Comunità cristiane e stati: i casi nazionali.
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Comunità cristiane e stati: i casi nazionali.
4 Comunità cristiane e stati: i casi nazionali. EGITTO Popolazione totale 53 (in milioni) Se si considera l’attuale evoluzione dell’islam nel più ampio contesto dei paesi del Medio Oriente, non si può negare che il confronto della cultura islamica con i vari processi di modernizzazione sociale, politica e giuridica sia pienamente in atto, con modalità ed esiti diversi nei vari paesi. E’ indubbio tuttavia che rispetto agli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, in cui sembrava preponderante la tendenza a dare vita a forme di stato nazionali democratiche in cui l’importanza dell’appartenenza religiosa fosse sfumata e l’adesione allo stato passasse attraverso il concetto di cittadinanza eguale per tutti i cittadini, oggi si è invece in presenza di un panorama politico più variegato e complesso. In molti casi l’assetto democratico è ridotto, mentre quasi ovunque si presentano sulla scena politica e sociale movimenti e processi di islamizzazione. E’ nel contesto di queste dinamiche sociali, politiche e culturali che bisogna osservare l’attuale situazione delle comunità cristiane nei vari stati del Medio Oriente, prendendo in esame i singoli casi nazionali, ciascuno con le proprie specificità. EGITTO L’Egitto è lo stato del Medio Oriente in cui la presenza cristiana è più numerosa, contando infatti 3.335.600 persone, secondo il più recente censimento ufficiale dello stato egiziano, che equivalgono al 5,7% della popolazione globale. Nonostante in Egitto siano presenti dodici diverse chiese cristiane, la chiesa copta è però di gran lunga prevalente, con i suoi circa 3.300.000 fedeli. Il fatto di essere così numerosa in Egitto e, a differenza di altre chiese arabe, di non avere che un numero limitato di fedeli residenti in altri paesi del Medio Oriente, con- Confessioni Cristiani Sunniti ferisce alla chiesa copta un carattere nazionale evidente, che si esprime in vario modo nella stessa coscienza che essa ha di sé e del proprio ruolo nel paese. Riguardo al numero dei copti occorre precisare che quello qui proposto è la stima minima offerta dai censimenti ufficiali: esistono stime diverse, basate sui registri ecclesiastici dei battesimi e dei sacramenti, che portano il numero dei copti fino a sei milioni, e sostengono che i numeri ufficiali più contenuti trovano la loro spiegazione nel fatto che i copti preferiscono occultarsi a livello pubblico per non incorrere in discriminazioni. Non si deve peraltro sottovalutare una certa tendenza delle chiese a «gonfiare» le cifre dei propri membri per apparire più consistenti sulla scena pubblica. Dall’inizio di questo secolo i copti hanno partecipato attivamente al processo di modernizzazione culturale, sociale, economica e politica del paese. Sul piano politico eminenti membri della comunità copta hanno partecipato alla fondazione del partito nazionalista Wafd, che ha avuto un ruolo notevole nelle dinamiche dell’Egitto moderno; sul piano economico i copti hanno avuto un ruolo fondamentale nell’apertura di nuove % sulla popolazione 6 94 banche e di nuove attività imprenditoriali. Grazie al più elevato livello d’istruzione, i copti non solo erano ampiamente presenti in posizioni dirigenziali anche in imprese non copte, ma erano largamente presenti nell’amministrazione dello stato. Basti pensare che fino al 1952 il 29,4% dei dipendenti del Ministero della Comunicazione e dei Lavori Pubblici era copto, e la percentuale raggiungeva il 44,2% nel Ministero delle Finanze e il 48,1% nel Ministero delle Poste e Telegrafo. Tuttavia, la presenza dei copti nella burocrazia statale e nelle banche comincia a calare sensibilmente a partire dagli anni cinquanta, sia per la migliore istruzione scolastica dei musulmani, che potevano quindi cominciare a fare concorrenza ai copti, sia per le pressioni del governo sulle banche e le imprese affinché nominassero come direttori dei musulmani piuttosto che dei copti. Un ulteriore peggioramento della situazione dei copti avviene durante il governo di Nasser, il quale attuò una forte politica di nazionalizzazioni: i copti più abbienti ne furono duramente colpiti, percentualmente in misura maggiore dei musulmani, e persero le loro importanti posizioni in banche, industrie e imprese. 19 Ad esempio, i copti soffrirono nel 1961 per la nazionalizzazione dei trasporti perché le grandi aziende di autotrasporto pubblico erano di proprietà di famiglie copte. Così la maggior parte dei capitali investiti nella Banca del Cairo, nella Banca Misr e nella National Bank erano dei copti, che subirono la nazionalizzazione del sistema bancario egiziano. Con l’avvento di Sadate la situazione economica dei copti migliora, perché viene lanciata la politica dell’infitah, apertura economica all’estero, in cui i copti si trovano favoriti per la loro maggiore consuetudine ai rapporti con gli stranieri e all’uso di lingue straniere. Si assiste a una crescita delle imprese copte, mentre continua a rimanere notevolmente ridimensionata rispetto al passato la presenza dei copti nella burocrazia statale. Nonostante l’alto numero di appartenenti alle classi abbienti e alle libere professioni, all’interno della comunità copta sono oggi presenti tutte le stratificazioni sociali: i grandi imprenditori, il ceto impiegatizio e i commercianti, i contadini e i piccoli artigiani. Al Cairo poi tutto il servizio della raccolta dei rifiuti domestici è gestito e attuato da copti, che vi lavorano a migliaia. A differenza che nel passato oggi però è diminuita la consistenza della classe media, e sembra che i copti oggi risentano di molte restrizioni nell’ambito professionale, in particolare nel settore pubblico. Dal punto di vista politico i copti non hanno mai dato vita a un partito confessionale e il loro ruolo politico sembra oggi diminuito rispetto alla prima metà del secolo. Comunque costante è l’appoggio dato alla causa nazionale da parte della chiesa copta, per dimostrare così la piena integrazione nella società egiziana: l’appoggio è revocato soltanto quando la politica del gover- La rappresentanza politica dei cristiani: Egitto Assemblea Nazionale 7 deputati su 454 20 no sembra nuocere all’identità copta e promuovere l’islamizzazione. Questo avvenne ad esempio durante l’ultimo periodo del governo di Sadate, in cui vennero formulati diversi progetti di islamizzazione del diritto e venne inaugurata una politica favorevole ai Fratelli Musulmani e all’islam tradizionale in genere, che venivano considerati dal governo utili alleati per ostacolare la crescente influenza dei movimenti e delle ideologie di sinistra. In questo caso il patriarca copto Papa Shenouda III si oppose con forza e pubblicamente a Sadate, e i loro rapporti giunsero a un tale deterioramento che Sadate sospese Shenouda dal suo incarico di guida della chiesa e lo obbligò a soggiornare in un monastero. Aprendo un nuovo corso, Mubarak ha condotto una politica di ferma opposizione ai movimenti islamici radicali, ponendo fine, almeno per il momento, anche ai vari processi in corso di islamizzazione del diritto. L’avvento di Mubarak segna di conseguenza l’inizio di un modo di espressione pubblica dei copti differente da quello tipico dei due decenni precedenti. Esso è definito da un sostegno incondizionato dato allo stato egiziano nei suoi orientamenti interni, regionali e internazionali. Le strategie della chiesa copta sembrano dunque orientate a favorire la coesione della società egiziana intorno al governo per superare le difficoltà economiche e sociali in cui l’Egitto sta versando, facendo fronte comune nello stesso tempo contro la minaccia islamista che in Egitto ha una forza ben più grande rispetto agli altri stati del Mashreq. In Egitto, forse proprio perché la comunità cristiana è più rilevante, uno degli obbiettivi espliciti degli islamisti è proprio quello di colpire i cristiani e di esercitare contro di essi una pressione sociale negativa che li renda consapevoli del loro statuto di «minoranza subalterna» in seno all’islam dominante. Questo spiega i pressoché quotidiani episodi di violenza ai danni dei copti, dei loro beni e attività, sia nell’alto Egitto