Comunità cristiane e stati: i casi nazionali.

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Comunità cristiane e stati: i casi nazionali.
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Comunità cristiane e
stati: i casi nazionali.
EGITTO
Popolazione totale
53
(in milioni)
Se si considera l’attuale evoluzione
dell’islam nel più ampio contesto
dei paesi del Medio Oriente, non si
può negare che il confronto della
cultura islamica con i vari processi
di modernizzazione sociale, politica
e giuridica sia pienamente in atto,
con modalità ed esiti diversi nei
vari paesi. E’ indubbio tuttavia che
rispetto agli anni immediatamente
successivi alla seconda guerra mondiale, in cui sembrava preponderante la tendenza a dare vita a forme
di stato nazionali democratiche in
cui l’importanza dell’appartenenza
religiosa fosse sfumata e l’adesione
allo stato passasse attraverso il
concetto di cittadinanza eguale per
tutti i cittadini, oggi si è invece in
presenza di un panorama politico
più variegato e complesso. In molti
casi l’assetto democratico è ridotto, mentre quasi ovunque si presentano sulla scena politica e sociale movimenti e processi di islamizzazione. E’ nel contesto di queste
dinamiche sociali, politiche e culturali che bisogna osservare l’attuale
situazione delle comunità cristiane
nei vari stati del Medio Oriente,
prendendo in esame i singoli casi
nazionali, ciascuno con le proprie
specificità.
EGITTO
L’Egitto è lo stato del Medio Oriente
in cui la presenza cristiana è più
numerosa, contando infatti 3.335.600
persone, secondo il più recente censimento ufficiale dello stato egiziano,
che equivalgono al 5,7% della popolazione globale. Nonostante in Egitto
siano presenti dodici diverse chiese
cristiane, la chiesa copta è però di
gran lunga prevalente, con i suoi circa
3.300.000 fedeli. Il fatto di essere così
numerosa in Egitto e, a differenza di
altre chiese arabe, di non avere che
un numero limitato di fedeli residenti
in altri paesi del Medio Oriente, con-
Confessioni
Cristiani
Sunniti
ferisce alla chiesa copta un carattere
nazionale evidente, che si esprime in
vario modo nella stessa coscienza che
essa ha di sé e del proprio ruolo nel
paese. Riguardo al numero dei copti
occorre precisare che quello qui proposto è la stima minima offerta dai
censimenti ufficiali: esistono stime
diverse, basate sui registri ecclesiastici
dei battesimi e dei sacramenti, che
portano il numero dei copti fino a sei
milioni, e sostengono che i numeri
ufficiali più contenuti trovano la loro
spiegazione nel fatto che i copti preferiscono occultarsi a livello pubblico
per non incorrere in discriminazioni.
Non si deve peraltro sottovalutare
una certa tendenza delle chiese a
«gonfiare» le cifre dei propri membri
per apparire più consistenti sulla
scena pubblica.
Dall’inizio di questo secolo i copti
hanno partecipato attivamente al processo di modernizzazione culturale,
sociale, economica e politica del
paese. Sul piano politico eminenti
membri della comunità copta hanno
partecipato alla fondazione del partito nazionalista Wafd, che ha avuto un
ruolo notevole nelle dinamiche
dell’Egitto moderno; sul piano economico i copti hanno avuto un ruolo
fondamentale nell’apertura di nuove
% sulla
popolazione
6
94
banche e di nuove attività imprenditoriali. Grazie al più elevato livello
d’istruzione, i copti non solo erano
ampiamente presenti in posizioni dirigenziali anche in imprese non copte,
ma erano largamente presenti
nell’amministrazione dello stato. Basti
pensare che fino al 1952 il 29,4% dei
dipendenti del Ministero della
Comunicazione e dei Lavori Pubblici
era copto, e la percentuale raggiungeva il 44,2% nel Ministero delle Finanze
e il 48,1% nel Ministero delle Poste e
Telegrafo. Tuttavia, la presenza dei
copti nella burocrazia statale e nelle
banche comincia a calare sensibilmente a partire dagli anni cinquanta, sia
per la migliore istruzione scolastica
dei musulmani, che potevano quindi
cominciare a fare concorrenza ai
copti, sia per le pressioni del governo
sulle banche e le imprese affinché
nominassero come direttori dei
musulmani piuttosto che dei copti. Un
ulteriore peggioramento della situazione dei copti avviene durante il
governo di Nasser, il quale attuò una
forte politica di nazionalizzazioni: i
copti più abbienti ne furono duramente colpiti, percentualmente in misura
maggiore dei musulmani, e persero le
loro importanti posizioni in banche,
industrie e imprese.
19
Ad esempio, i copti soffrirono nel
1961 per la nazionalizzazione dei trasporti perché le grandi aziende di
autotrasporto pubblico erano di proprietà di famiglie copte. Così la maggior parte dei capitali investiti nella
Banca del Cairo, nella Banca Misr e
nella National Bank erano dei copti,
che subirono la nazionalizzazione del
sistema bancario egiziano.
Con l’avvento di Sadate la situazione
economica dei copti migliora, perché
viene lanciata la politica dell’infitah,
apertura economica all’estero, in cui i
copti si trovano favoriti per la loro
maggiore consuetudine ai rapporti con
gli stranieri e all’uso di lingue straniere. Si assiste a una crescita delle
imprese copte, mentre continua a
rimanere notevolmente ridimensionata rispetto al passato la presenza dei
copti nella burocrazia statale.
Nonostante l’alto numero di appartenenti alle classi abbienti e alle libere
professioni, all’interno della comunità
copta sono oggi presenti tutte le stratificazioni sociali: i grandi imprenditori,
il ceto impiegatizio e i commercianti, i
contadini e i piccoli artigiani. Al Cairo
poi tutto il servizio della raccolta dei
rifiuti domestici è gestito e attuato da
copti, che vi lavorano a migliaia. A differenza che nel passato oggi però è
diminuita la consistenza della classe
media, e sembra che i copti oggi risentano di molte restrizioni nell’ambito
professionale, in particolare nel settore pubblico.
Dal punto di vista politico i copti non
hanno mai dato vita a un partito confessionale e il loro ruolo politico sembra oggi diminuito rispetto alla prima
metà del secolo. Comunque costante
è l’appoggio dato alla causa nazionale
da parte della chiesa copta, per dimostrare così la piena integrazione nella
società egiziana: l’appoggio è revocato
soltanto quando la politica del gover-
La rappresentanza
politica dei cristiani:
Egitto
Assemblea Nazionale
7 deputati su 454
20
no sembra nuocere all’identità copta
e promuovere l’islamizzazione.
Questo avvenne ad esempio durante
l’ultimo periodo del governo di
Sadate, in cui vennero formulati
diversi progetti di islamizzazione del
diritto e venne inaugurata una politica favorevole ai Fratelli Musulmani e
all’islam tradizionale in genere, che
venivano considerati dal governo utili
alleati per ostacolare la crescente
influenza dei movimenti e delle ideologie di sinistra. In questo caso il
patriarca copto Papa Shenouda III si
oppose con forza e pubblicamente a
Sadate, e i loro rapporti giunsero a
un tale deterioramento che Sadate
sospese Shenouda dal suo incarico di
guida della chiesa e lo obbligò a soggiornare in un monastero. Aprendo
un nuovo corso, Mubarak ha condotto una politica di ferma opposizione
ai movimenti islamici radicali, ponendo fine, almeno per il momento,
anche ai vari processi in corso di islamizzazione del diritto. L’avvento di
Mubarak segna di conseguenza l’inizio
di un modo di espressione pubblica
dei copti differente da quello tipico
dei due decenni precedenti. Esso è
definito da un sostegno incondizionato dato allo stato egiziano nei suoi
orientamenti interni, regionali e
internazionali.
Le strategie della chiesa copta sembrano dunque orientate a favorire la
coesione della società egiziana intorno al governo per superare le difficoltà economiche e sociali in cui
l’Egitto sta versando, facendo fronte
comune nello stesso tempo contro la
minaccia islamista che in Egitto ha
una forza ben più grande rispetto agli
altri stati del Mashreq. In Egitto, forse
proprio perché la comunità cristiana
è più rilevante, uno degli obbiettivi
espliciti degli islamisti è proprio quello di colpire i cristiani e di esercitare
contro di essi una pressione sociale
negativa che li renda consapevoli del
loro statuto di «minoranza subalterna» in seno all’islam dominante.
