Maternage ed Invio in Comunità Terapeutica Il

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Maternage ed Invio in Comunità Terapeutica Il
Maternage ed Invio in Comunità Terapeutica
Il contesto in cui si sviluppa la riflessione è l’invio in Comunità Terapeutica da parte
del Servizio Sanitario, nella quasi totalità dei casi il Sert.
Il punto di partenza dell’analisi è lo studio del drop out in Comunità Terapeutica
Le conclusioni cui sono giunto sono che spesso il programma è già fallito nel
momento dell’invio da parte del servizio.
La causa principale del fallimento l’ho definita: maternage del sistema inviante.
Maternage
Il maternage è l’insieme di cure che una madre attenta e affettuosa rivolge al proprio
bambino. Il neonato è totalmente dipendente dalla madre e ha un bisogno continuo di
cure corporee e psicologiche: particolarmente importante è la capacità di tenerlo in
braccio facendolo sentire sicuro. Significa tenerlo raccolto a sé facendolo sentire
intero e sicuro così che possa sperimentare un senso di continuità. Il bambino è per la
madre un oggetto di gratificazione proprio come la mamma lo è per il bambino .
Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante per gli psicoterapeuti, se non è
tenuto presente, rischia d’essere un fattore che ripropone ai pazienti quella
dipendenza primaria dalla madre, da cui faticano a muoversi. Si rischia di trovarsi
immersi in un corto circuito di reciproche gratificazioni non esplicitate che
ostacolano il percorso di differenziazione.
Per Winnicott le buone cure nella prima infanzia sono la prima e fondamentale
forma di prevenzione del disturbo psichiatrico. Egli pensa la posizione dell’analista
nella cura come un modo di riabilitare la posizione materna nella sua funzione di
contegno e sostegno. La madre non si limita ad accudire il bambino nei suoi bisogni
fisiologici vitali, ma offre anche un contenitore che sa accogliere le sensazioni
negative/persecutorie che il bambino inevitabilmente vive per le frustrazioni che
riceve. La frustrazione non è solamente negativa per il bambino, ma è invece
importantissima per iniziare ad abbandonare l’onnipotenza infantile. Narcisismo ed
onnipotenza si ritrovano poi nei pazienti “dipendenti” che spesso abbandonano il
programma terapeutico per poterle conservare. Anche il sistema di cura, in modo
isomorfico, ha le medesime caratteristiche e rischia di provocare drop out quando il
paziente inizia a deludere le aspettative: per non rinunciare all’onnipotenza
terapeutica, si collude con l’uscita del paziente quando non è più come lo avremmo
voluto. Il Sistema inviante inoltre, se permeato da un narcisismo non elaborato, tende
a creare percorsi terapeutici in assoluta mancanza di qualsiasi domanda da parte del
paziente. Si evidenzia così una delle caratteristiche principali del narcisismo: esisto Io
e l’altro c’è solo in funzione mia.
Bion chiama “elementi beta” gli elementi cattivi dell’esperienza che il bambino non
sa come padroneggiare perché non li riesce a mentalizzare. Alla madre spetta la
“funzione alfa”: grazie alla sua capacità di simbolizzazione riesce a rendere
mentalizzabili gli elementi beta così che non siano più minacciosi per il bambino. Il
mondo del soggetto psicotico è invece popolato da “oggetti bizzarri”. Nati dall’uso
del meccanismo dell’identificazione proiettiva, questi oggetti sono in realtà parti
scisse del soggetto, che però sono percepiti come degli oggetti concreti, reali. La
funzione di contenitore materna è fondamentale perchè il bambino possa imparare a
tollerare la frustrazione, senza esser sopraffatto dall’angoscia di morte. Un lattante
infatti può piangere disperatamente, in preda all’angoscia, per la paura di morire. Se
la madre saprà accogliere la disperazione del figlio, rassicurandolo e favorendo un
processo d’identificazione proiettiva che sposti le angosce su di lei, allora la paura di
morire, spostata dal bambino a lei, sarà trasformata in un timore sopportabile. Se
invece la madre rigetterà la proiezione non riuscendo a funzionare da contenitore,
restituirà al bambino, con il peso ulteriore delle sue proiezioni, il proprio terrore di
morire. Bion pensa alla psicosi come una grave patologia del pensiero, che nasce da
un danno originario, non tanto dei pensieri in se stessi, ma dell’apparato che li
contiene. E’ dalla relazione madre-bambino che tale apparato si sviluppa, è la madre
il primo contenitore dei pensieri del bambino sulle sue prime esperienze di vita.
