La parola e l`ascolto - Aspen Institute Italia
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La parola e l`ascolto - Aspen Institute Italia
Tavola Rotonda La parola e l’ascolto Milano, 17 settembre 2007 in collaborazione con la Biblioteca Ambrosiana con il contributo di AEM, FNM Sintesi della discussione a cura di Valentina Pisanty Se i profeti rompessero per le porte della notte cercando un orecchio come patria, orecchio degli uomini, ostruito di ortiche, sapresti tu ascoltare? (Nelly Sachs) La parola comunicazione deriva dal latino communicatio, per composizione da cum (“assieme, con”) e munus (“incarico, ufficio”) – radice da cui peraltro deriva anche l’aggettivo comune. In questo senso, comunicare significa “condividere, spartire, compartecipare”, ovvero mettere in comune le proprie conoscenze, pensieri, sensazioni e stati d’animo con le conoscenze, i pensieri, le sensazioni e gli stati d’animo altrui. La premessa da cui trae avvio la discussione è che, nella cosiddetta società delle comunicazioni, stiamo disimparando a comunicare (nel senso proprio del termine): “viviamo in un’epoca nella quale la chiacchiera è dominante, il vaniloquio è imperante”. La proliferazione dei media – vecchi e nuovi – ci dà l’impressione di essere coinvolti in uno scambio continuo di messaggi, e dunque in un’incessante attività comunicativa. Ma si tratta di un’impressione largamente illusoria, poiché la maggior parte delle sollecitazioni a cui siamo sottoposti finisce per confondersi in un brusio indistinto dal quale fatichiamo a ritagliare esperienze autenticamente comunicative: “abbiamo l’orecchio inquinato da troppe stupidità, da troppe inutilità, da troppi rumori di fondo”. Tra le conseguenze della saturazione dei canali comunicativi vi è l’innalzamento di barriere fisiche e psicologiche (le “ortiche”) che ci rendono sempre meno disponibili all’ascolto. È significativo, a questo proposito, il dato relativo alla contrazione delle curve d’attenzione negli ultimi decenni: se – come indicava Carlo Emilio Gadda – negli anni Cinquanta l’attenzione per un ascoltatore radiofonico era misurabile in dodici minuti, oggi gli studi sulla programmazione dei palinsesti televisivi dimostrano che il massimo di attenzione di un telespettatore è di due minuti. In parte tale contrazione è indicativa di una strategia di sopravvivenza necessaria quanto inevitabile: per proteggerci dal bombardamento quotidiano di stimoli, ci equipaggiamo di filtri percettivi, emotivi e cognitivi sempre meno permeabili. Ma la frammentazione dell’ascolto tende a favorire messaggi semplici dal forte impatto spettacolare, a discapito dei discorsi concettualmente più impegnativi. Ne deriva, secondo molti, un progressivo impoverimento del linguaggio mediatico e, di rimbalzo, della comunicazione interpersonale, la quale per molti italiani si riduce a un lessico di appena 800-1000 vocaboli (sui 150 mila disponibili per esprimere l’intera gamma delle esperienze umane). Tenuto conto che le parole del linguaggio sono il principale strumento di cui disponiamo per interagire con gli altri esseri umani, e che – se usate male – esse possono provocare fraintendimenti e incidenti comunicativi talvolta drammatici, si avverte l’esigenza di educare le persone ad affinare le proprie categorie concettuali, a prestare maggiore attenzione alle sfumature e alle sottigliezze della lingua (anche per anticipare gli effetti che le parole potrebbero produrre sugli altri), e ad argomentare le proprie tesi nel rispetto delle regole della buona retorica. Creare l’ascolto Una delle regole della comunicazione è che la responsabilità della riuscita o meno dello scambio comunicativo è (prevalentemente) a carico del parlante. Ciò significa che è, o dovrebbe essere, nell’interesse di quest’ultimo di esprimersi in modo da risvegliare l’attenzione dell’uditorio, aprendosi un varco tra le ortiche dell’ascolto, e di formulare il proprio discorso in modo da scongiurare (per quanto possibile) il rischio di incomprensioni e di fraintendimenti. Senza pretendere di formulare una grammatica esaustiva dell’arte oratoria, nel corso della discussione si approfondiscono tre qualità ritenute indispensabili alla creazione dell’ascolto: la chiarità, l’incisività e la capacità di