Questo spiega i pressoché quotidiani
episodi di violenza ai danni dei copti,
dei loro beni e attività, sia nell’alto
Egitto sia al Cairo. Inoltre vi è ampia
circolazione di pamphlets anticristiani,
diffusi soprattutto negli ambiti scolastici a opera dei movimenti islamici.
Nonostante il conciliante atteggiamento politico, l’integrazione dei
copti nello stato egiziano moderno
ha limiti evidenti. Sul piano politico
ad esempio essi sono chiaramente
sfavoriti. Nel 1990 solo due copti
sono stati eletti su 444 deputati:
questo numero così ridotto è dovuto sia al fatto che i partiti politici per
lo più rifiutano candidati copti per
timore di alienarsi il voto dei musulmani, sia perché le circoscrizioni
elettorali sono state stabilite in
modo da sfavorire i copti, soprattutto in quelle zone dell’Alto Egitto in
cui i copti sono molto numerosi e
raggiungono il 20% della popolazione
locale. Il risultato è che i copti hanno
una rappresentanza politica minima,
e devono accontentarsi di qualche
seggio conferito a loro membri tra i
dieci deputati che vengono nominati
direttamente dal capo dello Stato:
questo fa sì che oggi vi siano sette
copti nell’Assemblea del Popolo egiziana, su un totale di 454 deputati. Se
si considera che i cristiani sono circa
il 6% della popolazione egiziana, il
fatto che solo l’1,5% dei parlamentari
sia cristiano, di cui cinque su sette
non eletti ma nominati dal presidente, mostra la marginalità dei copti
all’interno dei meccanismi elettivi
istituzionali. Il fatto che il capo dello
Stato nomini dei parlamentari copti e
che in tutti i governi vi sia almeno un
ministro copto ha certo il valore
simbolico di riconoscere la presenza
dei copti nella compagine nazionale,
ma mostra anche la debolezza dello
stato di diritto di cui godono, perché
sono troppo dipendenti dalle scelte
del governo al potere nell’accedere a
ruoli politici. In questo senso è vero
che sia la vita politica sia l’amministrazione pubblica sono sempre più
chiusi ai copti. Esistono d’altronde
altre norme discriminatorie nei confronti dei cristiani: ad esempio una
circolare del 1940 tuttora in vigore
proibisce ai cristiani l’insegnamento
dell’arabo nelle scuole e nelle università, riservando tutte le cattedre di
arabo (che è l’equivalente della cattedra di lettere nelle nostre scuole) a
professori musulmani. Inoltre i cristiani non possono accedere ad alcuni corsi di formazione tecnica, scientifica e militare e sono esclusi da
molte borse di studio.
Anche a livello di istituzioni scolastiche le discriminazioni esistono: l’università di Al-Azhar e tutto il sistema
scolastico che da essa dipende sono
chiusi ai cristiani, nonostante che
godano di sostanziosi finanziamenti
pubblici. Al contrario le scuole cristiane in genere non hanno finanziamenti
statali, pur essendo aperte anche ai
musulmani. A questo riguardo occorre notare che le comunità cristiane, e
in particolare quelle cattoliche, benché assai ridotte come numero di
membri, svolgono un ruolo prezioso
nell’ambito dell’istruzione, attraverso
la gestione di scuole con ciclo completo, primario, secondario e superiore, e la gestione di un gran numero di
scuole primarie e secondarie diffuse
sia nei quartieri urbani sia nelle zone
rurali. Attualmente esistono in Egitto
167 scuole cattoliche con circa
123.130 allievi di cui il 60% sono
musulmani. Sempre riguardo al sistema scolastico bisogna notare che vi è
discriminazione riguardo all’insegnamento della religione: mentre la religione islamica è insegnata da appositi
insegnanti, la religione cristiana è per
legge insegnata da un qualsiasi insegnante cristiano presente nella scuola,
il quale spesso non viene neppure
retribuito per tale insegnamento.
Il mantenimento in vigore dell’ordinamento giuridico familiare islamico tradizionale e la legge vigente riguardante
la costruzione di edifici di culti cristiani e la loro manutenzione sono altri
due aspetti riguardo ai quali la legge
esistente in Egitto mantiene i cristiani
in una evidente posizione subalterna
de iure. Nel primo caso, comune a
tutti i paesi musulmani senza eccezione, la religione islamica conserva sempre la sua prevalenza nel matrimonio
misto. Inoltre i cristiani considerano
un torto perpetuato nei loro confronti che le riforme giurisdizionali apportate negli anni cinquanta, con cui sono
state abrogate le giurisdizioni civili dei
tribunali religiosi, abbiano stabilito che
nel caso di matrimonio misto tra due
cristiani di rito diverso si applichi, in
caso di contenzioso, il diritto di famiglia musulmano. Nel caso invece
riguardante le norme per la costruzione di edifici di culto cristiani, è ancora
in vigore la hatti humayun, che è una
GIORDANIA
Popolazione totale
3
(in milioni)
Confessioni
Cristiani
Sunniti
legge assai restrittiva: questa legge
egiziana prescrive che per costruire
una chiesa occorra un apposito
decreto presidenziale, il quale può
essere emesso previo accertamento
che sussistano tutta una serie di condizioni di difficile realizzazione; tra le
condizioni richieste è essenziale una
certa distanza dalla più vicina
moschea; niente di simile è invece
chiesto ai musulmani, per i quali la
costruzione delle moschee è del tutto
libera. Analoghi permessi di difficile
ottenimento sono richiesti anche per
restaurare edifici di culto già esistenti.
La cittadinanza egiziana non riesce
dunque a conferire ai cristiani egiziani
la pienezza dei diritti riconosciuti ai
musulmani egiziani, sia riguardo
all’inserimento politico e all’accesso
ad alcuni settori professionali, sia
riguardo al diritto familiare e alla
libertà di culto. Questo da un lato
comporta che la chiesa copta cerchi
continuamente di rafforzare la propria
dimensione comunitaria istituzionale
per mantenere vivace l’identità cristiana tra i suoi membri e per presentarsi
come interlocutore ufficialmente riconosciuto dallo stato; dall’altro però
proprio tale dinamica di rafforzamento intracomunitario, nonché l’appoggio evidente dato all’attuale governo
in un’ottica di coesione nazionale,
nonostante la permanenza di leggi e
% sulla
popolazione
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di prassi burocratiche ufficiali discriminatorie nei confronti dei cristiani,
sono i chiari sintomi di una percezione del proprio essere una minoranza,
che si traduce in altrettanti sforzi per
garantirsi la gestione di uno spazio
che non sempre viene chiaramente
riconosciuto né dal diritto né dalla
prassi sociale. D’altra parte è probabile che nel momento attuale, caratterizzato dall’emergere di posizioni islamiche integraliste, riforme atte ad
abolire il diverso trattamento fatto ai
cristiani troverebbero fortissime difficoltà anche presso le istituzioni islamiche ufficiali dipendenti dallo stato,
dal cui appoggio lo stato stesso non
può prescindere nella lotta contro il
fondamentalismo. Il caso dell’Egitto,
per la complessità delle forze in gioco
che comprendono le strategie dei cristiani, le dinamiche dei musulmani
nelle loro diverse componenti, e infine il ruolo e il potere dello stato,
mostra in modo evidente come il raggiungimento della piena cittadinanza
civile e politica da parte dei cristiani
in uno stato di cultura arabo-musulmana sia profondamente inserito nel
più ampio e delicato processo di evoluzione culturale e politica che nello
stesso stato, in questo caso l’Egitto, si
sta svolgendo, e che il percorso per
arrivare a tale esito è ancora lungo e
irto di difficoltà.
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GIORDANIA
La Giordania si presenta istituzionalmente come uno stato musulmano,
in quanto l’islam è la religione ufficiale del regno, e la monarchia ashemita
al potere può vantare un’ascendenza
diretta dal profeta Muhammad, che le
permette di legittimare la propria
autorità sia sul fronte interno sia sul
piano internazionale della più ampia
comunità musulmana. In questo
senso quindi la Giordania non professa nessun tipo di ideologia laica, ma i
valori dell’islam sono ufficialmente
affermati. Tuttavia lo stato giordano,
a partire dalla sua creazione e
dall’indipendenza riconosciutagli nel
1946, è stato aperto a un rilevante
processo di modernizzazione soprattutto nel campo giuridico e legislativo, in cui si è fatto ampio ricorso al
diritto occidentale, limitando il diritto musulmano o confessionale proprio di altre comunità al solo diritto
familiare e alla gestione delle proprietà religiose.
