alla presentazione di prodotti diversificati che possano

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alla presentazione di prodotti diversificati che possano
alla presentazione di prodotti diversificati che possano risultare graditi anche ad un
pubblico giovane o dal gusto non molto educato. Ciononostante lo sforzo maggiore va
fatto affinché venga quanto più possibile ridotto il divario tecnologico e culturale che
continua a dividere i pastori dagli altri allevatori.
La filiera ovicaprina soffre in maniera ancora più marcata di altre della mancanza di
integrazione.
Sarà opportuno, quindi, favorire tutte quelle forme di organizzazione tra le componenti
della filiera e che potranno favorire tutte le espressioni di integrazione utili agli
operatori: dalla definizione del prezzo del latte, alla diversificazione del prodotto, alla
organizzazione di campagne comunicazionali, alla tracciabilità del prodotto e
all’identificazione dell’origine.
Nell’ambito della politica di diversificazione produttiva rientrano anche le possibili
utilizzazioni alternative del latte caprino. Attualmente, infatti, il latte caprino è
utilizzato prevalentemente per la produzione di formaggi misti, perdendo le
caratteristiche di forte personalità detenute dai formaggi di latte di capra.
L’importo massimo del pagamento supplementare è fissato a 15 €/capo.
Il comparto avi-cunicolo
Allevamento avicolo
La produzione mondiale di carni avicole, nell’ambito del generale incremento della
produzione di carni registrata nell’ultimo trentennio (1961 - 2002) (dati FAO), ha fatto
segnare gli incrementi maggiori (+379% nel 2002 rispetto al 1970), rispetto ad altri
comparti (+162% carne suina e +50,5% carne bovina), ciò anche in ragione dei suoi
bassi costi di produzione. Nel 2002 la carne avicola prodotta è stata di 72 milioni di
tonnellate. La produzione è concentrata per oltre il 65% negli USA, in Cina, nell’UE15 ed in Brasile (H.W. Windhorst, Will European Polultry Meat Producers be
Competitive in Future 46 Assemblea Generale A.V.E.C., Gleneagles, 2003).
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A livello mondiale, la filiera avicola, (sul modello realizzato negli Stati Uniti negli
anni ’30) prevede una struttura fortemente integrata, per realizzare elevate economie di
scala nella fase successiva alla produzione (trasformazione/distribuzione)
L’integrazione verticale diretta o basata su contratti con gli allevatori, è realizzata sia a
monte dell’industria (mangimistica) che a valle (macellazione/ trasformazione).
Attualmente, tale modello oltre agli USA, al Brasile si sta diffondendo anche in altri
paesi (Cina, Tailandia), (Ofival, Situation et perspective des productions avicoles sur
le plan mondial et européen, 2003).
Scambi commerciali
Le carni avicole rappresentano una tra le più importanti voci di scambio nei commerci
internazionali delle carni; l’80% del volume delle esportazioni è realizzato da USA,
Brasile, UE –15.
Gli Stati Uniti presentano una domanda prevalentemente di parti bianche (petto,
cosce), ed esportano fusi, ali, interiora, ecc,. in Cina in cui esiste una domanda di tali
prodotti, la Cina a sua volta è esportatrice di cosce e tagli trasformati verso il mercato
giapponese.
Altri paesi come il Brasile la Tailandia cosiddetti “emergenti” sono forti esportatori di
III e IV lavorazioni (crudi, panati,) ad alto valore aggiunto, in conseguenza della
crescita della filiera di produzione, dei minori costo di produzione, di politiche di
svalutazione della moneta nazionale a stimolo delle esportazioni (il Real si è
deprezzato rispetto all’Euro di 2,75 volte dal valore del 1998 rispetto alla quotazione
media dei primi otto mesi del 2003).
L’Unione europea ha perduto rilevanti quote di mercato nell’ultimo ventennio (-23%)
per pezzi congelati e polli interi congelati (H.W. Windhorst, Will European Poultry
Meat Producers be Competitive in Future 46° Assemblea Generale A.V.E.C.,
Gleneagles, 2003).
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La perdita di posizione dell’export comunitario non è solo imputabile ad un più elevato
costo di produzione conseguente a vincoli comunitari di carattere sanitario,
ambientale, ecc., ma anche alla maggiore liberalizzazione degli scambi commerciali
introdotta dagli accordi GATT del 1995.
Tuttavia negli ultimi anni si è osservata una debole ripresa dell’export comunitario
attribuibile alla maggiore rispondenza del prodotto UE agli standard di salubrità
imposti da numerosi paesi importatori, Per quanto riguarda le importazioni, il 23%
dell’import mondiale è appannaggio della Russia, seguita da Giappone, Cina ed Hong
Kong, e Medio Oriente, con quote intorno all’11-12%.