sia al Cairo. Inoltre vi è ampia circolazione di pamphlets anticristiani, diffusi soprattutto negli ambiti scolastici a opera dei movimenti islamici. Nonostante il conciliante atteggiamento politico, l’integrazione dei copti nello stato egiziano moderno ha limiti evidenti. Sul piano politico ad esempio essi sono chiaramente sfavoriti. Nel 1990 solo due copti sono stati eletti su 444 deputati: questo numero così ridotto è dovuto sia al fatto che i partiti politici per lo più rifiutano candidati copti per timore di alienarsi il voto dei musulmani, sia perché le circoscrizioni elettorali sono state stabilite in modo da sfavorire i copti, soprattutto in quelle zone dell’Alto Egitto in cui i copti sono molto numerosi e raggiungono il 20% della popolazione locale. Il risultato è che i copti hanno una rappresentanza politica minima, e devono accontentarsi di qualche seggio conferito a loro membri tra i dieci deputati che vengono nominati direttamente dal capo dello Stato: questo fa sì che oggi vi siano sette copti nell’Assemblea del Popolo egiziana, su un totale di 454 deputati. Se si considera che i cristiani sono circa il 6% della popolazione egiziana, il fatto che solo l’1,5% dei parlamentari sia cristiano, di cui cinque su sette non eletti ma nominati dal presidente, mostra la marginalità dei copti all’interno dei meccanismi elettivi istituzionali. Il fatto che il capo dello Stato nomini dei parlamentari copti e che in tutti i governi vi sia almeno un ministro copto ha certo il valore simbolico di riconoscere la presenza dei copti nella compagine nazionale, ma mostra anche la debolezza dello stato di diritto di cui godono, perché sono troppo dipendenti dalle scelte del governo al potere nell’accedere a ruoli politici. In questo senso è vero che sia la vita politica sia l’amministrazione pubblica sono sempre più chiusi ai copti. Esistono d’altronde altre norme discriminatorie nei confronti dei cristiani: ad esempio una circolare del 1940 tuttora in vigore proibisce ai cristiani l’insegnamento dell’arabo nelle scuole e nelle università, riservando tutte le cattedre di arabo (che è l’equivalente della cattedra di lettere nelle nostre scuole) a professori musulmani. Inoltre i cristiani non possono accedere ad alcuni corsi di formazione tecnica, scientifica e militare e sono esclusi da molte borse di studio. Anche a livello di istituzioni scolastiche le discriminazioni esistono: l’università di Al-Azhar e tutto il sistema scolastico che da essa dipende sono chiusi ai cristiani, nonostante che godano di sostanziosi finanziamenti pubblici. Al contrario le scuole cristiane in genere non hanno finanziamenti statali, pur essendo aperte anche ai musulmani. A questo riguardo occorre notare che le comunità cristiane, e in particolare quelle cattoliche, benché assai ridotte come numero di membri, svolgono un ruolo prezioso nell’ambito dell’istruzione, attraverso la gestione di scuole con ciclo completo, primario, secondario e superiore, e la gestione di un gran numero di scuole primarie e secondarie diffuse sia nei quartieri urbani sia nelle zone rurali. Attualmente esistono in Egitto 167 scuole cattoliche con circa 123.130 allievi di cui il 60% sono musulmani. Sempre riguardo al sistema scolastico bisogna notare che vi è discriminazione riguardo all’insegnamento della religione: mentre la religione islamica è insegnata da appositi insegnanti, la religione cristiana è per legge insegnata da un qualsiasi insegnante cristiano presente nella scuola, il quale spesso non viene neppure retribuito per tale insegnamento. Il mantenimento in vigore dell’ordinamento giuridico familiare islamico tradizionale e la legge vigente riguardante la costruzione di edifici di culti cristiani e la loro manutenzione sono altri due aspetti riguardo ai quali la legge esistente in Egitto mantiene i cristiani in una evidente posizione subalterna de iure. Nel primo caso, comune a tutti i paesi musulmani senza eccezione, la religione islamica conserva sempre la sua prevalenza nel matrimonio misto. Inoltre i cristiani considerano un torto perpetuato nei loro confronti che le riforme giurisdizionali apportate negli anni cinquanta, con cui sono state abrogate le giurisdizioni civili dei tribunali religiosi, abbiano stabilito che nel caso di matrimonio misto tra due cristiani di rito diverso si applichi, in caso di contenzioso, il diritto di famiglia musulmano. Nel caso invece riguardante le norme per la costruzione di edifici di culto cristiani, è ancora in vigore la hatti humayun, che è una GIORDANIA Popolazione totale 3 (in milioni) Confessioni Cristiani Sunniti legge assai restrittiva: questa legge egiziana prescrive che per costruire una chiesa occorra un apposito decreto presidenziale, il quale può essere emesso previo accertamento che sussistano tutta una serie di condizioni di difficile realizzazione; tra le condizioni richieste è essenziale una certa distanza dalla più vicina moschea; niente di simile è invece chiesto ai musulmani, per i quali la costruzione delle moschee è del tutto libera. Analoghi permessi di difficile ottenimento sono richiesti anche per restaurare edifici di culto già esistenti. La cittadinanza egiziana non riesce dunque a conferire ai cristiani egiziani la pienezza dei diritti riconosciuti ai musulmani egiziani, sia riguardo all’inserimento politico e all’accesso ad alcuni settori professionali, sia riguardo al diritto familiare e alla libertà di culto. Questo da un lato comporta che la chiesa copta cerchi continuamente di rafforzare la propria dimensione comunitaria istituzionale per mantenere vivace l’identità cristiana tra i suoi membri e per presentarsi come interlocutore ufficialmente riconosciuto dallo stato; dall’altro però proprio tale dinamica di rafforzamento intracomunitario, nonché l’appoggio evidente dato all’attuale governo in un’ottica di coesione nazionale, nonostante la permanenza di leggi e % sulla popolazione 4 95 di prassi burocratiche ufficiali discriminatorie nei confronti dei cristiani, sono i chiari sintomi di una percezione del proprio essere una minoranza, che si traduce in altrettanti sforzi per garantirsi la gestione di uno spazio che non sempre viene chiaramente riconosciuto né dal diritto né dalla prassi sociale. D’altra parte è probabile che nel momento attuale, caratterizzato dall’emergere di posizioni islamiche integraliste, riforme atte ad abolire il diverso trattamento fatto ai cristiani troverebbero fortissime difficoltà anche presso le istituzioni islamiche ufficiali dipendenti dallo stato, dal cui appoggio lo stato stesso non può prescindere nella lotta contro il fondamentalismo. Il caso dell’Egitto, per la complessità delle forze in gioco che comprendono le strategie dei cristiani, le dinamiche dei musulmani nelle loro diverse componenti, e infine il ruolo e il potere dello stato, mostra in modo evidente come il raggiungimento della piena cittadinanza civile e politica da parte dei cristiani in uno stato di cultura arabo-musulmana sia profondamente inserito nel più ampio e delicato processo di evoluzione culturale e politica che nello stesso stato, in questo caso l’Egitto, si sta svolgendo, e che il percorso per arrivare a tale esito è ancora lungo e irto di difficoltà. 