In una società in cui la componente
musulmana costituisce il 95% della
popolazione, i cristiani sono circa
150.000, cioè il 4,2% della popolazione totale. Essi sono ripartiti in una
decina di chiese, di cui le più rilevanti
e numerose sono la chiesa grecoortodossa con circa 81.000 fedeli, la
chiesa greco-cattolica con 22.000, la
chiesa latina con 35.000 e la chiesa
protestante con circa 5.000 membri.
Il panorama dei cristiani in Giordania
appare dunque piuttosto frammentato in un mosaico di diverse comunità.
Da un punto di vista istituzionale i
cristiani godono di una serie di
garanzie giuridiche riguardo ai loro
diritti: nella Costituzione giordana
infatti si sancisce che tutti i cittadini
hanno eguali diritti e doveri indipen-
La rappresentanza
politica dei cristiani:
Giordania
Camera Bassa
9 deputati su 80
22
dentemente dalla loro appartenenza
religiosa, e viene garantita la libertà di
culto e di insegnamento delle congregazioni cristiane. Dal momento che i
cristiani sono l’unica minoranza significativa in Giordania, è evidente che
fin dagli inizi del nuovo stato si è
voluto porre le basi giuridiche istituzionali per una convivenza armonica
tra componente musulmana e cristiana.
Questa precisa volontà politica di
garantire il ruolo dei cristiani appare
anche sul piano politico istituzionale:
dal 1946 fino a oggi, è stata garantita
per legge ai cristiani una rappresentanza minima in Parlamento.
Attualmente la Camera Bassa conta
ottanta membri di cui nove devono
essere cristiani, mentre in Senato i
seggi riservati ai cristiani sono quattro. Tutti i rappresentanti parlamentari sono eletti in collegi comuni in
cui votano gli iscritti indipendentemente dalla appartenenza religiosa.
Di solito anche nel governo è sempre
presente qualche cristiano, talora
anche con ministeri importanti come
quello degli Esteri o quello delle
Finanze.
L’inserimento politico dei cristiani
giordani è dunque buono, e questo è
sempre un indice importante per
misurare la reale integrazione di una
componente sociale nell’insieme, in
particolare poi quando si tratta delle
comunità cristiane nel mondo musulmano.
Anche nel più vasto contesto sociale
i cristiani sono bene inseriti sia
nell’amministrazione pubblica sia
nelle libere professioni, con una percentuale molto alta di popolazione
cristiana appartenente alle classi
medio-alte con un alto livello di istruzione. In Giordania anche la carriera
militare è aperta ai cristiani, probabilmente per l’influenza che ancora
esercita sulla società giordana l’antica
struttura tribale araba, cui appartengono la gran parte dei cristiani giordani, con l’eccezione di quelli d’origine palestinese.
Inoltre, le chiese cristiane sono
molto presenti nella società giordana
sia sul piano educativo, con una grande quantità di scuole gestite dalle
principali confessioni, sia sul piano
sociosanitario, con ospedali e centri
ambulatoriali. Soprattutto il sistema
scolastico della chiesa latina, che è
molto sviluppato e articolato, gode di
ottima fama nella società giordana ed
è assai frequentato anche da allievi
musulmani.
La situazione dei cristiani in Giordania
sembra dunque particolarmente felice
rispetto ad altri stati arabi, perché in
Giordania si coniugano attualmente
sia precise garanzie istituzionali per i
cristiani, sia un generale processo di
apertura alla democratizzazione della
vita del paese, sia una condizione economica positiva dei cristiani che permette loro di essere presenti in modo
articolato nelle varie dimensioni della
vita sociale.
Tuttavia anche in Giordania vi sono
elementi di preoccupazione per il
mantenimento futuro di tale situazione, legati all’espandersi dei nuovi
movimenti politici islamici, in particolare i Fratelli Musulmani. La loro
influenza è forte soprattutto tra i giovani di origine palestinese, e nelle
elezioni del 1989 hanno conquistato
trentaquattro seggi su ottanta, di cui
ventidue ottenuti dai Fratelli
Musulmani. In occasione della guerra
del Golfo i deputati appartenenti ai
movimenti islamici hanno messo in
difficoltà il governo contestandone la
linea politica, e proprio in quell’occasione sono stati allora chiamati a fare
parte del governo per diluire la loro
opposizione. Nel breve periodo in cui
hanno detenuto il Ministero
dell’Educazione i Fratelli Musulmani
hanno sistematicamente posto gli
esami nelle date delle feste cristiane e
sono state interposte difficoltà a insegnanti cristiani. Inoltre i Fratelli
Musulmani tendono a diffondere
un’ideologia che per affermare la
superiorità dell’islam mira a diminuire
i diritti delle comunità cristiane: la
conseguenza è che anche in Giordania
si sono verificati alcuni incidenti interconfessionali. Il rischio è che questa
ideologia si diffonda e che si trasformi
in pressione sociale aggressiva verso i
cristiani locali, i quali anche adesso si
lamentano talvolta di subire discriminazioni nella pratica sociale quotidiana
e professionale. Che il pericolo di
questa involuzione sussista è dimostrato dal fatto che si sono intensificate le iniziative della monarchia per
porre basi sempre più solide ai rapporti tra cristiani e musulmani in
Giordania: dalla metà degli anni ottanta è attivo l’istituto Interfaith per il
dialogo interreligioso e nel 1994 il
principe ereditario Hassan ha pubblicato il libro Christianity in the Arab
World, in cui ribadisce l’origine autoctona dei cristiani arabi e li riconosce
come parte integrante della società
araba.
Sono queste due iniziative di grande
importanza simbolica, che da un lato
rivelano la necessità di continuare ad
affermare convinzioni e tradizioni
messe a rischio dai nuovi movimenti
islamici, dall’altra mostrano anche la
precisa e continua volontà della casa
regnante di fungere da mediatore per
mantenere l’armonia tra le diverse
confessioni nell’adesione allo stato
giordano. Le iniziative della monarchia
si inseriscono in una più ampia strategia di lotta contro i nuovi movimenti
dell’islam politico, che preoccupano
non solo i cristiani ma anche molti
musulmani. In questo senso, è un
segnale positivo che nelle ultime elezioni del 1993, svoltesi secondo la
nuova legge elettorale, i movimenti
islamici abbiano visto diminuire sensibilmente il proprio consenso politico:
solo sedici candidati dei Fratelli
Musulmani sono stati infatti eletti alla
Camera.
Tuttavia appare evidente che il mantenimento di tale situazione di equilibrio e i suoi ulteriori miglioramenti
sono strettamente dipendenti dalla
capacità della monarchia di esercitare
un’efficace mediazione politica e
sociale: questo spiega il grande attaccamento che sia i cristiani sia la gran
parte della popolazione giordana
hanno per il re, come garante del
rafforzamento della vita democratica
e dello stato di diritto inerente alla
cittadinanza.
ISRAELE E PALESTINA
interessata al processo di pace e sta
progressivamente conseguendo
l’autonomia. Ancora incerto è invece
il futuro assetto di Gerusalemme, la
città santa che ha un valore simbolico
unico per i cristiani e per gli ebrei, e
che ha un profondo significato religioso anche per i musulmani.
Nello stato di Israele i cristiani sono
circa 105.000, ovvero il 2,1% della
popolazione totale che ammonta a
5.414.000 persone. La popolazione
araba comprende oltre ai cristiani
circa 720.000 musulmani e 82.000
drusi. I cristiani sono localizzati
soprattutto in Galilea nei dintorni di
Haifa e di Nazareth, e verso il Sud
presso Giaffa, Lud e Ramleh.
Nel panorama del Medio Oriente
Israele è un esempio di stato democratico di per sé laico, in cui i cristiani in linea di principio godono di
tutte le libertà previste per i cittadini.
In questo senso vi è uno stato reale
di diritto stabilito, di cui tutti i cittadini, compresi i cristiani, godono, ed
è assente quella condizione di precarietà giuridica e politico-civile che è
propria per lo più dello statuto di
comunità religiosa non musulmana
negli stati di cultura musulmana prevalente. La migliore situazione giuridica non significa però che i cristiani
arabi di Israele godano sempre di una
piena integrazione nella società israe-
liana, anche se più dei musulmani essi
hanno cercato di integrarsi nel nuovo
stato. In effetti, in Israele la dimensione religiosa ebraica nella sfera pubblica e sociale è molto pronunciata, e la
situazione conflittuale con gli arabi ha
incluso anche i cristiani di Israele in
un alone di sospetto. D’altra parte le
difficoltà di integrazione della componente araba nella società israeliana
sono rese evidenti da alcuni indici
significativi: il tasso di disoccupazione
degli arabi è del 20% contro il 10%
della media nazionale; solo il 5% degli
studenti universitari in Israele è
arabo; in generale le sovvenzioni
dello stato alle collettività locali privilegiano largamente le municipalità
ebraiche a detrimento di quelle
arabe, sia cristiane sia musulmane.