Tab. 33 - Produzione, volumi scambiati e consumi mondiali di carne avicola (000 ton)
Produzione
Esportazioni
Importazioni
Consumi
Media 1997-99 Media 2000-02 TAV%annuo
%02*/01
62.067
69.300
3,6
5.287
6.419
4,4
5.288
6.419
4,4
62.067
69.633
3,6
+2,9
-1,5
-1,5
+2,9
Elaborazione su dati Ofival
Tab. 34 - Principali produttori mondiali di carne avicola (000 ton)
e quota % principali paesi produttori
Media 1998-99
Media 2000-02
TAV% annuo
USA
24,9
24,6
3,4
Cina
17,3
17,7
4,1
UE
13,9
13,0
0,7
Brasile
8,7
10,1
10,6
M.Oriente(a) 5,7
5,5
2,1
Messico
2,7
3,0
7,8
Eu dell'est
2,7
2,8
5,2
Giappone
1,9
1,7
-0,4
Russia
1,0
1,2
9,2
Tailandia
1,4
1,6
8,8
Africa sud
1,3
1,4
5,9
TOT.
63.100 (000ton)
69.300 (000ton)
Tot. princ. P. 51.547 (000ton)
57.167 (000ton)
(a) incluso il nord Africa
Elaborazione su dati Ofival; FAO; Commissione Europea
%02*/01
3,1
1,9
-0,1
11,1
-0,1
4
7
1,4
11
7,3
1,8
Il consumo complessivo mondiale di carni avicole è passato da 41 milioni di tonnellate
del 1990 a 73,9 milioni nel 2002 (+73%).
Il 65% dell’attuale domanda mondiale di pollame si concentra in quattro aree (Tab.
33): Stati Uniti, paese principale paese consumatore, che rappresenta oltre il 24% della
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domanda, Cina (18%), Unione Europea (13%), Brasile (10%), Medio Oriente, Africa
del Nord. Altre aree rilevanti sono rappresentate da Russia, Messico, Paesi dell’Europa
Orientale e Giappone.
La domanda mondiale pro capite di carne di pollame, si attesta nel 2002 sugli 11,9 kg
per abitante.
Gli USA mostrano un consumo pro capite/anno di kg 50,9, seguono Brasile, Messico,
Russia, In altri paesi, le potenzialità di espansione dei consumi pro capite sono ancora
elevate, E’ questo il caso della Cina e dei paesi dell’Europa dell’Est, in relazione alla
crescita del reddito. Nei paesi PECO oltre il 60% dei consumi si concentrano in
Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca.
La produzione comunitaria
A livello comunitario la produzione di carni avicole (oltre il 70%, rappresentata da
carne di pollo) si attesta sui 9 milioni di tonnellate, terza produzione mondiale. Il
comparto è regolato da una Organizzazione Comune di Mercato (Reg. 2777/75 e sue
modificazioni) che non prevede misure di sostegno interno, ma definisce norme sulle
modalità di commercializzazione dei prodotti avicoli.
Il comparto è contraddistinto:
• perdita di competitività sul mercato internazionale, per uno svantaggio di costo, dei
mangimi, del lavoro, del denaro, per emergenze sanitarie (ad es. casi di influenza
aviare in Italia ed nei paesi Bassi);
• struttura eccedentaria, surplus medio annuo di oltre 320 mila tonnellate (2000-03)
anche se dovrebbe ridursi gradualmente, nel medio periodo, soprattutto grazie
all’espansione dei consumi nei nuovi stati membri a ritmi superiori rispetto agli
incrementi della loro produzione.
Oltre il 50% della produzione comunitaria è concentrata in tre paesi (Francia, 24%,
Gran Bretagna, 17%, ed Italia, 12%), seguono Spagna, Germania (circa l’11%
ciascuno) ed Olanda (7,5%) Francia ed Italia hanno però perso quote di produzione nel
corso dell’ultimo decennio, mentre Gran Bretagna ed Germania hanno guadagnato.
Nei cinque paesi leader la produzione presenta generalmente una struttura fortemente
integrata, prevalentemente ad opera dell’industria a valle della produzione. L’UE-15
nel periodo 2000-02 ha esportato 1,1 milioni di tonnellate (circa il 13% della
produzione, +4,3% all’anno rispetto al 1997), ed ha importato 734 mila tonnellate,
+19% all’anno rispetto al 1997.
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L’industria avicola comunitaria sta sviluppando i segmenti a maggiore valore aggiunto
(prodotti III e IV gamma). Regno Unito e Germania si stanno specializzando nella
produzione di trasformati ed elaborati, di prodotto fresco, segmento tradizionalmente
di forza dell’Italia, mentre i paesi dell’Europa meridionale (Francia, Spagna) stanno
spostandosi verso il prodotto certificato (OFIVAL, Le marchè des produits carnes set
avicoles en 2002, 2002).
