il punto - Centro Studi Calamandrei

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IL PUNTO di LiberaUscita
Associazione nazionale per il testamento biologico e l’eutanasia
Tel. e fax: 0647823807 - www.liberauscita.it - [email protected]
Luglio 2008 - N° 48
SOMMARIO
LE LETTERE DI AUGIAS
808 - Galileo, la chiesa e le palestre di libertà
809 - Chi giudica se e quando consentire l’aborto
810 - Eluana e il significato di morte naturale
811 - La terza via indicata da Habermas
812 - La libertà di vivere e morire
ARTICOLI E INTERVISTE
813 - W la Spagna. No, in Italia non si può – di Giovanna Casadio
814 - La lunga lite sul testamento biologico - di Caterina Pasolini
815 - Prigioniera di un corpo, così mia madre si liberò – di C.***
816 - Il diritto di morire nel nostro medioevo – di Adriano Prosperi
817 - Gay risarcito per la morte del compagno – di Nicola Pellicani
818 - Se la tecnica cancella la morte naturale – di Aldo Schiavone
IL CASO ENGLARO
819 - Il caso Englaro – comunicato stampa di LiberaUscita
820 - La dignità - di Gian Enrico Rusconi
821 - La libertà di decidere sull’esistenza - di Umberto Veronesi
822 - I padroni della vita - di Adriano Sofri
823 - Eluana: è questione di giorni
824 - Una libera scelta per Eluana - di Enzo Mazzi
825 - La legge e l’amore - di Adriano Sofri
826 - Eluana, commissione senato esaminerà conflitto di attribuzione
827 - Eluana e la libertà di morire - di Enzo Vitale
828 - Io malata come Welby deciderò sulla mia vita - di Caterina Pasolini
829 - Conflitto di attribuzione: palesemente impercorribile – di Stefano Ceccanti
830 - Sondaggio: l’81% degli italiani la pensano come papà Englaro
831 - Malati da rispettare - di Ignazio Marino
832 - La lettera di Marina Garaventa
833 - La Cassazione non ha travalicato i suoi compiti - di Flavio Haver
834 - Politica prepotente davanti a Eluana – di Stefano Rodotà
835 - Testamento biologico. senza una legge - di Alessandro Calvi
DALLA ASSOCIAZIONE
836 - Disobbedienza incivile? – di Giampietro Sestini
837 - Su Eluana e sulla libertà – di Maria Laura Cattinari
838 - Mia moglie è prigioniera ma lei vuole vivere – di Francesco Beretta - Commenti
839 - LiberaUscita alla festa dell’Unità di Legri – di Meri Negrelli
839 – E’ morto il piccolo Davide
840 - Un altro malato di SLA intende staccare la spina
841 - “Non sono un assassino” - recensione di Angela Luisa Garofalo
NOTIZIE DALL’ESTERO
842 – Gran Bretagna: non avrà il cancro al seno grazie alla diagnosi pre-impianto
843 – Gran Bretagna: assolto per tentato suicidio assistito
844 - Spagna: malata di SLA chiede eutanasia in TV - di Javier S. del Moral
845 - Australia: il Senato discute sull'eutanasia
846 - Mexico: una donna chiede l'eutanasia per sua figlia
847 - Germania: l'ex ministro della giustizia di Amburgo aiuta a morire
PER SORRIDERE…
848 – La vignetta di Ellekappa – La riforma della giustizia?
808 - GALILEO, LA CHIESA E LE PALESTRE DI LIBERTÀ - DI CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di mercoledì 2 luglio 2008
Caro Augias, ho letto con interesse la celebrazione del 22 giugno, anniversario della abiura
di Galileo, stimolata dalla lettera del prof. Mainetto. Non si deve però trascurare che la
diffusione della fisica galileiana, specie nel Sei-Settecento, fu in gran parte opera delle
scuole gesuitiche e che papa Urbano era egli stesso conoscitore dell’opera di Galileo.
Senza, dunque, nulla togliere alle considerazioni del prof. Mainetto, occorre ricordare che la
storia è piena di contraddizioni così che lo studio della storia è complesso al punto da esser
al momento attuale troppo caduto in disuso, a danno soprattutto delle giovani generazioni.
Quanto all’oggi è giusto invocare il «sano spirito scientifico». Esiste un «Venicreator» laico
che sottoscrivo interamente. Occorre d’altra parte anche ammettere che la Chiesa cattolica
è rimasta la principale, se non l’unica, ‘agenzia’ che abbia preso sul serio il problema della
educazione nell’Italia post-sessantottina.
Vi è poi il grosso problema contemporaneo di contenere una pervasiva ideologia scientista,
grossolana e dogmatica, che riempie le classifiche di vendita ma purtroppo ben poco ha a
che fare con lo spirito galileiano. Anche in questo, forse, la Chiesa cattolica, per la sua
grande esperienza, può aver qualcosa di positivo da dire.
Pier Luigi Porta - [email protected]
Risponde Augias
Sono d’accordo con l’affermazione del signor Porta che le scuole cattoliche prendono sul
serio il problema dell’educazione giovanile nel post 68 italiano. Lo fanno in modo
confessionale, ma lo fanno. Per le scuole di Stato non si può dire altrettanto, almeno per
quanto riguarda il sistema nel suo complesso. Ci sono, quando ci sono, i singoli insegnanti e
sono loro a salvare la situazione. D’accordo anche sul fatto che la storia sia una complessa
materia, se davvero si vuoi cercare di capire come sono andate le cose.
A decifrare questi meccanismi molto aiuta, per esempio, il libro di Luciano Canfora «Filologia
e libertà» (Mondadori ed.). In genere si pensa alla filologia come a una materia barbosissima
coltivata da pedanti tagliati fuori dal mondo. Merito di Canfora, uno degli ingegni più brillanti
nel campo, è dimostrare il contrario e cioè che proprio lo studio critico e storico delle scritture
dette ‘Sacre’ ha aperto un’importante cammino verso la libertà interpretativa, dunque degli
spiriti.
Un’era davvero nuova si aprì quando si cominciò ad indagare la ‘parola di Dio’ senza timore
di venire arsi sul rogo o di essere costretti, come Galileo, all’abiura. Il concilio di Trento (XVI
secolo) aveva decretato che quei testi fossero intoccabili e che le gerarchie fossero in ogni
caso le uniche titolate ad interpretarli. Si dovette arrivare al 1943 e all’enciclica ‘Divino
affilante spiritu’ di Pio XII perché venisse riconosciuta la legittimità dell’investigazione critica.
Nella visione di Canfora la filologia diventa insomma una ‘palestra di libertà’. La storia è
complessa, ma si può sempre cercare di rintracciare il filo rosso che l’ha tessuta.
809 - CHI GIUDICA SE E QUANDO CONSENTIRE L’ABORTO - DI CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di martedì 8 luglio 2008
Gentile Dottor Augias, mi ha turbato la lettera della signora titolata «Come ho visto cambiare
l’aborto in 20 anni». La lettrice analizza, con molta insensibilità, il procedimento in sé, ante e
post legem, senza dare la minima attenzione all’evento, soprattutto alla varietà delle
situazioni, che un anti-abortista come me percepisce nettamente. Ma anche se non si è
contrari per principio all’aborto non si possono porre sullo stesso piano lo smarrimento,
l’immaturità psicologica, la condizione sociologica di una ventenne con la situazione di una
persona più matura, già felicemente accasata ed altrettanto felicemente madre. Ciò che fa la
differenza, per la lettrice, è solo una questione di salute psicologica e fisica e non il contesto
così diverso delle due gravidanze indesiderate.
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Il turbamento maggiore me l’ha provocato non tanto la sventatezza giovanile ma l’allucinante
motivazione del secondo aborto, dovuto non ad eventuali difficoltà economiche, ma al timore
di sottrarre amore al primo figlio, in un certo senso rendendo il primo corresponsabile della
soppressione del secondo. Chi ha figli sa bene che l’amore non si divide, semmai si
moltiplica. E qui vengo a un’altra carenza della 194: il ruolo burocratico del consultorio. Se è
vero che l’aborto è sempre un male, dovrebbe avere una funzione programmaticamente
dissuasoria, visto che non viene leso un diritto che la legge ti dà, se trovi chi ti persuade a
non farne uso.
Io non sono all’altezza della équipe psicologica cui la lettrice fa riferimento, ma le avrei
chiesto pacatamente come avrebbe potuto guardare gli occhi del suo primo bambino,
assistere al suo progressivo aprirsi al mondo, consapevole di avere impedito, con la
tremenda libertà che la legge le conferisce, il ripetersi di questo miracolo della natura.
Enrico Morini - [email protected]
Risponde Augias
Le opinioni del prof. Morini sono degne del massimo rispetto ma, mi permetto di postillare,
restano le sue opinioni. L’aborto, al contrario di quanto lui crede, non è ‘sempre un male’.
Quasi sempre, deciso da persone responsabili, è il male minore, in qualche caso può essere
addirittura un bene. E’ improprio mescolare alla legge 194 i sentimenti, la commozione, che
gli occhi di un bambino o il suo primo sorriso o la prima balbettata parola suscitano in ogni
essere umano verso il suo cucciolo. La legge stabilisce una facoltà, lo fa avendo presente il
peggio che potrebbe capitare se la legge non ci fosse. Il peggio sono, per esempio, le
condizioni da animale al macello in cui quella signora dovette abortire a 20 anni, quasi
senza anestesia, oppressa da un umiliante dolore, in una specie di catena di montaggio.
Tutto il resto riguarda solo lei, il compagno con cui ha diviso la decisione (e la
responsabilità), il bambino al quale, quando sarà cresciuto, potrà (o non potrà) dire ciò che è
accaduto. Né il prof. Morini né io abbiamo alcun diritto di indagare quali necessità o timori
abbiano spinto la signora a compiere il suo gesto.
810 - ELUANA E IL SIGNIFICATO DI MORTE NATURALE - DI CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di sabato 12 luglio 2008
Caro Augias, il prigioniero innocente ha diritto alla libertà, noi abbiamo il dovere di dargliela.
Il discorso vale ancor più per il malato prigioniero della sofferenza e in qualche modo della
morte: non possiamo parlare del nostro diritto di «sopprimere la vita», dobbiamo parlare del
suo diritto di morire, e del nostro dovere di aiutarlo.
Francesca Ribeiro - [email protected]
Augias, che tristezza sapere che ci sono giudici che - nella loro scalata professionale vogliono arrivare sullo stesso gradino del Creatore. I giudici italiani si sono «globalizzati» in
questa deriva verso il baratro etico e anche Eluana Englaro potrà morire (non certamente in
pace!). Come può un padre - che ha contribuito a dare la vita alla figlia -battersi per
togliergliela con stenti, visto che morirà di fame?
Vincenzo Mangione - [email protected]
Risponde Augias
Una lettera a favore e una contro per obiettività anche se le lettere a favore della sentenza
sono schiacciante maggioranza. Risponderei non sul piano del diritto di ognuno a decidere
liberamente quando e come morire. La cosa mi sembra pacifica. Rispondo invece, con ogni
dovuta modestia, sul piano teologico mettendo a confronto due frasi. Monsignor Rino
Fisichella ha detto parlando del padre di Eluana: «Ritengo che sentirà un dolore ancora più
forte in futuro al pensiero che sua figlia lasci questo mondo in modo non naturale». L’eroico
Beppino Engiaro ha detto: «Bisognava liberare, andato via il cervello, anche il fisico.
Lasciare che la natura facesse ìl suo corso».
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La domanda è: quale delle due frasi è più vicina alla cruda realtà della situazione,
prescindendo cioè da ogni ideologia? Che vuoi dire ‘morte naturale’? Mi chiedo se non sia
addirittura blasfema l’idea di un dio che si rimette alla tecnologia sanitaria e sposta i termini
della morte ‘naturale’ a seconda dei macchinari inventati dagli uomini. Ci sono oggi persone
tenute in una specie di vita, solo perché strumenti complessi consentono alla loro carcassa
di continuare a respirare, a defecare. Quelle stesse persone, solo pochi anni fa, sarebbero
‘naturalmente’ morte.
Faccio mio ciò che ha scritto Edoardo Boncinelli: «Oggi vivono e magari prosperano persone
che in condizioni ‘naturali’ non avrebbero avuto alcuna chance di sopravvivere fino a una
certa età. Dai miopi ai sordi, dai diabetici agli emofiliaci, dai disabili di vario tipo ai portatori di
intolleranze alimentari, per non parlare di tutte le problematiche connesse alle eventuali
difficoltà del parto».
Allora, che vuoi dire ‘naturale’? Dove nascondeva Dio la sua misericordia quando queste
macchine non esistevano? E perché mai persone altrimenti serie, devono ricorrere a simili
grotteschi aggiustamenti? Quando si dice ‘naturale’ si vuole forse dire che è Dio a decidere
quando un uomo deve morire? Un bambino muore straziato dal male o torturato dai suoi
assassini per volontà di Dio? Avrà mai riflettuto alle conseguenze di ciò che dice chi parla
con leggerezza di morte ‘naturale’?
811 - LA TERZA VIA INDICATA DA HABERMAS – DI CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di mercoledì 23 luglio 2008
Caro Augias, ho letto con interesse l’intervento di Habermas su una “terza via” fra laicismo e
radicalismo religioso. Non sono sorpreso perché le posizioni di questo pensatore sono note.
Egli con finta ingenuità si domanda «se una mentalità laicistica della gran massa dei cittadini
non finirebbe per essere altrettanto poco desiderabile quanto una deriva fondamentalistica
dei credenti». Riporto solo un lancio Ansa del 19 luglio scorso da Teheran: «Shirin Ebadi,
nobel per la Pace, ha protestato per un disegno di legge che prevede la pena di morte per
chi crea siti web sull’ateismo. “Cor questa legge — scrive Ebadi - si minaccia la vita di
persone il cui unico crimine è scrivere”. Il disegno di legge definisce il dare vita a siti Internet
che diffondano la corruzione o l’ateismo come un crimine pari alla rapina a mano armata e
alla violenza carnale, con il risultato che i responsabili sarebbero condannati a morte».
C’è intanto chi invita all’unità dei tre monoteismi perché il vero pericolo sarebbe il
secolarismo e l’ateismo. Ho forse interpretato male le parole di Habermas? Come dovrebbe
reagire chi, come me, non si sente per niente offeso di essere definito laicista? Siamo
davvero così pericolosi per la società del futuro?
Fabrizio Gonnelli – Firenze
Risponde Augias
Nell’intervento del filosofo tedesco mi avevano colpito altri passaggi, quelli in cui Habermas
scrive: «Agli occhi del laicismo radicale poco importa il rilevamento sociologico che registra,
persino nelle società secolarizzate dell’Occidente, il nuovo ruolo della religione nella
formazione politica dell’opinione e della volontà». Oppure: «Soprattutto riguardo a settori
vulnerabili della convivenza sociale, le tradizioni religiose dispongono della capacità di
articolare in maniera convincente sensibilità morali e intuizioni solidaristiche».
Ritengo anch’io che le religioni possano svolgere un ruolo importante nella formazione
dell’opinione comune e direi addirittura del civismo, cioè nell’adesione a quelle regole di
base senza le quali una società diventa solo caos e sopraffazione.
Del resto il signor Giuseppe M. Greco, che anche mi ha scritto, si dice anch’egli colpito dalla
frase in cui il filosofo si chiede: «Forse che non occorre un processo di apprendimento —
oltre che sul versante del tradizionalismo religioso — anche sullo stesso versante del
secolarismo?».
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Insomma l’intento del saggio di Habermas era chiaro: spezzare una lancia in difesa del ruolo
pubblico delle religioni nelle società sempre più secolarizzate dell’Occidente. Il pensatore
tedesco sottovalutava però a mio parere che dalle società islamiche vengono a volte esempi
orribili di sopraffazioni addirittura arcaiche compiute in nome dell’obbedienza religiosa
mentre in nessuna società secolarizzata si devono (ci mancherebbe altro) registrare esempi
opposti, cioè di vessazioni contro i cittadini osservanti. Da questo punto di vista la tolleranza
laica e il vecchio Occidente conservano netta la loro superiorità.
812 - LA LIBERTÀ DI VIVERE E MORIRE – DI CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di martedì 29 luglio 2008
Egregio Dott. Augias, la notizia della morte di Randy Pausch, il professore della Carnegie
Mellon University divenuto famoso per la sua “ultima lezione”, mi ha fatto riflettere ancora
una volta sul senso della vita e della morte. Negli stessi giorni in cui in Italia si discute della
vicenda di Eluana Englaro, dall’altra parte dell’Oceano un uomo consapevole di essere stato
colpito da un male incurabile ha deciso di lasciare a tutti il suo testamento spirituale. Non
voglio paragonare le due situazioni, ma sono d’accordo con il Signor Pierri (la Repubblica
del 25 luglio) secondo cui «per il Signore non sembra tanto importante quanto si vive, ma
come si vive: se nel bene o nel male».
Randy Pausch, Piergiorgio Welby, Eluana Engiaro, Giovanni Nuvoli, Paolo Ravasin e tanti
altri come loro, hanno combattuto e combattono per lo stesso diritto, ovvero quello di poter
decidere in che modo affrontare un destino crudele ed immutabile. Da cristiana, ho fede
nell’aldilà, in quella che sarà la vita vera, quella eterna; da laica, credo nel libero arbitrio e
nella “legge morale” che ci consente di operare su questa terra con coscienza. Non credo
che queste due posizioni siano inconciliabili e, malgrado possano apparire come una
contraddizione, mi inducono a rispettare sempre la volontà altrui.
Ilaria Botti - ilabotti@yahooit
Risponde Augias
Credo che la signora Botti faccia benissimo a considerarsi cristiana ma anche titolare di
‘libero arbitrio’, cioè di una personale, inalienabile facoltà di scelta di fronte a situazioni
estreme.
Una teologia crudele ha a lungo considerato il dolore un mezzo necessario per la salvezza,
un necessario strumento di espiazione per il mitico peccato commesso dai progenitori
nell’Eden. Si è arrivati perfino a considerare il dolore come il sintomo di una colpa, un
castigo di Dio. Non devo certo dire io, che non appartengo a quella religione, fino a che
punto questa ipotesi teologica diventasse blasfemia. Incombeva su queste concezioni
l’ombra cupa della Controriforma, la visione di un cristianesimo, nella versione cattolica,
visto come mortificazione, il peso di farsi ‘politica’.
L’idea di Dio come consolazione e amore, entità capace di comprendere l’umana fragilità,
era stata totalmente rimossa e cancellata quando perfino la Bibbia (che viene tirata in ballo
solo quando fa comodo) prevede esplicitamente la possibilità del cedimento: «Meglio la
morte che una vita amara, il riposo eterno che una malattia cronica» (Siracide30, 17). Esiste
però, sempre nell’ambito del cristianesimo, anche un’altra teologia che senza negare il
valore spirituale che il dolore può avere, ammette che se un individuo, dopo anni di
sofferenza senza esito e senza più speranza, voglia affrettare il ritorno alla ‘Casa del padre’
(come ebbe a dire perfino papa Giovanni Paolo Il), ebbene egli possa farlo. Questa teologia
vede Dio non come un’entità punitiva bensì come ragione di gioia. Non c’è bisogno di dire
quale delle due filosofie dia maggiore consolazione e forza.