Bisogna poi aggiungere che la diffidenza verso la componente araba ha
indotto a escludere gli arabi da certe
professioni, in particolare dalla maggior parte delle professioni tecnicoscientifiche. Questo ha generato,
soprattutto tra gli intellettuali arabi
cristiani, una sorta di disillusione
verso Israele, che non sembra concedere loro quell’integrazione piena
prevista in linea di principio dal diritto dello stato. La disillusione diventa
tanto più grave in quanto gli arabi cristiani sono convinti di avere contribuito a proprie spese alla nascita
ISRAELE E PALESTINA
Popolazione totale
5,5/1,8
(in milioni)
Confessioni
Cristiani
Musulmani
Drusi
Ebrei
% sulla
popolazione
2/4
13/96
1,5/83/-
A partire dal 1948 le antiche comunità arabe cristiane palestinesi si sono
trovate inserite in parte nel nuovo
stato di Israele, in parte su quei territori della Cisgiordania che hanno
conosciuto dapprima la sovranità
giordana e dal 1967 l’occupazione
israeliana; questa ultima area è adesso
23
dello stato di Israele, in quanto la
maggior parte delle famiglie ha perso
proprietà immobiliari, confiscate nel
1948 e in epoca successiva dal nuovo
stato e devolute a famiglie o istituzioni ebraiche. Da questo punto di vista
sarebbe auspicabile da parte di Israele
una politica concreta più attenta a
favorire l’integrazione degli arabi
israeliani, che i cristiani sembrano i
più aperti ad accettare.
Anche in Israele i cristiani rappresentano in media il settore più colto
all’interno della popolazione araba:
più della metà degli studenti universitari arabi in Israele sono cristiani,
mentre la popolazione musulmana è
sei volte più numerosa. D’altra parte i
cristiani sembrano più decisi ad avere
buone relazioni con la popolazione
ebraica, purché tra quest’ultima non
si espandano correnti culturali di ispirazione integralista. E’ auspicabile in
questo senso che il processo di pace
con i Palestinesi diffonda i suoi riverberi positivi anche all’interno di
Israele. Nei territori palestinesi autonomi i cristiani sono circa 76.300 cioè
il 3,8% della popolazione, che è per il
resto interamente musulmana. I cristiani sono concentrati soprattutto
nelle tre cittadine di Betlemme, Bet
Jalla e Beit Sahour, e in misura oggi
minore a Gerusalemme, a Ramallah e
in altri villaggi limitrofi. Il numero dei
cristiani è minimo a Gaza dove non
superano le 3.000 persone. In tutta
quest’area i cristiani sono parte integrante della popolazione palestinese,
e la lotta per l’autonomia nazionale è
stata un elemento di forte coesione
tra la componente musulmana e quella cristiana. Anche all’interno dell’OLP
vi sono molti cristiani con funzioni di
responsabilità che hanno avuto parte
attiva nel condurre i negoziati di pace.
Solo negli ultimi tempi il rafforzarsi
del movimento islamico radicale
Hamas ha generato preoccupazioni in
ambito cristiano, per gli influssi che
esso potrà avere nel futuro stato
palestinese. E’ auspicabile che i risultati delle elezioni del gennaio 1996
mostrino lo scarso seguito di Hamas
fra la popolazione. Per il Consiglio
dell’autonomia palestinese in queste
elezioni sono stati riservati ai cristiani
6 seggi su 88. Attualmente è in corso
di definizione la bozza di una carta
24
costituzionale per il nuovo stato, che
si vuole ispirare ai principi della laicità, e anche le chiese cristiane sono
state interpellate per avere un parere
sulla bozza di costituzione proposta.
Questo atteggiamento fa sperare che
i cristiani possano godere in pieno
del proprio statuto di cittadini, senza
subire limitazioni da parte di leggi di
ispirazione islamica. Da parte cristiana si auspica che il procedere dei
negoziati di pace e l’invio dei sostegni
economici necessari pongano le basi
per un inizio solido del nuovo stato,
e che questo serva a consolidare il
processo di democraticizzazione e a
disinnescare le opposizioni di Hamas.
Rimane invece tuttora aperta la questione di Gerusalemme, che si profila
non certo priva di potenzialità conflittuali per il futuro. Almeno tre proposte politiche esistono per dare una
soluzione al problema: quella prevalente in ambiente israeliano che
vuole Gerusalemme capitale di
Israele, e che trova localmente
l’opposizione dei Palestinesi e delle
chiese; la proposta palestinese e delle
chiese cristiane locali è invece di
riconoscere Gerusalemme come
capitale dei due stati, riconoscendo
giuridicamente il fatto che essa è
costituita da due parti, quella araba e
quella israeliana; infine vi è la proposta di rendere Gerusalemme città
aperta sotto l’egida internazionale,
che localmente non trova molti
sostenitori. Al di là del profondo
significato simbolico, Gerusalemme
ha un ruolo sociale e territoriale ben
rilevante: è infatti l’unica vera città
disponibile per le cittadine palestinesi
dei dintorni, come Betlemme, Bet
Jalla e Beit Sahour, i cui abitanti
hanno con Gerusalemme contatti
quotidiani dei più vari generi: se essa
diventasse solo israeliana diventerebbe molto difficile avervi accesso, perché si tratterebbe di entrare ogni
volta in uno stato straniero; con
tutte le difficoltà che già oggi, con i
posti di controllo posti al limite dei
territori destinati all’autonomia, stanno venendo alla luce.
In passato le comunità cristiane palestinesi sono tra quelle che più hanno
sofferto a causa dei continui conflitti,
e l’indice più evidente di tale situazione che tuttora fa sentire la sua
influenza è la forte emigrazione da cui
sono state colpite. Se rispetto al 1947
il numero totale dei cristiani non è
forse diminuito, tuttavia la loro percentuale ha oggi dei livelli assai inferiori: la crescita demografica è stata
bloccata non solo da un ritmo di crescita inferiore a quello dei musulmani,
ma soprattutto dalla continua emigrazione che ha segnato e segna le
comunità cristiane. Nel 1947
Betlemme aveva il 75% di popolazione
cristiana, oggi ridotta al 33%; questa
stessa percentuale si ha oggi a
Ramallah, che contava nel 1947 l’80%
di popolazione cristiana; analoghe
diminuzioni si sono avute in tutti i villaggi e cittadine, con l’eccezione di
Beit Sahour e di Bet Jalla. Infine
l’esempio più rilevante anche a livello
simbolico della diminuzione della presenza cristiana nell’area è rappresentato da Gerusalemme, in cui vivono
attualmente solo 10.000 cristiani
arabi, contro i 31.000 del 1947.
Il fenomeno dell’emigrazione è dunque la più grande piaga per le comunità cristiane della Palestina, ed è la
principale preoccupazione per le chiese che temono la sparizione di comunità cristiane locali proprio nei luoghi
che hanno visto nascere la prima
comunità cristiana.
Di fronte alle prospettive di un processo di pace duratura che porti alla
stabilità politica, economica e sociale,
è probabile che la tendenza a emigrare possa diminuire fortemente,
soprattutto tra i cristiani.