Consumi in Europa
L’Unione Europea si colloca al quarto posto per i consumi pro capite/anno (22,3 kg nel
triennio 2000-02), tra i paesi maggiori consumatori si annoverano Irlanda, Portogallo e
Regno Unito.
La domanda comunitaria è caratterizzata da un crescente richiesta di praticità con
servizi aggiunti (sezionati, disossati, elaborati e trasformati pronti per la cottura o
precotti; differenziazione del prodotto sul piano qualitativo (prodotto fresco
nell’Europa del nord e introduzione di marchi di qualità in quella del Sud).richiesta di
prodotto biologico (prevalentemente in Francia e nel Regno Unito), diffusione di
prodotto a marchio DOP e/o IGP (Francia e Spagna) e, soprattutto, una più larga e
crescente diffusione di marchi di produttori o della distribuzione basati su disciplinari
di produzione che certificano la tracciabilità del prodotto, l’ origine geografica, il
rispetto di requisiti in materia di benessere animale e tutela ambientale, e, soprattutto
la salubrità del prodotto (8% della produzione francese, 90% di quella inglese, in
diffusione in Germania, Paesi Bassi, Austria e Danimarca).
Il crescente interesse per tale tipo di certificazione è anche in conseguenza del
crescente timore sulla salubrità delle carni ingenerato da problemi di carattere sanitario
che hanno colpito il comparto delle carni.
Come noto, il pollo rappresenta la parte preponderante dei consumi di carni di pollame
in tutto il mondo: nell’UE la sua quota è superiore al 70%.
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UOVA
Evoluzione della produzione
La produzione comunitaria di uova si è attestata nel 2002 su circa 5,65 milioni di
tonnellate (consumo e cova).
Nel triennio 2000-02 la produzione di uova da consumo si concentra prevalentemente
in Francia, Germania ed Italia, con quote comprese tra il 18 ed il 16% circa, mentre
Regno Unito, Spagna ed Olanda detengono una quota intorno all’11-12%. Va peraltro
osservato come Germania ed Olanda abbiano perso, sia pure marginalmente quote di
produzione a favore di Spagna e, soprattutto, Italia. La produzione comunitaria sta,
peraltro, subendo un processo di diversificazione lungo due direttrici (Commissione
Europea, Report from the Commission to the Council with regard to developments in
consumption washing and making of eggs, COM (2003) 479 final, 2003):
a) la trasformazione in ovoprodotti;
b) la differenziazione dei sistemi di produzione (biologico, sistemi alternativi alle
gabbie: tradizionali all’aperto, parchetti all’aperto), per rispondere alla domanda del
mercato di salubrità, rispetto del benessere animale, prodotti biologici.
In Italia si contavano nel 2000 circa 905 mila capi allevati in sistemi alternativi.
L’incidenza dei sistemi alternativi, è tra il 20 ed il 30% dei capi complessivi, in
Olanda, Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca, Svezia ed Austria ed in misura minore in
Francia e Germania. I sistemi alternativi, peraltro, in genere si accompagnano a
sistemi di marchi e certificazioni che permettono una valorizzazione del prodotto
presso i consumatori facendo leva sul maggiore livello di benessere animale. Al
riguardo, stime al 2002 riportate della Commissione Europea, evidenziano come i
maggiori costi di produzione dei sistemi alternativi, che si aggirano mediamente su 1-2
euro per 100 kg di uova, sono più che ampiamente coperti in termini di differenziali di
prezzo che i consumatori riconoscono al prodotto ottenuto con tale sistema (Tab. 1.25).
Analoghe considerazioni peraltro possono essere fatte per le uova ottenute con sistemi
di produzione di tipo biologico.
La produzione comunitaria assicura l’autosufficienza al mercato interno nel suo
complesso, dato che il grado di autoapprovvigionamento si attesta mediamente intorno
a 102 nell’ultimo decennio.
Gli scambi con i paesi terzi ed il commercio intra-comunitario
L’UE-15 si configura infatti come il primo esportatore mondiale sia di uova intere,
seguita da Stati Uniti, Malesia e Cina, che di ovoderivati. Tra i paesi emergenti
Malesia ed India, in grado di competere con l’UE sul versante dei costi. I paesi
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principali importatori sono Messico, Canada, Sud-Est asiatico e medio Oriente.
L’export comunitario è rivolto a sette aree: I paesi principali esportatori sul mercato
comunitario sono, nell’ordine Olanda (40%), Belgio, Francia e Germania, mentre i
paesi principali importatori sono Germania (39%), Francia, Belgio e Regno Unito.
L’Italia ha un peso sul commercio intracomunitario del 3,5% circa.
Il comparto nazionale
Secondo il 5°Censimento 2000 dell’Agricoltura italiana il comparto avicolo si presenta
diviso in due realtà:
• piccole unità di allevamento che destinano le produzioni prevalentemente
all’autoconsumo o a mercati locali;
• grandi allevamenti industriali.