21 GIORDANIA La Giordania si presenta istituzionalmente come uno stato musulmano, in quanto l’islam è la religione ufficiale del regno, e la monarchia ashemita al potere può vantare un’ascendenza diretta dal profeta Muhammad, che le permette di legittimare la propria autorità sia sul fronte interno sia sul piano internazionale della più ampia comunità musulmana. In questo senso quindi la Giordania non professa nessun tipo di ideologia laica, ma i valori dell’islam sono ufficialmente affermati. Tuttavia lo stato giordano, a partire dalla sua creazione e dall’indipendenza riconosciutagli nel 1946, è stato aperto a un rilevante processo di modernizzazione soprattutto nel campo giuridico e legislativo, in cui si è fatto ampio ricorso al diritto occidentale, limitando il diritto musulmano o confessionale proprio di altre comunità al solo diritto familiare e alla gestione delle proprietà religiose. In una società in cui la componente musulmana costituisce il 95% della popolazione, i cristiani sono circa 150.000, cioè il 4,2% della popolazione totale. Essi sono ripartiti in una decina di chiese, di cui le più rilevanti e numerose sono la chiesa grecoortodossa con circa 81.000 fedeli, la chiesa greco-cattolica con 22.000, la chiesa latina con 35.000 e la chiesa protestante con circa 5.000 membri. Il panorama dei cristiani in Giordania appare dunque piuttosto frammentato in un mosaico di diverse comunità. Da un punto di vista istituzionale i cristiani godono di una serie di garanzie giuridiche riguardo ai loro diritti: nella Costituzione giordana infatti si sancisce che tutti i cittadini hanno eguali diritti e doveri indipen- La rappresentanza politica dei cristiani: Giordania Camera Bassa 9 deputati su 80 22 dentemente dalla loro appartenenza religiosa, e viene garantita la libertà di culto e di insegnamento delle congregazioni cristiane. Dal momento che i cristiani sono l’unica minoranza significativa in Giordania, è evidente che fin dagli inizi del nuovo stato si è voluto porre le basi giuridiche istituzionali per una convivenza armonica tra componente musulmana e cristiana. Questa precisa volontà politica di garantire il ruolo dei cristiani appare anche sul piano politico istituzionale: dal 1946 fino a oggi, è stata garantita per legge ai cristiani una rappresentanza minima in Parlamento. Attualmente la Camera Bassa conta ottanta membri di cui nove devono essere cristiani, mentre in Senato i seggi riservati ai cristiani sono quattro. Tutti i rappresentanti parlamentari sono eletti in collegi comuni in cui votano gli iscritti indipendentemente dalla appartenenza religiosa. Di solito anche nel governo è sempre presente qualche cristiano, talora anche con ministeri importanti come quello degli Esteri o quello delle Finanze. L’inserimento politico dei cristiani giordani è dunque buono, e questo è sempre un indice importante per misurare la reale integrazione di una componente sociale nell’insieme, in particolare poi quando si tratta delle comunità cristiane nel mondo musulmano. Anche nel più vasto contesto sociale i cristiani sono bene inseriti sia nell’amministrazione pubblica sia nelle libere professioni, con una percentuale molto alta di popolazione cristiana appartenente alle classi medio-alte con un alto livello di istruzione. In Giordania anche la carriera militare è aperta ai cristiani, probabilmente per l’influenza che ancora esercita sulla società giordana l’antica struttura tribale araba, cui appartengono la gran parte dei cristiani giordani, con l’eccezione di quelli d’origine palestinese. Inoltre, le chiese cristiane sono molto presenti nella società giordana sia sul piano educativo, con una grande quantità di scuole gestite dalle principali confessioni, sia sul piano sociosanitario, con ospedali e centri ambulatoriali. Soprattutto il sistema scolastico della chiesa latina, che è molto sviluppato e articolato, gode di ottima fama nella società giordana ed è assai frequentato anche da allievi musulmani. La situazione dei cristiani in Giordania sembra dunque particolarmente felice rispetto ad altri stati arabi, perché in Giordania si coniugano attualmente sia precise garanzie istituzionali per i cristiani, sia un generale processo di apertura alla democratizzazione della vita del paese, sia una condizione economica positiva dei cristiani che permette loro di essere presenti in modo articolato nelle varie dimensioni della vita sociale. Tuttavia anche in Giordania vi sono elementi di preoccupazione per il mantenimento futuro di tale situazione, legati all’espandersi dei nuovi movimenti politici islamici, in particolare i Fratelli Musulmani. La loro influenza è forte soprattutto tra i giovani di origine palestinese, e nelle elezioni del 1989 hanno conquistato trentaquattro seggi su ottanta, di cui ventidue ottenuti dai Fratelli Musulmani. In occasione della guerra del Golfo i deputati appartenenti ai movimenti islamici hanno messo in difficoltà il governo contestandone la linea politica, e proprio in quell’occasione sono stati allora chiamati a fare parte del governo per diluire la loro opposizione. Nel breve periodo in cui hanno detenuto il Ministero dell’Educazione i Fratelli Musulmani hanno sistematicamente posto gli esami nelle date delle feste cristiane e sono state interposte difficoltà a insegnanti cristiani. Inoltre i Fratelli Musulmani tendono a diffondere un’ideologia che per affermare la superiorità dell’islam mira a diminuire i diritti delle comunità cristiane: la conseguenza è che anche in Giordania si sono verificati alcuni incidenti interconfessionali. Il rischio è che questa ideologia si diffonda e che si trasformi in pressione sociale aggressiva verso i cristiani locali, i quali anche adesso si lamentano talvolta di subire discriminazioni nella pratica sociale quotidiana e professionale. Che il pericolo di questa involuzione sussista è dimostrato dal fatto che si sono intensificate le iniziative della monarchia per porre basi sempre più solide ai rapporti tra cristiani e musulmani in Giordania: dalla metà degli anni ottanta è attivo l’istituto Interfaith per il dialogo interreligioso e nel 1994 il principe ereditario Hassan ha pubblicato il libro Christianity in the Arab World, in cui ribadisce l’origine autoctona dei cristiani arabi e li riconosce come parte integrante della società araba. Sono queste due iniziative di grande importanza simbolica, che da un lato rivelano la necessità di continuare ad affermare convinzioni e tradizioni messe a rischio dai nuovi movimenti islamici, dall’altra mostrano anche la precisa e continua volontà della casa regnante di fungere da mediatore per mantenere l’armonia tra le diverse confessioni nell’adesione allo stato giordano. Le iniziative della monarchia si inseriscono in una più ampia strategia di lotta contro i nuovi movimenti dell’islam politico, che preoccupano non solo i cristiani ma anche molti musulmani. In questo senso, è un segnale positivo che nelle ultime elezioni del 1993, svoltesi secondo la nuova legge elettorale, i movimenti islamici abbiano visto diminuire sensibilmente il proprio consenso politico: solo sedici candidati dei Fratelli Musulmani sono stati infatti eletti alla Camera. Tuttavia appare evidente che il mantenimento di tale situazione di equilibrio e i suoi ulteriori miglioramenti sono strettamente dipendenti dalla capacità della monarchia di esercitare un’efficace mediazione politica e sociale: questo spiega il grande attaccamento che sia i cristiani sia la gran parte della popolazione giordana hanno per il re, come garante del rafforzamento della vita democratica e dello stato di diritto inerente alla cittadinanza. ISRAELE E PALESTINA interessata al processo di pace e sta progressivamente conseguendo l’autonomia. Ancora incerto è invece il futuro assetto di Gerusalemme, la città santa che ha un valore simbolico unico per i cristiani e per gli ebrei, e che ha un profondo significato religioso anche per i musulmani. Nello stato di Israele i cristiani sono circa 105.000, ovvero il 2,1% della popolazione totale che ammonta a 5.414.000 persone. La popolazione araba comprende oltre ai cristiani circa 720.000 musulmani e 82.000 drusi. I cristiani sono localizzati soprattutto in Galilea nei dintorni di Haifa e di Nazareth, e verso il Sud presso Giaffa, Lud e Ramleh. Nel panorama del Medio Oriente Israele è un esempio di stato democratico di per sé laico, in cui i cristiani in linea di principio godono di tutte le libertà previste per i cittadini. In questo senso vi è uno stato reale di diritto stabilito, di cui tutti i cittadini, compresi i cristiani, godono, ed è assente quella condizione di precarietà giuridica e politico-civile che è propria per lo più dello statuto di comunità religiosa non musulmana negli stati di cultura musulmana prevalente. La migliore situazione giuridica non significa però che i cristiani arabi di Israele godano sempre di una piena integrazione nella società israe- liana, anche se più dei musulmani essi hanno cercato di integrarsi nel nuovo stato. In effetti, in Israele la dimensione religiosa ebraica nella sfera pubblica e sociale è molto pronunciata, e la situazione conflittuale con gli arabi ha incluso anche i cristiani di Israele in un alone di sospetto. D’altra parte le difficoltà di integrazione