dare sostanza alle proprie parole. La chiarità (termine che viene preferito al quasi-sinonimo chiarezza) “è per eccellenza diafania, trasparenza della parola”, e si oppone a ogni forma di linguaggio volutamente oscuro o nebuloso. Si accenna al vizio, imputabile a molti accademici (ma non solo a loro), di trincerarsi dietro l’uso di tecnicismi e di gerghi settari – tecnica che peraltro può essere sfruttata per creare una cortina fumogena attorno alle argomentazioni che si vorrebbero tenere al riparo dai tentativi di confutazione: “confondere l’avversario con un profluvio di parole” è uno degli stratagemmi individuati da Schopenhauer nel suo trattato sull’Arte di ottenere ragione. Strettamente collegata alla chiarità, l’incisività è la capacità di “cogliere il nodo d’oro che tiene insieme le ragioni”. Spesso si ritiene che, per rendere conto della complessità del mondo, sia inevitabile esprimersi in modo contorto e ambiguo. Tuttavia, ciò che contraddistingue il buon comunicatore è proprio la sua capacità di districare gli argomenti aggrovigliati per individuare il nodo essenziale da cui i vari fili del pensiero si dipartono. La nitidezza del pensiero si riflette nella precisione di scelte lessicali icastiche, in grado di scalfire le rappresentazioni mentali dell’interlocutore, illuminando le cose in modo inedito o sorprendente: “parole che incidano ferite nei campi della consuetudine”. A tale proposito, si accenna all’importanza comunicativa della metafora, intesa come momento fondamentale dell’insegnamento e dell’apprendimento. Infine, creare ascolto vuol dire “dare sostanza” alle parole, ossia avere effettivamente qualcosa da dire. Sembra un’ovvietà, ma forse non lo è alla luce della grande quantità di scambi futili in cui siamo quotidianamente coinvolti: “la comunicazione appare sempre più irrelata, cioè ha sempre meno contatti con le cose reali”. In parte ciò è dovuto al fatto che non si comunica solo per trasmettere informazioni sul mondo, ma anche per stabilire e coltivare il contatto con gli altri, indipendentemente da ogni scopo ulteriore (è la cosiddetta “funzione fàtica” del linguaggio). Da questo punto di vista, si spiega il successo dei nuovi mezzi di comunicazione – e-mail, sms, chat, eccetera – particolarmente apprezzati dai giovani, i quali impiegano le nuove tecnologie per allacciare e mantenere una rete estesa di rapporti “orizzontali” che li facciano sentire parte di un gruppo, sia pure virtuale. Ma si dà voce alla preoccupazione che simili esperienze surrogate prendano il posto delle esperienze comunicative reali: “si comunicano tutte quelle componenti che una volta erano calde: pensiamo alla sessualità stessa, che era una questione di corpi e quindi anche di sguardi, di contatti e di parole dirette calde, veri e propri soffi verbali”, ora ricondotte a “un orizzonte algido, gelido” da cui viene cancellata la dimensione comunitaria, sociale e corporea propria dell’autentica comunicazione. Esercitare l’ascolto Posto che la parola presuppone l’ascolto, l’assenza del quale condanna ogni espressione verbale a rimanere puro flatus vocis, ci si interroga sulle condizioni indispensabili all’esercizio dell’ascolto. Innanzitutto per ascoltare bisogna che vi sia silenzio, non solo nel senso più banale di assenza di interferenze acustiche. Viene introdotta la distinzione tra due qualità diverse di silenzio: da un lato un “silenzio nero”, corrispondente all’assenza di suoni, che è ciò da cui (si dice) rifuggono gli adolescenti quando si riempiono le orecchie di rumore (ma i ragazzi direbbero di musica) per paura di rimanere soli con se stessi; dall’altro, il “silenzio bianco”, pieno, contemplativo – “voce di silenzio sottile” – paragonabile alla pausa che i grandi musicisti eseguono così come eseguono le note di una partitura. Questo tipo di silenzio può assumere forme diverse: è la pausa che precede la punchline di una buona storiella umoristica; è il momento di pace interiore che prelude all’Eureka! della scoperta scientifica, o all’euforia della creazione artistica; è il silenzio degli amanti nell’istante in cui i rispettivi monologhi interiori si intersecano nella complicità di uno sguardo; ma è anche il silenzio spiazzato del viaggiatore che, per un secondo, intravede