813 - W LA SPAGNA. NO, IN ITALIA NON SI PUÒ – DI GIOVANNA CASADIO
da: la Repubblica di domenica 6 luglio 2008
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Quando hanno letto dell' offensiva laica di Zapatero, i Radicali del Pd si sono riuniti e hanno
tirato un sospiro di sollievo: non tutto è perduto in Europa. Emma Bonino, leader storica del
Pr e ora vice presidente del Senato eletta nelle file del Partito democratico, riassume l'
apprezzamento con una battuta: «W Zapatero. Ha aperto sull' eutanasia, propone l'
ammodernamento della legge sull' aborto, via i crocifissi dalle scuole... è vero che non ha il
Vaticano in casa come noi, però è un leader che ha il senso della laicità e della
cittadinanza».
Chi ha orecchie per intendere, tra i Democratici, intenda. E benché pochi nella sinistra
italiana siano disposti ad abbracciare le battaglie dei socialisti spagnoli, serpeggia la
nostalgia per il modello-Zapatero.
Una ex ministra come Barbara Pollastrini, che fu nella passata legislatura soprannominata
«la zapatera» - semplicemente per «essermi battuta per le unioni civili» - non si smentisce:
«Bisogna guardare ai modelli politici innovativi e il premier spagnolo è, ha allargato le
opportunità, valorizzato responsabilità e libertà e del resto, i riformisti devono essere capaci
di radicalità, di scarti, di rotture».
L' icona-Zapatero però, fu abbandonata nella passata legislatura quando al governo c'era
l'Unione, l'alleanza dei riformisti dell'Ulivo (oggi Pd) e della sinistra radicale. Sui temi della
bioetica come dei diritti civili, a cominciare dalle coppie di fatto, non si avanzò di un passo.
Dai Dico (la legge sul riconoscimento dei diritti dei conviventi) al testamento biologico, la
società italiana è rimasta al palo del conflitto tra laici e cattolici. Piero Fassino - ex segretario
dei Ds che s'impegnò nella battaglia laica per abrogare parte della legge sulla fecondazione
assistita - è un estimatore di Zapatero: «è un leader coraggioso nel riformare la società
spagnola, ma non bisogna fare in Italia quel che si fa in Spagna, il trasferimento meccanico
è astratto e sarebbe insensato. Non dimentichiamo inoltre che il premier spagnolo se l'è
dovuta vedere con una Chiesa che è stato pilastro del regime franchista».
Volentieri trasferirebbe più di un'iniziativa zapatera alla società italiana, Vittoria Franco
ministra-ombra delle Pari opportunità del Pd: «Io zapatera mi sento ancora, ho simpatia per
il leader spagnolo. Ci vorrebbe una vera, grande campagna per la contraccezione e il fatto di
togliere i crocifissi dalle aule lo condivido in presenza di un pluralismo religioso anche nelle
nostre scuole. Forse stabilirlo per legge, è un po' troppo. Ma bisognerebbe affidarlo alla
scelta autonoma degli istituti scolastici». Non si spinge oltre, consapevole della «scommessa
del Pd» che è unione delle tradizioni socialista, cattolico-democratica e liberale. Prudenza,
insomma.
La stessa che usa una pidì di sinistra, Livia Turco: «Noi in Italia non dobbiamo certo
ammodernare la legge sull' aborto che è ottima. Casomai far partire una campagna per la
contraccezione che sarebbe una prova di salute prima che di laicità».
Un colpo di laicità batteranno a settembre Pollastrini e Gianni Cuperlo, primi firmatari di un
manifesto per un Pd laico. «Testamento biologico, unioni civili, piena applicazione della
legge sull' aborto sono temi che la sinistra deve mettere all' ordine del giorno», invita
Vincenzo Vita.
814 - LA LUNGA LITE SUL TESTAMENTO BIOLOGICO - DI CATERINA PASOLINI
da: la Repubblica di venerdì 11 luglio 2008:
Testamento biologico: anche su questo siamo ultimi in Europa. Esiste già infatti in
Danimarca, Germania, Olanda, Francia, Spagna, Belgio, Regno Unito. In Italia se n’è
occupata la commissione sanità del senato per ben due legislature che hanno visto 11
disegni di legge studiati a lungo nel tentativo di trovare una mediazione e presentare un
testo unico. Forse ora se ne riparlerà a settembre.
I punti comuni tra i progetti di legge presentati dalla Casa delle libertà e dal centrosinistra
erano la volontà di rafforzare il «consenso informato» da parte del paziente, la presenza di
un fiduciario e il fatto che in caso di urgenza e non sapendo quale volontà il malato abbia
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espresso i medici procedono nei trattamenti. Ciò che sembra separare i disegni di legge per esempio nel caso di quello presentato dall’onorevole Tomassini del Pdl, neo presidente
della commissione sanità del Senato - riguarda i trattamenti di nutrizione e idratazione
artificiali, quelli a cui, assieme a medicinali per evitare infezioni, emboli e crisi epilettiche, era
sottoposta Eluana. Nell’ultimo ddl presentato, Tomassini infatti li esclude dai trattamenti che
il paziente può rifiutare.
Diversa la posizione del suo predecessore, il senatore del Pd e medico Ignazio Marino.
«L’idea parte dall’estensione dell’art. 32 della Costituzione secondo il quale non si può
sottoporre una persona a cure contro la sua volontà». La sua proposta di legge, appena
aggiornata e ripresentata, si basa sul fatto che bisogna adeguare la legge alle nuove
conoscenze mediche; ma soprattutto l’Italia dovrebbe attuare la convenzione di Oviedo, già
sottoscritta. La convenzione prevede che il medico prenda atto delle volontà del paziente
anche se non può più esprimerle, e soprattutto che il malato possa cambiare idea, come fu il
caso di Piergiorgio Welby, che prima accettò e poi chiese che gli fosse tolto il respiratore.
Il terzo punto di differenza concerne le cure palliative e le terapie del dolore, «perché in Italia
ci sono 5 milioni di malati cronici che soffrono e pochi hospice». Maria Antonietta Coscioni,
presidente dell’Associazione che da anni si batte per i diritti civili e di scelta dei malati - è
deputato Pd in quota radicale - ha ripresentato un ddl sulla tutela della dignità della vita,
sulle «volontà anticipate nei trattamenti sanitari che devono poter essere sospesi,
idratazione e nutrizione comprese, su volontà del malato. Come ha fatto mio marito che ha
rifiutato la tracheotomia quando non riusciva più a respirare. Era un suo diritto».
815 - PRIGIONIERA DI UN CORPO, COSÌ MIA MADRE SI LIBERÒ – DI C.***
da: la Repubblica di sabato 12 luglio 2008
Caro direttore, questa è la storia di mia madre, Livia, che coraggiosamente è riuscita a
liberarsi da quella terribile malattia che è la SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica). Livia, nata
nel 1935, carattere forte, indipendente, amante della libertà, appassionata di libri, della
bicicletta, delle corse a piedi, ex infermiera, separata negli anni '80, cresce una figlia da sola.
Nel 2001 le viene diagnosticata la SLA. Lei è documentata, divora libri di neurologia e sa
perfettamente a quale dramma andrà incontro.
Fortunatamente è una forma più lenta delle altre, ma a poco a poco tutte le funzioni fisiche
rallentano, creando innumerevoli difficoltà a compiere gli atti più scontati della vita, fino ad
arrivare al suo ultimo anno, il 2007, dove decide di liberarsi del suo corpo, che ormai è
diventato una prigione, prima di raggiungere l'inabilità totale e di perdere quindi ogni dignità.
Era davvero difficile vivere in quelle condizioni ed anche per i suoi cari era molto doloroso
vederla spegnersi con impotenza.
La sua casa era stata attrezzata, da mio marito, nei minimi dettagli perché potesse vivere
sola, come da suo desiderio, non potevamo privarla anche di questa libertà, la mente era
lucida e non voleva che nessuno decidesse per lei. Fortunatamente il mio lavoro part-time
mi consentiva di pranzare e trascorrere ogni giorno alcune ore con lei prima dell'uscita da
scuola del nipotino, e poi di risentirci dopo cena per la buonanotte. Talvolta accennava con
lucidità al suo desiderio di suicidio con me e le sue amiche, ma si reputava una vigliacca
perché non aveva il coraggio di farlo, e anche perché non avrebbe potuto avere la certezza
che sarebbe andato a buon fine.
Come si poteva biasimarla? Noi capivamo benissimo la sua situazione, ma potevamo solo
consolarla e starle vicino. Il suo desiderio era l'eutanasia, poter abbandonarsi in un sonno
profondo, assistita da un medico e da me, sua figlia, nella tranquillità della sua casa, in tutta
legalità. Ma questo non era possibile, non in Italia, e nemmeno alla Dignitas di Zurigo poteva
essere accompagnata, senza farci subire conseguenze legali. Nell'ultimo anno le cose erano
peggiorate molto, la difficoltà della parola rendeva complicata anche una semplice
telefonata, si stancava dopo qualsiasi banalissima azione e riusciva a malapena a passare
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dalla sedia a rotelle al letto o al wc, e spesso cadendo a terra. Lei sapeva benissimo che al
prossimo peggioramento avrebbe dovuto lasciarsi assistere e perdere la sua minimissima
autonomia, ma non si parlava più di questo, nemmeno di suicidio. Tutti noi pensavamo che
si fosse rassegnata. Quel giorno era serena e nessuno avrebbe immaginato quello che
sarebbe successo.
Aveva organizzato tutto, nei minimi dettagli. Verso le 16, orario in cui nessuno sarebbe
entrato in casa sua, ha raccolto tutto il suo coraggio e soprattutto le sue ultime forze, ha
bevuto (con la sua cannuccia) un flacone intero di un potente sonnifero, mescolato a
qualche cucchiaio di Martini (probabilmente per potenziarne l'effetto) e si è sdraiata
composta sul suo letto, infilandosi un sacchetto in testa, chiuso con il suo foulard; la sua
ossigenazione era già scarsa e si è addormentata per sempre. Ovviamente la telefonata del
dopocena non ha avuto risposta. Frequentemente non rispondeva al telefono, soprattutto se
si appisolava, e dopo tanti falsi allarmi, come da sue disposizioni, sarei passata a casa sua a
verificare che non fosse caduta solo dopo qualche ora di silenzio.
Era mezzanotte quando entrai in casa. La trovai nel suo letto. Accesi la luce e scappai per le
scale piangendo, tremando, fra un vortice di emozioni: il vuoto, il dolore per la perdita, la
sorpresa inaspettata, ma anche la grande soddisfazione nel vedere che ci era riuscita!
Vorrei averle potuto dire: "Mamma ce l'hai fatta! Sei stata coraggiosa! Sei libera!". Ha
lasciato dolci bigliettini di addio a tutti noi, ribadendo la serenità nella sua decisione. Quella
non era più vita. Capisco il suo gesto e lo approvo. Sono orgogliosa di avere avuto una
mamma così coraggiosa. Ora le sue ceneri, per desiderio del suo amato nipotino di 9 anni,
sono in un angolino di casa nostra, e talvolta mi permettono di intrattenere la famosa
"corrispondenza di amorosi sensi".
Firmato: sua figlia C. ***
816 - IL DIRITTO DI MORIRE NEL NOSTRO MEDIOEVO – DI ADRIANO PROSPERI
Da: la Repubblica di lunedì 21 luglio 2008
Una antica rissa cristiana sembra essersi riaccesa in Italia intorno al più cupo dei diritti,
quello di morire: suore uscite per un attimo dall’ombra di una vita di carità, prelati e dotti
teologi offrono gli argomenti della religione a un movimento assai composito di gente
comune e di affannati politicanti. Ed è un dolce nome di donna quello a cui tocca ancora una
volta il compito di portare il simbolo dell’offesa e della violenza patita. Ma la schiuma della
cronaca talvolta nasconde piuttosto che rivelare le correnti profonde. Per questo non faremo
quel nome. Per una volta almeno non sarà pronunziato il nome di donna a cui tocca oggi - in
attesa di altri candidati che non mancheranno - il compito di rappresentare nella piazza
mediatica il dramma della nostra impotenza davanti alle crudeltà della natura e di offrire il
suo volto indifeso alle bandiere di un ‘partito” contro un altro - un sedicente partito della vita
in lotta contro un improbabile partito della morte. Tacerlo è la sola cosa che resta da fare,
non solo per pudore e per pietà, ma anche perché tutto il necessario è stato detto e tutte le
risorse e i saperi delle istituzioni sono stati messi a frutto.
Qui si tratta piuttosto di capire la sostanza dei problemi che agitano la società e che
muovono ciascuno di noi a partecipare intensamente, coi sentimenti e con le idee, alla
tempesta che ogni volta si scatena intorno a questi casi. Ogni volta questa speciale forma di
morte chiama in gioco la medicina e il diritto, la religione e la politica. E la moderna danza
macabra di un nuovo Medioevo, ossessionato come l’antico dalla paura di un nemico
terribile: che non è più la morte improvvisa e senza sacramenti della peste, ma è la minaccia
congiunta di una vita che non è vita e di una morte debole, inavvertita e sfuggente.
Le ragioni del diritto le ha esposte ieri con la solita inappuntabile precisione Stefano Rodotà.
Ma è la medicina che viene prima di tutto. A lei, in una celebre intervista del 1957, un
lungimirante Pio XII lasciò il compito e la responsabilità di individuare il segno del confine tra
la vita e la morte. E ben prima di allora i medici hanno cercato di fare propria l’antica
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certezza di Re Lear: «Io so ben riconoscere quando uno è morto e quando vive». Ci sono
riusciti? non sembra. Oggi negli Stati Uniti d’America può accadere che una persona - la
stessa persona - sia ritenuta legalmente morta in California e ancora in vita nel Missouri. Il
caso (reale) è raccontato dal professor Carlo Alberto Defanti, nella prima pagina di un libro
che sembra scritto apposta per guidare con l’aiuto della scienza medica i lettori dei nostri
tempi, in sosta angosciati davanti al passaggio estremo: Soglie. Medicina e fine della vita
(Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp.270).
Quali le soglie su cui si è attestato nel nostro provvisorio presente il limite estremo della vita
umana? sono ancora quelle antiche, in contrasto da secoli: il battito del cuore, la scintilla del
cervello. La medicina si è impadronita della questione quando, col ritorno alla pratica
anatomica alla fine del Medioevo, la foresta degli organi è cominciata ad emergere dietro
l’unità della pianta umana. E fin da allora la pratica medica concepì quella fame di corpi che
non doveva più lasciarla: la “fabbrica del corpo umano” (il titolo fu di Andrea Vesalio) doveva
essere chiamata nel ‘900 - dopo la celebre operazione di Christian Barnard - a fornire tanti
pezzi di ricambio. Questo non è un dettaglio ma un punto nodale dei problemi attuali.
L’offerta di corpi umani, possibilmente ancora palpitanti di una vita residua, ha alimentato i
progressi della medicina.
Ma per ottenerli è stata necessaria una alleanza coi poteri della religione e dello Stato: fin
dagli inizi. Come si racconta in un libro collettivo, uscito contemporaneamente a quello di
Defanti (Misericordie, Confessioni sotto il patibolo, Edizioni della Normale 2007) si ricorse
per secoli alle forniture dei patiboli e alle membra più “vili”, quelle dei condannati a morte. E
ci volle uno speciale investimento di pratiche e di rituali per saldare il necessario circuito tra
potere e religione, tra erogazione della morte e promessa di vita - quella dell’aldilà ai
condannati e quella di questo mondo agli ammirati spettatori delle meravigliose operazioni
della scienza medica. Da allora in poi quel circuito doveva ripresentarsi costantemente, sia
pure sotto altre forme.
Le tappe successive della storia scientifica della questione ci portano ancora alla diarchia
cuore-cervello. Il “miracolo” della rianimazione (dall’inglese “resuscitation”) apri la strada alle
moderne cure intensive con le tecniche per far ripartire un cuore arrestato e ventilare chi non
era in grado di respirare autonomamente (il polmone d’acciaio è del 1927). Ma quando si
scoprì nel 1959 che in determinati stati di corna l’elettroencefalogramma non rilevava più
onde elettriche cerebrali, si pose il problema se valesse la pena proseguire l’assistenza
ventilatoria. Dalla scoperta del coma irreversibile derivò la proposta del comitato della
Harvard Medical School di considerare questo stato come “sindrome della morte cerebrale”
e di fissarlo come nuovo criterio di morte. La data del documento (1968) segna una svolta
storica importante, come mostra Defanti che ne analizza il contesto e le ragioni, scientifiche
ed economiche, e segnala la cautela con cui fu cercato l’avallo delle autorità religiose. E su
questa base che fu definita la procedura per ottenere organi utilizzabili per trapianti, pezzi
per l’officina delle riparazioni chirurgiche. Ma, come sanno o dovrebbero sapere tutti coloro
che hanno nel portafoglio l’autorizzazione all’espianto dei propri organi, quel criterio fu scelto
per ragioni pratiche da chi sapeva quanto fosse difficile fissare l’attimo decisivo su di un
orologio della morte che è capace di misurare solo un processo graduale e differenziato.
Così anche il documento di Harvard non segnò la fine della questione. Da un lato la
diffusione clamorosa con Barnard del trapianto di cuore spinse potentemente in direzione
dell’eutanasia attiva e dell’espianto di cuori funzionanti; dall’altro l’esplorazione del cervello
ha dissolto l’unità di questo organo in entità diverse, ognuna con una vita e una morte
propria.
Se lasciamo l’ancoraggio delle ricerche mediche, ci si apre davanti l’universo dei sentimenti:
specialmente di quella paura della morte di sé che in ciascuno si scatena davanti alla morte
degli altri. E qui la realtà del nostro tempo rivela la sua irrecuperabile lontananza dall’antica
religione che oggi lotta con tutte le sue forze contro i suoi nemici di sempre. Eutanasia,
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questa è la parola: parola ambigua, odiata e ripudiata quando si presenta con l’orrendo volto
nazista della soppressione forzata di un’umanità difettiva, ma che cela nel suo benevolo
suono la voce di una sirena antica: il desiderio e l’augurio - per sé e per i propri cari - di una
morte rapida e totale, senza sofferenze; ma anche la convinzione ormai acquisita che
disporre della sorte del proprio corpo rientra fra i diritti dell’individuo.
Qui si incontrano i bisogni profondi del nostro tempo. E si capisce perché ci colpisce tanto la
storia di quella dolce figura femminile, che appare oggi ancora viva almeno nella cronaca
lacerata del paese: è la nostra storia, una possibile, sempre più probabile storia della fine
che aspetta ciascuno di noi. Qui si misura l’arretramento drammatico del senso cristiano
della morte, di quella morte gioiosa del credente che dettò a Martin Lutero uno dei suoi scritti
più belli e che doveva animare la fede dei martiri della Riforma mentre salivano lietamente
sui patiboli dell’Inquisizione. Oggi solo la deliberata ambiguità della scelta di una parola, la
vita - termine che i credenti possono intendere nel senso di vita dell’aldilà e tutti gli altri sono
liberi di applicare alla vita che abbiamo qui - sostiene le incongrue alleanze costruite per
battere le leggi sull’aborto e le proposte di testamento biologico.
Il filo che ci porta al presente cominciò quando nella cultura europea dei ‘700 razionalista
prese corpo il rischio della morte apparente. Come ha raccontato anni fa Claudio Milanesi
furono allora elaborate norme precise tuttora valide per scongiurare il pericolo della
sepoltura di persone in stato di catalessi; e tutti conoscono in che modo la fantasia
romantica di Edgar Allan Poe desse poi corpo a quei fantasmi dei morti viventi che abitano
oggi negli incubi del nostro presente e ci vengono incontro nelle corsie delle cliniche.