della componente araba nella società israeliana sono rese evidenti da alcuni indici significativi: il tasso di disoccupazione degli arabi è del 20% contro il 10% della media nazionale; solo il 5% degli studenti universitari in Israele è arabo; in generale le sovvenzioni dello stato alle collettività locali privilegiano largamente le municipalità ebraiche a detrimento di quelle arabe, sia cristiane sia musulmane. Bisogna poi aggiungere che la diffidenza verso la componente araba ha indotto a escludere gli arabi da certe professioni, in particolare dalla maggior parte delle professioni tecnicoscientifiche. Questo ha generato, soprattutto tra gli intellettuali arabi cristiani, una sorta di disillusione verso Israele, che non sembra concedere loro quell’integrazione piena prevista in linea di principio dal diritto dello stato. La disillusione diventa tanto più grave in quanto gli arabi cristiani sono convinti di avere contribuito a proprie spese alla nascita ISRAELE E PALESTINA Popolazione totale 5,5/1,8 (in milioni) Confessioni Cristiani Musulmani Drusi Ebrei % sulla popolazione 2/4 13/96 1,5/83/- A partire dal 1948 le antiche comunità arabe cristiane palestinesi si sono trovate inserite in parte nel nuovo stato di Israele, in parte su quei territori della Cisgiordania che hanno conosciuto dapprima la sovranità giordana e dal 1967 l’occupazione israeliana; questa ultima area è adesso 23 dello stato di Israele, in quanto la maggior parte delle famiglie ha perso proprietà immobiliari, confiscate nel 1948 e in epoca successiva dal nuovo stato e devolute a famiglie o istituzioni ebraiche. Da questo punto di vista sarebbe auspicabile da parte di Israele una politica concreta più attenta a favorire l’integrazione degli arabi israeliani, che i cristiani sembrano i più aperti ad accettare. Anche in Israele i cristiani rappresentano in media il settore più colto all’interno della popolazione araba: più della metà degli studenti universitari arabi in Israele sono cristiani, mentre la popolazione musulmana è sei volte più numerosa. D’altra parte i cristiani sembrano più decisi ad avere buone relazioni con la popolazione ebraica, purché tra quest’ultima non si espandano correnti culturali di ispirazione integralista. E’ auspicabile in questo senso che il processo di pace con i Palestinesi diffonda i suoi riverberi positivi anche all’interno di Israele. Nei territori palestinesi autonomi i cristiani sono circa 76.300 cioè il 3,8% della popolazione, che è per il resto interamente musulmana. I cristiani sono concentrati soprattutto nelle tre cittadine di Betlemme, Bet Jalla e Beit Sahour, e in misura oggi minore a Gerusalemme, a Ramallah e in altri villaggi limitrofi. Il numero dei cristiani è minimo a Gaza dove non superano le 3.000 persone. In tutta quest’area i cristiani sono parte integrante della popolazione palestinese, e la lotta per l’autonomia nazionale è stata un elemento di forte coesione tra la componente musulmana e quella cristiana. Anche all’interno dell’OLP vi sono molti cristiani con funzioni di responsabilità che hanno avuto parte attiva nel condurre i negoziati di pace. Solo negli ultimi tempi il rafforzarsi del movimento islamico radicale Hamas ha generato preoccupazioni in ambito cristiano, per gli influssi che esso potrà avere nel futuro stato palestinese. E’ auspicabile che i risultati delle elezioni del gennaio 1996 mostrino lo scarso seguito di Hamas fra la popolazione. Per il Consiglio dell’autonomia palestinese in queste elezioni sono stati riservati ai cristiani 6 seggi su 88. Attualmente è in corso di definizione la bozza di una carta 24 costituzionale per il nuovo stato, che si vuole ispirare ai principi della laicità, e anche le chiese cristiane sono state interpellate per avere un parere sulla bozza di costituzione proposta. Questo atteggiamento fa sperare che i cristiani possano godere in pieno del proprio statuto di cittadini, senza subire limitazioni da parte di leggi di ispirazione islamica. Da parte cristiana si auspica che il procedere dei negoziati di pace e l’invio dei sostegni economici necessari pongano le basi per un inizio solido del nuovo stato, e che questo serva a consolidare il processo di democraticizzazione e a disinnescare le opposizioni di Hamas. Rimane invece tuttora aperta la questione di Gerusalemme, che si profila non certo priva di potenzialità conflittuali per il futuro. Almeno tre proposte politiche esistono per dare una soluzione al problema: quella prevalente in ambiente israeliano che vuole Gerusalemme capitale di Israele, e che trova localmente l’opposizione dei Palestinesi e delle chiese; la proposta palestinese e delle chiese cristiane locali è invece di riconoscere Gerusalemme come capitale dei due stati, riconoscendo giuridicamente il fatto che essa è costituita da due parti, quella araba e quella israeliana; infine vi è la proposta di rendere Gerusalemme città aperta sotto l’egida internazionale, che localmente non trova molti sostenitori. Al di là del profondo significato simbolico, Gerusalemme ha un ruolo sociale e territoriale ben rilevante: è infatti l’unica vera città disponibile per le cittadine palestinesi dei dintorni, come Betlemme, Bet Jalla e Beit Sahour, i cui abitanti hanno con Gerusalemme contatti quotidiani dei più vari generi: se essa diventasse solo israeliana diventerebbe molto difficile avervi accesso, perché si tratterebbe di entrare ogni volta in uno stato straniero; con tutte le difficoltà che già oggi, con i posti di controllo posti al limite dei territori destinati all’autonomia, stanno venendo alla luce. In passato le comunità cristiane palestinesi sono tra quelle che più hanno sofferto a causa dei continui conflitti, e l’indice più evidente di tale situazione che tuttora fa sentire la sua influenza è la forte emigrazione da cui sono state colpite. Se rispetto al 1947 il numero totale dei cristiani non è forse diminuito, tuttavia la loro percentuale ha oggi dei livelli assai inferiori: la crescita demografica è stata bloccata non solo da un ritmo di crescita inferiore a quello dei musulmani, ma soprattutto dalla continua emigrazione che ha segnato e segna le comunità cristiane. Nel 1947 Betlemme aveva il 75% di popolazione cristiana, oggi ridotta al 33%; questa stessa percentuale si ha oggi a Ramallah, che contava nel 1947 l’80% di popolazione cristiana; analoghe diminuzioni si sono avute in tutti i villaggi e cittadine, con l’eccezione di Beit Sahour e di Bet Jalla. Infine l’esempio più rilevante anche a livello simbolico della diminuzione della presenza cristiana nell’area è rappresentato da Gerusalemme, in cui vivono attualmente solo 10.000 cristiani arabi, contro i 31.000 del 1947. Il fenomeno dell’emigrazione è dunque la più grande piaga per le comunità cristiane della Palestina, ed è la principale preoccupazione per le chiese che temono la sparizione di comunità cristiane locali proprio nei luoghi che hanno visto nascere la prima comunità cristiana. Di fronte alle prospettive di un processo di pace duratura che porti alla stabilità politica, economica e sociale, è probabile che la tendenza a emigrare possa diminuire fortemente, soprattutto tra i cristiani. Da parte loro, le varie chiese cercano di moltiplicare le iniziative per cercare di fornire ai propri fedeli servizi e infrastrutture, necessari soprattutto nelle zone palestinesi: accanto alle scuole, tradizionalmente numerose sia in Israele sia nei territori palestinesi, le chiese gestiscono ospedali e centri sanitari, e negli ultimi anni hanno anche iniziato progetti di costruzione di case per le famiglie, sia promuovendo forme cooperative sia costruendo in proprio e dando poi le case in affitto a prezzi molto modici. Il problema della casa è infatti molto sentito ed è uno dei fattori che spesso induce a emigrare le famiglie di nuova costituzione. Nonostante questi sforzi siano lodevoli, essi potrebbero essere certamente più efficaci se vi fosse mag- giore collaborazione tra le chiese; invece, la mancanza di unità a livello progettuale nel medio termine indebolisce l’esito dei vari sforzi e non si tiene in alcun conto l’esigenza di inserirli in una strategia comune condivisa dalle varie gerarchie e istituzioni religiose. La cosa diventa poi più grave quando