grande storia una culla come Urbino che, a quanto sembra, da
insigne capitale artistica risulterebbe privata, incredibile a dirsi, sia di soprintendenza che
di direzione di Archivio di Stato.
L’autrice è storica dell’arte e accademica dei Lincei. Fondamentali i suoi studi su
Caravaggio
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