Gli allevamenti avicoli censiti sono 521.000, ripartiti soprattutto tra aziende di galline
ovaiole e di polli da carne.
Alla data del censimento il patrimonio nazionale è stato di oltre 171 milioni di capi. La
maggiore concentrazione territoriale si ha nell’Italia del Nord (Veneto, Lombardia,
Emilia Romagna, Piemonte), tale fenomeno della concentrazione territoriale degli
allevamenti avicoli permette di realizzare economie di costo organizzative e di
trasporto, ma crea tuttavia elementi di criticità e di rischio, in termini di gestione
ambientale e di contenimento delle emergenze sanitarie.
Tab. 35 - Avicoli - numero di capi e aziende al 2000 in Italia per regione
Regione
Capi
Aziende
Piemonte
Valle d'Aosta
Lombardia
Trentino A. A.
13.967.156
14.515
27.285.623
1.362.251
27.431
1.489
19.980
11.260
250.863
1.111.388
8.562
2.700
47.983.231
8.638.393
279.177
29.088.217
3.484.039
8.170.282
7.691.275
3.322.691
3.601.858
4.034.421
5.765.546
1.981.935
71.586
11.827
9.888
41.480
42.057
22.701
36.408
58.907
33.338
13.008
60.964
3.841
Bolzano
Trento
Veneto
Friuli Venezia Giulia
Liguria
Emilia Romagna
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
56
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
ITALIA
496.363
1.412.464
1.678.455
1.139.323
171.399.215
16.175
27.885
6.771
4.897
521.895
Oltre il 50% dei capi cosiddetti avicoli in complesso ( polli da carne, galline ovaiole,
tacchini, faraone, oche, altri avicoli), si alleva in Veneto, in Emilia Romagna,
Lombardia e in Piemonte .
Il fenomeno della concentrazione degli allevamenti in areali ristretti si può apprezzare
meglio esaminando i dati censuari su scala regionale e provinciale.
Fatto cento il totale regionale:
• Piemonte il 41% in provincia di Cuneo, seguita da Asti (23%) e da Torino (21,6%);
• Lombardia, il 39,7% a Brescia, il 21% a Mantova, il 15,4% a Bergamo ed il 13%
circa a Cremona;
• Veneto, il 42,8% a Verona, seguita da Vicenza (18,1%), Padova (16,2%) e Treviso
(14,7%);
• Emilia-Romagna, il 62,1% dei capi è appannaggio di Forlì-Cesena, seguita da
Ravenna (11,6%).
Polli da carne: il 53,4% del patrimonio nazionale censito (96,7 milioni di capi) si
concentra nell’Italia nord-orientale, segnatamente in Veneto (29%) ed in Emilia
Romagna (15,9%), seguita, anche in questo caso dall’area nord-occidentale (22,5%) ed
in particolare, da Lombardia (12,9%) e da Piemonte (9,5%). La distribuzione su scala
provinciale, in queste regioni, segue andamenti analoghi a quelli riportati per gli
avicoli in complesso.
Ovaiole: anche i circa 44,8 milioni di galline ovaiole censite presentano una spiccata
concentrazione sul territorio, quasi simile a quella osservata per i broiler. Il 40% dei
capi si concentra infatti in Italia nord-orientale ed in particolare in Emilia Romagna
(19,2%) ed in veneto(18,2%). In questo caso la regione leader è la Lombardia, con il
22,4% dei capi, mentre il Piemonte detiene una quota prossima al 7%. In Piemonte,
Cuneo e Torino concentrano oltre il 55% del patrimonio regionale; Brescia il 42% di
quello lombardo, seguita da Mantova (23%); Verona e Vicenza detengono oltre il 65%
del patrimonio veneto, mentre Forlì-Cesena (51%) e Ravenna sono leader in EmiliaRomagna.
Tacchini: i quasi 13 milioni di tacchini presenti sul territorio nazionale presentano la
massima concentrazione territoriale tra gli avicoli. Il 66,5% dei capi si trova infatti
nell’Italia nord orientale, ed in particolare in Veneto (49,8%) ed in Emilia Romagna
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(14,4%). Di rilievo anche la quota della Lombardia (20,1%). Il 68,6% della produzione
regionale si concentra a Verona.
Dimensioni allevamenti
La presenza di forti economie di scala anche nella fase primaria della filiera fa sì che
l’allevamento avicolo italiano sia anche molto concentrato in allevamenti di grandi
dimensioni, anche se non mancano, strutture diffuse e polverizzate per l’autoconsumo
o per mercati locali ristretti.