Dunque, una conclusione si impone. La storia ci ha condotti a questo punto, per molte e
complicate vie che fanno parte incancellabile della realtà di un paese moderno. Pertanto non
ci sono alternative alla messa in opera delle regole faticosamente elaborate per conciliare il
diritto individuale a disporre del proprio corpo con l’obbligo istituzionale a fornire tutte le cure
necessarie alla persona malata: obbligo che non si deve tuttavia spingere alla “tortura
inutile” di cui scriveva Paolo VI nella lettera del 1970 citata da Rodotà. E se le attuali
gerarchie cattoliche farebbero bene a meditare quelle parole, spetta invece allo Stato
italiano affrontare sia il gravissimo problema delle carenze delle strutture sanitarie che oggi
obbligano le famiglie a sostenere il peso anche morale di situazioni dolorosissime, sia
introdurre finalmente una regolamentazione adeguata del testamento biologico.
Nell’immediato, spetta a noi tutti fare un passo indietro, recedere dal clamore indecente che
oggi assedia chi ha diritto al rispetto e al silenzio.
817 - GAY RISARCITO PER LA MORTE DEL COMPAGNO – DI NICOLA PELLICANI
Un gay è stato risarcito per la morte del compagno, come se fosse un vedovo. Le
Assicurazioni Generali gli hanno riconosciuto il compenso assicurativo, esattamente come
accade per un legame tradizionale. La compagnia ha considerato il defunto come prossimo
congiunto del partner omosessuale, nonostante non vi fosse tra i due alcun legame di
parentela previsto dalla legislazione italiana. Ma l’unione tra l’ottantenne Georges Gaston
Lillemant, morto Io scorso gennaio in un incidente stradale, e il coetaneo Marcel D’Abè, era
stata riconosciuta in Francia, dove la coppia omosessuale stipulò un Patto civile di
solidarietà, come i Pacs che invano si è cercato di introdurre anche nel nostro Paese.
Oltralpe invece è dal 1999 che l’unione tra due persone, diversa dal matrimonio, è
disciplinata da una legge.
Lillemant e D’Abè, uniti da oltre quarant’anni dopo la pensione scelsero di lasciare la Francia
per trasferirsi nella quiete del Lido di Venezia, mantenendo però la residenza a Parigi. Sette
mesi fa la disgrazia: Georges venne falciato da un auto mentre attraversava la strada. Un
impatto violentissimo, l’uomo fece un volo di trenta metri, morendo probabilmente prima
ancora di toccare terra. Da Iì la vita di Marcel cambiò. Si ritrovò improvvisamente solo:
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«Vivevamo al Lido da 17 anni e qui ci sentivamo come a casa nostra. Il mio dolore per la
perdita di Georges è immenso», disse Marcel all’indomani dell’incidente. E dovette subito
fare i conti con i problemi burocratici. Ci vollero due settimane prima di poter procedere alla
sepoltura del compagno. Sorsero impedimenti di ogni tipo, finché dopo quindici giorni il
calvario ebbe finalmente fine. Ma i problemi non si conclusero lì.
Grazie però all’interessamento dell’Associazione Vittime della Strada il nodo del risarcimento
dei danni imboccò subito la strada giusta. L’uomo francese si affidò all’avvocato Augusto
Palese che nei giorni scorsi ha convinto la compagnia assicurativa a liquidare il danno,
senza dover ricorrere alle vie giudiziarie. «La coppia – spiega - si era unita civilmente in
Francia con il Patto civile di solidarietà. Ho argomentato che le “Generali” in Francia, dove
sono presenti, avrebbero equiparato la vittima dell’incidente al marito o alla moglie del mio
assistito. Se ciò era valido oltralpe doveva esserlo anche qui. Era doveroso riconoscere il
risarcimento, perché la loro era un’unione bella e buona. E devo dire che le “Generali” hanno
accolto questa tesi con disponibilità e grande attenzione alle nuove sensibilità sociali».
In Italia c’era stato un precedente giudiziario un anno fa, quando per la prima volta, in un
processo penale per omicidio, venne accettata la costituzione di parte civile del partner
omosessuale della vittima: il giudice gli riconobbe di avere subito un “danno diretto”.
818 - SE LA TECNICA CANCELLA LA MORTE NATURALE – DI ALDO SCHIAVONE
da: la Repubblica di lunedì 28 luglio 2008
Arriva il momento - a volte d’improvviso, come non vorremmo — in cui bisogna saper fare
discorsi difficili, che avremmo preferito risparmiarci. La politica non c’entra: è in gioco
qualcosa di più profondo, che brucia e fa male. I tempi che attraversiamo richiedono un
esercizio straordinario di ragione e di realismo, per reggere il peso di una rivoluzione che sta
sconvolgendo il rapporto cui eravamo abituati fra quel che ancora siamo e quel che stiamo
per diventare: quando ogni nuovo giorno ci affida il peso di decisioni e di responsabilità che
fino a ieri nemmeno pensavamo possibili.
Parliamo di cosa è, e cosa sarà sempre di più, lo stato terminale della vita — il tratto
estremo del nostro passaggio umano — in società tecnologiche ad alta medicalizzazjone
(assistenza individualizzata, ospedali avanzati, protocolli terapeutici d’avanguardia). Non
soltanto in casi limite come quelli che le ultime cronache italiane ci hanno dolorosamente
proposto, ma per tutti noi: insomma, di quel che ci aspetta. E cerchiamo di affrontare la
questione alla radice.
E molto probabile che la generazione cui appartengo, e forse ancora quella dei suoi figli,
saranno le ultime a fare i conti in modo diffuso - pur se accanto a eccezioni via via più
consistenti - con l’esperienza della morte, nei termini in cui la nostra specie l’ha incontrata
finora, e che sono stati culturalmente elaborati attraverso uno sforzo durato migliaia e
migliaia di anni. Voglio dire la morte come un evento inevitabile, spontaneo e indeterminato,
che si produce sempre in modo (relativamente) imprevisto e repentino - anche se a volte
lungamente e tormentosamente preparato e atteso. La morte, insomma, come fatto
“naturale” assoluto enigmaticamente simmetrico all’opposta “naturalità” del nascere del tutto
sottratto al nostro controllo e al nostro potere di valutazione e di scelta. Oggi, questo
decisivo piano di subordinazione umana alla natura per tutto quanto attiene all’entrata e
all’uscita dalla vita sta sparendo. Che ci piaccia o no, si sta dissolvendo, e la tendenza è
inarrestabile. La tecnica si è definitivamente installata nel cuore di questi due momenti
cruciali, e ne sta spostando il dominio dall’orizzonte della necessità e della storia evolutiva, a
quello della volontà e della cultura.
Sta scomparendo per la nascita, di cui ormai riusciamo a riprodurre in laboratorio quando e
come vogliamo tutta l’abbagliante sequenza originaria, a partire dalla disponibilità di alcuni
mattoni biologici di base. E sta svanendo per la morte, alla cui radicalità “naturale” (un attimo
prima di morire si è ancora vivi, come ricorda un motto celebre, e come scrivevano nei loro
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testi i giuristi romani, quando ripetevano che “momentum mortis vitae tribuitur”, l’attimo della
morte appartiene ancora alla vita), si sta provvisoriamente sostituendo con frequenza
sempre maggiore, che ben presto diventerà la regola, una zona grigia, insondabilmente
intermedia, in cui si può essere allo stesso tempo vivi e morti, al di qua e al di là del vecchio
confine, uomini e macchine integrati insieme (voi capite), ancora mortali e già, in qualche
modo, immortali. Stadi di confine, nei quali ben presto sarà possibile non solo mantenere
indefinitamente i circuiti elementari della vita (sangue ossigenato che scorre nelle arterie),
ma anche come accadrà in molti casi le funzioni superiori di un pensiero e di una
personalità, grazie alla predisposizione di strutture artificiali parzialmente o totalmente
extrabiologiche, che conserveranno ben poco del nostro piano anatomico originario, ma che
consentiranno alla nostra mente di continuare a lavorare, non si può immaginare entro che
limiti, e sia pure con costi economici e sociali altissimi, che si scaricheranno sul resto dei
viventi quelli (per dirla in modo brutale) non dipendenti dalle macchine.
E allora? Per decidere dove fermarsi, quando sarà il momento di dire basta quale sarà il
tempo debito per ciascuno di noi potremo ancora tirare in ballo la natura? E quale natura, se
l’intreccio sempre più incalzante fra bioingegneria e macchinismo elettronico (se posso
esprimermi così), quella che alcuni definiscono “bioconvergenza”, avrà creato sta già
creando un intreccio dove la naturalità originaria della vita sarà percepibile solo in quanto
continuamente trasformata dall’azione consapevole della nostra intelligenza?
A me pare che sia arrivato il momento di dirlo: dobbiamo prepararci a gestire la morte
(finché avremo a che fare con essa), come l’esito di una scelta responsabile almeno per la
maggior parte delle donne e degli uomini che abitano la parte tecnologicamente avanzata
del pianeta rispetto a una prosecuzione della vita alle condizioni (relazionali, affettive,
esistenziali) rese possibili dalla tecnologia di volta in volta disponibile, e non più come un
evento scandito da una trama ineluttabile di consequenzialità fuori controllo.
Se sfuggiamo a questa responsabilità enorme, certo, ma è questo l’umano innanzi a noi cui
siamo obbligati dalla stessa potenza della tecnica che stiamo dispiegando, finiremo
comunque mischiati in una rete di sotterfugi e di menzogne che non ci sarà di nessun aiuto,
e ci consegnerà del tutto impreparati allo sconvolgente futuro che ci aspetta. Come quella di
nascondere ancora le nostre scelte dietro il rispetto di una naturalità ormai ridotta al
fantasma di se stessa, e di essere costretti, per esempio, a mascherare con il velo
dell’interruzione del sostegno alimentare (per lasciare che “la natura faccia il suo corso” ma
quale ipocrisia! ma quale natura! nemmeno con le piante si fa così!) la decisione del tutto
giustificabile in quanto tale di lasciar cadere quel che resta di una vita senza più speranza.
So bene che questo discorso implica un salto di qualità nel nostro diritto e nella nostra etica,
fermi a un tempo in cui ci era concesso di vivere una vita e di accettare una morte ben
diverse da quelle che oggi ci si schiudono dinanzi. Ma è proprio di questo che bisogna
cominciare a discutere: di morte responsabile, eticamente e non naturalisticamente dedotta,
e non più di ”eutanasia” una vecchia parola che riflette un concetto ormai fuorviante. La
Chiesa potrebbe essere di grande aiuto in questo frangente, spendendo la sua eccezionale
capacità di magistero e di ascolto. Se decidesse di evangelizzare il nostro futuro, e non solo
un presente che sta già svanendo, e se non invocasse più il nome di Dio a difesa di una
soglia biologica e culturale ormai superata, come ha già fatto una volta per proteggere
l’inutile immagine di una Terra al centro astronomico dell’universo.
819 - IL CASO ENGLARO – COMUNICATO STAMPA DI LiberaUscita
Roma. 9.7.2008 - E’ dal 18 gennaio 1992, da quando è stata coinvolta in un incidente
stradale, che Eluana giace in una clinica di Lecco, alimentata con un sondino nasogastrico,
paralizzata, incosciente, muta, praticamente morta, ininterrottamente e inutilmente torturata
per seimiladiciotto giorni, proprio lei che, avendo vissuto un caso analogo accaduto ad un
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suo amico sciatore, si era pronunciata contro tale accanimento terapeutico, peraltro vietato
dalla Costituzione.
Per tutto questo tempo suo padre Beppino si è battuto con dignità e con determinazione per
ottenere il riconoscimento del diritto di sua figlia ad interrompere la tortura alla quale era
sottoposta, rifiutandosi sempre di tentare scorciatoie all’italiana. Oggi finalmente, dopo la
storica sentenza della Corte di Cassazione che ha accolto l’ultimo degli otto ricorsi da lui
presentati disponendo che “il giudice può autorizzare la disattivazione” del sondino previo
accertamento della volontà del paziente, la Corte d’Appello di Milano ha posto fine alla
dolorosa vicenda.
“LiberaUscita”, associazione per la legalizzazione del testamento biologico e la
depenalizzazione dell’eutanasia, ritiene che un ulteriore passo verso il riconoscimento
giuridico del principio della autodeterminazione sia stato compiuto.
In un paese civile, sarebbe peraltro logico che in casi del genere si riconoscesse contestualmente al distacco del sondino alimentatore - il diritto ad una morte dignitosa,
senza attendere che sopravvenga dopo diversi giorni la cosiddetta “morte naturale”.
Anche per questo “LiberaUscita”” continuerà la sua battaglia di civiltà e di libertà, insieme
ai cittadini che vorranno sostenerla.
Giampietro Sestini - Segretario
820 - LA DIGNITÀ - DI GIAN ENRICO RUSCONI
da: la Stampa di giovedì 10 luglio 2008
Nel caso di Eluana non si sta sopprimendo una vita umana, ma al contrario si sta
riconoscendo la sua dignità. Il suo diritto a morire dignitosamente. Naturalmente secondo un
criterio che non è quello bioteologico, cioè di chi considera il bios vegetativo come tale
segno dell’impronta divina nell’uomo.
La questione tuttavia è molto seria e va affrontata con ragionevolezza e rispetto reciproco
delle differenti posizioni. Le convinzioni sulla vita e sulla morte, come quelle sulla famiglia e
sul sesso, ci dividono profondamente. Ma se vogliamo vivere insieme in una comunità civile
di cittadini, credenti e non credenti, dobbiamo coltivare attenzione reale per le ragioni di tutti.
Questo non è «relativismo», ma segno della maturità di una società civile.
Nessuno quindi - a cominciare dai rappresentanti della Chiesa - ha il diritto di usare
argomenti infamanti o criminalizzanti contro chi ha preso la decisione di lasciar morire in
pace Eluana.
Oggi è rimesso in discussione che cosa sia la «vita», anzi la vita umana. La medicina ha
alterato profondamente il rapporto tra biologico e meta-biologico. Il confine è diventato labile
e incontrollabile. Noi vogliamo riappropriarci di questo territorio tenendo fermi alcuni criteri.
Cominciando con l’affermare che è legittimo chiederci se una vita veramente vegetativa,
senza alcuna possibilità di recupero, sia degna di essere vissuta.
Porsi questo interrogativo non equivale a sostenere una selvaggia eutanasia, ma a ribadire
la pienezza della dignità umana e quindi porre le premesse da cui discendono quesiti
essenziali cui rispondere.
Primo: chi ha la competenza di stabilire l’irreversibilità della condizione di una vita
vegetativa?
Secondo: chi ha il diritto di decidere sul destino di chi si trova in questa condizione?
Mi pare che nel caso di Eluana entrambi i quesiti abbiano trovato una risposta ragionevole e
accettabile. I medici hanno stabilito l’irrecuperabilità della ragazza a una vita degna di essere
vissuta. Il padre come persona biologicamente, emotivamente, giuridicamente più vicina ha
preso in piena consapevolezza la decisione di sospendere l’alimentazione.
Responsabilmente e pubblicamente.
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Diciamolo pure brutalmente. Quanti casi analoghi sono decisi quotidianamente in modo
cinico, ipocrita, sottobanco - magari (Dio non voglia!) con l’assenso tacito dei clericali
«purché non si faccia scandalo»?
Ben venga quindi un dibattito pubblico, forte ma leale. Con una premessa essenziale però:
nel nostro Paese esiste una magistratura che su questa difficilissima materia sta
muovendosi con scrupolo, ponderando tutte le ragioni in campo, tutti i diritti in gioco. Può
sbagliare, naturalmente; le sue sentenze possono essere corrette o rettificate. Ma nessuno con la presunzione di appartenere ad un ordine morale superiore - si azzardi a diffamarla.
Magari in nome di una «sana laicità».
821 - LA LIBERTÀ DI DECIDERE SULL’ESISTENZA - DI UMBERTO VERONESI
da: il Corriere della sera di giovedì 10 luglio 2008
Vince l'autodeterminazione della persona, espressa nel pieno della consapevolezza e
lucidità, vince il principio della libertà di decidere della propria vita, vince la possibilità di
scegliere dove porre il limite fra accanimento terapeutico e cure, vince il consenso informato
ai trattamenti, vince il principio del Testamento Biologico, che di questo Consenso è
l'estensione, da applicare nel caso in cui non ci si potesse esprimere di persona.
L'intera vicenda Englaro è in sé una prova che il movimento a favore del Testamento
Biologico in Italia, che in prima persona ho fortemente voluto e promosso, non è nato come
disquisizione etica, ma come azione concreta per impedire che si consumino inutilmente
drammi come quello di Eluana e di suo padre Beppe, casi che molto spesso rimangono
silenti, senza comprensione e tantomeno conforto.
Quindici anni fa in Italia infatti non c'era alcun modello di riferimento per formalizzare le
volontà di Eluana rispetto alla vita artificiale. Chi conosceva il suo pensiero ha vissuto un
vero e proprio calvario perché il desiderio di Eluana fosse esaudito. Oggi non sarebbe così:
non c'è una legge sul Testamento Biologico come negli Usa e nella maggior parte dei Paesi
europei, ma se ne può fare a meno. Esiste la possibilità di compilare una semplice
dichiarazione che permette di esprimere la propria volontà circa le cure che si vogliono o
non si vogliono ricevere in caso di perdita della capacità di intendere e di volere, e di
nominare uno o più fiduciari incaricati di far eseguire le proprie volontà.
Se Beppe avesse avuto questo documento tutto sarebbe stato più semplice. Per questo il
mio appello è che le persone, anche i più giovani, facciano il loro testamento biologico,
esprimendo la loro volontà di accettare o non accettare la vita artificiale e ogni forma di
trattamento. Il Testamento Biologico è una conquista di civiltà e uno strumento di
responsabilità e libertà individuale a cui nessuno dovrebbe rinunciare.
822 - I PADRONI DELLA VITA - DI ADRIANO SOFRI
da: la Repubblica di giovedì 10 luglio 2008
Quanti modi ci sono di essere padri. C´è l´avviso terribile che il vecchio Taras Bul´ba
pronuncia all´indirizzo del figlio: "Io ti ho dato la vita, e io te la tolgo". Padri cosacchi di tanti
secoli fa, persuasi di aver messo loro al mondo i figli, e di dover punire il loro tradimento
levandoli dal mondo.
Ce ne sono ancora tanti, padri così. E madri silenziose, invisibili. Ieri, quando la sentenza di
una Corte d´appello, preparata da un orientamento della Cassazione, ha liberato due
cittadini italiani dall´incubo più sconvolgente che possa sperimentare persona umana, il
padre di Eluana – possiamo chiamarla tutti così, con una confidenza affettuosa, almeno a
questo sono serviti sedici anni di agonia – ha risposto a chi gli chiedeva che cosa sarebbe
avvenuto adesso: «La medicina l´ha fatto, la medicina metterà fine». La medicina ha preteso
di darle la vita, la medicina gliela toglierà.