l’inaspettata familiarità che lo unisce a persone e situazioni solo apparentemente estranee. Si tratta di rare epifanie, certamente, ma sono questi momenti di estrema apertura ricettiva che rendono significative le vite delle persone – o quantomeno le narrative identitarie con cui esse si auto-rappresentano – punteggiandole e scandendole proprio come gli stacchi di un brano musicale. La metafora musicale pervade la discussione: la conversazione viene paragonata a un duetto, dove la combinazione di timbri antitetici crea un insieme armonioso che permette a ciascuno di conservare la propria voce come un’entità distinta e, contemporaneamente, di amalgamarla con la voce dell’altro. Rispetto a questo ideale di perfetta intesa, gran parte dei nostri scambi comunicativi risulta viziata dalla cacofonia dello scontro, spesso provocata dalla falsa presunzione di conoscere in anticipo il pensiero altrui, prima ancora che questi abbia avuto modo di esprimerlo compiutamente. Tipico è il caso di quei dibattiti televisivi in cui i sostenitori di tesi contrapposte invadono i turni conversazionali degli altri, facendo prevalere il proprio punto di vista (per restare in metafora: imponendo la propria linea melodica) su quello degli avversari. Si potrebbe aggiungere che altre note stridenti derivano dall’inflessibilità di uno o di entrambi i partner comunicativi, troppo attaccati al proprio spartito per lanciarsi nella jam session della negoziazione. Rilanciare la parola A mediare tra le intenzioni comunicative del parlante e le interpretazioni dell’ascoltatore vi è il testo, che in questo senso funge da interfaccia/raccordo tra i soggetti coinvolti nell’interazione. Un testo può essere composto di immagini, di note musicali, di gesti, eccetera, poiché i canali attraverso i quali comunichiamo sono numerosi. Ma è attraverso le parole che avviene gran parte della nostra attività comunicativa consapevole. Da ciò deriva l’enorme importanza che attribuiamo al linguaggio verbale il quale, se non proprio onnieffabile, è perlomeno il più effabile tra gli strumenti semiotici di cui disponiamo. Si teme che il declino della parola comporti il declino di quella modalità logicoargomentativa di pensiero che nessun altro sistema semiotico sembra essere in grado di esprimere meglio del linguaggio verbale. Il gruppo discute dell’abuso, del logorio e del depotenziamento semantico delle parole, nonché del degrado che – secondo alcuni – affligge la parola scritta. Ci si interroga sugli effetti della diffusione dei computer sulle modalità della scrittura, ipotizzando che, con il passaggio dalla scrittura a mano alla scrittura al computer, siano cambiati anche i modi di raccogliere, di organizzare e di presentare le conoscenze e le idee. Al contempo, la parola pare soffocata dal predominio delle immagini, e in particolare dalle immagini in movimento, le quali sono più attraenti dei testi verbali in quanto più immediate, più facili da fruire e – qualcuno suggerisce – così profondamente impresse nella nostra memoria ancestrale da sembrarci naturali. Come ripristinare il primato della parola – o, perlomeno, come contrastarne il declino? C’è chi ritiene che, per porre rimedio alla crisi della parola, occorra intervenire sui suoi luoghi tradizionali (scuola, famiglia, università, predicazione della Chiesa…), anch’essi in crisi. Altri si soffermano sulla necessità di recuperare la dimensione filologica del linguaggio, promuovendo studi etimologici, in base al principio secondo cui “quanto più uno conosce la radice delle parole tanto più riesce a usarle in maniera incisiva e soprattutto a costruirle, a selezionarle, in modo tale che lascino una traccia in chi le ascolta”. Prospettiva, questa, non incompatibile con l’idea pragmatista secondo cui il significato di una parola risiede nell’insieme, indefinitamente dilatabile, degli effetti che questa produce o è in grado di produrre su qualcuno. Ovvero, il significato di una parola non è mai fissato una volta per tutte, ma cresce nel tempo, man mano che l’espressione verbale viene associata a esperienze diverse, incrostandosi di stratificazioni di senso talvolta anche antitetiche tra loro. “La parola” – osservava Emily Dickinson – “comincia a vivere solo dopo che è stata detta”.