• Avicoli in complesso la diffusione degli allevamenti avicoli di maggiori dimensioni
(oltre 2000 capi), espressi in termini di quota di capi allevati, segue andamenti
analoghi a quelli già rilevati nel complesso: massima diffusione in Veneto (31,6%
del totale nazionale nella stessa classe di dimensione), in Emilia Romagna (10,4%),
in Lombardia (17,3%) ed in Piemonte (8,9%). Va peraltro osservato che, fatto 100
il patrimonio regionale), il quasi tutte le regioni italiane una quota superiore
all’80% dei capi è allevata in strutture con una capacità superiore ai 2000 capi, ad
eccezione di Basilicata, Calabria, Liguria, Lazio, Toscana, Campania ed Abruzzo.
Ciò conferma diffusione su tutto il territorio nazionale di allevamenti mediograndi, anche se, nelle quattro regioni più specializzate sull’avicoltura la
concentrazione dei capi allevati in strutture di grandi dimensioni è
significativamente superiore.
• Polli da carne: In particolare, alla data del censimento, il 18% del totale nazionale
18 milioni di broiler, risultavano presenti in allevamenti del Veneto, con capacità
superiore ai 50.000 capi. Nel Veneto si concentra circa un terzo degli allevamenti di
dimensioni medio-grandi e grandi italiani. Seguono Emilia Romagna Lombardia e
Piemonte.
• Galline ovaiole: Il 42% del totale nazionale pari a 19 milioni di capi, si
concentrano in allevamenti da oltre 50.000 capi in tre regioni. Lombardia,
dell’Emilia Romagna, del Veneto.
• Tacchini: l’allevamento di questa specie, denota elevatissima concentrazione
spaziale accompagnata da una concentrazione in allevamenti di grandi dimensioni
superiore alla media riscontrata per le altre specie avicole, assumendo a
riferimento, per le caratteristiche strutturali di questo allevamento, una soglia
dimensionale inferiore (1000 capi) per caratterizzare i grandi impianti.
Analisi della produzione e ed evoluzione della domanda interna
La produzione avicola si compone per oltre il 57% da carne di pollo (-1,5% rispetto al
2001), per il 30% da carne di tacchino (-5,1% rispetto 2001) e per il resto da altre carni
avicole, come la faraona e l'oca, che si sono mantenuta stabili. Il settore mostra una
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sostanziale situazione di autosufficienza con limitati flussi sia in importazione che in
esportazione.
Le esportazioni, soprattutto polli e tacchini, sono formate per oltre il 60% da animali
macellati in parti (disossati, metà o quarti, ali, cosce, colli, petti), e sono indirizzate
verso Germania, Grecia e Regno Unito in misura minore in Austria, Francia, Spagna,
Olanda.
Le importazioni sono ridotte anche a causa delle elevate esigenze del consumatore
italiano che preferisce di gran lunga le carni nostrane.
I paesi fornitori dell’Italia sono sostanzialmente la Francia e l’Ungheria.
Per le uova l’autosufficienza nazionale è prossima ad essere raggiunta anche se
l’applicazione di alcune norme(benessere galline ovaiole) nei prossimi anni porteranno
sicuramente ad una drastica riduzione della produzione di uova a livello non solo
nazionale ma anche comunitario.
I grandi allevamenti industriali, fortemente integrati verticalmente, costituiscono
la “ filiera avicola”(produzione, macellazione/trasformazione)
Secondo stime dell’UNA è composta da circa 6200 aziende di produzione (43%
allevamenti di polli, 12% tacchini, 11% faraone, oche, ecc. 33% allevamenti di galline
ovaiole) 173 impianti di trasformazione (macelli); la fase della lavorazione delle carni
avicole conta, 497 imprese di prima lavorazione e 20 imprese di seconda lavorazione,
1250 imprese di lavorazione delle uova (centri di imballaggio e laboratori di
pastorizzazione).
La filiera conta 80.000 addetti, di cui la metà negli allevamenti, 20% nella
macellazione e lavorazione delle carni ed il resto nella lavorazione delle uova e nel
trasporto. A monte della filiera ci sono circa 1000 imprese mangimistiche in grado di
produrre 5,9 milioni di ton di mangime per l’avicoltura.
Influenza delle emergenze sanitarie sull’andamento della produzione e dei
consumi
La fine delle diverse emergenze sanitarie (BSE, Diossina, Influenza Aviaria), ha di
fatto delineato la realtà dei consumi di carni in Italia. In particolare lo spostamento dei
consumi dalle carni rosse verso le bianche è stato solo momentaneo; una volta rientrata
l’emergenza, il riequilibrio del mercato delle carni ha indotto una sovrapproduzione di
carni avicole e una conseguente crisi di queste carni. In particolare il consumo di
carne bovina si è in parte ridotto ma si è spostato alla ricerca di prodotti di maggiore
qualità o, comunque, differenziazione e tipicità.. La carne suina è stata però in grado di
conquistare quote di mercato. Per le carni avicole, non vi è stato un aumento dei
consumi familiari ma solo uno spostamento di alcune fasce di consumatori le quali
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sono diventate temporaneamente consumatori di carne bianca per poi ritornare, dopo
un certo periodo, alle precedenti abitudini alimentari.