Da parte loro, le varie chiese cercano
di moltiplicare le iniziative per cercare
di fornire ai propri fedeli servizi e
infrastrutture, necessari soprattutto
nelle zone palestinesi: accanto alle
scuole, tradizionalmente numerose
sia in Israele sia nei territori palestinesi, le chiese gestiscono ospedali e centri sanitari, e negli ultimi anni hanno
anche iniziato progetti di costruzione
di case per le famiglie, sia promuovendo forme cooperative sia costruendo
in proprio e dando poi le case in affitto a prezzi molto modici. Il problema
della casa è infatti molto sentito ed è
uno dei fattori che spesso induce a
emigrare le famiglie di nuova costituzione. Nonostante questi sforzi siano
lodevoli, essi potrebbero essere certamente più efficaci se vi fosse mag-
giore collaborazione tra le chiese;
invece, la mancanza di unità a livello
progettuale nel medio termine indebolisce l’esito dei vari sforzi e non si
tiene in alcun conto l’esigenza di inserirli in una strategia comune condivisa
dalle varie gerarchie e istituzioni religiose. La cosa diventa poi più grave
quando la mancanza di coesione si
traduce nel perseguimento di politiche concrete opposte: così se da un
lato il patriarca latino considera uno
dei più grandi problemi quello della
vendita delle terre dei cristiani a
musulmani ed ebrei, una delle principali istituzioni cristiane che vende i
terreni è il patriarcato ortodosso di
Gerusalemme. In questo senso bisogna riconoscere che la mancanza di
unità tra le chiese indebolisce profondamente i cristiani in Palestina, perché
tale divisione non è solo a livello dogmatico o di rito, ma si manifesta
nell’assenza di una collaborazione che
cerchi di individuare linee per la soluzione dei problemi, in modo da mantenere delle comunità cristiane a
Gerusalemme, in Israele e nei territori palestinesi. A questo proposito, si
osservi che fino al 1991, anno di fondazione della Conferenza episcopale
inter-rituale, non esisteva nessun
organo collegiale in cui tutti i vescovi
delle diverse chiese cattoliche presenti in Israele e Palestina potessero confrontarsi su problemi comuni. Infine
un ulteriore problema interno è rappresentato dal divario esistente tra
comunità e gerarchia. Il problema è
evidente in particolare nella chiesa
greco-ortodossa del Patriarcato di
Gerusalemme in cui i vescovi sono
tutti greci di nazionalità, lingua e cultura, mentre i fedeli e i parroci sono
tutti arabi: questo divario crea una
vera e propria frattura interna alla
comunità e impedisce un’azione
pastorale efficace. Talvolta si ha
l’impressione che qualcosa di simile si
verifichi anche nella chiesa latina, laddove la gestione delle parrocchie sia
affidata a preti o religiosi stranieri, che
di solito non mancano di iniziative
sociali verso i propri fedeli ma non
riescono a condividerne in profondità
le aspettative culturali, sociali e politiche attraverso cui passa il radicamento in una società concreta. Da questo
punto di vista la chiesa latina ha fatto
IRAQ
Popolazione totale
19
(in milioni)
Confessioni
Cristiani
Sciiti
Sunniti arabi
Sunniti curdi
Yezidi
% sulla
popolazione
3
49
25
22
0,5
però notevoli passi avanti: per la
prima volta il patriarca latino è oggi
un arabo di Nazareth, e arabi sono
circa i due terzi dei preti diocesani.
L’elemento straniero prevale invece di
gran lunga tra i religiosi delle varie
congregazioni che tengono in Israele
e nei territori palestinese numerose
istituzioni scolastiche, sanitarie o contemplative. Tra i religiosi un’importanza particolare hanno i Francescani,
ai quali fin dal Medioevo è affidata la
Custodia della Terra Santa.
In sintesi, dal punto di vista sociale e
politico sia in Israele sia, soprattutto,
in Palestina sembra che si stiano
aprendo nuove prospettive per le
comunità cristiane arabe: esse hanno
però subito un’emorragia consistente
dei propri membri che è difficilmente
ricuperabile. La sfida che pone il futuro a queste comunità è di elaborare
delle strategie che cerchino di rafforzare le proprie radici in un contesto
politico generale più stabile e propizio e, seppure non troppo numerose,
di esercitare un ruolo culturale e
sociale significativo nelle due entità
statali di appartenenza.
IRAQ
Attualmente i cristiani in Iraq sono
circa 616.000, pari al 3,2% della popo-
lazione totale. Sebbene anche qui i
cristiani siano suddivisi in diverse
chiese, vi è tuttavia attualmente una
netta prevalenza della chiesa caldea,
cui appartiene il 70% dei cristiani iracheni; le altre comunità più consistenti appartengono alla chiesa assira, alle
chiese siriaca ortodossa e siriacacattolica e alla chiesa armena apostolica.
La chiesa caldea e la chiesa assira
sono originarie dell’area, tanto che i
loro membri sono quasi esclusivamente presenti in Iraq o nei paesi di
emigrazione, con solo piccoli gruppi
nei paesi limitrofi del Medio Oriente.
La comunità assira ben più numerosa
fino agli anni trenta di questo secolo e
diffusa in particolare nell’area curda,
suddivisa tra Turchia, Iran e Iraq, ha
subito perdite gravissime sia nella
seconda metà del secolo XIX sia nel
1933 quando fu colpita da massacri
attuati nel primo caso dalle truppe
ottomane, nel secondo caso dalle
truppe regolari del nuovo stato iracheno, che sospettavano gli assiri di
volontà di autonomia politica. Gli assiri superstiti scelsero in gran parte la
via dell’emigrazione, e questo spiega
la presenza di una comunità assira
negli Stati Uniti ben più numerosa di
quella attualmente in Iraq.
La zona di popolamento cristiano
in Iraq era tradizionalmente
25
rappresentata dalle regioni settentrionali: tuttavia sia in seguito agli eventi
del 1933, sia più recentemente in
seguito all’intensificarsi nella zona del
conflitto curdo, si è verificata una
migrazione interna che ha portato la
maggior parte dei cristiani verso il
Sud del paese, in particolare nell’area
di Baghdad. Anche la sede del patriarca caldeo è stata trasferita da Mossul
a Baghdad.
Dal punto di vista della situazione
politica dal 1963 è al potere in Iraq il
partito Baas, con solo un breve intervallo terminato nel 1968 con la salita
al governo di Saddam Hussein, appartenente a tale partito. L’ideologia del
Baas, laica e nazionalista, di per sé
tende a limitare il ruolo delle religioni,
e insiste sull’identità araba comune
attraverso cui costruire l’adesione allo
stato iracheno. Da questo punto di
vista viene riconosciuta la libertà di
culto a tutti i cittadini, i quali hanno
eguaglianza di diritti davanti allo stato,
indipendentemente dalla religione.
Nonostante questa affermazione di
laicità l’islam è però riconosciuto in
Iraq come religione di stato, e il diritto musulmano permea molta parte
del diritto privato. Occorre poi considerare che al di là di una maggiore
concessione di diritto fatta all’islam, il
regime di Saddam Hussein è tipicamente dittatoriale, e tutte le attività
delle varie confessioni religiose sono
strettamente controllate, nel timore
che diano origine a fenomeni di dissenso verso il regime. In questo senso
dunque la libertà in Iraq è minima da
tutti i punti di vista, e il controllo
dello stato è incombente in tutte le
dimensioni della vita.
Da un punto di vista dell’appartenenza religiosa musulmana l’Iraq ha una
particolarità rispetto agli altri paesi
arabi: più della metà della sua popolazione è infatti sciita, con legami stretti, soprattutto a livello di gerarchia,
con gli sciiti dell’Iran. Anche in Iraq gli
sciiti hanno forti propensioni a seguire l’ideologia politica degli sciiti iraniani, che nel 1979 hanno proclamato la
Repubblica Islamica: di fronte a questo pericolo il governo a partire dal
1976 da un lato ha statalizzato l’organizzazione sciita, sopprimendo l’autonomia di gestione dei beni religiosi e
trasformando gli imam in funzionari
26
dello stato, stipendiati e controllati;
dall’altro ha cercato il consenso dei
musulmani sunniti e delle comunità
cristiane. Lo statuto di queste ultime
è stato però in pericolo nel 1981,
quando un progetto di legge, poi
sospeso, voleva estendere anche alle
chiese cristiane la statalizzazione.
In questo contesto politico e socioreligioso molto complesso e difficile, i
cristiani iracheni si trovano in una
situazione ambivalente. Dal punto di
vista economico la comunità cristiana
è nell’insieme prospera. Nonostante
molti imprenditori abbiano subito gli
esiti negativi delle nazionalizzazioni
degli anni sessanta, lo sviluppo economico degli anni successivi ha visto i
cristiani in prima linea con ottimi successi. I cristiani sono inoltre ampiamente presenti nelle professioni liberali, data la loro elevata istruzione: si
calcola ad esempio che il 20% degli
insegnanti iracheni sia cristiano. A
questa prosperità economica si
accompagna però una decisa marginalità politica: in tutti gli organi dello
stato e del partito Baas i cristiani
sono
quasi
assenti.