In realtà, una medicina piegata a un assolutismo dell´autorità statale e della morale
dogmatica e delle procedure di routine ha finto una vita e ha negato la morte che era sua –
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"l´ora della nostra morte" – a una giovane donna, emulando, contro il fine cui medicina e
amore per il prossimo devono ispirarsi, la ferocia patriarcale di un atman cosacco. Il signor
Beppino Englaro e la sua moglie erano restati per più di due anni, giorno e notte, al
capezzale della loro figlia meravigliosa, «la creatura più splendida che abbia conosciuto»,
come dice il padre. Poi, quando non c´è stata più speranza, per quattordici anni – quattordici
anni – hanno chiesto alla società e alle sue autorità, mediche, giudiziarie, di opinione, di
riconoscere due cose incontrovertibili. Che lo "stato vegetativo" di Eluana era irreversibile, e
che dunque qualsiasi cura non era che accanimento straordinario, protrazione di un´agonia
senza scampo. E che Eluana aveva espresso lucidamente e inequivocabilmente la propria
volontà, quando il destino l´aveva portata, nella stessa rianimazione che avrebbe accolto lei,
a misurarsi con la disgrazia di un giovane amico. Per quattordici anni, e una tormentosa
sequela di processi e sentenze, i signori Englaro hanno aspettato che la società e le sue
autorità riconoscessero la propria stessa legge, e hanno sacrificato a questa tremenda
attesa la legge stessa dell´umanità, che viene prima e sopra quell´altra, e che ai loro occhi
non si era mai offuscata. Ancora una volta, attraverso una famiglia, la legge dell´amore si è
misurata con quella dello Stato, e di una religione che non dovrebbe essere di Stato, e la
legge dell´amore ha tenacemente atteso, fino all´abnegazione.
Ha voluto quello che le spettava: "la luce del sole". Non c´è stata sfida, questa volta, non il
gesto comprensibile e forse perfino ammirevole che tagliasse corto e separasse le persone
dallo Stato, e nemmeno il compromesso tacito e ipocrita che tanto spesso supplisce
all´ottusità: c´è stata una pazienza che dovrebbe chiamarsi eroica, se le stesse parole
troppo forti non le fossero estranee.
Ascoltavo le risposte di Beppino Englaro ieri, sul sito di questo giornale, ed ero spaventato
da una calma ragionevole e argomentante appena sotto la quale si sentiva una tempesta.
(«Quando la vedo, spaccherei il mondo», aveva detto, dieci anni fa). Un importante
monsignore ieri ha voluto invitare a una "minor emotività"! Ha voluto ancora evocare appelli
e impugnazioni e annullamenti e ripensamenti, ha voluto ancora chiamare col nome
oltraggioso di eutanasia la ratifica di una fine che si è consumata un immemorabile tempo fa.
Come davanti alle porte del tempio di Welby, si sente la mancanza di quell´appello: Dio li
perdoni.
Per tutti questi anni il signor Englaro ha aspettato di poter usare il minuscolo avverbio "più",
e ieri l´ha fatto. Che cosa pensa delle polemiche? – gli chiedevano. «Non mi toccano più.
Non mi riguardano più». Più – ecco la parola della liberazione. D´ora in poi, ha detto, questa
torna a essere una vicenda puramente famigliare. Gli hanno chiesto: «E chi vorrà vedere, a
chi vorrà essere vicino in un momento come questo?». «Mi basta e mi avanza mia moglie».
Era impressionante e grandioso il modo barbaro d´esser padre di Taras Bul´ba, è bellissimo
il modo d´esser madre e padre dei signori Englaro – quel dire a voce bassa: "Io sono mia
figlia". Mi auguro che la volontà di discrezione non faccia dispiacere loro il sentimento col
quale tanti di noi hanno accolto la sentenza di ieri, ma è un fatto che quando il caso, e quel
caso speciale e traditore che è la disgrazia, mette a fuoco persone che si sarebbero tenute
nella propria cerchia privata, se ne ricava una soggezione tanto più turbante per il contrasto
con lo spettacolo pubblico e le sue quotidiane lotterie di capodanno.
«Siamo orgogliosi di vivere in uno Stato di diritto», ha detto ancora il signor Englaro. Anche
questa è una frase da incidere, in questo momento, e a contrasto con questo momento. E si
è guardato dal dire che cos´era fino a ieri, questo Stato, quando sentenziava di inchiodare
senza fine al suo letto quel "purosangue della libertà" che era stata Eluana.
Le questioni di vita e di morte andavano di traverso alla politica, che preferiva lasciarle a
stregoni, preti e medici, salvo che nella propria versione specializzata, le questioni di guerra
e di pace - cioé di guerra. Ora che non può farne a meno, ora che la vita dei vecchi non
vuole più finire, e le macchine fanno miracoli, e i corpi benestanti vogliono assicurarsi corpi
di scorta, la politica non può più voltare la testa dall´altra parte. Ma continua a farlo. A
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riconvocare certezze di preti, obiezioni d´incoscienza di medici, intime discrezioni di
magistrati, unguenti di stregoni.
823 - ELUANA: E' QUESTIONE DI GIORNI
da: Repubblica.it - venerdì 11 luglio 2008
LECCO - I tempi non sono ancora decisi, ma ormai "si tratta di giorni, che siano due o tre
non conta. Ormai non sono più anni". Il papà di Eluana Englaro è determinato come lo è
stato in questi nove anni a lasciar morire sua figlia. E sarà l'Hospice di Airuno, in provincia di
Lecco, ad ospitare Eluana nelle ultime ore di vita. Una notizia che giunge dopo una giornata
di polemiche e di incertezze sulla struttura dove dovrà essere staccato il sondino
nasogastrico che alimenta e idrata artificialmente la ragazza, in coma da sedici anni.
L'Hospice di Airuno. E' stata la curatrice Franca Alessio a rendere pubblico che si tratterà
dell'ospedale di Airuno. La struttura, spiega la curatrice, "non ha posto alcuna pregiudiziale
ad accogliere Eluana: è disponibile nei modi e nei tempi che la situazione, delicata e
comunque dolorosa, prevede. Tutto sarà fatto secondo i tempi tecnici che il medico
incaricato ci indicherà: senza alcuna fretta, ma avendo come unico fine l'interesse di
Eluana".
Il medico. A staccare materialmente il sondino potrebbe essere il dottor Carlo Alberto
Defanti, prima in forza all'Azienda ospedaliera Niguarda di Milano. Se così fosse, si
porrebbe rimedio all'eventualità di non trovare un medico disposto a interrompere
l'alimentazione artificiale. Un'eventualità che comunque non ha mai spaventato Beppino
Englaro, che oggi aveva detto: "Non ho ancora chiarito se sarò io a togliere il sondino a
Eluana. Ma non è un problema né per me né per un medico".
L'agonia avrà termine. Per dare l'addio a sua figlia, Beppe Englaro non aspetterà dunque i
due mesi nei quali la procura può fare ricorso contro la sentenza della corte d'Appello di
Milano. L'ipotesi avanzata nelle ore successive alla decisione dei giudici, è stata scartata.
Vittorio Angiolini, uno degli avvocati che ha tutelato gli interessi della giovane donna nel
procedimento, ha fatto sapere che "l'interesse di Eluana comporta il disporre l'interruzione
dei trattamenti di sostegno vitale artificiale in atto".
Adesso serve riservatezza. Nel mezzo delle polemiche mai sopite di questi giorni il padre di
Eluana continua a ripetere che "la sentenza è chiara e di massimo livello, e noi vogliamo
agire con trasparenza cristallina", ma "adesso richiamo tutti all'esigenza di rispettare la
riservatezza per la dignità personale di Eluana". Beppe Englaro si dice poi "stupito del
clamore" sollevato dalla sentenza dei giudici di Milano.
Dietro front del professore. Dopo l'iniziale disponibilità espressa da Riccardo Maffei, primario
anestesista dell'ospedale di Lecco, ad aiutare la ragazza nell'ultima fase della sua vita, era
arrivato il dietro front del professore che, con una dichiarazione ufficiale, aveva chiarito che
la sua posizione "è sempre stata e sempre sarà per la vita, qualunque essa sia". Nella
vicenda di Eluana oggi era intervenuto anche l'Ordine dei medici di Lecco, che aveva
invitato esplicitamente i propri membri ad opporre l'obiezione di coscienza, che sarebbe "non
solo comprensibile ma auspicabile".
Avvenire: “Scelta necrofila". La ragazza sarà quindi trasferita lontana dalla casa di cura
Beato Luigi Talamoni di Lecco, gestita dalle suore Misericordine, da sempre contrarie a
qualsiasi forma di "eutanasia mascherata". Le critiche delle gerarchie ecclesiastiche alla
sentenza della corte d'Appello di Milano, restano durissime: "La decisione dei giudici è
obiettivamente necrofila - scrive oggi l'Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale apre le porte alla morte e chiude alla vita".
824 - UNA LIBERA SCELTA PER ELUANA - DI ENZO MAZZI
da: il manifesto, di venerdì 11 luglio 2008
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E’ un annuncio di liberazione e di resurrezione la sentenza della Corte D'Appello di Milano
che accoglie il reclamo del padre di Eluana, la ragazza in coma irreversibile da sedici anni.
Lo è per lei e per tutti noi che amiamo la vita e amiamo quindi la sua intrinseca finitezza.
Scusate l'enfasi che mi è suggerita dal clima regressivo in campo etico che stiamo vivendo
in Italia da molti anni senza un barlume di speranza. E insisto. Beppino Englaro potrà dare di
nuovo la vita a sua figlia, quasi generarla di nuovo. Sospendendo l'alimentazione forzata
potrà compiere nei confronti della figlia il gesto generativo più forte. E sarà anche la scelta
più densa di fede cristiana.
Sarà come un secondo battesimo, non in senso ritualista, ma come immersione nella
dimensione della resurrezione, cioè della vita che perennemente rinasce. L'impietosa e
ottusa intransigenza delle gerarchie vaticane è ancora una volta il segno di una
inadeguatezza di fronte alle grandi trasformazioni che investono ormai tutti i campi del vivere
ed evidenzia una forte contraddizione dal punto di vista della stessa fede cristiana. Ma può
essere anche il segno della estrema debolezza in cui si trova il sistema del dominio del
sacro, mi scuso per l'approssimazione, che fin dagli inizi della storia è fondato sull'ancestrale
paura della morte.
Tutti i sistemi di potere per affermarsi e mantenersi hanno sfruttato a piene mani la paura
della morte. A cominciare dal potere attribuito a Dio in quasi tutte le religioni e culture. Dio e
morte sono considerati da sempre nemici inconciliabili fra loro, ma in un certo senso anche
alleati perché Dio usa la morte come strumento di condanna per il peccato.
Ed è proprio questo binomio di opposti, Dio/morte, che forse è in crisi, già dal tempo di
Francesco d'Assisi che cantava la morte-sorella. Su di esso occorre lavorare per portare un
po' avanti la nostra liberazione dalla paura.
Sul tema dell'eutanasia molto si parla in termini politici, biologici, medici, giuridici. E già
questo è un segno di maturazione della coscienza collettiva. Poco si è parlato e si parla però
delle radici inconsce che condizionano le nostre scelte, fra cui certamente il binomio
Dio/morte.
Al fondo dei problemi etici che agitano il nostro tempo c'è questo Dio tenero per certi aspetti
e terrificante per altri c'è questo Dio che ci ama fino a incarnarsi e sacrificarsi per salvarci dal
peccato ma ci condanna a assaporare fino in fondo la sofferenza, anche se si fa
insopportabile, una sofferenza si badi bene che lui stesso ci manda e ci impone finché lui
vuole, nella sua imperscrutabile volontà e provvidenza. E se pretendiamo sostituirci a lui nel
decidere, sostenuti e moderati dalla rete delle relazioni affettive e tecniche, quando è il
momento di rifiutare una sofferenza il cui scopo è solo la tortura per se stessa, ci condanna
alla seconda morte, cioè a quella eterna dell'anima.
Della paura sono vittime preti, medici, cattolici in genere. Ma anche tanti laici.
La paura del binomio divinità/morte è sepolta da millenni nell'inconscio collettivo, nella zona
più oscura della vita individuale e sociale. Quella paura non basta esorcizzarla con esercizi
puramente mentali; non ritengo sufficiente ad esempio il negazionismo ateista. Perché dal
profondo emerge in forme mascherate.
La paura, sepolta nella zona più oscura della vita, ha bisogno innanzi tutto di essere
riconosciuta, narrata e analizzata. Le emergenze etiche posso essere l'occasione per dare
finalmente cittadinanza a esperienze essenziali del vivere umano.
Il problema è che da soli non ci si riesce e mancano luoghi per socializzare tali elaborazioni
e esperienze. O forse non si cercano.
Commento. L’articolo di Enzo Mazzi, ex-sacerdote della comunità l’Isolotto di Firenze, è
molto importante perché rappresenta l’altro modo con cui la Chiesa cattolica potrebbe
svolgere il suo ruolo nella società moderna, un ruolo che sotto Giovanni XXIII la Chiesa
aveva inaugurato ma che è stato dapprima corretto da Giovanni Paolo II e poi stravolto da
Benedetto XVI. Si tratta di leggere le parole del Signore e le sacre scritture alla luce dei loro
principi ispiratori: fede, speranza, carità. A titolo di esempio, riporto un passo tratto dalla
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prima lettera di san Paolo ai Corinzi (13, 1-13): “Se anche parlassi le lingue degli uomini e
degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che
tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e
possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità,
niente mi giova. La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si
vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse non si adira, non tiene
conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre,
tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine… Queste dunque le tre
cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!”
Invece la Chiesa, anziché interpretare il gesto di papà Englaro come un segno di amore e di
carità cristiana, preferisce bollarlo come assassinio, ossessionata com’è dalla “paura della
morte”. Una paura forse comprensibile per un ateo, ma non certamente per coloro che
credono, morendo, di vivere finalmente la vita eterna. (gps).
825 - LA LEGGE E L’AMORE - DI ADRIANO SOFRI
Da: la Repubblica di mercoledì 16 luglio 2008
Nemmeno il signor Beppìno Englaro, quando sì è augurato che la vicenda di Eluana
tornasse a essere un dolore privato, e ha auspicato il silenzio, poteva illudersi di ottenerlo.
Intanto perché il chiasso è più forte di qualunque dolore e di qualunque rispetto, e il chiasso
segna i nostri giorni, come quei televisori lasciati sempre accesi, anche durante le
conversazioni fra amici, anche durante le cene di famiglia.
C’è però anche un’angoscia vera, attorno a questa vicissitudine, voci che vogliono farsi
sentire e che meritano di essere ascoltate. Ma soverchia tutto la smisuratezza di un
confronto che vede da una parte l’intera gerarchia della Chiesa cattolica, che fa della
paternità universale la propria prerogativa, e dall’altra un singolo padre, che parla a proprio
nome, e anzi a nome della propria figlia. Non, si badi, “dell’umanità”. il signor Englaro sa che
ci sono persone comuni e scienziati — la loro autorità al riguardo è in fin dei conti
equivalente — che dubitano che lo “stato vegetativo persistente” sia irreversibile, che
aspettano nonostante tutto un ritorno, che comunque pensano che anche quello stato
vegetativo sia una vita personale degna d’esser vissuta. La sua non è una posizione
scientista contro una posizione fideista, o la sfida fra una convinzione scientifica e un’altra, o
il pessimismo di un non credente contro la scommessa del credente. Beppino Englaro pensa
fermamente, ha avuto già sedici anni per pensarci, ogni giorno e ogni notte, che quella non
sia vita per la sua Eluana, che non la riterrebbe vita per sé. Pensa che sua figlia l’avesse
respinta dal proprio orizzonte, e si fosse affidata all’amore dei suoi per esserne, quando una
simile disgrazia l’avesse colpita, liberata.
In questi giorni sono state raccontate, in contrappunto con la storia di Eluana, tante altre
storie di figlie e figli in una condizione simile, assistiti dai loro famigliari e da persone di
buona volontà con una dedizione eroica, compensata dall’amore che, “nonostante tutto”,
nonostante l’assenza di ogni segno di riconoscimento e di comunicazione, ne ricevono in
cambio.
Ammiro senza riserve quella cura e i luoghi in cui ci si impegna a renderla più condivisa e ad
alleviare l’immane stento di un’assistenza privata e solitaria: è così nella bolognese “Casa
dei risvegli”, sorta in memoria di Luca De Nigris, morto quindicenne dopo un coma di alcuni
mesi. Mi onoro di sentirmi uno degli “Amici di Luca” che nutrono quell’esperienza. Ma, a
differenza di quelle eccellenti persone, non penso che la loro scelta possa valere per
chiunque, e che debba valere per il signor Englaro, né per la legge dello Stato.
Così, la Chiesa ha la sua indefettibile verità. La Chiesa rifiuta di ridurre la propria verità alla
storia o alla natura. Dunque l’argomento che il signor Englaro, uomo solo, le oppone
intrepidamente — “Non si tratta della consumazione di una vita, ma di fare in modo che la
natura riprenda il suo corso che è stato interrotto” — suonerà invalido al cardinal Bagnasco,
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per il quale la natura è subordinata, salvo che diventi un sinonimo della legge divina. Ma sta
di fatto che se oggi la medicina ha saputo prolungare un’esistenza cui “la natura” avrebbe
ancora poco fa posto irrimediabilmente fine, la dignità di questa esistenza non è definibile in
modo assoluto, se non, vorrei dire, attraverso l’amore. E l’amore di una madre o un padre
che devolvano intera la propria vita alla cura di un figlio, anche quando non sia offerta loro
alcuna speranza se non il miracolo, non è nè maggiore né minore di quello di una madre e
un padre che vogliano liberare un corpo disertato dalla vita, compiendo così la volontà della
propria figlia. Sono semplicemente incomparabili. Guai se la legge pretendesse, “erga
omnes”, di obbligare a una sospensione delle cure; guai se pretendesse di imporne la
prosecuzione a oltranza.
Nel caso di Terri Schiavo, ci fu un penosissimo conflitto fra il marito della giovane e i genitori
e il fratello. Di fronte al desiderio accorato della sua famiglia d’origine, anche a chi ritenesse
ragionevolmente infondata la loro speranza e illusoria l’impressione di una sua infima
capacità di reazione, la decisione dì lasciarla morire sembrò crudele: per loro, se non per lei.
Ma lì erano sua madre, suo padre, suo fratello. Che i signori Englaro debbano “lasciare”,
come si è chiesto in questi giorni incandescenti, il corpo della propria figlia alle brave suore
miserendine, è davvero un chiedere troppo.
Che non si tratti, per Eluana, di “staccare la spina”, ma di interrompere l’alimentazione e
l’idratazione artificiali, non è affatto una vera differenza, se non per far evocare il
raccapriccio di un’agonia per fame e per sete. Ma è a questo che la medicina può e deve
dare rimedio. Non è meno raccapricciante, una volta che contro un accanimento terapeutico
si interrompa la ventilazione, una morte fra i gorgogli e gli spasimi dell’asfissia: si potranno
deporre, sul sagrato di un Duomo, sacchetti di ossigeno. Aria. Le bottiglie d’acqua
depositate simbolicamente davanti al Duomo di Milano — e non importa che siano poche o
molte, anzi — sono soprattutto un segno di partecipazione e di amore per la vita. Ma
nessuna distinzione fra credenti e no basta a definire la fine di Eluana come un’eutanasia, o
ad assimilare la sua condizione a quella di una vita disabile. Del Dio dei credenti, Padre o
Madre, Figlio o Figlia, non è detto da che parte starebbe in questa tragedia.