La carne avicola non è stata in grado di trattenere i nuovi consumatori che si erano
affacciati a tale prodotto.
Le industrie avicole stanno reagendo a tale situazione investendo fortemente in
politiche di marca legate soprattutto ai prodotti più elaborati. I risultati non sono
comunque sempre soddisfacenti. A questo di aggiunge anche la debolezza delle
strategie aziendali di controllo della logistica. Le politiche di marca sono infatti mirate
principalmente verso i canali della grande distribuzione organizzata (GDO) ma appena
il 44% in media degli acquisti di carne avicola avvengono attraverso iper- e supermercati. Il principale canale distributivo è rappresentato invece dai negozi specializzati
assieme alla distribuzione tradizionale (macelleria).
Più delineate sembrano, invece, essere le tendenze del comparto delle uova. La quota
della GDO raggiunge il 47% degli acquisti delle uova con un trend in crescita
soprattutto per i super-mercati a scapito dei canali distributivi classificati come "altri".
La lunga crisi economica che coinvolge più in generale le famiglie italiane le rende più
attente ai consumi per le ristrettezze della capacità di spesa. Tale situazione sembra
così premiare un prodotto povero ma completo come il mercato delle uova. Le
famiglie che acquistano uova, dopo una leggera flessione nel 2001 (-1%) sono
aumentate del 2.4% nel 2002 con una tendenza che si conferma anche nel primo
semestre 2003 (+3.5% rispetto allo stesso semestre dell’anno precedente). Anche
l’acquisto medio, dopo una sostanziale stabilità nel 2001 e 2002, sembra aumentare
sensibilmente nel primo semestre 2003 (+12%). I prezzi medi si stanno invece
stabilizzando dopo continue crescite del 3% annuo negli ultimi due anni.
La crisi della BSE aveva sul momento innalzato le richieste di carni alternative, fra cui
quelle di pollo, con una immediato innalzamento fittizio dei prezzi che ha indotto
molti allevatori ad aumentare le produzioni con un conseguente crollo dei prezzi
successivo. Nei primi mesi del 2002 i prezzi per i produttori risultavano essere molto
al di sotto dei costi di produzione. Considerato anche che i consumi comunitari di
pollame stanno crescendo meno delle produzioni, e visto che le esportazioni verso i
paesi terzi saranno sempre meno vantaggiose per l’abbattimento delle restituzioni, se
non verranno adottate misure di controllo volontario delle produzioni, si potrà
incorrere nel rischio delle eccedenze.
Nell’ultimo periodo si sta anche presentando la possibilità che si verifichi un ulteriore
crollo dei prezzi a causa dell’importazione in massa di carni da paesi terzi, soprattutto
Brasile e Tailandia, per aggirare il dazio all’importazione che grava sulle carni non
salate. I costi estremamente più bassi di tali prodotti rischiano di creare forti turbative
sui mercati comunitari e, sebbene difficilmente possano collocarsi sul mercato italiano,
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possono acquisire quote consistenti nei mercati di altri stati membri, limitando
notevolmente le esportazioni dei prodotti italiani verso di essi.
Un problema che si troveranno invece ad affrontare i produttori di uova sarà la
conseguenza dell’applicazione della Direttiva 99/74/CE che definisce gli standard
minimi in materia di benessere delle galline ovaiole negli allevamenti. Questa prevede
che le nuove aziende zootecniche allevino le galline con metodi diversi dalla batteria
(con gabbie dotate di nido, lettiera e posatoio o con sistema senza gabbie) e che le
batterie siano completamente eliminate entro il 2012 dagli allevamenti esistenti.
Intanto, già a partire dal 2003, ogni gallina ovaiola dovrà avere a disposizione 550 cm
2 invece degli attuali 450. Questo comporterà una riduzione del numero di galline
negli allevamenti con conseguente calo della produzione di uova: fino al 20% in meno
secondo stime dell’UNA. Le ripercussioni saranno il ricorso a notevoli quantità di
uova importate ed un aumento dei prezzi delle uova italiane, un possibile calo
dell’occupazione nella filiera.
Conclusioni
I problemi che colpiscono il settore avicolo in generale sono di natura diversa rispetto
a quelli strutturali tipici di altri comparti. Data l’estrema integrazione della filiera, gli
allevamenti medio-grandi conservano poco delle caratteristiche delle aziende agricole
ad indirizzo zootecnico. Fino a non molto tempo fa, le problematiche venivano
affrontate con un approccio spiccatamente industriale ed in qualche modo autonomo
rispetto all’ambito istituzionale. In seguito all’epidemia di influenza aviare nel Nordest a partire dal 1999, questo comparto ha evidenziato i suoi punti di debolezza, non
solo rappresentati dalle tematiche igienico sanitarie ed ambientali, ma anche strutturali
ed organizzative della filiera (vedi riquadro).