la mancanza di coesione si traduce nel perseguimento di politiche concrete opposte: così se da un lato il patriarca latino considera uno dei più grandi problemi quello della vendita delle terre dei cristiani a musulmani ed ebrei, una delle principali istituzioni cristiane che vende i terreni è il patriarcato ortodosso di Gerusalemme. In questo senso bisogna riconoscere che la mancanza di unità tra le chiese indebolisce profondamente i cristiani in Palestina, perché tale divisione non è solo a livello dogmatico o di rito, ma si manifesta nell’assenza di una collaborazione che cerchi di individuare linee per la soluzione dei problemi, in modo da mantenere delle comunità cristiane a Gerusalemme, in Israele e nei territori palestinesi. A questo proposito, si osservi che fino al 1991, anno di fondazione della Conferenza episcopale inter-rituale, non esisteva nessun organo collegiale in cui tutti i vescovi delle diverse chiese cattoliche presenti in Israele e Palestina potessero confrontarsi su problemi comuni. Infine un ulteriore problema interno è rappresentato dal divario esistente tra comunità e gerarchia. Il problema è evidente in particolare nella chiesa greco-ortodossa del Patriarcato di Gerusalemme in cui i vescovi sono tutti greci di nazionalità, lingua e cultura, mentre i fedeli e i parroci sono tutti arabi: questo divario crea una vera e propria frattura interna alla comunità e impedisce un’azione pastorale efficace. Talvolta si ha l’impressione che qualcosa di simile si verifichi anche nella chiesa latina, laddove la gestione delle parrocchie sia affidata a preti o religiosi stranieri, che di solito non mancano di iniziative sociali verso i propri fedeli ma non riescono a condividerne in profondità le aspettative culturali, sociali e politiche attraverso cui passa il radicamento in una società concreta. Da questo punto di vista la chiesa latina ha fatto IRAQ Popolazione totale 19 (in milioni) Confessioni Cristiani Sciiti Sunniti arabi Sunniti curdi Yezidi % sulla popolazione 3 49 25 22 0,5 però notevoli passi avanti: per la prima volta il patriarca latino è oggi un arabo di Nazareth, e arabi sono circa i due terzi dei preti diocesani. L’elemento straniero prevale invece di gran lunga tra i religiosi delle varie congregazioni che tengono in Israele e nei territori palestinese numerose istituzioni scolastiche, sanitarie o contemplative. Tra i religiosi un’importanza particolare hanno i Francescani, ai quali fin dal Medioevo è affidata la Custodia della Terra Santa. In sintesi, dal punto di vista sociale e politico sia in Israele sia, soprattutto, in Palestina sembra che si stiano aprendo nuove prospettive per le comunità cristiane arabe: esse hanno però subito un’emorragia consistente dei propri membri che è difficilmente ricuperabile. La sfida che pone il futuro a queste comunità è di elaborare delle strategie che cerchino di rafforzare le proprie radici in un contesto politico generale più stabile e propizio e, seppure non troppo numerose, di esercitare un ruolo culturale e sociale significativo nelle due entità statali di appartenenza. IRAQ Attualmente i cristiani in Iraq sono circa 616.000, pari al 3,2% della popo- lazione totale. Sebbene anche qui i cristiani siano suddivisi in diverse chiese, vi è tuttavia attualmente una netta prevalenza della chiesa caldea, cui appartiene il 70% dei cristiani iracheni; le altre comunità più consistenti appartengono alla chiesa assira, alle chiese siriaca ortodossa e siriacacattolica e alla chiesa armena apostolica. La chiesa caldea e la chiesa assira sono originarie dell’area, tanto che i loro membri sono quasi esclusivamente presenti in Iraq o nei paesi di emigrazione, con solo piccoli gruppi nei paesi limitrofi del Medio Oriente. La comunità assira ben più numerosa fino agli anni trenta di questo secolo e diffusa in particolare nell’area curda, suddivisa tra Turchia, Iran e Iraq, ha subito perdite gravissime sia nella seconda metà del secolo XIX sia nel 1933 quando fu colpita da massacri attuati nel primo caso dalle truppe ottomane, nel secondo caso dalle truppe regolari del nuovo stato iracheno, che sospettavano gli assiri di volontà di autonomia politica. Gli assiri superstiti scelsero in gran parte la via dell’emigrazione, e questo spiega la presenza di una comunità assira negli Stati Uniti ben più numerosa di quella attualmente in Iraq. La zona di popolamento cristiano in Iraq era tradizionalmente 25 rappresentata dalle regioni settentrionali: tuttavia sia in seguito agli eventi del 1933, sia più recentemente in seguito all’intensificarsi nella zona del conflitto curdo, si è verificata una migrazione interna che ha portato la maggior parte dei cristiani verso il Sud del paese, in particolare nell’area di Baghdad. Anche la sede del patriarca caldeo è stata trasferita da Mossul a Baghdad. Dal punto di vista della situazione politica dal 1963 è al potere in Iraq il partito Baas, con solo un breve intervallo terminato nel 1968 con la salita al governo di Saddam Hussein, appartenente a tale partito. L’ideologia del Baas, laica e nazionalista, di per sé tende a limitare il ruolo delle religioni, e insiste sull’identità araba comune attraverso cui costruire l’adesione allo stato iracheno. Da questo punto di vista viene riconosciuta la libertà di culto a tutti i cittadini, i quali hanno eguaglianza di diritti davanti allo stato, indipendentemente dalla religione. Nonostante questa affermazione di laicità l’islam è però riconosciuto in Iraq come religione di stato, e il diritto musulmano permea molta parte del diritto privato. Occorre poi considerare che al di là di una maggiore concessione di diritto fatta all’islam, il regime di Saddam Hussein è tipicamente dittatoriale, e tutte le attività delle varie confessioni religiose sono strettamente controllate, nel timore che diano origine a fenomeni di dissenso verso il regime. In questo senso dunque la libertà in Iraq è minima da tutti i punti di vista, e il controllo dello stato è incombente in tutte le dimensioni della vita. Da un punto di vista dell’appartenenza religiosa musulmana l’Iraq ha una particolarità rispetto agli altri paesi arabi: più della metà della sua popolazione è infatti sciita, con legami stretti, soprattutto a livello di gerarchia, con gli sciiti dell’Iran. Anche in Iraq gli sciiti hanno forti propensioni a seguire l’ideologia politica degli sciiti iraniani, che nel 1979 hanno proclamato la Repubblica Islamica: di fronte a questo pericolo il governo a partire dal 1976 da un lato ha statalizzato l’organizzazione sciita, sopprimendo l’autonomia di gestione dei beni religiosi e trasformando gli imam in funzionari 26 dello stato, stipendiati e controllati; dall’altro ha cercato il consenso dei musulmani sunniti e delle comunità cristiane. Lo statuto di queste ultime è stato però in pericolo nel 1981, quando un progetto di legge, poi sospeso, voleva estendere anche alle chiese cristiane la statalizzazione. In questo contesto politico e socioreligioso molto complesso e difficile, i cristiani iracheni si trovano in una situazione ambivalente. Dal punto di vista economico la comunità cristiana è nell’insieme prospera. Nonostante molti imprenditori abbiano subito gli esiti negativi delle nazionalizzazioni degli anni sessanta, lo sviluppo economico degli anni successivi ha visto i cristiani in prima linea con ottimi successi. I cristiani sono inoltre ampiamente presenti nelle professioni liberali, data la loro elevata istruzione: si calcola ad esempio che il 20% degli insegnanti iracheni sia cristiano. A questa prosperità economica si accompagna però una decisa marginalità politica: in tutti gli organi dello stato e del partito Baas i cristiani sono quasi assenti. Anche nell’Assemblea Nazionale eletta nel 1984 figurano solo quattro cristiani su duecentocinquanta deputati, pari all’1,6 dell’intero parlamento, con una percentuale di molto inferiore a quella demografica. All’interno dell’amministrazione statale i cristiani sono assenti nelle alte cariche, mentre sono abbastanza numerosi nelle funzioni medie, grazie alla loro buona istruzione e alla conoscenza dell’estero. Il fatto che il Ministro degli Esteri Aziz sia cristiano è una vera eccezione, e non deve indurre a credere che i cristiani