L’idea della madre contenitore di Bion è vicina al concetto di holding materno di
Winnicott. Fra le cause d’origine della schizofrenia, c’è l’inadeguatezza delle cure
materne nei primi periodi della vita del bambino. La qualità del rapporto tra quella
mamma e quel bambino non è scontata. La madre con un’attenzione sensibile, cerca
di capire e soddisfare i bisogni vitali di un bimbo che dipende totalmente da lei:
questa capacità è fondamentale per una buona cura, perché la madre adeguatamente
buona è quella capace di “un vivo adattamento ai bisogni del figlio”( Winnicott,1997)
e per adattarsi dev’essere capace di empatia, ossia di sentire dentro di sé l’esperienza
del suo bambino. La capacità empatica della madre è conditio sine qua non perché i
bisogni del bambino siano colti ed adeguatamente soddisfatti. Questa capacità è
chiaramente collegata all’esperienza che lei stessa , da bambina, ha fatto con la
propria madre. Essere una madre buona però non significa anticipare costantemente i
bisogni del figlio, ma lasciarli emergere e soddisfarli prima che la frustrazione si
trasformi in angoscia di morte. Una madre che anticipa provoca una dannosa
interazione dello stato simbiotico e come tale diventa una presenza
pericolosa(Winnicott). Un’adeguata frustrazione è il presupposto della crescita, in cui
il progressivo stabilirsi dell’esame di realtà inizia a limitare onnipotenza e
narcisismo: inizia così il cammino dalla dipendenza fusionale simbiotica
all’autonomia indipendenza.
Nella situazione dell’invio alla Comunità Terapeutica, i Servizi invianti rischiano di
funzionare come la “madre pericolosa” di Winnicott, ogni volta che spingono l’utente
dipendente verso un intervento terapeutico, che non ha richiesto. Il paziente aderisce
per non deludere “la madre buona”, ma abbandonerà il percorso a livelli minimi di
frustrazione cui non è abituato. Si ripropone così un sistema di dipendenza fusionale
simbiotica fra utente e servizio, dove entrambi tenderanno a vedere nelle Comunità
Terapeutiche le “madri cattive” prive di empatia e di capacità di comprensione. Le
Comunità invece rischiano, da una parte di tentare d’essere a loro volta delle madri
buone colludendo con il sistema nell’accettare il paziente senza nulla chiedere
(abbassamento degli standard del programma terapeutico); dall’altra di sentirsi gli
unici depositari della”buona cura”, irrigidendosi e rinunciando ad ogni adattamento al
paziente non riconoscendolo nei suoi peculiari bisogni.
Tornando ai primi periodi di vita del bambino è necessario, per un sano sviluppo
dell’individuo, che il bimbo possa sperimentare una fase di onnipotenza soggettiva
(Winnicott), in cui ha la sensazione d’esser lui, con i propri desideri a creare ogni
cosa. La frustrazione successiva, se gli sarà permessa nella giusta misura,
promuoverà il processo di differenziazione. Winnicott definisce madre
sufficientemente buona quella madre che ha la capacità di accudire il bambino
dosando in modo corretto la frustrazione. E’una madre dotata della preoccupazione
materna primaria, uno stato psicologico indispensabile perché essa possa fornire le
cure adeguate al piccolo con puntualità, facendogli sperimentare l'onnipotenza
soggettiva e presentandogli il mondo. Winnicott descrive anche una madre non
sufficientemente buona: è una madre, spesso caratterizzata da psicopatologia
depressiva o simili, che fornisce al bambino cure senza creatività, senza adattarsi a
lui e in maniera meccanica. Con questo tipo di madre il bambino smetterà presto di
vivere l’onnipotenza soggettiva, vivrà in un mondo presentatogli dalla madre e non
più creato da lui, alla quale egli dovrà essere accondiscendente. Anziché essere la
madre ad adattarsi al piccolo, sarà così il piccolo a doversi adattare alla madre (o alla
principale figura di accudimento). Questo può favorire lo sviluppo di un falso Sè o di
un doppio legame. E’ un fenomeno che accade molto spesso nei programmi
terapeutici, in cui i pazienti appaiono molto adeguati, integrati, motivati; per poi
ricadere in tempi brevi quando escono dalla Comunità Terapeutica. Si erano adeguati
alle richieste comunitarie sviluppando un falso Sé.