Anche
nell’Assemblea Nazionale eletta nel
1984 figurano solo quattro cristiani su
duecentocinquanta deputati, pari
all’1,6 dell’intero parlamento, con una
percentuale di molto inferiore a quella demografica. All’interno dell’amministrazione statale i cristiani sono
assenti nelle alte cariche, mentre
sono abbastanza numerosi nelle funzioni medie, grazie alla loro buona
istruzione e alla conoscenza dell’estero. Il fatto che il Ministro degli Esteri
Aziz sia cristiano è una vera eccezione, e non deve indurre a credere che
i cristiani iracheni abbiano grande
rilievo nell’apparato governativo e statale. Anche nell’esercito fino ad epoca
recente era proibito ai cristiani
l’accesso all’insegnamento militare
superiore: solo a partire dalla guerra
con l’Iran esso è stato loro aperto e
qualche cristiano è diventato ufficiale;
questa apertura è stata causata sia
dalle esigenze belliche sia dalla strategia politica del governo di favorire la
coesione di cristiani e sunniti di fronte agli sciiti.
La marginalità politica dei cristiani in
Iraq può essere compresa in base a
due ordini di motivi: in primo luogo,
La rappresentanza
politica dei cristiani:
Iraq
Assemblea Nazionale
4 deputati su 250
nonostante l’ideologia laica del partito
Baas, continua ad esercitare una forte
influenza il concetto proprio dell’islam
che il potere politico deve essere
gestito dai musulmani; inoltre l’islam è
riconosciuto dal partito Baas iracheno
come una componente importante ed
essenziale della cultura araba, mentre
lo stesso statuto ideologico non è
riconosciuto al cristianesimo; inoltre
la gestione del potere, come in molti
paesi arabi, avviene in Iraq sulla base
di alleanze familiari e clientelismi, in
cui i musulmani sunniti hanno un
ruolo prevalente, specie in ottica antisciita. In secondo luogo gli stessi cristiani non sembrano propensi
nell’attuale situazione a un forte
impegno politico, e tendono essi stessi a scegliere la marginalità in questo
campo: da un lato infatti non è possibile esercitare alcun dissenso contro il
governo al potere, dall’altro un’alleanza troppo evidente e attiva con il
governo potrebbe nuocere in futuro
alle relazioni con la maggioranza sciita, qualora essa prendesse il potere.
In Iraq quindi il nodo essenziale delle
questioni politico-religiose si gioca tra
le componenti musulmane maggioritarie tra loro avverse, tra le quali i sunniti sostengono il governo attuale
proponendosi di dare spazi più larghi
all’islam nella società sotto il controllo rigido dello stato, mentre gli sciiti
sono in gran parte filo-iraniani e,
come ha dimostrato la rivolta sciita di
Bassora del 1991, vorrebbero rovesciare l’attuale situazione e instaurare
un governo di tipo islamico di ispirazione iraniana.
E’ chiaro che se entrambe le prospettive politiche sono ben lontane da
assicurare ai cristiani uno stato di
diritto duraturo, tuttavia la seconda è
vista con timore molto maggiore. Il
timore di un’islamizzazione maggiore
dello stato e della società, nonché la
prospettiva di ripercussioni negative
immediate in caso di dissenso, conduce quindi le gerarchie delle varie chiese, e in particolare il patriarca caldeo,
a sostenere pubblicamente l’attuale
regime, che pur sotto rigidi controlli
consente alle chiese degli spazi di
azione. Un esempio di iniziativa pubblica a finalità politiche interne e
internazionali è stato ad esempio il
convegno organizzato ai primi di
luglio del 1995 a Baghdad dalla chiesa
caldea, sotto l’egida del Ministero per
gli Affari Religiosi, con cui si è condannata l’attuale linea politica internazionale contro l’Iraq.
Vi sono d’altra parte ragioni concrete
che spingono le chiese ad appoggiare
il governo: in effetti in Iraq la libertà
di culto per i cristiani è assicurata in
modo pieno, senza favoritismi, finora,
per i musulmani: le chiese possono
essere costruite senza difficoltà anche
vicino alle moschee, le riunioni per
l’attività pastorale, per il catechismo e
per manifestazioni sociali necessitano
di autorizzazioni che sono generalmente conferite. L’insegnamento del
catechismo nelle scuole è autorizzato
se almeno il 25% degli allievi è cristiano. In questo contesto le chiese
hanno numerose infrastrutture utilizzate per il culto, per la pastorale e
per le opere di assistenza: queste ultime si sono ulteriormente sviluppate
in seguito alla guerra del Golfo e
all’embargo posto all’Iraq, e per
meglio gestirle il patriarca caldeo ha
fondato la Caritas Irachena. Sono
assenti invece le scuole cristiane,
nazionalizzate alla fine degli anni sessanta, ma esiste un seminario maggiore per la formazione del clero di tutti
i riti e un istituto per la formazione
dei catechisti.
Se la situazione dei cristiani in Iraq è
contrassegnata da luci e ombre
rispetto alle dinamiche politiche e
religiose interne allo stato, le comunità cristiane sono in prima linea di
fronte a un nuovo problema, sorto in
seguito alla guerra del Golfo e
all’embargo imposto all’Iraq: il problema dell’emigrazione. Se in altri stati
l’emigrazione dei cristiani arabi esisteva da lunga data, in Iraq, se si eccettua
il caso degli assiri nella prima metà del
secolo, essa è un problema del tutto
recente, date le generali buone condi-
zioni economiche delle comunità cristiane. Tuttavia l’emigrazione sta oggi
avvenendo a ritmi rilevanti: si calcola
che circa un sesto della popolazione
cristiana sia emigrata dal 1991, e il
30% degli iracheni che attualmente
passano la frontiera giordana sono
cristiani. Anche in questo caso l’emigrazione significa perdite umane e
intellettuali rilevanti, e per le comunità che restano in Iraq si traducono
in un indebolimento che rischia di
limitare fortemente il possibile ruolo
che i cristiani potranno svolgere nel
paese, tanto più che finora i flussi
emigratori non accennano a cessare.
SIRIA
La Repubblica Araba Siriana conta una
popolazione cristiana piuttosto numerosa, anche se difficile da stimare con
precisione: vi sono infatti stime minime relative a circa un milione di cristiani, fino a stime che li portano a un
milione e mezzo, con un’incidenza
percentuale sulla popolazione globale
che va dal 7,1 al 10% circa. Una caratteristica del cristianesimo siriano è la
sua composizione multiforme: tutte le
chiese orientali vi sono rappresentate,
con l’eccezione di quella copta, e
tutte hanno comunità di un certo
rilievo, anche se la più numerosa è la
greco-ortodossa.
Come in Iraq anche in Siria è al potere il partito Baas, e dopo un lungo
periodo caratterizzato da vari colpi di
stato, dal 1970 il potere è gestito dal
presidente Assad. A differenza
dell’Iraq il partito Baas in Siria ha
mantenuto in modo più spiccato i
suoi connotati laici: così nella
Costituzione siriana l’islam non è
riconosciuto come religione di stato,
e solo dopo molte pressioni nel 1973
è stato inserito l’obbligo per il capo di
stato di essere musulmano. Questa
minore influenza dell’islam trova la
sua spiegazione nella composizione
più accentuatamente pluriconfessionale della Siria: accanto ai musulmani
sunniti vi sono infatti la componente
alevita, che conta circa l’11% della
popolazione, la componente drusa e
la componente cristiana. La presenza
di diverse componenti confessionali di
fronte ai sunniti spiega, da un lato, lo
sviluppo in questo secolo di un’ideologia più attenta alla laicità delle istituzioni e insieme favorevole alle minoranze contro i pericoli di un islam
sunnita pervasivo; dall’altra, la componente pluricomunitaria della società
siriana mantiene tutt’oggi un’importanza non solo a livello culturale e
ideologico, ma a livello politico concreto: il presidente Assad è infatti alevita, ed è la minoranza alevita a gestire attualmente il potere in Siria, con
SIRIA
Popolazione totale
13
Confessioni
(in milioni)
Cristiani
Sunniti
Aleviti
Drusi
Ismaeliti
% sulla
popolazione
7÷10
75
11
3
1
27
La rappresentanza
politica dei cristiani:
Siria
Assemblea Popolare
4 deputati su 250
l’appoggio degli altri gruppi minoritari, compresi i cristiani. Nonostante
questa situazione gli indici di un effettivo inserimento politico dei cristiani
non sono però numerosi: solo quattro deputati su duecentocinquanta
sono cristiani, mentre meglio rappresentati sono i cristiani nell’amministrazione e nella diplomazia. Nel
governo vi sono sempre alcuni ministri cristiani, seppure con incarichi
per lo più tecnici. Nell’esercito gli
ufficiali cristiani non mancano, e nel
1973 il generale cristiano Chakkour è
stato capo di stato maggiore: è certo
un’eccezione, che ha però il suo
significato.