Quanto a noi fratelli umani, la differenza mi sembra questa. Che alcuni di noi dicono: “Con
tutto il rispetto per Beppino Englaro, stiamo dalla parte della Chiesa”. Altri di noi dicono:
“Con tutto il rispetto per la Chiesa, stiamo dalla parte di Beppino Englaro”.
826 - ELUANA, COMMISSIONE SENATO ESAMINERÀ CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE
Da: Reuters – 16 luglio 2008
E' passata oggi all'esame della commissione Affari costituzionali del Senato la richiesta di
aprire una procedura di conflitto di attribuzione per quanto riguarda il caso di Eluana
Enlgaro, la donna che da 16 anni vive in stato di coma vegetativo permanente e su cui si è
pronunciata la scorsa settimana la corte d'Appello civile di Milano, dando l'autorizzazione al
padre di interrompere il trattamento di idratazione e alimentazione forzata che la tiene in vita.
La richiesta di aprire una procedura per conflitto di attribuzione -- avanzata qualche giorno fa
dal senatore Francesco Cossiga e altri -- viene dal fatto che la decisione su Eluana Englaro
è venuta da una sentenza della magistratura e non da una legge.
Il conflitto, da sollevare davanti alla Corte costituzionale, sarebbe dunque fra potere
giudiziario e potere legislativo.
Oggi la Giunta per il Regolamento ha accolto la proposta del presidente del Senato, Renato
Schifani, di deferire la richiesta alla commissione Affari costituzionali, dopodichè sarà l'Aula
a decidere sul sollevamento o meno della questione del conflitto.
Secondo la sentenza pronunciata mercoledì scorso dalla corte d'Appello civile di Milano, il
padre della ragazza, Beppino Englaro, può chiedere sin da subito ai medici di interrompere il
trattamento che tiene in vita Eluana o aspettare l'eventuale ricorso in Cassazione, che la
procura generale può presentare entro 60 giorni.
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La procura ha annunciato che presenterà le sue osservazioni la prossima settimana.
827 - ELUANA E LA LIBERTÁ DI MORIRE - DI ENZO VITALE
da: www.diarioreggino.it – sabato 12 luglio 2008
Di Eluana e della sua dolorosa storia hanno abbondantemente parlato i media nazionali e,
more solito, si è fatta la consueta confusione tra cure mediche e accanimento terapeutico,
tra sospensione d’assistenza ed eutanasia. Affermato finalmente il diritto alla sospensione
terapeutica, continua comunque a essere negato il diritto a una dignitosa e attiva uscita da
un’esistenza che si ritiene non più degna di essere vissuta.
Penso di fare cosa utile, nella qualità di dirigente di LiberaUscita – www.liberauscita.it –
(associazione laica e apartitica per la legalizzazione del testamento biologico e la
depenalizzazione dell’eutanasia attiva nella nostra città), a porre alcune considerazioni in
merito ai rapporti tra spirito religioso e concetto di eutanasia.
In una visione laica della vita, quando si arriva a giudicare che la medicina non è più in
grado di migliorare il proprio stato, e che pertanto è intollerabile prolungare ulteriormente
l’esistenza, il ricorso all’eutanasia o al suicidio assistito, se praticati in un contesto di precise
regole e controlli validi, costituiscono un’alta espressione di libertà individuale, oggi negata
ope legis.
Naturalmente solo l’essere umano in completo possesso delle proprie facoltà mentali, e
quindi pienamente cosciente, può essere responsabile delle proprie scelte e pertanto
decidere se la propria vita è ancora degna di essere vissuta: nessuno, né tantomeno la
società o la medicina o la religione, può imporre l’obbedienza a valori non condivisi.
Ciò da un punto di vista laico “illuministico”. E da uno religioso-pastorale? La questione è
stata pragmaticamente affrontata dalla Chiesa Valdese il cui Sinodo ha approvato un
documento, pubblicato sulla rivista Protestantesimo, elaborato dal gruppo di studio
sull’eutanasia. Proverò a riassumerne le conclusioni.
Se l’etica medica può giustificare il suo diniego all’eutanasia su valutazioni di ordine genetico
o antropologico, da un punto di vista pastorale è possibile un’analoga giustificazione?
Nell’ambito dell’accompagnamento pastorale, una buona assistenza spirituale crea una
profonda relazione con lo stato di sofferenza del malato: è questa che dovrebbe far
accogliere, pur in piena conflittualità di principi, la richiesta di interrompere la vita col suicidio
assistito.
Non si tratta di dare giustificazioni o legittimazioni a un atto che si compie per difendere il
“diritto alla vita” di chi chiede di poter morire; quanto piuttosto di prendere atto che non vi
sono giustificazioni etiche e pastorali dirimenti per opporre al malato un rifiuto di principio.
Non si può sfuggire alla domanda che il malato rivolge con insistenza e che il pastore
percepisce in tutta la sua gravità.
Fino ad oggi in ambito cristiano, a parte alcune eccezioni, è prevalso un giudizio negativo
nei confronti dell’eutanasia attiva: fondandosi sulla Bibbia e sulla morale cristiana, questo
deriva dall’affermazione che solo Dio può dare e togliere la vita. Da ciò deriva la sua
“sacralità” e intangibilità: per i cattolici intervenire equivarrebbe a “prendere il posto di Dio”.
Ma Gli si sottrae veramente parte della sua Signoria sul mondo accogliendo la richiesta di un
moribondo ad anticipare solo di un po’ la sua dipartita?
L’etica cristiana deve fornire risposte credibili. La sofferenza e il dolore non producono
salvezza: sono solo dimensioni dell’esistenza umana che, non avendo in sé nulla di positivo,
pur dovendole accettare, vanno comunque combattute.
Posto che l’uomo, ponendosi nuovi interrogativi sulla vita e sulla morte, si avvicina alla fede
nei tempi della sofferenza e del dolore, non significa che vi sia un legame inscindibile tra
questi tempi e l’elevazione dello spirito: superato un certo limite, il dolore annulla le facoltà
intellettuali e fa sì che si riesca a desiderare soltanto di smettere di soffrire.
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Nell’ambito pastorale si parla molto di rispetto della spiritualità, che sembra però arrestarsi
improvvisamente di fronte alla richiesta del malato inguaribile che chiede di poter morire: è
come se questa domanda provenga da un mondo cui non si appartiene.
Cosa impedisce di leggere anche in questa domanda un segno di spiritualità viva e
cosciente? Con quale autorità spirituale si può contrastare la libertà e responsabilità di chi
vuol decidere il tempo della propria morte quando il vivere per lui ormai non è che è
un’umiliazione quotidiana senza speranza? Quale fonte d’autorità può costringere una
persona inguaribile a continuare a vivere una vita di morte? Da quale parte sta Dio? Dalla
parte del non senso del dolore acuto e inguaribile o dalla parte di un umano desiderio di
morire?
In una tale situazione, accogliendo una domanda di morte all’interno di un lungo processo di
cura e relazioni, non si commette un crimine e non si viola alcuna legge divina.
828-IO MALATA COME WELBY DECIDERÒ SULLA MIA VITA - DI CATERINA PASOLINI
Da: la Repubblica di venerdì 11 luglio 2008
Pistoia. «Io sono libera anche su questa sedia a rotelle, con le gambe che non ne vogliono
più saperne di camminare, col respiro che un giorno comincerà a mancare. Sono libera e
voglio restarlo, voglio una legge sul testamento biologico che mi assicuri che sarò io a
decidere che fare quando diventerà insopportabile questa vita che amo nonostante tutti i
limiti. Perché io ho la stessa malattia di Welby, la distrofia muscolare che blocca giorno dopo
giorno tutti i muscoli, e come lui voglio decidere come e se curarmi. Se accettare che un
domani mi buchino la gola per respirare, che mi attacchino ad una macchina che gonfi i
polmoni oppure no e chiuderla lì».
Elisabetta Giromella ha 56 anni portati con grinta e passione, dosi massicce di spirito
polemico - «sa sono toscana e il sangue non è acqua» e gocce di ironia che punteggiano il
racconto di una vita difficile vissuta intensamente. Niente pietismi mentre, capelli lunghi scuri
che le incorniciano il volto magro, si racconta ragazzina ferita e rabbiosa per la malattia che
a 12 anni la colpisce, i «giorni in cui anche scrivere sulla lavagna diventa una fatica» perché
le braccia sono all’improvviso senza forze.
Come si è sentita?
«Vittima di un’ingiustizia, ero adolescente, difficile capire una malattia che neanche si
sapeva come andava a finire, ma non ho smesso di lottare, ho studiato, ho fatto una vita
normale fino a quando ho potuto. Insegnando alle elementari, lavorando a scuola. Niente
matrimonio, non me la sono sentita di impegnare qualcuno conoscendo il mio destino, ma
non mi sono privata di nulla. Amore compreso».
Da 15 anni sulla sedia a rotelle.
«Sì e la malattia va avanti, mica mi aspetta. Io però non mi fermo anche se ovviamente non
ho potuto fare, come sognavo, la paleontologa. Mi occupo di handicappati, di eliminare le
barriere architettoniche, del progetto della regione Toscana che destina fondi per dare una
vita autonoma e indipendente alle persone come me oltre ad impegnarmi con l’associazione
Coscioni. Perché la storia di Luca o Piergiorgio è come la mia, perché la voglia, il diritto di
decidere del proprio destino è la stessa. Perché la costituzione dice che non posso essere
obbligata a subire cure che non voglio».
E’ religiosa?
«Credo in qualcosa che regoli il tutto anche se non sono cattolica in senso stretto. Credo
nella libertà, nella vita, ma l’esistenza deve essere degna di essere vissuta. Per questo sono
a favore al testamento biologico, le mie volontà su carta nel caso in cui un giorno non abbia
fiato e voce per dirle ai medici».
Come giudica la sentenza su Eluana?
«Lei aveva detto a suo padre che una vita così non l’avrebbe sopportata e la capisco. C’è
voluto un tribunale e sedici anni perché rispettassero le sue volontà».
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E a chi dice che nessuno può decidere sulla vita?
«Rispondo che ognuno è libero di fare quello che vuole: soffrire, farsi curare o no, lasciare
un testamento o evitare. Il punto è tutto li: la libertà sulla propria vita che è un diritto
personale, non cedibile».
829-CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE: PALESEMENTE IMPERCORRIBILE- S. CECCANTI
Da: www.partitodemocratico.it – Giovedì 17 luglio 2008
"La Commissione Affari Costituzionali esaminerà da lunedì la questione del possibile
conflitto di attribuzione contro la Corte di Cassazione sul caso Eluana". Lo dichiara il
senatore del Partito democratico Stefano Ceccanti che così continua: "Non appare uno
strumento percorribile, indipendentemente dal giudizio sulla questione e dalla sua grande
importanza per almeno quattro motivi.
Primo: una sentenza di rinvio non è definitiva e quindi non rientra negli atti impugnabili
secondo la legge che regolamenta i conflitti di attribuzione.
Secondo: un Parlamento che non legifera su una materia lascia di fatto ai giudici che
devono comunque rispondere a una richiesta di giustizia dei cittadini senza potersi astenere
la possibilità di varie e legittime alternative giurisprudenziali; se vuole ridurre queste
possibilità deve fare il suo dovere e non proporre conflitti che da qui in poi tenderebbero a
moltiplicarsi. Non a caso questa via sin qui non è mai stata percorsa.
Terzo: sulla base della Costituzione - spiega ancora Ceccanti - il ricorso dovrebbe rimanere
esclusivamente sul piano della legittimità mentre qui si tende pericolosamente a scivolare
sul merito.
Infine, casomai, in un ordinamento contrassegnato dal bicameralismo perfetto un ricorso per
lesione del potere legislativo dovrebbe essere presentato da entrambe le Camere con due
atti identici e convergenti a ricorrere".
Aggiunge Ceccanti “Si rischia di esporre il Senato della Repubblica a una solenne smentita
da parte della Corte costituzionale, evitando di affrontare la questione nel modo giusto,
verificando la possibilità di un ampio consenso su una legge che non scarichi sui giudici le
nostre contraddizioni”.
Commento. Dal punto di vista giuridico, il sen. Ceccanti ha perfettamente ragione. Dal punto
di vista politico, credo che se la Corte Costituzionale sarà investita del problema non potrà
che pronunciarsi contro l’esistenza di un conflitto di attribuzione, mettendo fine una volta per
tutte ad ogni discussione sulla legittimità della sentenza della Cassazione e della successiva
sentenza della Corte d’Appello di Milano. Fra l’altro, essendo la sentenza di Milano
esecutiva, visti i tempi della giustizia italiana è presumibile che la pronuncia della Suprema
Corte – se ci sarà – avverrà dopo il preannunciato distacco del sondino nasogastrico che
tiene artificialmente in vita Eluana Englaro. Il vero problema è un altro: nei prossimi giorni
assisteremo alla moltiplicazione delle pressioni e delle iniziative da parte del Vaticano, dei
politici filo-clericali, delle associazioni cattoliche e dei mass-media da loro controllati per
boicottare o quanto meno ostacolare l’applicazione pratica della sentenza. Basta notare gli
spazi ed i modi con cui le notizie su Eluana vengo diffuse sulla stampa e sulle TV, sempre
accompagnate dalle sue fotografie di oltre sedici anni orsono, quando era sorridente e nel
fiore degli anni. Sarà comunque una ulteriore occasione per valutare il livello di laicità e di
solidarietà umana degli italiani.
830 - SONDAGGIO: L’81% DEGLI ITALIANI LA PENSANO COME PAPA’ ENGLARO
Sul settimanale “Donna Moderna”, in edicola dal 17 luglio, è stato pubblicato un sondaggio
condotta da SWG, secondo il quale oltre otto italiani su dieci sono favorevoli alla interruzione
dell'alimentazione e idratazione artificiale di Eluana Englaro.
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Il sondaggio è stato condotto su un campione stratificato della popolazione italiana tra i 18 e
i 64 anni composto da soltanto 200 soggetti, e pertanto non del tutto rappresentativo, ma
certamente sufficiente per indicare l’opinione della maggioranza degli italiani. .
831 - MALATI DA RISPETTARE - DI IGNAZIO MARINO
da: la Repubblica di venerdì 18 luglio 2008
Caro direttore, la dignità della vita non si discute. Che si tratti di un neonato, di un giovane
ammalato, di un anziano disabile o di una persona in stato vegetativo permanente, il valore
di quell’esistenza va sempre riconosciuto e rispettato. Tuttavia, di fronte a malattie incurabili
che segnano il destino di un essere umano, o di fronte ad una condizione irreversibile come
quella di Eluana Englaro, non c’è un solo modo di rapportarsi, non c’è chi ha ragione o chi
ha torto, c’è solo un drammatico bisogno di rispetto dei diritti e della dignità.
Le due testimonianze pubblicate nei giorni scorsi su Repubblica dimostrano proprio questo:
due donne con la stessa malattia, con il medesimo ineluttabile destino a cui hanno reagito in
maniera diametralmente opposta. Una ha scelto di liberarsi dalla sofferenza ponendo fine
alla propria esistenza in tragica solitudine. La seconda ha scelto invece di continuare a
vivere e ci ricorda, con una forza che obbliga a riflettere, le carenze organizzative di un
sistema che non le garantisce tutti i supporti medici e tecnologici che oggi esistono. A questa
donna, e a tutti coloro che vivono in situazioni drammaticamente simili, va detto che non c’è
nessun motivo per cui il diritto a continuare a vivere non debba essere affermato e difeso. Ci
mancherebbe altro! AIlo stesso tempo è difficile non riconoscere che un paziente possa
sentirsi abbandonato quando deve lottare per ottenere quegli strumenti e quelle attrezzature
mediche indispensabili a garantire il proseguimento della vita in maniera dignitosa.
Ma le responsabilità non vanno attribuite solo e genericamente allo Stato, piuttosto il dito va
puntato anche contro l’inerzia delle amministrazioni sanitarie regionali che sono spesso
all’origine di gravi disfunzioni e della mancata assistenza a questi malati. I responsabili
hanno un nome e cognome, sono quasi sempre i funzionari di un assessorato che non
portano avanti le pratiche con la dovuta celerità, che non hanno la sensibilità di capire che
dietro alle carte c’è la vita di una persona che attende una firma, un’autorizzazione. Non c’è
una strategia nelle loro azioni, la chiamerei piuttosto imperdonabile e gravissima sciatteria.
Ciò di cui si dovrebbe dibattere, per arrivare ad una legge che regolamenti la materia in
modo chiaro, è il rispetto delle volontà dell’individuo di fronte alla malattia. C’è chi, per motivi
personali, culturali, religiosi o altro, afferma la propria volontà di ricevere ogni cura di fronte
ad ogni circostanza avversa. Sono persone coraggiose che devono essere ascoltate,
sostenute e assistite con ogni mezzo e sostegno economico possibile. Ma c’è anche chi
preferisce rinunciare a terapie che considera sproporzionate per se stesso. Ci sono persone
che non giudicano accettabile l’idea di trascorrere la propria esistenza in stato vegetativo
permanente perché ritengono che la vita sia soprattutto relazione con il mondo e se la
relazione non c’è più, per loro la vita perde di signfficato. Anche questa posizione va
rispettata senza esprimere giudizi.
Nessuno dei due diritti, alle terapie o alla rinuncia delle terapie, può essere negato. E questo
ciò che lo Stato deve garantire: parità di diritti a tutti i cittadini, nel caso specifico il rispetto
dell’autodeterminazione dei pazienti nelle decisioni terapeutiche. Le due situazioni mettono
dunque in luce problemi gravissimi, sono entrambe importanti, ma non sono direttamente
collegate. Il rispetto della vita e della persona non è in contraddizione con il rispetto delle
volontà del malato, ma per fare in modo che ognuno possa esercitare un diritto è necessaria
una legge che si occupi di tutti gli aspetti che riguardano la fine della vita, dal testamento
biologico alle cure palliative alle terapie del dolore. Non serve una legge per staccare la
spina, ma una legge perché ogni cittadino, sulla base dei propri principi e dell’articolo 32
della Costituzione, possa liberamente decidere ciò che vuole o non vuole nel momento di
passaggio dalla vita alla morte.
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832 - LA LETTERA DI MARINA GARAVENTA
da: la Stampa di venerdì 18 luglio 2008
Caro Direttore,
sono Marina Garaventa, ho 48 anni e sono, più o meno, nella stessa situazione in cui era
Piergiorgio Welby: come lui, ho il cervello che funziona benissimo, diversamente da lui,
posso ancora usare le mani e la mimica facciale. Come ho seguito il caso Welby,
esprimendo la mia opinione, ho seguito il caso, ben più grave del mio, di Eluana Englaro e
mi sono «rallegrata» della sentenza che ne sanciva la conclusione, sperando che nessuno
si permettesse di intromettersi in un caso così delicato e personale. Non avevo la benché
minima intenzione di dire o scrivere alcunché fino all’altra mattina alle 7 quando, ascoltando i
primi notiziari, ho sentito tante «cazzate» che mi sono decisa a dire la mia. Io sono abituata
a esprimere opinioni, dare giudizi e consigli solo su cose che conosco bene e che ho vissuto
personalmente e mi piacerebbe tanto che tutti si regolassero così, evitando di aprire la
bocca per dare aria a sentenze basate su mere teorie filosofiche e moral-religiose.