iracheni abbiano grande rilievo nell’apparato governativo e statale. Anche nell’esercito fino ad epoca recente era proibito ai cristiani l’accesso all’insegnamento militare superiore: solo a partire dalla guerra con l’Iran esso è stato loro aperto e qualche cristiano è diventato ufficiale; questa apertura è stata causata sia dalle esigenze belliche sia dalla strategia politica del governo di favorire la coesione di cristiani e sunniti di fronte agli sciiti. La marginalità politica dei cristiani in Iraq può essere compresa in base a due ordini di motivi: in primo luogo, La rappresentanza politica dei cristiani: Iraq Assemblea Nazionale 4 deputati su 250 nonostante l’ideologia laica del partito Baas, continua ad esercitare una forte influenza il concetto proprio dell’islam che il potere politico deve essere gestito dai musulmani; inoltre l’islam è riconosciuto dal partito Baas iracheno come una componente importante ed essenziale della cultura araba, mentre lo stesso statuto ideologico non è riconosciuto al cristianesimo; inoltre la gestione del potere, come in molti paesi arabi, avviene in Iraq sulla base di alleanze familiari e clientelismi, in cui i musulmani sunniti hanno un ruolo prevalente, specie in ottica antisciita. In secondo luogo gli stessi cristiani non sembrano propensi nell’attuale situazione a un forte impegno politico, e tendono essi stessi a scegliere la marginalità in questo campo: da un lato infatti non è possibile esercitare alcun dissenso contro il governo al potere, dall’altro un’alleanza troppo evidente e attiva con il governo potrebbe nuocere in futuro alle relazioni con la maggioranza sciita, qualora essa prendesse il potere. In Iraq quindi il nodo essenziale delle questioni politico-religiose si gioca tra le componenti musulmane maggioritarie tra loro avverse, tra le quali i sunniti sostengono il governo attuale proponendosi di dare spazi più larghi all’islam nella società sotto il controllo rigido dello stato, mentre gli sciiti sono in gran parte filo-iraniani e, come ha dimostrato la rivolta sciita di Bassora del 1991, vorrebbero rovesciare l’attuale situazione e instaurare un governo di tipo islamico di ispirazione iraniana. E’ chiaro che se entrambe le prospettive politiche sono ben lontane da assicurare ai cristiani uno stato di diritto duraturo, tuttavia la seconda è vista con timore molto maggiore. Il timore di un’islamizzazione maggiore dello stato e della società, nonché la prospettiva di ripercussioni negative immediate in caso di dissenso, conduce quindi le gerarchie delle varie chiese, e in particolare il patriarca caldeo, a sostenere pubblicamente l’attuale regime, che pur sotto rigidi controlli consente alle chiese degli spazi di azione. Un esempio di iniziativa pubblica a finalità politiche interne e internazionali è stato ad esempio il convegno organizzato ai primi di luglio del 1995 a Baghdad dalla chiesa caldea, sotto l’egida del Ministero per gli Affari Religiosi, con cui si è condannata l’attuale linea politica internazionale contro l’Iraq. Vi sono d’altra parte ragioni concrete che spingono le chiese ad appoggiare il governo: in effetti in Iraq la libertà di culto per i cristiani è assicurata in modo pieno, senza favoritismi, finora, per i musulmani: le chiese possono essere costruite senza difficoltà anche vicino alle moschee, le riunioni per l’attività pastorale, per il catechismo e per manifestazioni sociali necessitano di autorizzazioni che sono generalmente conferite. L’insegnamento del catechismo nelle scuole è autorizzato se almeno il 25% degli allievi è cristiano. In questo contesto le chiese hanno numerose infrastrutture utilizzate per il culto, per la pastorale e per le opere di assistenza: queste ultime si sono ulteriormente sviluppate in seguito alla guerra del Golfo e all’embargo posto all’Iraq, e per meglio gestirle il patriarca caldeo ha fondato la Caritas Irachena. Sono assenti invece le scuole cristiane, nazionalizzate alla fine degli anni sessanta, ma esiste un seminario maggiore per la formazione del clero di tutti i riti e un istituto per la formazione dei catechisti. Se la situazione dei cristiani in Iraq è contrassegnata da luci e ombre rispetto alle dinamiche politiche e religiose interne allo stato, le comunità cristiane sono in prima linea di fronte a un nuovo problema, sorto in seguito alla guerra del Golfo e all’embargo imposto all’Iraq: il problema dell’emigrazione. Se in altri stati l’emigrazione dei cristiani arabi esisteva da lunga data, in Iraq, se si eccettua il caso degli assiri nella prima metà del secolo, essa è un problema del tutto recente, date le generali buone condi- zioni economiche delle comunità cristiane. Tuttavia l’emigrazione sta oggi avvenendo a ritmi rilevanti: si calcola che circa un sesto della popolazione cristiana sia emigrata dal 1991, e il 30% degli iracheni che attualmente passano la frontiera giordana sono cristiani. Anche in questo caso l’emigrazione significa perdite umane e intellettuali rilevanti, e per le comunità che restano in Iraq si traducono in un indebolimento che rischia di limitare fortemente il possibile ruolo che i cristiani potranno svolgere nel paese, tanto più che finora i flussi emigratori non accennano a cessare. SIRIA La Repubblica Araba Siriana conta una popolazione cristiana piuttosto numerosa, anche se difficile da stimare con precisione: vi sono infatti stime minime relative a circa un milione di cristiani, fino a stime che li portano a un milione e mezzo, con un’incidenza percentuale sulla popolazione globale che va dal 7,1 al 10% circa. Una caratteristica del cristianesimo siriano è la sua composizione multiforme: tutte le chiese orientali vi sono rappresentate, con l’eccezione di quella copta, e tutte hanno comunità di un certo rilievo, anche se la più numerosa è la greco-ortodossa. Come in Iraq anche in Siria è al potere il partito Baas, e dopo un lungo periodo caratterizzato da vari colpi di stato, dal 1970 il potere è gestito dal presidente Assad. A differenza dell’Iraq il partito Baas in Siria ha mantenuto in modo più spiccato i suoi connotati laici: così nella Costituzione siriana l’islam non è riconosciuto come religione di stato, e solo dopo molte pressioni nel 1973 è stato inserito l’obbligo per il capo di stato di essere musulmano. Questa minore influenza dell’islam trova la sua spiegazione nella composizione più accentuatamente pluriconfessionale della Siria: accanto ai musulmani sunniti vi sono infatti la componente alevita, che conta circa l’11% della popolazione, la componente drusa e la componente cristiana. La presenza di diverse componenti confessionali di fronte ai sunniti spiega, da un lato, lo sviluppo in questo secolo di un’ideologia più attenta alla laicità delle istituzioni e insieme favorevole alle minoranze contro i pericoli di un islam sunnita pervasivo; dall’altra, la componente pluricomunitaria della società siriana mantiene tutt’oggi un’importanza non solo a livello culturale e ideologico, ma a livello politico concreto: il presidente Assad è infatti alevita, ed è la minoranza alevita a gestire attualmente il potere in Siria, con SIRIA Popolazione totale 13 Confessioni (in milioni) Cristiani Sunniti Aleviti Drusi Ismaeliti % sulla popolazione 7÷10 75 11 3 1 27 La rappresentanza politica dei cristiani: Siria Assemblea Popolare 4 deputati su 250 l’appoggio degli altri gruppi minoritari, compresi i cristiani. Nonostante questa situazione gli indici di un effettivo inserimento politico dei cristiani non sono però numerosi: solo quattro deputati su duecentocinquanta sono cristiani, mentre meglio rappresentati sono i cristiani nell’amministrazione e nella diplomazia. Nel governo vi sono sempre alcuni ministri cristiani, seppure con incarichi per lo più tecnici. Nell’esercito gli ufficiali cristiani non mancano, e nel 1973 il generale cristiano Chakkour è stato capo di stato maggiore: è certo un’eccezione, che ha però il suo significato. Nell’ambito di un contesto politico segnato da un deciso autoritarismo, lo stato esercita la sua tutela sulle chiese lasciando però a esse spazi notevoli. Le comunità cristiane hanno libertà totale di comprare terreni e costruire chiese, case e le varie strutture pastorali, con l’aiuto dello stato. Inoltre fino dal 