Nell’ambito di un contesto politico
segnato da un deciso autoritarismo,
lo stato esercita la sua tutela sulle
chiese lasciando però a esse spazi
notevoli. Le comunità cristiane hanno
libertà totale di comprare terreni e
costruire chiese, case e le varie strutture pastorali, con l’aiuto dello stato.
Inoltre fino dal 1936 i beni delle chiese cristiane dipendono direttamente
dal Consiglio dei ministri, con la conseguenza che le chiese dispongono
liberamente dei propri beni e che i
membri del clero non sono funzionari dello stato. I preti sono inoltre
esentati dal servizio militare. Nelle
scuole vi sono corsi di religione cristiana e sono obbligatori per gli studenti cristiani. La collaborazione tra
lo stato e società caritative cristiane
si esprime poi in uno spettro di attività molto ampio, diretto a tutta la
popolazione.
Il panorama politico e statale generale sembra dunque favorevole alle
comunità cristiane, le quali tuttavia,
insieme ad altre componenti della
società siriana, devono affrontare la
sfida posta dall’islamizzazione. Anche
in Siria infatti a partire dagli anni settanta era cresciuta l’influenza dei
28
movimenti islamici, che premevano
per una maggiore islamizzazione del
diritto, dello stato e della società e
avevano anche dato origine a episodi
di intolleranza interconfessionale.
L’azione politica pubblica di tali movimenti, in particolare dei Fratelli
Musulmani, si è poi intensificata dopo
il 1979, anno della rivoluzione iraniana, esprimendosi come aperta contestazione dell’ideologia Baas, qualificata
«atea», e del governo di Assad. Di
fronte al crescere del fenomeno che
rischiava di destabilizzare lo stato, il
governo è ricorso alla repressione
con l’uso della forza, in particolare
nella città di Hama, che era la roccaforte dei Fratelli Musulmani. In
seguito i servizi segreti hanno continuato a svolgere un’azione continua
per neutralizzare gli islamisti. Queste
vicende, e il timore che avevano ingenerato tra i cristiani e i musulmani
moderati, spiegano l’appoggio di cui
gode il governo, nonostante il suo
autoritarismo e il forte controllo
dello stato in tutte le sfere della vita
politica e civile. Tale appoggio non fa
che rafforzarsi oggi di fronte
all’espandersi dell’islam radicale in
altri stati arabi, come l’Algeria e
l’Egitto.
Il ricorso all’uso della forza per contenere l’involuzione in senso radicale
di una parte non insignificante
dell’islam sunnita mostra però come
anche in Siria l’evoluzione culturale
dell’islam verso la ricezione di concetti come la laicità delle istituzioni
statali o il pluralismo religioso basato
su eguali diritti sia ancora lungi
dall’essersi consolidata. Questo è
ancora più grave se si pensa che la
Siria ha avuto nel recente passato un
grande ruolo culturale all’interno
della nahda, in cui tali concetti innovatori proposti come base dello stato
arabo moderno hanno avuto le più
felici formulazioni. Vista la ricezione
ancora parziale a livello diffuso di tali
valori, non stupisce che anche in Siria
cresca nei cristiani il sentimento di
una precarietà persistente che talvolta cerca soluzione nell’emigrazione in
Occidente. Il fenomeno migratorio è
però per ora meno rilevante in Siria,
anche per le buone condizioni economiche di cui di solito i cristiani godono, grazie al loro inserimento
nell’imprenditoria, nel commercio e
nelle attività liberali. Da alcuni anni si
è formata però una fascia di cristiani
che sono potenziali emigranti: si tratta della popolazione cristiana rurale
soprattutto del Nord Est, che tende
a trasferirsi nei sobborghi delle grandi città, specie di Aleppo e di
Damasco. Le ragioni dell’inurbamento sono connesse a motivazioni sia
economiche sia sociali: nella zona
limitrofa all’area curda sono infatti
più frequenti le pressioni dei musulmani contro i cristiani a livello locale,
e d’altra parte nelle zone rurali mancano le infrastrutture comunitarie
presenti nelle città. Questa mancanza, cui si aggiunge spesso l’assenza di
clero da inviare nei villaggi rurali più
lontani, spinge i loro abitanti a raggiungere le città per avere la solidarietà delle reti comunitarie. Tali spostamenti hanno però dato origine a
una popolazione cristiana urbana
molto povera, che in mancanza di
un’integrazione economica e sociale
nelle città sarà spinta ineluttabilmente a emigrare: è un fenomeno di cui
già appaiono gli inizi, e che le chiese
si propongono di arginare con interventi adeguati: per essere veramente
tali essi dovrebbero però superare in
primo luogo le divisioni intercomunitarie, e attuarsi nell’ambito di strategie comuni e condivise.
LIBANO
La situazione del Libano presenta
caratteristiche del tutto particolari,
non solo per la diversa struttura istituzionale dello stato libanese e del
ruolo in esso esercitato dai cristiani,
ma anche per le recenti e travagliate
vicende politiche che hanno messo a
dura prova il delicato equilibrio su
cui si reggeva lo stato libanese.
A differenza degli altri stati arabi del
Medio Oriente il Libano, al momento
della formazione degli stati nazionali
dopo la prima guerra mondiale, si
definì come stato multiconfessionale,
e tradusse a livello di assetto politico
la pluralità di comunità confessionali
esistenti nella società. Nel Libano del
1943, anno in cui fu emanata la
Costituzione, le varie comunità cristiane erano più della metà della
popolazione globale, seguite dalle
comunità musulmane sunnita e sciita
e dalla comunità drusa. Questa situazione permise ai cristiani di esercitare
un’influenza notevole sul progetto di
costituzione del nuovo stato, e di
avere riconosciuto un ruolo politico
unico in tutto il mondo arabo. Nello
stato libanese multiconfessionale il
potere dello stato viene gestito da
rappresentanti delle varie comunità
confessionali, che si dividono la rappresentanza nelle diverse istituzioni
secondo quanto stabilito dalla
Costituzione. In questo modo la
Costituzione prevede che il presidente della Repubblica Libanese debba
essere cristiano maronita, che il capo
del governo debba essere musulmano
sunnita, che il presidente del parlamento sia musulmano sciita. Allo
stesso modo i seggi del parlamento e
le cariche ministeriali nel governo
sono ripartite tra le più importanti
comunità. Questo sistema, se prevedeva una partecipazione al potere di
tutte le comunità libanesi in proporzione alla loro consistenza demografica, conferiva innegabilmente un ruolo
preponderante ai cristiani, che erano
la maggioranza della popolazione. In
Libano dunque, caso unico nel
mondo arabo e musulmano, ai cristiani erano riconosciuti eguali e pieni
diritti, senza che alcuna pratica sociale ne limitasse la fruizione. Lo stesso
fatto che il capo dello stato fosse cristiano maronita costituiva non solo
una reale garanzia di eguaglianza per i
cristiani, ma aveva un significato simbolico di grande rilievo: per la prima
volta infatti dall’espansione dell’islam
in Medio Oriente, l’alto potere politico non era più gestito esclusivamente
dai musulmani, secondo quanto prescrive la cultura politica islamica. Il
sistema libanese nonostante i suoi
limiti è riuscito tuttavia ad assicurare
per circa trent’anni l’unica democrazia esistente nel mondo arabo.
Tuttavia a partire dagli anni settanta il
sistema sociopolitico libanese si è
incrinato, per motivi sia di ordine
interno sia di ordine internazionale.
Dal punto di vista interno l’assetto
multiconfessionale libanese si è incrinato a causa delle diverse tendenze
demografiche che si sono verificate
con il passare degli anni. Nonostante
la proibizione per legge di indire
nuovi censimenti confessionali dopo
quello del 1943, su cui si basava la
ripartizione delle cariche istituzionali
dello stato tra le diverse comunità, un
mutamento demografico non indifferente era in effetti in corso, che vedeva in particolare l’aumento sia in termini assoluti sia percentuali della
comunità sciita, senza che venisse
riconosciuta a quest’ultima una maggiore integrazione politica. La situazione interna è poi peggiorata per motivi
di ordine internazionale, in particolare
dopo il 1967 per la massiccia immigrazione in Libano di palestinesi, la maggioranza dei quali erano musulmani e
fortemente politicizzati. Il risultato è
stato da un lato l’inasprirsi della polemica da parte sciita per ottenere un
maggiore riconoscimento politico,
dall’altro il crescere dei timori da
parte di molti esponenti cristiani nella
prospettiva che il potere passasse in
mano a una maggioranza musulmana
che avrebbe ridotto i cristiani a una
nuova situazione di subalternità.