Con queste parole mi riferisco, in particolare, alle recenti «sortite» di alcuni personaggi noti
che, in un delirio di onnipotenza, dicono la loro, scrivono lettere patetiche e organizzano
raccolte pubbliche di bottiglie d'acqua: le bottiglie, a Eluana, non servono perché sia l'acqua
sia la nauseabonda pappa che la tiene in vita e che anch'io ho provato per mesi, le arriva
attraverso un sondino. Bando quindi ai simbolismi di pessimo gusto di Giuliano Ferrara,
stimato giornalista, e al paternalismo di Celentano, mio cantante preferito. In quanto al mio
esimio concittadino, il Cardinal Bagnasco, sarebbe cosa buona e giusta che, prima di
esprimersi su quest'argomento, avesse la bontà di spiegarci perché a Welby è stata negata
la messa e, invece, il «benefattore» della Magliana, Renatino De Pedis, è sepolto in una
nota chiesa romana.
A questo punto, però, siccome neppure a me piace fare della teoria, propongo a questi
signori di prendersi un anno sabbatico e offrirlo a Eluana: passare con lei giorni e notti,
lavarla, curarle le piaghe, nutrirla, farla evacuare, urinare, girarla nel letto, accarezzarla,
parlarle nell'attesa di una risposta che non verrà mai. Sono disponibile anche a mettermi a
disposizione per quest'esperimento ma, devo avvisare tutti che, per loro sfortuna, io sono
sicuramente meno docile di Eluana e se qualcuno, chiunque sia, venisse per insegnarmi a
vivere, lo manderei, senza esitazione, «affanc...».
A sostegno di quanto detto finora, aggiungo che, nonostante io non possa più camminare,
parlare, mangiare, scopare e quant'altro, amo questa schifezza di esistenza che mi è
rimasta e mai ho avuto il desiderio di staccare la spina del respiratore che mi tiene in vita.
Nonostante tutte le mie limitazioni, io ho una vita intensissima: scrivo su alcuni giornali locali,
tengo un blog (www.laprincipessasulpisello.splinder.com), ho un'intensa vita di relazione e,
in questo periodo, sto promovendo un mio libro che narra di questa mia splendida
avventura. («La vera storia della principessa sul pisello», Editore De Ferrari , Genova).
Sicuramente qualcuno penserà che voglio farmi pubblicità e, in un certo senso, è vero: io
voglio, per quanto posso, dar voce a tutti quelli che sono nella mia condizione e non sanno o
non possono dire la loro.
Parliamoci chiaro: i malati come me, come Welby ed Eluana, sono già morti! Sono morti il
giorno in cui il loro corpo ha «deciso» di smettere di funzionare e hanno ricevuto dalla
tecnologia, che io ringrazio sentitamente, l'abbuono, il regalo di un prolungamento
dell'esistenza. Ma come tutti i regali, anche questo vuol essere contraccambiato con merce
altrettanto preziosa: una sofferenza fisica e morale che solo una grande forza di volontà può
sopportare. Nel momento in cui il gioco non vale più la candela il paziente deve poter
decidere quando e come staccare la spina. Lo Stato deve garantire la miglior vita possibile a
questi malati, tramite assistenza, supporti tecnologici e contributi ma non può arrogarsi il
diritto di decidere della loro vita sulla base di astratti principi etici, molto validi per chi sta col
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culo su un bel salotto, ma che diventano assai stucchevoli quando si sta nel piscio. Eluana
non può più decidere ma chi le è stato vicino, nella gioia e nella sofferenza, chi l'ha
conosciuta e amata non può dunque decidere per lei, mentre possono farlo persone che,
fino a ieri, non sapevano neppure che esistesse?
Io sono pronta a chiedere umilmente perdono se questi signori mi diranno che, nella loro
vita, si son trovati in situazioni come la mia o come quella di Eluana e delle nostre famiglie
ma, francamente, non credo che la mia ammenda sarà necessaria. Per chiarire meglio la
mia situazione rinvio al link di un video: http://video.google.it/videoplay?docid=8906265010478046915.
Concludo ringraziandola e sperando che voglia dare voce anche a me che parlo con
cognizione di causa e non per fare della filosofia.
Marina Garaventa
833 - LA CASSAZIONE NON HA TRAVALICATO I SUOI COMPITI - DI FLAVIO HAVER
da: il Corriere della Sera di sabato 19 luglio 2008
Stanca di subire attacchi sulla vicenda di Eluana Engiaro, la Cassazione ha rotto l’abituale
riserbo. E’ stato il primo presidente, Vincenzo Carbone, a mettere la firma nella nota con cui
è stato sottolineato come «la Suprema Corte non ha in alcun modo travalicato il proprio
specifico compito istituzionale di rispondere alla domanda di giustizia del cittadino,
assicurando la corretta interpretazione della legge, nel cui quadro si collocano in modo
primario i principi costituzionali e la Convenzione di Oviedo».
Senza tanti giri di parole, polemizzando a distanza con chi ignora addirittura in quale città si
trovi il Palazzaccio di piazza Cavour, il massimo organo di giustizia civile e penale del nostro
Paese, Carbone ha tenuto a mettere in evidenza come, «considerate le polemiche sul caso
di Eluana Englaro sviluppate in questi giorni sulla stampa, la Corte di Cassazione (che si
trova a Roma e non è una Corte di Milano come un quotidiano erroneamente ha riportato)
ritiene opportuno precisare che la sentenza numero 21748/07 che risale ormai all’ottobre del
2007 costituisce espressione della Corte di Cassazione nella sua funzione giurisdizionale».
In altre parole, il primo presidente ha tenuto a far sapere pubblicamente che gli Ermellini
ritengono pretestuose le polemiche dopo la decisione della Corte d’Appello di Milano che il 9
luglio ha autorizzato l’interruzione dell’alimentazione forzata che da 16 anni tiene in vita
Eluana:
«La Corte - ha osservato - con tale pronuncia si è limitata ad affermare un principio di diritto
sulla base della interpretazione costituzionalmente orientata della legislazione vigente. In
applicazione di siffatto principio - ha ricordato - la Corte d’Appello di Milano, nella sua
autonomia e valutando nel concreto le circostanze di fatto e le prove raccolte, ha deliberato
che potessero essere sospesi alla Englaro i presidi che tuttora ne prolungano il riconosciuto
stato vegetativo permanente».
Per evitare equivoci, Carbone ha ricordato i passaggi salienti della sentenza: «Senza il
consenso informato l’intervento del medico è, al di fuori dei casi di trattamento sanitario per
legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità, sicuramente illecito, anche quando
è nell’interesse del paziente... Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di
scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma altresì di eventualmente rifiutare
la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in
quella terminale. Nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione
dello stesso sulla persona dell’incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta a un
duplice ordine di vincoli».
834 - POLITICA PREPOTENTE DAVANTI A ELUANA – DI STEFANO RODOTÀ
Da: la Repubblica di sabato 19 luglio 2008
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L’umana e drammatica vicenda di Eluana Englaro ha riportato al centro della discussione
pubblica le questioni di vita. Ma questo è avvenuto nel modo peggiore.
Là dove erano necessari rispetto e misura, e forse silenzio, assistiamo a grida e
strumentalizzazioni. E si è creato un clima che di nuovo allontana la consapevolezza che i
nuovi diritti civili sono parte integrante delle politiche di inclusione e innovazione, dunque
della cittadinanza di questo avvio di millennio.
Altrove non è così, mentre in Italia vi è stato un significativo slittamento linguistico:
riferendosi a molti temi, non si parla più di diritti civili, ma di questioni “eticamente sensibili”.
Che cosa vuol dire? Che le sconvolgenti novità legate alle innovazioni scientifiche e
tecnologiche esigono una riflessione pubblica che tenga conto delle trasformazioni profonde
dell’umano che tutto questo comporta? Che questa riflessione deve far nascere una
maggiore responsabilità individuale e collettiva, una nuova coscienza del limite? O che si
prende congedo da un’idea dei diritti fondata sui principi costituzionali, dunque sull’unica
tavola di valori democraticamente legittimata, per entrare in un ambiguo territorio dove
l’invocazione dell’etica assume caratteri autoritari, limitando l’autonomia e la libertà delle
persone, e l’affermazione di “valori non negoziabili” esclude la possibilità di seguire la via
democratica verso la soluzione dei problemi attraverso il confronto tra punti di vista diversi, e
tutti legittimi?
Torniamo allora sul caso Englaro, partendo dalla sentenza della Corte di Cassazione
dell’ottobre dell’anno scorso, al cui principi si è rifatta la recente decisione della Corte
d’appello di Milano che ha autorizzato l’interruzione dei trattamenti che mantengono Eluana
in stato vegetativo permanente. Quella sentenza viene ora giudicata inaccettabile, addirittura
eversiva, perché invaderebbe le competenze del Parlamento, sì che al Senato, fatto davvero
senza precedenti, si è proposto di sollevare un conflitto davanti alla Corte costituzionale
perché sanzioni il comportamento della Cassazione.
Se quella sentenza venisse letta senza pregiudizi, se ne scoprirebbero la qualità e il rigore
dell’argomentazione, il carattere analitico richiesto dalla complessità della materia, l’apertura
e la consapevolezza della discussione internazionale. I giudici non hanno “creato” diritto,
sostituendosi al legislatore. Com’era loro preciso dovere, hanno ragionato in base a principi
e norme già presenti nel nostro ordinamento: gli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione; la
Convenzione sui diritti umani e la biomedicina del Consiglio d’Europa; la Carta dei diritti
fondamentali dell’unione europea; la legge sul Servizio Sanitario nazionale del 1978; gli
articoli del Codice di deontologia medica. Hanno richiamato sentenze della Corte
costituzionale e numerosi precedenti della stessa Cassazione. Un “pieno” di norme che
smentisce la tesi del vuoto normativo e dell’indebita supplenza. Se avessero argomentato
diversamente, rifiutandosi di decidere, vi sarebbe stato un caso clamoroso di “denegata
giustizia”. E invece i giudici della Cassazione, e poi quelli di Milano, hanno fatto il loro dovere
sì che, con l’abituale sobrietà, il padre di Eluana ha commentato la decisione della Corte
d’appello osservando che essa conferma la sua fiducia nello Stato di diritto.
I giudici di Milano non hanno “condannato a morte” Eluana. Hanno adempiuto al loro difficile
dovere, applicando principi e norme generali ad un caso concreto, così come, prima di loro,
avevano fatto giudici di corti nazionali e internazionali, dagli Stati Uniti, alla Gran Bretagna,
alla Germania (tutte decisioni scrupolosamente ricordate dalla Cassazione). Ricordate il
caso di Terry Schiavo, la ragazza americana rimasta per sette anni in stato vegetativo
permanente? Dopo una lunga controversia, che vide l’intervento dello stesso Bush, fu
proprio un giudice ad autorizzare l’interruzione dei trattamenti.
Il percorso seguito dai giudici italiani è limpido, addirittura obbligato. Non vi sono forzature,
ma l’applicazione di principi ad una situazione in cui non è la “natura”, ma l’artificio
tecnologico a permettere la sopravvivenza. Questi principi muovono dal consenso informato,
dal quale discende il “potere della persona di disporre del proprio corpo” (così la Corte
costituzionale nel 1990) e quindi l’illegittimità di qualsiasi intervento che prescinda dalla sua
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volontà. Da qui l’imperativa indicazione dell’art. 32 della Costituzione, che vieta qualsiasi
trattamento e qualsiasi norma che possa violare “il rispetto della persona umana”. Siamo sul
terreno consolidato del rifiuto di cure, che nulla ha a che vedere con l’omicidio del
consenziente o l’eutanasia.
Partendo da queste premesse, la Cassazione, con grande equilibrio, ha indicato i due
presupposti che legittimano l’interruzione del trattamento di sopravvivenza: il rigoroso
accertamento dell’irreversibilità dello stato vegetativo permanente; la possibilità di
individuare la volontà della persona sulla base di sue dichiarazioni esplicite o “attraverso i
propri convincimenti, il proprio stile di vita e i valori di riferimento”. Le critiche rivolte a questi
due criteri non sono convincenti. Non mancano criteri scientifici per accertamenti oggettivi
dell’effettiva condizione di chi si trovi in stato vegetativo permanente. E stabilire la volontà
della persona può essere procedimento difficile, che esige grande prudenza, ma che può
essere fondato su una molteplicità di elementi che consentono di giungere a conclusioni
univoche.
Due altri punti, anch’essi importanti, sono stati definiti dalla Cassazione. Il primo riguarda la
qualificazione dell’alimentazione e dell’idratazione forzata come “trattamento terapeutico”, al
quale si può rinunciare, opinione largamente condivisa dalla comunità scientifica e che sta
alla base delle decisioni dei giudici di altri paesi, il secondo riguarda “l’applicazione delle
misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente”, dunque la
legittimità della sedazione.
Scrupolo giuridico e comprensione umana riconoscono così ad Eluana la dignità nel morire.
Al riparo da crociate e agitazioni ideologiche, dovremmo ricordare piuttosto le parole scritte
nel 1970 da Paolo VI in una lettera al cardinale Villot: «Pur escludendosi l’eutanasia, ciò non
significa obbligare il medico a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza che gli offre una
scienza infaticabilmente creatrice. In tali casi non sarebbe una tortura inutile imporre la
rianimazione vegetativa, nell’ultima fase di una malattia incurabile? Il dovere del medico
consiste piuttosto nell’adoperarsi a calmare le sofferenze, invece di prolungare più a lungo
possibile, e con qualunque mezzo e a qualunque condizione, una vita che non è più
pienamente umana e che va verso la conclusione».
Una politica prepotente, che impugna la difesa della vita come una clava per negare le
ragioni profonde dell’umano e della sua dignità, sta perdendo il respiro necessario per
affrontare questioni così impegnative. Il caso Englaro si trasforma in occasione ulteriore nel
duello tra politica e giustizia. Nel pretestuoso conflitto davanti alla Corte costituzionale, che
mi auguro il Senato non voglia sollevare e che la Corte comunque respingerà, si coglie la
volontà di sovvertire legittime decisioni giudiziarie, attentando alla radice all’autonomia e
all’indipendenza della magistratura, vera bestia nera del presidente del Consiglio. E, al di là
di questo, si coglie un altro tassello della strisciante revisione costituzionale in atto, che nega
gli stessi principi contenuti nella prima parte della Costituzione.
Di questo bisogna essere consapevoli se si affronteranno in Parlamento i temi del
testamento biologico. Il rischio è evidente. Quella legge può divenire l’occasione per fare un
passo indietro, per restringere diritti che già ci appartengono i chiarimenti sono benvenuti.
Ma, ferma restando la legittimità delle opinioni e delle scelte diverse di ciascuno, nessuno
può essere espropriato della sua dignità, e non può essere imposta una regressione
culturale e istituzionale. L’alternativa è ormai netta. Le decisioni sulla vita debbono essere
prese sulla base dei principi costituzionali, rispettando la libertà delle persone, con gli
interventi giudiziari necessari per adattare quei principi alle singole situazioni concrete? O
prevarranno le pretese di variabili e aggressive maggioranze parlamentari, che oggi si
candidano a divenire padrone delle nostre vite?
835 - TESTAMENTO BIOLOGICO. SENZA UNA LEGGE - DI ALESSANDRO CALVI
da: il Riformista di giovedì 24 luglio 200827
«Ci risultano compilati qualche migliaio di moduli. Minimo 5 mila. Ma è difficile dirlo con
certezza perché noi consigliamo di compilare il modulo in tre copie: una va conservata
personalmente, una va consegnata al fiduciario vale a dire la persona, o le persone, a cui si
affida l’esecuzione della propria volontà - e una terza può essere consegnata al medico di
fiducia».Anche oggi il Riformista pubblica il modulo redatto dalla Fondazione Veronesi per
fare testamento biologico, dopo averlo fatto nei giorni scorsi. Lo stesso Veronesi - padre
italiano di questa battaglia e oggi senatore del Pd - spiega a che cosa serve, che tini si
propone e come va utilizzato il testamento biologico.
Senatore, innanzitutto, considerando che spesso si finisce per fare confusione, potrebbe
brevemente spiegare cosa si intende per testamento biologico e cosa si intende per
eutanasia?
«Il testamento biologico è la manifestazione scritta della propria volontà circa i trattamenti
che si vogliono o non si vogliono ricevere (in sostanza l’accettazione o il rifiuto della vita
artificiale) da utilizzare nel caso in cui, per sopravvenuta incapacità, non ci si potesse
esprimere di persona. E’ l’estensione del consenso informato alle cure per i casi di perdita
della coscienza individuale. L’eutanasia in un certo senso è il contrario: è la richiesta lucida,
cosciente e ripetuta di un malato terminale di porre fine ad una vita che egli giudica
insopportabile per il dolore causato dalla malattia».
Ultimamente, a proposito di testamento biologico, ha dichiarato che «una legge sarebbe
auspicabile ma non è necessaria», ritiene dunque che nell’ordinamento italiano esista già un
diritto nei pazienti basato sulla Costituzione, sul consenso informato e sul codice
deontologico dei medici?
«Esattamente. La nostra Costituzione afferma la libertà di cura all’articolo 32: “Nessuno può
essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge: la
legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Il
consenso informato nel nostro paese non è solo legittimo ma obbligatorio. Va inoltre
considerato l’articolo 34 del codice deontologico dei medici secondo cui il medico, se il
paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, non può non tenere conto di quanto
precedentemente espresso dallo stesso. E, infine, la Convenzione di Oviedo del 1997,
ratificata dall’Italia nel 2001: ”I desideri precedentemente espressi a proposito di un
intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento non è in grado di
esprimere la propria volontà, saranno tenuti in considerazione”».
E’ altrettanto vero, però, che in Italia esiste un reato specifico, quello dell’omicidio del
consenziente. Dunque, se i pazienti hanno diritto a rifiutare le terapie, i medici che in certe
condizioni - come nel caso di Welby o di Nuvoli, ad esempio, che erano in grado di
determinare la propria volontà - danno esecuzione alla volontà dei malati rischiano
l’incriminazione.
«Direi che c’è una differenza sostanziale fra omicidio del consenziente e sospensione delle
cure, che è la condizione di malattia e dolore fisico della persona interessata. Il paziente, in
quanto tale, acquisisce diritti relativi alla sua condizione specifica, tra cui quello di rifiutare le
cure. Vedi l’articolo della nostra Costituzione appena citato. L’uccisione di una persona
sana, è tutt’altra cosa».
In questa prospettiva diventa molto interessante la vicenda dl Paolo Ravasin. Come giudica
la sua decisione di pubblicare il suo testamento biologico sul Web?
«E’ un gesto dettato, credo, dalla constatazione che nel nostro Paese la volontà del malato
non è sufficientemente tutelata. Usando il web, il re dei media che parla a livello mondiale,
Paolo ha voluto sgombrare il campo dalle possibili polemiche di interpretazione».
Diverso è Il caso di Eluana Englaro. E si tratta di un caso che dimostra come una legge, per
quanto auspicabile, non può risolvere tutti i problemi. Ad esempio, cosa sarebbe accaduto
se il padre di Eluana, Beppino, avesse sostenuto - contro le precedenti dichiarazioni della
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figlia - che Eluana aveva cambiato idea sullo stato di corna prima di avere l’incidente?
Insomma, qualche rischio e qualche contraddizione rimarrebbero comunque, o no?