Per quanto alle problematiche ambientali occorre ricordare:
ƒ
ƒ
ƒ
ƒ
ƒ
ƒ
ƒ
ƒ
ƒ
gestione delle deiezioni (problema delle mosche)
gestione degli animali morti in allevamento
gestione dei rifiuti sanitari a rischio infettivo
controllo delle emissioni in atmosfera con i riflessi della disciplina IPPC
utilizzo di manodopera qualificata (attualmente squadre di vaccinazione, di
carico,. spesso avventizi e senza alcun controllo dei possibili spostamenti da un
allevamento all’altro che necessitano adeguati percorsi formativi al fine di
specializzare le competenze).
depurazione impianti di macellazione
misure di diversificazione della specie allevata e riduzione della concentrazione
di allevamenti avicoli.
norme specifiche in materia urbanistica
adeguamento strutturale degli allevamenti (di carattere ambientale).
61
Inoltre, benché la filiera riesca a garantire una buona qualità igienico-sanitaria del
prodotto – con le dovute eccezioni come nel caso dell’influenza aviare – l’immagine di
cui questi allevamenti godono presso una parte dei consumatori, non è di buon livello,
talvolta a ragione ma più spesso a causa di una diffusa disinformazione
sull’argomento. Ne è una prova il fatto che la maggior parte dei consumatori crede che
il pollo da carne sia allevato in batteria, sistema usato invece esclusivamente per le
galline ovaiole. L’immagine che accompagna il prodotto è comunque “povera” forse
anche a causa dei prezzi bassi spuntati da questi prodotti rispetto ad altre carni.
Sul fronte delle tracciabilità di filiera e della certificazione dei sistemi di qualità,
occorre far presente che in questo comparto a certificazione di prodotto è diffusa da
anni. Inoltre recentemente è stato riconosciuto dal Mipaf un regolamento per un
sistema volontario di etichettatura delle carni di pollame, che prevede il rispetto di un
disciplinare di etichettatura per apporre una etichetta sulla carcassa intera o sul singolo
pezzo di carne o su pezzi di carne o sul relativo materiale di imballaggio, per la
comunicazione di informazioni appropriate fomite per iscritto ed in modo visibile al
consumatore nel punto vendita. Il controllo del rispetto del disciplinare è a cura di un
organismo indipendente autorizzato dal Mipaf e designato dall’organizzazione. Tale
organismo indipendente deve essere riconosciuto rispondente ai criteri stabiliti dalla
norma europea EN/45011.
Inoltre in base all’art. 14 del decreto 29 Luglio 2004 tutte le certificazioni volontarie di
prodotto a partire dal 14 aprile 2005, periodo transitorio, dovranno essere autorizzati
per riportare obbligatoriamente in etichettata:
•
•
•
•
•
codice di rintraccabialità;
paese di nascita e allevamento;
macello;
laboratorio di sezinamento
informazioni circa l’alimentazione o la forma di allevamento.
I rapporti contrattualistici nella filiera avicola
La filiera avicola ha subìto nel corso degli ultimi anni una profonda evoluzione, in
relazione all’organizzazione ed al funzionamento del processo produttivo, per potersi
adattare ai continui cambiamenti in atto nel mercato globale in termini di qualità dei
prodotti, segmentazione e diversificazione dell’offerta e riduzione dei cicli di vita dei
prodotti. Tale evoluzione ha portato allo sviluppo di rapporti contrattuali tra
l’impresa di trasformazione e la fase agricola di allevamento che avvengono
principalmente con contratti cosiddetti di soccida, e meno frequentemente con
semplici contratti di compravendita e con integrazioni verticali che portano alla
fusione in un’unica impresa i due momenti produttivi. In Italia oltre il 70-80%(fonte:
62
UNA) dei rapporti contrattuali tra l’industria di trasformazione carni e gli allevatori è
regolato da contratti di soccida
Soccida
Nel caso più diffuso della stipula di contratti attraverso la soccida, le imprese di
trasformazione delle carni forniscono agli allevatori input produttivi - pulcini,
mangimi, farmaci, assistenza tecnica, ecc.- e questi ultimi provvedono a fornire la
struttura di allevamento (generalmente di proprietà dell’allevatore) e
all’accrescimento dei capi da utilizzare nel processo produttivo della stessa impresa di
trasformazione. Quindi, nel contratto di soccida, il soccidante (impresa di
trasformazione) e il soccidario (allevatore) si accordano per l’allevamento e lo
sfruttamento di una certa quantità di capi e per l’esercizio delle attività connesse al
fine di ripartire l’accrescimento del pollame e gli altri prodotti e utili che ne derivano.