1936 i beni delle chiese cristiane dipendono direttamente dal Consiglio dei ministri, con la conseguenza che le chiese dispongono liberamente dei propri beni e che i membri del clero non sono funzionari dello stato. I preti sono inoltre esentati dal servizio militare. Nelle scuole vi sono corsi di religione cristiana e sono obbligatori per gli studenti cristiani. La collaborazione tra lo stato e società caritative cristiane si esprime poi in uno spettro di attività molto ampio, diretto a tutta la popolazione. Il panorama politico e statale generale sembra dunque favorevole alle comunità cristiane, le quali tuttavia, insieme ad altre componenti della società siriana, devono affrontare la sfida posta dall’islamizzazione. Anche in Siria infatti a partire dagli anni settanta era cresciuta l’influenza dei 28 movimenti islamici, che premevano per una maggiore islamizzazione del diritto, dello stato e della società e avevano anche dato origine a episodi di intolleranza interconfessionale. L’azione politica pubblica di tali movimenti, in particolare dei Fratelli Musulmani, si è poi intensificata dopo il 1979, anno della rivoluzione iraniana, esprimendosi come aperta contestazione dell’ideologia Baas, qualificata «atea», e del governo di Assad. Di fronte al crescere del fenomeno che rischiava di destabilizzare lo stato, il governo è ricorso alla repressione con l’uso della forza, in particolare nella città di Hama, che era la roccaforte dei Fratelli Musulmani. In seguito i servizi segreti hanno continuato a svolgere un’azione continua per neutralizzare gli islamisti. Queste vicende, e il timore che avevano ingenerato tra i cristiani e i musulmani moderati, spiegano l’appoggio di cui gode il governo, nonostante il suo autoritarismo e il forte controllo dello stato in tutte le sfere della vita politica e civile. Tale appoggio non fa che rafforzarsi oggi di fronte all’espandersi dell’islam radicale in altri stati arabi, come l’Algeria e l’Egitto. Il ricorso all’uso della forza per contenere l’involuzione in senso radicale di una parte non insignificante dell’islam sunnita mostra però come anche in Siria l’evoluzione culturale dell’islam verso la ricezione di concetti come la laicità delle istituzioni statali o il pluralismo religioso basato su eguali diritti sia ancora lungi dall’essersi consolidata. Questo è ancora più grave se si pensa che la Siria ha avuto nel recente passato un grande ruolo culturale all’interno della nahda, in cui tali concetti innovatori proposti come base dello stato arabo moderno hanno avuto le più felici formulazioni. Vista la ricezione ancora parziale a livello diffuso di tali valori, non stupisce che anche in Siria cresca nei cristiani il sentimento di una precarietà persistente che talvolta cerca soluzione nell’emigrazione in Occidente. Il fenomeno migratorio è però per ora meno rilevante in Siria, anche per le buone condizioni economiche di cui di solito i cristiani godono, grazie al loro inserimento nell’imprenditoria, nel commercio e nelle attività liberali. Da alcuni anni si è formata però una fascia di cristiani che sono potenziali emigranti: si tratta della popolazione cristiana rurale soprattutto del Nord Est, che tende a trasferirsi nei sobborghi delle grandi città, specie di Aleppo e di Damasco. Le ragioni dell’inurbamento sono connesse a motivazioni sia economiche sia sociali: nella zona limitrofa all’area curda sono infatti più frequenti le pressioni dei musulmani contro i cristiani a livello locale, e d’altra parte nelle zone rurali mancano le infrastrutture comunitarie presenti nelle città. Questa mancanza, cui si aggiunge spesso l’assenza di clero da inviare nei villaggi rurali più lontani, spinge i loro abitanti a raggiungere le città per avere la solidarietà delle reti comunitarie. Tali spostamenti hanno però dato origine a una popolazione cristiana urbana molto povera, che in mancanza di un’integrazione economica e sociale nelle città sarà spinta ineluttabilmente a emigrare: è un fenomeno di cui già appaiono gli inizi, e che le chiese si propongono di arginare con interventi adeguati: per essere veramente tali essi dovrebbero però superare in primo luogo le divisioni intercomunitarie, e attuarsi nell’ambito di strategie comuni e condivise. LIBANO La situazione del Libano presenta caratteristiche del tutto particolari, non solo per la diversa struttura istituzionale dello stato libanese e del ruolo in esso esercitato dai cristiani, ma anche per le recenti e travagliate vicende politiche che hanno messo a dura prova il delicato equilibrio su cui si reggeva lo stato libanese. A differenza degli altri stati arabi del Medio Oriente il Libano, al momento della formazione degli stati nazionali dopo la prima guerra mondiale, si definì come stato multiconfessionale, e tradusse a livello di assetto politico la pluralità di comunità confessionali esistenti nella società. Nel Libano del 1943, anno in cui fu emanata la Costituzione, le varie comunità cristiane erano più della metà della popolazione globale, seguite dalle comunità musulmane sunnita e sciita e dalla comunità drusa. Questa situazione permise ai cristiani di esercitare un’influenza notevole sul progetto di costituzione del nuovo stato, e di avere riconosciuto un ruolo politico unico in tutto il mondo arabo. Nello stato libanese multiconfessionale il potere dello stato viene gestito da rappresentanti delle varie comunità confessionali, che si dividono la rappresentanza nelle diverse istituzioni secondo quanto stabilito dalla Costituzione. In questo modo la Costituzione prevede che il presidente della Repubblica Libanese debba essere cristiano maronita, che il capo del governo debba essere musulmano sunnita, che il presidente del parlamento sia musulmano sciita. Allo stesso modo i seggi del parlamento e le cariche ministeriali nel governo sono ripartite tra le più importanti comunità. Questo sistema, se prevedeva una partecipazione al potere di tutte le comunità libanesi in proporzione alla loro consistenza demografica, conferiva innegabilmente un ruolo preponderante ai cristiani, che erano la maggioranza della popolazione. In Libano dunque, caso unico nel mondo arabo e musulmano, ai cristiani erano riconosciuti eguali e pieni diritti, senza che alcuna pratica sociale ne limitasse la fruizione. Lo stesso fatto che il capo dello stato fosse cristiano maronita costituiva non solo una reale garanzia di eguaglianza per i cristiani, ma aveva un significato simbolico di grande rilievo: per la prima volta infatti dall’espansione dell’islam in Medio Oriente, l’alto potere politico non era più gestito esclusivamente dai musulmani, secondo quanto prescrive la cultura politica islamica. Il sistema libanese nonostante i suoi limiti è riuscito tuttavia ad assicurare per circa trent’anni l’unica democrazia esistente nel mondo arabo. Tuttavia a partire dagli anni settanta il sistema sociopolitico libanese si è incrinato, per motivi sia di ordine interno sia di ordine internazionale. Dal punto di vista interno l’assetto multiconfessionale libanese si è incrinato a causa delle diverse tendenze demografiche che si sono verificate con il passare degli anni. Nonostante la proibizione per legge di indire nuovi censimenti confessionali dopo quello del 1943, su cui si basava la ripartizione delle cariche istituzionali dello stato tra le diverse comunità, un mutamento demografico non indifferente era in effetti in corso, che vedeva in particolare l’aumento sia in termini assoluti sia percentuali della comunità sciita, senza che venisse riconosciuta a quest’ultima una maggiore integrazione politica. La situazione interna è poi peggiorata per motivi di ordine internazionale, in particolare dopo il 1967 per la massiccia immigrazione in Libano di palestinesi, la maggioranza dei quali erano musulmani e fortemente politicizzati. Il risultato è stato da un lato l’inasprirsi della polemica da parte sciita per ottenere un maggiore riconoscimento politico, dall’altro il crescere dei timori da parte di molti esponenti cristiani nella prospettiva che il potere passasse in mano a una maggioranza musulmana che avrebbe ridotto i cristiani a una nuova situazione di subalternità. Questa serie di motivi cui devono aggiungersi tutte le varie dinamiche