Il maternage è anche una tecnica psicoterapeutica. Ferenczi riconobbe per primo
l'importanza del rapporto primario madre-bambino, su cui fondò la "tecnica analitica
del maternage", aprendo così la strada ai lavori di Melanie Klein, Balint e Winnicott.
Racamier nel 1956 utilizzò il termine per descrivere una tecnica di psicoterapia
utilizzata nel trattamento delle psicosi, che cercava di creare con il paziente, sia sul
piano della realtà sia su quello simbolico, una relazione analoga a quella tra una
buona madre e il suo bambino. La tecnica si basa sull’ipotesi che le psicosi si
sviluppino in un contesto di cattivo funzionamento, non solo della coppia madrebambino, ma di tutto il contesto familiare. Il maternage è utilizzato come una tecnica
riparatrice che mira soprattutto all’appagamento dei bisogni infantili fondamentali
rimasti insoddisfatti nel paziente e che ne hanno bloccato il normale sviluppo
psicologico. La posizione Io del terapeuta è meno neutrale e più attiva. Racamier la
descrive così: “la relazione di maternage nasce dall’incontro tra un paziente
profondamente e vitalmente avido di essere passivamente colmato d’affetto e un
terapeuta ad un tempo capace di comprenderlo e desideroso di avvicinarsi a lui come
una madre”. Questo presuppone un terapeuta che conosca profondamente se stesso e
la propria storia, in grado di controllare i forti aspetti controtransferali che si
scatenano nella relazione terapeutica.
Per il nostro tema è particolarmente importante il bisogno del terapeuta/mamma di
soddisfare i bisogni del bambino\paziente, ricreando un tutto indifferenziato, in cui la
frustrazione non è ammessa, perché trasformerebbe il terapeuta da mamma
sufficientemente buona, in mamma cattiva. La fame del paziente, seduto in una
posizione regressiva, non potrà mai essere saziata e lo costringerà ad abbandonare
presto tutte quelle situazioni che non riuscirà a strumentalizzare, per continuare a
sfamarsi. C’è un forte rischio poi, che l’unica possibilità di differenziazione che gli
resta, sia far fallire ogni proposta del terapeuta/mamma, con l’ulteriore guadagno di
riproporre in modo circolare un bisogno d’accudimento che verrà accolto.