Questa serie di motivi cui devono
aggiungersi tutte le varie dinamiche
politico-militari del Medio Oriente
inerenti la questione israeliana e il
ruolo in essa svolto dalle superpotenze del tempo, hanno ingenerato una
crisi profonda dello stato libanese e
sono sfociati nella lunga guerra civile
che ha travagliato il Libano dal 1975 al
1990. Si è trattato di una guerra in cui
si sono affrontate non solo le varie
comunità confessionali, ma anche le
diverse fazioni presenti all’interno di
esse, e che ha persino visto i cristiani
dividersi in parti avverse, quando una
parte di maroniti ha cercato di perseguire l’idea di formare uno stato indipendente omogeneamente cristiano in
una parte del territorio libanese.
La fine della guerra non ha significato
la fine dei problemi, perché il conflitto
ha avuto termine a causa dell’occupazione siriana, per cui attualmente
l’indipendenza del Libano è relativa,
ed è l’autorità siriana che detiene il
potere. Sotto l’egida siriana e saudita
si è concluso nel 1991 l’Accordo di
Taëf con cui le varie fazioni hanno
posto fine al conflitto: con esso
si è nuovamente riconosciuta la
Costituzione del 1943, apportandovi
però delle modifiche rispetto ai poteri
riconosciuti alle alte cariche dello
stato e rispetto alla ripar tizione
comunitaria dei seggi parlamentari. In
seguito a tali modifiche i cristiani non
hanno più la maggioranza dei seggi in
Parlamento, e sebbene il capo dello
stato continui a dovere essere cristiano maronita, molti dei poteri di cui
disponeva sono stati trasferiti al capo
del governo che è musulmano sunnita.
In definitiva, vi è stato un tentativo di
rafforzare i sunniti che ha visto
LIBANO
Popolazione totale
3
(in milioni)
Confessioni
Cristiani
Sciiti
Sunniti
Drusi
% sulla
popolazione
43
29
24
4
29
l’appoggio dell’Arabia Saudita, in presenza di un fronte cristiano non compatto, e con l’intento comunque di
arginare il pericolo di un aumento di
potere politico della comunità sciita.
Il risultato del conflitto è stato dunque negativo per i cristiani libanesi,
sconfitti sia militarmente sia politicamente, con la conseguenza che essi
stanno ora attraversando una forte
crisi politica, economica e culturale.
In particolare il fatto che manchi una
nuova leadership politica, in quanto gli
antichi leaders sono periti nei combattimenti o sono in esilio, fa sentire
effetti negativi sul presente, e induce
il ritiro dei cristiani dalla scena politica. Che rifugiarsi nello spazio comunitario sia però una strategia perdente
lo confermano i fatti accaduti dopo le
elezioni del 1994, che hanno visto il
boicottaggio da parte dei cristiani e di
molti sunniti: in concreto però così
facendo i cristiani hanno lasciato spazio alle fazioni musulmane e si sono
privati di uno spazio di azione politica
che ancora potrebbero gestire. In
questo orizzonte di crisi politico-culturale e di assenza di personaggi eminenti per guidare questo difficile
momento di transizione, si è aggiunta
la sospensione delle elezioni del presidente della Repubblica Libanese, previste per il novembre 1995, e il prolungamento triennale del mandato del
presidente attuale.
Il discorso sembra però ancora aperto, e il posto lasciato ai cristiani nel
sistema politico libanese, sia che il
sistema permanga comunitario oppure diventi maggioritario come prevede
Taëf, è diventato una posta in gioco
centrale del dibattito costituzionale e
culturale in corso.
Dietro le domande di laicizzazione del
sistema politico e dell’adozione del
sistema maggioritario formulate
dall’accordo di Taëf, si profila però la
minaccia dell’imposizione all’insieme
della popolazione del sistema di senso
e di diritto della comunità sciita, al cui
interno alcuni leaders di Hezbollah
persistono nel reclamare l’instaurazione di uno stato islamico e l’applicazione del diritto musulmano tradizionale
alla gente del libro, nonostante che
Hezbollah partecipi alle dinamiche
politiche parlamentari essendo presente con otto deputati dal 1992. In
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questo senso la secolarizzazione del
sistema politico, di per sé favorevole
ai cristiani perché garantirebbe a tutti
i cittadini il medesimo stato di diritto,
potrebbe trasformarsi in un grave
rischio qualora gli sciiti, ottenendo la
maggioranza, intendessero imporre
forme islamiche di governo e di assetto legislativo e politico.
L’incertezza delle comunità musulmane sui propri orientamenti è dunque
fonte di incertezza per i cristiani. In
questo senso il potere siriano è spesso visto come baluardo, perché in
Siria tra il presidente Assad e i cristiani vi è un rapporto di alleanza politica.
Il rischio è che la perpetuazione del
comunitarismo politico in Libano, che
tanti cristiani riconoscono come indispensabile, potrebbe legittimare la
perpetuazione della presenza
dell’armata siriana, il cui ritiro dipende
dalla realizzazione delle riforme previste a Taëf, compresa la secolarizzazione politica. In una prospettiva di lungo
termine il rischio per i cristiani è quello di passare dallo statuto di comunità
con diritti equivalenti alle altre a uno
statuto di minoranza, in cui siano sottomessi a una maggioranza non cristiana. Questa minaccia non è fittizia,
perchè corrisponde alla tradizionale
condizione dei cristiani nel mondo
islamico, ed è alla base dell’emigrazione definitiva dei cristiani in Occidente.
I cristiani libanesi sono oggi chiamati a
confrontarsi con i problemi specifici
del Libano attuale, come la ricostruzione, la democratizzazione, la negoziazione della pace: in questo confronto devono agire come attori autonomi, portatori di valori universali e particolari, ma pienamente integrati nella
scena politica libanese, pena la condanna all’emarginazione politica, che
conduce a quella sociale. In questo
senso tutte le iniziative individuali e
collettive che rendano i cristiani attori
creativi all’interno della società civile
sono quanto mai utili per esercitare
un influenza reale ed efficace sulla
scena sociale e politica libanese.
Alle difficoltà politiche, i cristiani però
sommano una situazione non facile
dal punto di vista economico e sociale. La guerra libanese ha comportato
infatti distruzioni gravissime, e in particolare ne è stata colpita la popolazione cristiana. La guerra ha quasi
completamente smantellato le infrastrutture civili e più di ottocentomila
persone hanno dovuto trasferirsi
all’interno del territorio libanese a
causa dei conflitti: di queste l’80%
sono cristiani, i quali hanno avuto
danni sociali ed economici enormi,
percentualmente maggiori rispetto
alle altre comunità. Inoltre la guerra e
il futuro politico incerto ha causato
una fortissima emigrazione cristiana:
fino al 1978 il 75% degli emigranti
erano cristiani; in seguito la percentuale è diminuita e attualmente sembra crescere l’emigrazione dei musulmani, sia sunniti sia sciiti; anche il 3540% dei drusi sono emigrati dopo il
1975.
Nonostante che il conflitto abbia quindi segnato tutte le comunità i cristiani
hanno subito perdite umane, economiche, educative e demografiche più
importanti della media nazionale. Sia
l’emigrazione sia gli spostamenti
interni di popolazione hanno indebolito fortemente le capacità produttive
ed economiche delle comunità cristiane, con il rischio di una minore capacità di essere presenti a livello di
società civile, a fronte di una crescente presenza sociale di élites musulmane colte.
I cristiani libanesi si trovano dunque
oggi di fronte a una sfida vitale: cercare nella non facile situazione politica
del loro paese di continuare a esercitare un ruolo politico creativo sentendosi parte integrante del paese, e
nello stesso tempo ricostruire il radicamento nel territorio, che è la condizione per esercitare con efficacia
un’adeguata azione politica. Uno degli
sforzi più importanti che le comunità
cristiane devono affrontare attualmente è quello di ricostituire e rivitalizzare le strutture educative, sanitarie e di
promozione umana su tutto il territorio libanese, ricostruendo quanto la
guerra ha distrutto, e insieme cooperare con lo stato nella ricostruzione
delle varie infrastrutture necessarie
alla vita civile anche nelle parti periferiche del paese, affinché sia possibile a
tutti i profughi che si erano rifugiati a
Beirut di ritornare nei propri paesi in
condizioni che permettano una vita
normale, fondata sui valori democratici e sui diritti dei cittadini su basi
egualitarie.