«Il caso di Eluana è il contrario di quello di Paolo: non c’è nessuna forma documentata della
sua volontà, antecedente l’incidente che ha causato il coma vegetativo. I giudici hanno
dovuto ricostruire la sua volontà e hanno ritenuto di avere sufficienti elementi. Se ci fosse
stato un documento autografo non saremmo qui ad arrovellarci. Non è un problema né di
legge né di contraddizione (il testamento biologico è modificabile in qua1sìasi momento
comunque). E che 20 anni fa in Italia il testamento biologico era qualcosa di assolutamente
sconosciuto».
C’è poi un problema più generale, quello della politica che non è riuscita sinora a prendere
decisioni lasciando spazio alla magistratura che è comunque tenuta a decidere quando
viene interrogata dai cittadini. Con il rischio, fra gli altri, che giudici diversi decidano
diversamente su casi simili. Ora, la politica – e il Pdl in particolare - sta reagendo
sostenendo che i magistrati avrebbero scavalcato il Parlamento. L’avvocato della famiglia
Englaro si è chiesto dove sia stata la politica negli ultimi 16 anni. Dove è stata, secondo lei,
la politica?
«Assente e paralizzata, come del resto su tutti i temi di etica della scienza. E allora la
Magistratura non ha fatto altro che far rispettare i principi della Costituzione. Che siano poi i
cittadini a creare i movimenti e sollevare i casi non c’è nulla di strano e non c’è nulla di male.
L’abbiamo già detto: una legge non è necessaria e se il Parlamento affossa le questioni
importanti per la società, la società fa a meno del Parlamento».
In ogni caso una legge, seppure un diritto già esista, sembra necessaria quanto meno per
ragioni pratiche. Lei ha annunciato un disegno di legge. Rispetto agli 11 testi presentati nella
scorsa legislatura che novità ci sono?
«E’ necessaria una legge semplice, snella e facilmente applicabile e che si concentri
sull’autodeterminazione del malato, lasciando da parte altre questioni come il limite
dell’accanimento terapeutico, le cure palliative. Tutte questioni importanti, ma che fanno
perdere di vista l’obiettivo primario: rispettare la volontà del malato».
Sembrerebbe che ora, sotto la spinta del caso Englaro, sia più il centrodestra ad avere fretta
mentre nel centrosinistra sembra essersi fatto strada Il timore che il Parlamento ora una
legge la riesca ad approvare. Ma una legge a immagine e somiglianza del centrodestra.
Rispetto a due anni fa ritiene che Il clima sia più favorevole oppure no?
«Ho sempre detto che la salute e la ricerca non sono né di destra né di sinistra. Non ho
cambiato idea ora che siedo a Palazzo Madama. Se la destra approverà una legge sul
testamento biologico (e una buona legge) non sarà una vittoria del centrodestra, ma dei
cittadini».
836 - DISOBBEDIENZA INCIVILE? – DI GIAMPIETRO SESTINI
Emessa la sentenza in esecuzione dei principi contenuti nella Dichiarazione universale dei
diritti dell'uomo, nella Convenzione di Oviedo, nella Costituzione Italia, nella ordinanza della
Suprema Corte di Cassazione, inizia la controffensiva del Vaticano e dei clericali.
L'Avvenire, che aveva già classificato "grave" la sentenza di Milano, adesso la definisce
"necrofila".
Stasera (11 luglio) il telegiornale di Stato ha dedicato dieci secondi alla dichiarazione di
papà Englaro di voler eseguire le volontà di sua figlia Eluana e poi cento secondi al prete
della Chiesa adiacente la casa di cura ove Eluana è ricoverata, il quale ha affermato che la
ragazza è bellissima, sta bene, e che se i genitori non se ne vogliono prendere cura ci
penseranno loro.
L'ordine dei medici di Lecco ha invitato i propri aderenti ad opporre l'obiezione di coscienza
per non distaccare il sondino ad Eluana.
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Forse anche per questo, o forse per timore di eventuali "ritorsioni" , il primario anestesista
dell'ospedale di Lecco si è rimangiato la sua disponibilità ad aiutare Eluana nell'ultima fase
della sua vita.
Non soltanto, quindi, il Vaticano - Stato estero si pronuncia sul contenuto delle leggi che il
Parlamento italiano dovrebbe approvare o respingere, ma incita anche a non applicare le
sentenze emesse dai tribunali dopo otto gradi di giudizio.
Se questa non è "disobbedienza incivile" ditemi come può essere definita.(gps).
Commento. condivido pienamente!!! l’appropriazione (indebita) della morte da parte della
chiesa e di tante altre cose ci fa stare indietro almeno di 300 anni (vedi Galileo). A quando
l‘abolizione dei PATTI LATERANENSI, fonte di tutto il loro potere??????????
Piero Maione
837 - SU ELUANA E SULLA LIBERTA’ – DI MARIA LAURA CATTINARI
Grazie prima di tutto ad Eluana e a suo padre perché è solo attraverso loro, spinti da loro,
che tutti quanti noi siamo chiamati a riflettere e a pronunciarci su ciò che forse dovrebbe
essere normalmente oggetto dei nostri pensieri e non solo.
Il senso del nostro essere qui, la ricerca delle risposte alle antiche domande: “da dove
veniamo, dove andiamo, chi siamo”?
Nella storia della religione e della filosofia possiamo trovare tante risposte ma ogni essere
umano dovrebbe poter cercare in sé stesso la risposta, la sua propria risposta e questo suo
cercare potrebbe già essere forse una risposta.
E’ vita, non è vita quella di Eluana? E’ una domanda mal posta. Della vita noi in realtà
sappiamo poco, pochissimo nonostante tutta la nostra scienza e “conoscenza”. Dove
comincia e dove finisce? Anche questa è probabilmente una domanda mal posta. Perché la
VITA è un continuum dove albe e tramonti si succedono senza che noi si sappia nulla della
prima e dell’ultimo.
Dunque quale è la domanda giusta da porci? La domanda che suggerisco è questa:
“Possiamo responsabilmente decidere del nostro vivere e del nostro morire o, come
bambini bisognosi di tutela, dobbiamo delegare altri a decidere per noi ed in questo caso
chi decide se siamo o non siamo abbastanza “maturi” per decidere del nostro vivere e del
nostro morire”?
Si potrà rispondere che, sì, siamo assai poco “maturi”.
Siamo molto imperfetti e tanto, tanto limitati.
Ma dove sta la dignità umana se non proprio nell’esercizio della libertà di scegliere tra le
diverse opzioni che ci si offrono e soprattutto appunto quando si tratta di “vivere o morire”
Chi altri, più responsabilmente del “soggetto” può decidere?
Non si tratta di dire se c’è vita o non vita in Eluana e se sì di che tipo, ma solo se Eluana
vuole o non vuole “vivere” così. E nessuno può permettersi di violare la sua volontà senza
fare strame della sua libertà, cioè della sua dignità d’essere umano.
Maria Laura Cattinari
838 - MIA MOGLIE È PRIGIONIERA MA LEI VUOLE VIVERE – COMMENTI
da: la Repubblica di mercoledì 15 luglio 2008 – Lettera al direttore di Francesco Beretta
Caro direttore, è tardi, è quasi mezzanotte, Laura dorme abbracciata ad Alice. Anche questa
sera è riuscita ad andare a letto con la sua mamma, e fino a quando non la porterò nel suo
lettino potrà godere delle sue “gambe morbide”. «Stai attenta a non toccare i tubi della
mamma» le ho detto prima di salutarla, con la paura che potesse inavvertitamente
manomettere il ventilatore che permette a Laura di respirare.
Gli amici di una vita sono andati via da poco; una piacevole serata: pennette al sugo, una
pepata di cozze, un fritto misto e per concludere qualche prugna gustosa presa al mercato
stamattina. Ripenso a quella lettera della figlia di Livia su ‘La Repubblica” di oggi. Non mi è
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piaciuta, non mi rispecchia e credo che non rispecchi moltissimi altri “amici” che come me
vivono direttamente la sclerosi laterale amiotrofica.
Laura mi chiama. Con uno degli ultimi muscoli che riesce a contrarre volontariamente attiva
il campanello che mi fa allontanare dal computer per aiutarla. Ha freddo, la sistemo e torno a
scrivere.
Ma per chi sto scrivendo? Per me, sicuramente. Si scrive sempre per se stessi, per fare il
punto, per “esserne certi”. Forse per Ale e Marco, i miei figli “grandi” che condividono
consciamente questa avventura della mamma ammalata. Forse per la nostra famiglia,
allargata da chi negli anni ha deciso di starci vicino nonostante le difficoltà. Forse per chi
invece ha deciso di “stare alla finestra” per paura, per “rispetto”, per non sporcarsi le
mani,perché non ha tempo … Forse per chi non ci conosce e non vorrei che si facesse
un’idea distorta di cosa vuol dire vivere una malattia riesumata quando la cronaca porta a
parlare di eutanasia e così poco ricordata nella fatica affrontata da chi la vive ogni giorno.
Che parole pesanti, che strana sensibilità, che orgoglio difficile da condividere quello della
figlia di Livia.
E’ da quasi otto anni che a Laura è stata diagnosticata la sclerosi laterale amiotrofica e il
decorso della malattia si sta manifestando nella sua tragica normalità. Non cammina più da
6 anni, non usa più le mani da 5, non parla più da 4, si alimenta attraverso un sondino nello
stomaco da 3, da qualche mese respira aiutata da un respiratore e da una tracheotomia.
Eppure è serena! Certo non è felice di essere ammalata, preferiva certamente la sua “vita
precedente”. Libera e indipendente, amante della bicicletta e della vita all’aria aperta ha
dovuto rinunciare a tutto e costruirsi un nuovo equilibrio per affrontare la malattia con la
speranza di sconfiggerla.
In questi anni ha continuato a fare la mamma e la moglie, a gestire la sua casa, a fare la
spesa e a fare acquisti via internet, a dare buoni consigli e ad amare tutti quelli che aveva
intorno. Ha persino iniziato a scrivere, riuscendo a farsi pubblicare tre volumi da
un’importante casa editrice. Ha finanziato un progetto in Africa, ha raccolto fondi per la
ricerca sulla SLA, ha guadagnato soldi per pagare l’università dei nostri figli.
Vive con grande dignità la sua vita, anche se in modo diverso dal “solito”, amando ed
essendo amata da tutte le persone che le sono vicine o che la contattano da lontano. E’
questo il vero coraggio! Cercare di vivere la propria vita con pienezza. Nonostante tutto,
nonostante le difficoltà diventino ogni giorno più pesanti, nonostante la stanchezza,
nonostante la ricerca non trovi una strada che alimenti le nostre speranze.
Poi, a cadenza quasi periodica, i giornali tornano a parlare di noi. Un nuovo caso di cronaca
riporta alla ribalta la nostra malattia, le nostra “tragedia”, le nostre fatiche. Non per cercare di
alleviarle, per venirci incontro, per darci nuovi ausili, nuovi supporti, nuovi finanziamenti alla
ricerca o maggiori contributi per l’assistenza. L’obiettivo è sempre supportare le tesi a favore
di una legislazione sull’eutanasia. Questo argomento per noi non è un tabù, anche se non
abbiamo mai pensato che fosse vicino alla nostra esperienza personale, ma vorremmo che
nei limiti imposti dalla nostra condizione ci venissero garantite le possibilità per poter
continuare a vivere con dignità e in libertà.
In questi ultimi anni il dibattito pubblico e la richiesta alle istituzioni si è incentrata sulla
richiesta della libertà di poter morire. Ciò che noi chiediamo alle istituzioni è che i malati e le
loro famiglie siano finalmente messi nelle condizioni di essere liberi di vivere.
Commento di Giampietro Sestini
Anzitutto desidero esprimere al sig. Francesco Beretta, marito di Laura, tutta la solidarietà
della nostra associazione per la tremenda malattia che ha colpito la sua Laura ma anche
l’intera sua famiglia. Ciò detto, occorre una precisazione. Quando il sig. Francesco dice
giustamente che ai malati andrebbero garantiti “nuovi ausili, nuovi supporti, nuovi
finanziamenti alla ricerca e maggiori contributi all’assistenza”, ma afferma che se ciò non si
verifica è dovuto al fatto che “il dibattito pubblico e la richiesta alle istituzioni si è incentrata
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sulla richiesta della libertà di poter morire”, dobbiamo ricordare che una simile motivazione è
del tutto infondata. La carenza assistenziale deriva semmai da una politica sociale non
adeguata e dalla scarsità dei fondi disponibili, parte dei quali - è bene ricordarlo - sono
utilizzati per continuare a torturare per sedici anni persone innocenti. La verità è che in Italia
TUTTI sono giustamente liberi di vivere, ma alcuni, per loro disgrazia, sono OBBLIGATI a
vivere (gps).
Commento di Giuliano Degli Antoni
L'ineffabile dott. card. bagnasco, successore dell'innominabile sterminatore di referendum
popolari, appena messo il piedino (prada anche lui? come il capo?) sul suolo australiano,
invece di chiedere scusa , come al solito, a varie persone , dagli aborigeni o, che ne so?!, al
barista per essersi dimenticato di pagare il caffè prima di partire, si è lanciato in alcune
VERITA' sull'interpretazione della legge, dicendo, più o meno, che non si deve dare seguito
ad una sentenza che decreta morte.il tutto senza citare De André.
Mi pare ormai inutile tentare di spiegare a chi non vuole sentire ragioni che la sospensione
delle cure invasive non è assolutamente paragonabile ad una condanna a morte e d'altra
parte mi pare del tutto fuori luogo e fuori bersaglio l'opinione di un magistrato ascoltata
questa sera in TV che affermava che si potevano addirittura configurare gli estremi del reato
di omicidio: cosa non bisogna dire pur di guadagnare un pò di attenzione mediatica!
Non vale la pena , a questi livelli di entrare nemmeno nel merito della canea della
maggioranza dei politici italiani che subito si sono lanciati al seguito abbaiando:"è giusto, è
giusto". d'altra parte mi sembra stupido infierire su una classe politica che è il frutto della
decisione popolare: se a noi va bene, ad esempio, che lo strenuo difensore della famiglia
tradizionale e cattolica sia uno che di famiglie ne ha due o tre e i cui figli per sapere di che
madre sono devono fare la prova del DNA...va bene!
D'altra parte in una società come la nostra in cui si assiste senza orripilare all'ingenua e
buonissima domandina delle suorine della clinica in cui giace la povera Eluana, che
chiedono al padre di lasciarla a loro...così in tal modo continuerebbe a "vivere" e loro magari
continuerebbero ad avere un letto occupato.... si sa , adesso non è un buon momento per le
cliniche private, soprattutto dopo Milano,....beh! mi sembra di essere in un posto, la nostra
società, dove tutto, dal buon gusto, alla serietà, all'onestà intellettuale, al senso dello Stato,
all'ossequio delle leggi compresa quella principale, la Costituzione, sia andato a farsi fottere.
vorrei, per tornare a bomba, ricordare al card. bagnasco, il quale un paio di giorni fà è uscito
con un auspicio di dialogo tra PD e PDL, cosa di sua stretta competenza alla luce dell'art. 7
della Costituzione, che non mi pare di aver sentito nè da lui nè da qualche suo equipollente
alcun velato lamento per le 17, o giù di lì, condanne a morte eseguite negli USA. e
ricordargli l'ostruzione messa in atto nei confronti della moratoria sulla pena di morte in
discussione all'ONU su proposta italiana, solo perchè non veniva accennato alla
problematica dell'aborto.
Mi pare che l'ostruzione sia terminata con il non voto. inoltre , al card. bagnasco, vorrei
ricordare il numero incredibile dei decapitati, ghigliottinati, impiccati, nello stato di cui è un
eminentissimo funzionario; prima di esprimersi con certe sparate vada a vedere(non credo
che l'abbia già visto) il film "Confortorio" di Paolo Benvenuti.
Il conto dei sopraddetti passati a miglior vita dietro sentenze vaticane/papali non è facile ma
con un pò di pazienza si può estrarre dal volume "L'Entità" di Eric Frattini, intellettuale
Peruviano che adesso insegna giornalismo all'Università di Madrid, e il cui libro viene solo
ora tradotto in italiano e pubblicato da Fazi dopo che è stato pubblicato in Spagna (ah! è
ovvio, per forza!! al diablo Zapatero!) quattro anni fa senza mai essere oggetto di attenzioni
della magistratura a seguito di querele di qualcuno offeso da quanto scritto.
Volevo inoltre ricordare al cardinale (non inteso come punto) che la pena di morte è stata
abrogata dal codice del suo amatissimo Stato soltanto nel 1967 (vent'anni dopo l'Italia,
Repubblica nata dalla Resistenza), regnante Mons. Montini, in arte Paolo VI. e che è stata
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totalmente cancellata dalla loro Legge Fondamentale (la ns Costituzione) soltanto dal
Woitilaccio (Benigni docet) nel 2001. si, nel duemilauno. volevo anche ricordare che la
stessa pratica di sospensione delle cure , anche se non macroscopicamente invasive ( ma si
sa... gli obblighi della mediaticità.. ) è ormai sapere comune sia stata applicata a Papa
Woitila: furono riportate le sue ultime parole:"...lasciatemi andare..." che sono tutte un
programma. meglio, una sintesi.
Ora, passando a cose estremamente più serie, voglio esprimere la mia completa solidarietà
al padre di Eluana augurandogli di poter portare a termine ciò che avrebbe voluto la sua
figliola e quello che in ossequio a quei desideri persegue lui. sostenuto anche da una
sentenza di un tribunale italiano.
Alla lettera pubblicata su Repubblica del Sig. Francesco Beretta non mi sento di replicare
nulla. ma soltanto per rispetto del dolore che ha colpito lui e la sua famiglia. devo soltanto
dire che non mi è assolutamente chiara la sua ultima frase: il caso di Eluana è la prova
lampante che lo stato delle cose è esattamente opposto.
giuliano degli antoni
p.s. ci tengo ad esprimere il senso di schifo (non saprei come altrimenti definirlo) che mi
provoca la puntualmente opportunistica iniziativa dell'imperituro ferrara con la sua trovata
delle bottigliette d'acqua. anche per lui vale quanto detto prima: cosa non bisogna fare per
conquistarsi/ mantenersi un pò di presenza mediatica. quale che sia e a qualsiasi costo. ma
questa volta i suoi amati media gli si sono ritorti contro: un telegiornale questa sera mostrava
una panoramica delle bottigliette: tremendamente poche!! e la loro pochezza (in tutti i sensi )
risaltava ancora di più in confronto con lo spazio vasto su cui erano messe. interviste ai
passanti denotavano che non sapevano nulla....uno ha detto che era un'iniziativa
promozionale!
839 - LIBERAUSCITA ALLA FESTA DELL’UNITA’ DI LEGRI – DI MERI NEGRELLI
Da: "Meri" [email protected]
A: "Giampietro Sestini" [email protected]
Data: Domenica 27 luglio 2008, 11:15
Come ormai è consuetudine, anche quest'anno eravamo presenti con un nostro stand alla
festa dell'Unità di Legri (Calenzano). Abbiamo così avuto la possibilità di parlare con molte
persone alle quali abbiamo distribuito materiale informativo della nostra associazione e i
moduli per il Testamento Biologico. E' stata apprezzata la presenza e la disponibilità del
notaio Aricò, nostro socio.
Molte persone si sono avvicinate allo stand nella convinzione di poter firmare una petizione
a favore di Eluana e mi dispiace di non aver pensato a predisporre qualcosa per tale scopo.