Famiglia puerocentrica ed invio terapeutico
La parola italiana famiglia deriva dal latino familia,che significa l'insieme dei famuli,
ossia di tutti quelli che hanno un rapporto di dipendenza dal capo famiglia. La
moderna famiglia occidentale deriva in larga misura dall'antica famiglia ebraica che
era patriarcale. Anche la famiglia di origine greco-romana era patriarcale e legata
dalla religione. Con la riforma protestante, la concezione meramente religiosa della
famiglia basata sul matrimonio, si trasformò in una visione più civile e laica, tipica
della società contemporanea. Dopo la rivoluzione industriale,ma soprattutto dopo la
prima guerra mondiale,cambia il ruolo della donna nella società, determinando forti
cambiamenti anche nella “forma famiglia”. Nelle società occidentali le donne entrano
nel mercato del lavoro ed iniziano così ad avere un doppio ruolo che, ad oggi, pare
ancora poco bilanciato e poco tutelato. Le donne stesse sembrano non aver del tutto
elaborato la nuova identità, assistiamo spesso alla scelta tra maternità e carriera, con
la difficoltà interna di poterle mettere assieme. Con l’aumento della mobilità delle
persone, si assiste al progressivo declino della famiglia estesa e alla progressiva
diminuzione della responsabilità economica dei figli nei confronti dei genitori
anziani, grazie anche all'affermarsi dei sistemi pensionistici. Oggi, addirittura, il
fenomeno sembra capovolgersi: spesso sono i nonni ad essere necessari per il
mantenimento. Il tasso di divorzio è poi aumentato in tutti i paesi occidentali,
portando alla nascita delle famiglie monogenitoriali: nuclei composti da un unico
adulto che vive con i figli. Spesso le famiglie monogenitoriali si trasformano
ulteriormente, diventando “famiglie ricostituite"o “ricomposte”: individui vedovi o
divorziati,con o senza figli, si uniscono in matrimonio o convivenza dando vita ad un
nucleo familiare esteso. In Italia si è assistito ad un calo demografico rilevante. La
diminuzione numerica dei figli non significa però un calo d’investimento nei
confronti del bambino; al contrario, il figlio è sovrainvestito di cure e aspettative, con
le relative delusioni genitoriali. I figli iniziano ad essere trattati, soprattutto dalle
madri, in modo riparativo rispetto alle proprie delusioni come figlie, donne , mogli. I
padri invece tendono ad investirli della propria infinita adolescenza, affidando loro i
propri sogni delusi. L’esito è la mancata responsabilizzazione, una soglia alla
frustrazione e al dolore molto bassa, una visione del mondo al proprio servizio.
Nei Servizi si ripropongono le medesime dinamiche quando Terapeuti, Medici e
Assistenti sociali, inseguono pazienti demotivati spingendoli in un progetto
terapeutico non condiviso, non voluto ed accettato solo per far piacere all’altro, non
deluderlo e poter continuare ad acquisire i presunti vantaggi legati alla
manipolazione. In questi casi la motivazione al cambiamento è labile, perché il
paziente non ha alcun bisogno di muoversi dal suo presunto “Impero Narcisistico”.
Questo è l’esito di un puerocentrismo che è essenzialmente un ripiegamento
narcisistico: il figlio è un modo di realizzarsi dell’adulto, in cui non c’è alcuna
differenziazione fra sé e l’altro, fra le generazioni, fra i ruoli. La tossicodipendenza è
il risultato di un processo di separazione/individuazione bloccato, incistato. Nessuno
cresce più, si resta congelati, alle volte per decenni, alla fase del ciclo vitale della
famiglia con il figlio adolescente, in questo caso problematico. Il processo di
separazione\indivuduazione è molto difficile, perché i figli godono dei vantaggi
presunti dell’essere un prolungamento narcisistico dei propri genitori, ma portano poi
il peso di sogni, che non gli appartengono. In famiglie del genere non esisti per
davvero, ma ci sei solo come strumento per la realizzazione dei bisogni di qualcuno;
come figlio vivi l’illusione paradossale di sfruttare il sistema famiglia per i tuoi
bisogni, ignorando che la tua crescita è ferma. Nei pazienti tossicodipendenti questo è
particolarmente visibile ed impregna la loro relazionalità. Tendono ad usare tutto,
servizi invianti e Comunità terapeutiche inclusi, come strumenti di soddisfazione di
bisogni immediati, in un’oralità senza fine privi di alcuna progettualità: uso per stare
fermo, immobile. Il ripiegamento narcisistico si trasforma, per questi ragazzi, nella
completa rinuncia alla realizzazione del Sé. La sfida evolutiva per i Servizi di
trattamento della tossicodipendenza, diventa porsi come delle madri in grado di
dispensare frustrazioni, passando dall’idea dell’altro, all’altro reale, con il ritiro delle
proiezioni, solo così può dare linfa al processo di crescita. Se tu mi chiedi qualcosa te
la posso dare, ma ti chiederò qualcos’altro in cambio; se non mi chiedi nulla, non ti
darò niente. Si tratta di non esser più delle madri che anticipano i desideri dei figli;
iniziare ad immettere, oltre al codice materno che accoglie, anche il codice paterno
che separa, detta regole e spinge verso il mondo. Quello che si chiederà in cambio,
non sarà la gratitudine, ma l’assunzione della responsabilità delle proprie scelte
personali, accettando quelle che non saranno di nostro gradimento.