politico-militari del Medio Oriente inerenti la questione israeliana e il ruolo in essa svolto dalle superpotenze del tempo, hanno ingenerato una crisi profonda dello stato libanese e sono sfociati nella lunga guerra civile che ha travagliato il Libano dal 1975 al 1990. Si è trattato di una guerra in cui si sono affrontate non solo le varie comunità confessionali, ma anche le diverse fazioni presenti all’interno di esse, e che ha persino visto i cristiani dividersi in parti avverse, quando una parte di maroniti ha cercato di perseguire l’idea di formare uno stato indipendente omogeneamente cristiano in una parte del territorio libanese. La fine della guerra non ha significato la fine dei problemi, perché il conflitto ha avuto termine a causa dell’occupazione siriana, per cui attualmente l’indipendenza del Libano è relativa, ed è l’autorità siriana che detiene il potere. Sotto l’egida siriana e saudita si è concluso nel 1991 l’Accordo di Taëf con cui le varie fazioni hanno posto fine al conflitto: con esso si è nuovamente riconosciuta la Costituzione del 1943, apportandovi però delle modifiche rispetto ai poteri riconosciuti alle alte cariche dello stato e rispetto alla ripar tizione comunitaria dei seggi parlamentari. In seguito a tali modifiche i cristiani non hanno più la maggioranza dei seggi in Parlamento, e sebbene il capo dello stato continui a dovere essere cristiano maronita, molti dei poteri di cui disponeva sono stati trasferiti al capo del governo che è musulmano sunnita. In definitiva, vi è stato un tentativo di rafforzare i sunniti che ha visto LIBANO Popolazione totale 3 (in milioni) Confessioni Cristiani Sciiti Sunniti Drusi % sulla popolazione 43 29 24 4 29 l’appoggio dell’Arabia Saudita, in presenza di un fronte cristiano non compatto, e con l’intento comunque di arginare il pericolo di un aumento di potere politico della comunità sciita. Il risultato del conflitto è stato dunque negativo per i cristiani libanesi, sconfitti sia militarmente sia politicamente, con la conseguenza che essi stanno ora attraversando una forte crisi politica, economica e culturale. In particolare il fatto che manchi una nuova leadership politica, in quanto gli antichi leaders sono periti nei combattimenti o sono in esilio, fa sentire effetti negativi sul presente, e induce il ritiro dei cristiani dalla scena politica. Che rifugiarsi nello spazio comunitario sia però una strategia perdente lo confermano i fatti accaduti dopo le elezioni del 1994, che hanno visto il boicottaggio da parte dei cristiani e di molti sunniti: in concreto però così facendo i cristiani hanno lasciato spazio alle fazioni musulmane e si sono privati di uno spazio di azione politica che ancora potrebbero gestire. In questo orizzonte di crisi politico-culturale e di assenza di personaggi eminenti per guidare questo difficile momento di transizione, si è aggiunta la sospensione delle elezioni del presidente della Repubblica Libanese, previste per il novembre 1995, e il prolungamento triennale del mandato del presidente attuale. Il discorso sembra però ancora aperto, e il posto lasciato ai cristiani nel sistema politico libanese, sia che il sistema permanga comunitario oppure diventi maggioritario come prevede Taëf, è diventato una posta in gioco centrale del dibattito costituzionale e culturale in corso. Dietro le domande di laicizzazione del sistema politico e dell’adozione del sistema maggioritario formulate dall’accordo di Taëf, si profila però la minaccia dell’imposizione all’insieme della popolazione del sistema di senso e di diritto della comunità sciita, al cui interno alcuni leaders di Hezbollah persistono nel reclamare l’instaurazione di uno stato islamico e l’applicazione del diritto musulmano tradizionale alla gente del libro, nonostante che Hezbollah partecipi alle dinamiche politiche parlamentari essendo presente con otto deputati dal 1992. In 30 questo senso la secolarizzazione del sistema politico, di per sé favorevole ai cristiani perché garantirebbe a tutti i cittadini il medesimo stato di diritto, potrebbe trasformarsi in un grave rischio qualora gli sciiti, ottenendo la maggioranza, intendessero imporre forme islamiche di governo e di assetto legislativo e politico. L’incertezza delle comunità musulmane sui propri orientamenti è dunque fonte di incertezza per i cristiani. In questo senso il potere siriano è spesso visto come baluardo, perché in Siria tra il presidente Assad e i cristiani vi è un rapporto di alleanza politica. Il rischio è che la perpetuazione del comunitarismo politico in Libano, che tanti cristiani riconoscono come indispensabile, potrebbe legittimare la perpetuazione della presenza dell’armata siriana, il cui ritiro dipende dalla realizzazione delle riforme previste a Taëf, compresa la secolarizzazione politica. In una prospettiva di lungo termine il rischio per i cristiani è quello di passare dallo statuto di comunità con diritti equivalenti alle altre a uno statuto di minoranza, in cui siano sottomessi a una maggioranza non cristiana. Questa minaccia non è fittizia, perchè corrisponde alla tradizionale condizione dei cristiani nel mondo islamico, ed è alla base dell’emigrazione definitiva dei cristiani in Occidente. I cristiani libanesi sono oggi chiamati a confrontarsi con i problemi specifici del Libano attuale, come la ricostruzione, la democratizzazione, la negoziazione della pace: in questo confronto devono agire come attori autonomi, portatori di valori universali e particolari, ma pienamente integrati nella scena politica libanese, pena la condanna all’emarginazione politica, che conduce a quella sociale. In questo senso tutte le iniziative individuali e collettive che rendano i cristiani attori creativi all’interno della società civile sono quanto mai utili per esercitare un influenza reale ed efficace sulla scena sociale e politica libanese. Alle difficoltà politiche, i cristiani però sommano una situazione non facile dal punto di vista economico e sociale. La guerra libanese ha comportato infatti distruzioni gravissime, e in particolare ne è stata colpita la popolazione cristiana. La guerra ha quasi completamente smantellato le infrastrutture civili e più di ottocentomila persone hanno dovuto trasferirsi all’interno del territorio libanese a causa dei conflitti: di queste l’80% sono cristiani, i quali hanno avuto danni sociali ed economici enormi, percentualmente maggiori rispetto alle altre comunità. Inoltre la guerra e il futuro politico incerto ha causato una fortissima emigrazione cristiana: fino al 1978 il 75% degli emigranti erano cristiani; in seguito la percentuale è diminuita e attualmente sembra crescere l’emigrazione dei musulmani, sia sunniti sia sciiti; anche il 3540% dei drusi sono emigrati dopo il 1975. Nonostante che il conflitto abbia quindi segnato tutte le comunità i cristiani hanno subito perdite umane, economiche, educative e demografiche più importanti della media nazionale. Sia l’emigrazione sia gli spostamenti interni di popolazione hanno indebolito fortemente le capacità produttive ed economiche delle comunità cristiane, con il rischio di una minore capacità di essere presenti a livello di società civile, a fronte di una crescente presenza sociale di élites musulmane colte. I cristiani libanesi si trovano dunque oggi di fronte a una sfida vitale: cercare nella non facile situazione politica del loro paese di continuare a esercitare un ruolo politico creativo sentendosi parte integrante del paese, e nello stesso tempo ricostruire il radicamento nel territorio, che è la condizione per esercitare con efficacia un’adeguata azione politica. Uno degli sforzi più importanti che le comunità cristiane devono affrontare attualmente è quello di ricostituire e rivitalizzare le strutture educative, sanitarie e di promozione umana su tutto il territorio libanese, ricostruendo quanto la guerra ha distrutto, e insieme cooperare con lo stato nella ricostruzione delle varie infrastrutture necessarie alla vita civile anche nelle parti periferiche del paese, affinché sia possibile a tutti i profughi che si erano rifugiati a Beirut di ritornare nei propri paesi in condizioni che permettano una vita normale, fondata sui valori democratici e sui diritti dei cittadini su basi egualitarie.