In occasione di un dibattito sulla giustizia organizzato dalla festa era presente la Senatrice
del PD Silvia Della Monica, membro della Commissione Giustizia del Senato; sono riuscita a
contattarla e mi ha dato la sua disponibilità sia per eventuali dibattiti che per chiarimenti o
consigli che possono esserci utili. Per contattarla occorre riferirsi all'indirizzo:
[email protected].
Con l'occasione allego alcune foto dello stand.
Cari saluti.
Meri
839 - E’ MORTO IL PICCOLO DAVIDE
Sul n° 47 de IL PUNTO abbiamo pubblicato la triste storia di Davide, il bambino di tre mesi
affetto da sindrome di Potter i cui genitori erano stati privati della patria potestà con sentenza
del giudice soltanto per aver esitato nella scelta della cura del loro bambino e forse
sospettati di volerne anticipare la morte.
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Davide, che era ricoverato nel reparto di terapie intensiva dell'Ospedale di Bari, è morto
venerdì 18 luglio, malgrado i trattamenti sanitari cui era sottoposto su decisione dei medici
curanti.
LiberaUscita, mentre si unisce al dolore dei genitori, non può non ricordare gli insulti e le
offese loro rivolte dall’on.le Luca Volontà, esponente dei sostenitori della “vita ad ogni costo”.
840 - UN ALTRO MALATO DI SLA INTENDE STACCARE LA SPINA
Paolo Ravasin, 48 anni, trevigiano, attualmente ricoverato in una casa di riposo di Monastier
(Treviso), da dieci anni malato di sclerosi laterale amiotrofica, da quattro immobile in
un letto, ha dichiarato In un'intervista riportata il 17 luglio dal Corriere del Veneto che intende
sospendere l’alimentazione e la respirazione forzata alle quali è sottoposto nel momento in
cui la sua malattia dovesse degenerare. Ha anche annunciato che tale sua decisione sarà
registrata su un filmato video.
Ha detto Ravasin: “Chiedo il rispetto della volontà dei malati da parte dello Stato e del
Vaticano. Quando sarà il momento vorrei che venissero staccati i macchinari che mi tengono
in vita, vorrei spegnermi serenamente come Piergiorgio Welby”. “Io ho bisogno della
misericordia di Gesù, non di quella del Vaticano. Sono comunque un cattolico praticante”.
“Questa non è vita, noi malati non siamo liberi”.
841 - “NON SONO UN ASSASSINO” - RECENSIONE DI ANGELA LUISA GAROFALO
da: il Corriere di Roma di lunedì 30 giugno 2008
Esiste un diritto – costantemente riaffermato – alla vita; ma esiste anche un altro diritto,
molto meno difeso: il diritto alla morte.
“Eutanasia” è un concetto, una parola, impronunciabile in una società come la nostra, nella
quale l’obiettivo è allungare all’inverosimile la vita, nell’illusione di sconfiggere la morte. Ma
la morte esiste, ed inesorabilmente arriva a rimestare le carte dell’esistenza. “Non sono un
assassino” (Edizioni di LucidaMente/inEdition editrice), scritto dal medico francese Frédéric
Chaussoy, è un libro che affronta a viso aperto il problema dell’eutanasia. Un testo
importante e necessario proprio perché l’eutanasia oggi è vissuta come un vero “problema”,
che tutti si rifiutano di affrontare con razionalità: troppo spinoso è il tema, troppe le ingerenze
– religiose, morali, etiche, sociali, giuridiche – che non permettono una riflessione lucida e
serena sull’argomento. “Non sono un assassino” racconta l’esperienza umana e
professionale del dottor Chaussoy, responsabile del servizio di rianimazione dell’Ospedale
eliomarino di Berck-sur-Mer, lo stesso centro che ha ospitato il giornalista Jean-Dominique
Bauby, affetto dalla sindrome Locked In, autore del toccante “Lo scafandro e la farfalla”, dal
quale recentemente il pittore Julian Schnabel ha tratto l’omonimo, intenso, film.
Ciò che colpisce del libro di Chaussoy, unitamente alla narrazione semplice e diretta, è
l’analisi, profondamente umana, che il medico compie della vicenda che lo ha coinvolto,
sconvolgendo la sua vita.
Trovatosi ad assistere un ragazzo, Vincent Humbert, quasi completamente paralizzato,
cieco e muto, a cui la madre aveva tentato di dare una morte “dolce”, somministrandogli,
maldestramente, una dose di barbiturici, Chaussoy si ritrova a dover affrontare, sotto gli
occhi dei mass media, e nell’indifferenza della legge, la responsabilità di decidere se
lasciare andare Vincent verso la morte – seguendo la volontà espressa dal ragazzo stesso e
dalla sua famiglia – oppure continuare a tenerlo attaccato ai macchinari, costringendolo ad
una vita artificiale e fittizia.
Chaussoy studia il caso, si interroga, si pone dubbi e domande, assiste, dolorosamente
colpito, al dramma della madre di Vincent, costretta a tentare di provocare lei stessa la
morte del figlio, a causa dell’insensibilità e dell’indifferenza dei politici, dei medici e della
legge; arrestata e accusata di omicidio. E alla fine decide. Insieme alla sua équipe, il medico
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si assume la responsabilità di onorare la volontà del paziente, e stacca la spina,
somministrando i farmaci, pietosi compagni di viaggio verso l’aldilà.
E poi, il resto è la storia di una gigantesca ipocrisia da parte di una società che sa, ma
preferisce girarsi dall’altra parte per non guardare e fare finta di niente.
Accusato di omicidio, travolto dalla stampa – assetata solamente di storie da dare in pasto al
pubblico invece di tentare di “capire” realmente – e da una legge ottusa ed inflessibile,
Chaussoy verrà assolto soltanto nel 2006, dal giudice istruttore, da ogni accusa in relazione
all’affaire Humbert, complice, forse, anche l’impatto che la sua vicenda ha avuto sulle
coscienze.
“Non sono un assassino” è una riflessione, a voce alta ed a cuore aperto, di un medico e di
un uomo che ha fatto la cosa giusta e che ha pagato per questo, in un mondo che purtroppo
gira al contrario.
Con grande coraggio, e con lo spirito di rendere un servizio, uno spunto di riflessione, al
dibattito sull’eutanasia, la casa editrice inEdition di Bologna ha portato in Italia questo libro,
che tanto successo ha avuto in Francia.
Tradotto da Christiane Krzyzyk, infermiera professionale dell’Ospedale Santorsola di
Bologna; il testo contiene due preziosi interventi, quello di Giancarlo Fornari – presidente
dell’associazione LiberaUscita, che sostiene la legalizzazione del testamento biologico e la
depenalizzazione dell’eutanasia – e di Mario Riccio, specialista in Anestesiologia e
Rianimazione, conosciuto dall’opinione pubblica per aver aiutato Piergiorgio Welby a morire.
E proprio un pensiero di Welby apre il libro di Chaussoy: «Morire dev’essere come
addormentarsi dopo l’amore, stanchi, tranquilli e con quel senso di stupore che pervade ogni
cosa». Una considerazione che vale più di mille dibattiti.
842 - GB: NON AVRÀ IL CANCRO AL SENO GRAZIE ALLA DIAGNOSI PRE-IMPIANTO
di: Enrico Franceschini - da: www.repubblica.it - lunedì 30 giugno 2008
LONDRA - Una donna ha concepito e darà presto alla luce in Gran Bretagna il primo bebè
del Regno Unito al quale i medici danno la garanzia al 100 per cento che non avrà il cancro
al seno di tipo ereditario. I medici hanno eliminato un gene ereditario che avrebbe assicurato
al nascituro oltre il 50 per cento delle possibilità di sviluppare il cancro. La madre aveva
deciso di far passare al vaglio i suoi embrioni perché sua marito risultava positivo al gene e
la sorella di lui, la madre, la nonna e una cugina avevano tutte avuto il cancro al seno. Si
tratta del primo caso in Gran Bretagna di gravidanza da embrione selezionato in modo da
escludere questa particolare malattia e, per quanto si sappia, del secondo al mondo, dopo
quello di una donna israeliana.
La coppia aveva concepito undici embrioni, di cui 5 sono stati trovati privi del gene. Due di
questi sono stati impiantati nel grembo della donna che ora è alla 14esima settimana di
gravidanza. Adesso il gene cosiddetto BRCA-1 è stato eliminato dall'asse ereditario della
coppia. Si calcola che in Gran Bretagna circa il 5 per cento dei 44.000 casi diagnosticati ogni
anno di cancro mammario siano causati dai geni BRCA-1 e BRCA-2, entrambi
diagnosticabili già negli embrioni. Secondo i medici, migliaia di casi di tumore potrebbero
essere evitati attraverso la diagnosi preimpianto. Secondo il "Times", che riporta la notizia,
molte donne che risultano positive al gene si sottopongono alla mastectomia per evitare il
tumore.
La 27enne madre britannica, che ha chiesto di non rendere pubblica la sua identità, ha detto
che dopo aver visto tutte le donne della famiglia del marito soffrire di cancro al seno, aveva
giurato a se stessa di far di tutti per evitare ai propri figli un simile dolore; ma qualunque figlia
femmina fosse nata da lei e il marito avrebbe avuto tra il 50 e l'85 di probabilità di sviluppare
il cancro mammario. "Nel corso delle tre ultime generazioni, ogni donna della famiglia di mio
marito ha avuto il tumore al seno, tra i 27 e i 29 anni. Abbiamo pensato che, se ci fosse stato
il modo per evitarlo ai nostri figli, era una strada che dovevamo percorrere".
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Nonostante fossero entrambi fertili, i due si sono sottoposti all'inseminazione in vitro per
poter fare la diagnostica pre-impianto. I test sono stati realizzati prelevando una singola
cellula dagli 11 embrioni, quando avevano appena tre giorni di vita. Sei avevano il gene del
cancro al seno; due di quelli che ne erano privi sono stati impiantati, e uno ha attecchito
diventando un feto. La coppia ha anche potuto congelare altri due embrioni sani per un
eventuale uso futuro.
Le donne portatrici del gene che induce il cancro del seno hanno anche più elevate
probabilità di soffrire del tumore delle ovaie; i maschi devono affrontare un maggior rischio di
cancro della prostata.
Il medico che sta permettendo alla coppia di concepire un bebè "liberato" dal rischio di
essere portatore del gene che trasmette il cancro del seno ereditario, Paul Serhal
dell'University College London Hospital, ha già curato altre coppie in modo da far nascere
bambini che non svilupperanno tumori agli occhi e all'intestino. "Ora le donne hanno la
possibilità di evitare i sensi di colpa derivati dal loro ruolo di 'potenziali trasmettritici' di geni
malati", spiega il medico. I detrattori di questa forma di selezione dicono che comunque è
sbagliato distruggere embrioni perché quella di sviluppare la malattia è solo una possibilità.
Senza contare che patologie come il tumore al seno possono essere oggi trattate, con
crescente successo.
In Italia la fecondazione assistita è regolata dalla legge 40. Le ultime modifiche alla
normativa sono state effettuate dall'ex ministro della Salute Livia Turco, a pochi giorni dal
cambio della guardia tra centrosinistra e centrodestra. Le modifiche riguardavano proprio la
possibilità di diagnosi preimpianto a scopo terapeutico, che la norma e le sue linee guida di
fatto negavano, e che l'ex ministro ha invece voluto affermare. Le novità, varate nell'aprile
scorso, hanno fatto seguito a varie sentenze di diversi tribunali, scatenando però polemiche,
con i rappresentanti del centrodestra pronti a parlare di "freccia avvelenata" di fine mandato
da parte della controparte.
843 - GRAN BRETAGNA: ASSOLTO PER TENTATO SUICIDIO ASSISTITO
2.7.2008 - Sposato da 60 anni, metà dei quali passati ad assistere la sua Doris, sofferente
di artrite, ad un certo punto Gilbert Brown ha deciso di aiutarla a morire.
Era sparito, con lei, dalla loro abitazione di Uxbridge (Londra) lasciando un biglietto di
suicidio, ma la cinquantina di antidolorifici ingoiati da entrambi non sono loro bastati per
morire insieme.
Gilbert Brown è stato quindi processato e poi assolto in quanto "non voleva che porre fine
alle sofferenze di lei". Il giudice Jeremy Roberts, comunque, gli ha imposto di non rendere
visita da solo alla moglie.
844-SPAGNA: MALATA DI SLA CHIEDE EUTANASIA IN TV- DI JAVIER S. DEL MORAL
da: El Pais del 23 giugno 2008 - traduzione di Rosa a Marca per Aduc-salute
Diceva Borges che si smette di sentirsi immortali quando si conosce l'esistenza della morte.
Elpidia Esteban la conosce. E l'affronta con rassegnazione. Senza subirla. Lo fa per amore
della vita. Di una vita di qualità.
Otto, dei suoi sessant'anni, la cittadina di Leganes (Madrid) li ha vissuti in salita con un
carico pesante: la sclerosi laterale amiotrofica (SLA). La stessa malattia patita da sua nonna.
E da sua madre. E che suo fratello sopporta da 21 anni, ora che ne ha 59.
Il 23 giugno Elpidia ha denunciato la sua situazione nel programma della TVE “Espana
directo”. Sa che si sta spegnendo a poco a poco. E rivendica la capacità di scegliere come
morire. "Desidero lasciare le cose preparate per quando non potrò più farlo da sola. Perchè
so che arriverà quel momento, presto o tardi", spiega con sorprendente fermezza, prima di
concludere: "Non voglio che sia ciò che Dio vuole, ma che lo decida io".
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Elpidia Esteban vive con sua figlia. E' ancora capace di muoversi da sola e anche d'uscire
per qualche breve passeggiata. Ma ogni volta le costa di più. "Ora non mi è tanto facile fare
le cose e mia figlia deve andare a lavorare, per cui gran parte della giornata sono sola",
spiega.
Sua figlia è una delle persone che più la incoraggiano a pretendere che le si riconosca il
diritto a decidere per una morte dignitosa. E ciò che Elpidia non vuole è che sia la figlia a
dover sopportare le conseguenze della sua malattia. "Arriverà il momento in cui avrò
bisogno di cure continue e di una persona accanto 24 ore al giorno. Non lo voglio per mia
figlia", precisa.
Qualche tempo fa ha scritto il testamento vitale allo scopo di rinunciare a un trattamento che
allunghi la sua vita in modo precario. Ma non ha troppa fiducia che le si permetta di "morire
in maniera dignitosa". "Molti di noi hanno bisogno che si legiferi chiaramente per garantire il
nostro volere di porre fine alla nostra vita", insiste.
Il suo atteggiamento è lungi dal nichilismo. Elpidia Esteban non si limita a rivendicare
l'eutanasia attiva, ma chiede anche più ricerca medica per certe malattie. "In fondo nessuno
desidera morire, e per questo ci vorrebbero più laboratori che studino i rimedi". Ancora ha la
forza per fare le sue rivendicazioni. Dice che, malgrado la sua malattia, la Comunità di
Madrid le ha chiuso la porta in faccia in due occasioni. "Mi hanno detto che non potevo
avere la teleassistenza perchè vivo con mia figlia. Mesi dopo, mi hanno negato un aiuto per
il taxi per poter raggiungere alcuni uffici del lavoro".
Un giorno Elpidia abbandonerà questo mondo. Poiché lo sa, ha scelto di dedicare una parte
dei suoi giorni a rivendicare una cosa che, per lei, è "di senso comune": decidere quando
morire.
845 - AUSTRALIA: IL SENATO DISCUTE SULL'EUTANASIA
27.06.2008 - E’ all’esame del senato dei Territori del Nord dell’Australia la proposta di legge
sull’eutanasia presentata da Bob Brown, leader dei Verdi. In Australia, infatti, i Parlamenti
dei singoli Stati possono legiferare – in determinate materie – anche contro la legislazione
federale.
Nel 1995, nei Territori del Nord era permesso ai cittadini di morire con dignita'. Nel 1997, il
Governo federale aveva eliminato il diritto ad una morte dignitosa anche nei Territori del
Nord, che l’avevano sin dal 1995: l’attuale proposta di Bob Brown intende ripristinare quel
diritto, in ciò sostenuta dalla maggioranza dei suoi concittadini..
846 - MEXICO: UNA DONNA CHIEDE L'EUTANASIA PER SUA FIGLIA
28.6.2008 - La signora Georgina Rivera Villanueva, nubile, di 29 anni, ha chiesto al
governatore di Aguascalientes, (conservatore) l'autorizzazione all'eutanasia per una delle
sue tre figlie, affetta da idrocefalia. La donna motiva la sua richiesta perché non ha mezzi
per curarla e perchè non vuole più vederla soffrire.
In una conferenza stampa la donna ha spiegato che sua figlia, Maria Guadalupe Solorzano
Rivera, ha otto anni d'età, pesa sei chili, soffre costantemente di convulsioni ed è stata
dimessa dall'ospedale, ove le hanno augurato che morisse. "Preferisco che mia figlia abbia
una morte assistita che non una vita senza assistenza. L'hanno visitata migliaia di dottori e
tutti dicono la stessa cosa: per mia figlia non c'è rimedio. E' molto difficile tenerla in vita
perchè non trattiene gli alimenti. Le dò da mangiare e vomita il cibo.” Piangendo ha detto di
non avere vie d'uscita: per comprare le medicine ha ipotecato la casa ed ha chiesto
l'elemosina.
La prossima settimana il Partito rivoluzionario messicano presenterà una proposta di legge
sulle dichiarazioni anticipate di volontà. "Tutti abbiamo diritto non solo a una vita dignitosa,
ma anche a una morte dignitosa".
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847 - GERMANIA: L'EX MINISTRO DELLA GIUSTIZIA DI AMBURGO AIUTA A MORIRE
1.7.2008 - L'ex ministro della Giustizia del Land di Amburgo, Roger Kusch, ha annunciato
che il 28 giugno ha aiutato a morire una donna di quasi 80 anni.
Lo scorso marzo Roger Kush aveva presentato un dispositivo da lui inventato: un piccolo
congegno dotato di un pulsante che attiva una doppia siringa: la prima contenente un
narcotico, la seconda una dose mortale di cloruro di potassio.
Dopo la presentazione della sua "macchina per il suicidio legale", l'anziana signora lo aveva
contattato, ma poi, per motivi medici, si era deciso di rinunciarvi, sostituendola con un
farmaco antimalaria e un potente calmante.
A testimonianza della libera volontà della persona, Kusch ha mostrato un video nel quale la
signora afferma di non soffrire di una malattia incurabile e nemmeno di dolori insopportabili e
persistenti, ma di temere il ricovero in una casa di cura, bensì della difficoltà di badare a se
stessa e di nutrirsi. Afferma anche di essere d’accordo con Kusch per rendere possibile
anche in Germania l'assistenza al suicidio: per questo ritiene che se la sua morte smuoverà
la pigrizia dei politici sino a indurli a modificare le leggi, allora sarà stata utile ad altri.
Kusch ha dichiarato: "E' indegno di uno Stato libero, moderno, illuminato che i suoi cittadini
più bisognosi e meritevoli di compassione alla fine della loro vita siano mandati in
Svizzera a morire".
Kusch ha detto che continuerà a fornire assistenza al suicidio. Non ha voluto precisare con
quali criteri sceglierà i pazienti d'aiutare; ha solo escluso i ventenni alle prese con pene
d'amore.
848 – LA VIGNETTA DI ELLEKAPPA – LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA?
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