Nel nostro tempo in Italia, il divenire genitori rappresenta ormai il rito di passaggio
all’età adulta; questo rischia di caricare il figlio di tantissime proiezioni, in cui il
passaggio dal bambino della notte, al bambino reale, è difficoltoso e rischia di non
avvenire. Come terapeuti dobbiamo prestare particolarmente attenzione alle
proiezioni, perché nostro compito è favorire un processo di crescita nel paziente, in
una cornice di libertà in cui potrà essere chi vuole. Uscire dalla manipolazione del
paziente dipendente, significa accettare d’essere sia la madre buona che nutre, sia la
madre cattiva che dispensa frustrazioni. Dobbiamo spingere costantemente verso la
libertà ed autonomia, in cui, la responsabilità del processo, passa anche attraverso
l’accettare il rifiuto delle nostre proposte, contrastando con forza lo sviluppo del
Falso Sé del paziente. Il vero fallimento terapeutico nella dipendenza è il mutuo
accondiscendere e colludere per i propri bisogni personali, in cui ci si nutre a vicenda
riproponendo un tutto indifferenziato: esisto solo Io, l’altro c’è solo per soddisfarmi.
La responsabilizzazione passa anche nel chiedere all’altro la fatica di co-costruire un
progetto, in cui è nostra responsabilità fornire direzione e mezzi, l’altro deciderà
continuamente se vuole starci oppure no. Dare significato ai fallimenti terapeutici,
vuol dire accettare i limiti e il timing del paziente dipendente, è un’occasione unica,
per il sistema inviante/curante, di rinunciare finalmente a nutrirsi delle gratificazioni
che abbiamo chiesto al paziente di darci. Accettare di lasciare liberi i pazienti di
scegliere, rifiutandosi però d’aiutarli a restare nella dipendenza. Libertà e autonomia
passano sempre attraverso il prendersi delle responsabilità, se rinunciamo a chiedere
questo il percorso terapeutico è destinato a fallire. Possiamo proporre, ma non
convincere, possiamo spingere ma non portarli a forza; dobbiamo verificare e dare un
limite al “pensiero onnipotente delle possibilità infinite”. Quando tutto è possibile, si
resta in un pensiero adolescente in cui si può rimandare, tanto gli altri si occuperanno
di me, continuando così a non assumersi alcuna responsabilità. Soprattutto, il
paziente tossicodipendente, potrà continuare a pensare che nessuno di quelli che gli
chiedono qualcosa lo capisce, a parte quella mamma che non gli chiede niente, a
patto che la faccia sentire unica e speciale.
E’ un po’ asfissiante continuare a recitare la parte assegnatami, quella del falso
Imperatore, un giorno, forse, mi stancherò
Conclusioni
Il rischio da considerare sempre è il colludere fra la nostra onnipotenza terapeutica e
le richieste onnipotenti dei pazienti: questo si gioca con l’impossibilità di vedere ed
accettare i propri fallimenti e di considerare veramente le inadeguatezze reali dei
pazienti. L’esito è spesso il drop out con forti e reciproci sentimenti di delusione e
“ingratitudine”. Il terapeuta, per essere efficace, deve aver elaborato le proprie
tematiche legate alla dipendenza e soprattutto al narcisismo, in cui il paziente è e
dev’essere sempre, altro da me. Questo permetterà un’identificazione profonda con i
bisogni di cura e di accudimento del paziente, accettando che c’è sempre, in
psicoterapia, una reciproca cura degli aspetti di sofferenza, ma in cui si ha presente
quello che è nostro e ciò che non ci appartiene. Si cercherà d’essere una madre buona,
una madre cattiva e un padre che accompagna e spinge verso la separazione e
l’autonomia. Insegneremo l’arte di navigare in una rada sicura, condivideremo dolori
e successi e guarderemo con tristezza e gioia la nave prendere finalmente il largo.
Siamo stati cantiere e scuola, porto e approdo, a noi godere di quella scena che
lentamente scomparirà ai nostri occhi, ma resterà indelebile traccia nella nostra storia.