Normalmente l’impresa di trasformazione riconosce agli allevatori, al momento del
ritiro del prodotto, il pagamento di un prezzo. Il prezzo riconosciuto è uguale al costo
per lo sfruttamento degli impianti più un compenso attribuito all’allevatore a titolo di
remunerazione dell’imprenditore, calcolato sulla base di precisi indicatori da parte
dell’impresa dominante. In generale, le quote di riparto sono stabilite in percentuale
sulla produzione conseguita, al netto dello scarto, tenendo conto dell' incidenza dei
rispettivi apporti sul costo di produzione e variano col variare dell' indice di
conversione del mangime in carne. La quota dell'allevatore può essere acquistata dal
conferente in forma forfettaria. La durata di solito è annuale ovvero per 4-5 cicli che
durano all'incirca 60 giorni ciascuno. Questo è quanto è avvenuto particolarmente
negli ultimi 2-3 anni.
Contratti di fornitura, contratti di integrazione
Le imprese di trasformazione, al fine di fornire agli allevatori i fattori produttivi,
realizzano con le imprese a monte della filiera – mangimifici, fornitori di pulcini, ecc.
– dei contratti di fornitura, oppure dei contratti di integrazione attraverso la
costituzione di una holding in cui l’impresa di trasformazione ne risulta la capofila. Il
processo di internazionalizzazione da parte dell’impresa di trasformazione quasi
sempre coinvolge il mangimificio, che si presenta come una grande impresa
importatrice di materie prime. Una fase normalmente esternalizzata, invece, è quella
della scelta dei pulcini destinati alla riproduzione (grand-parents). Queste imprese
sono ubicate prevalentemente all’estero (Olanda, Germania) e realizzano con le
imprese avicole, specializzate nella moltiplicazione dei pulcini parents e
nell’incubazione delle uova, dei contratti di fornitura di durata annuale. La fase di
moltiplicazione e incubazione delle uova (essendo una fase particolarmente delicata,
con elevati costi di transazione) può essere integrata nella holding capitanata
dall’impresa di trasformazione oppure, con più frequenza, gestita attraverso dei
contratti di soccida, più raramente, invece, con contratti di libero mercato. La
63
moltiplicazione dei parents e l’incubazione delle uova è una fase direttamente o
indirettamente collegata a quella dell’allevamento.
Dalle evidenze emerge come la filiera del settore avicolo sia estremamente integrata e
gli operatori agricoli coinvolti mostrano un elevato grado di dipendenza rispetto alle
grandi imprese della trasformazione. In particolare, gli operatori agricoli – spesso di
piccole dimensioni- si rapportano con un mercato di sbocco fortemente concentrato e
gestito da poche aziende di grandi dimensioni. Questa situazione comporta debolezza
nella fase contrattuale da parte degli operatori agricoli e una quotazione a ribasso del
prezzo dei propri prodotti. Dall’altra parte però, il piccolo allevatore è protetto dalle
continue variazioni di mercato grazie a costi divenuti così costanti e prezzo di
riferimento certo.
In tale scenario si rende necessario riconsiderare il sistema di organizzazione della
filiera avicola in maniera tale da garantire agli operatori agricoli remunerazioni più
adeguate ed una maggiore trasparenza dei prezzi di riferimento.
Organismo Interprofessionale
Al fine di superare il tradizionale sistema contrattuale, si potrebbero altresì creare i
presupposti per la realizzazioni di accordi tra i produttori agricoli, l’industria di
trasformazione, le imprese commerciali. Tali accordi, assumendo un carattere
interprofessionale, hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale tutelando al
tempo stesso l’interesse del singolo. (es. settore ortofrutticolo con il Reg. 2200/96).
Per tali fini, un’opportunità alla riorganizzazione della filiera avicola sono
rappresentate dalla predisposizione, da parte del Ministero delle politiche agricole e
forestali, di contratti di filiera (art.66, comma 2, legge 27 dicembre n. 289 – legge
finanziaria 2003).
Tali contratti di filiera hanno come obiettivo quello di favorire l'integrazione di filiera
del sistema agricolo ed agroalimentare ed il rafforzamento dei distretti agroalimentari
nelle aree sottoutilizzate.
Il comparto cunicolo
L’Italia è il primo produttore a livello comunitario e mondiale di conigli; nella
formazione della P.L.V. zootecnica la coniglicoltura rappresenta il 4° comparto ( 9% ).
Il comparto produce 230.000 ton. di carne, pari a 100.000.000 di capi/anno ed un
valore di circa 500 milioni di Euro (fonte: Avitalia - Settore Conigli).
64
Oltre all’Italia (43,5% della produzione europea) i maggiori produttori europei sono la
Francia (25%), la Spagna (16%) e la Germania (5%).
Le informazioni riguardanti questo comparto, non sono comunque esaustive in quanto
non sono mai state svolte indagini precise sul rapporto fra allevamenti industriali ed
allevamenti rurali (produzione per autoconsumo o mercati locali), sulla loro
dimensione, sulla gestione soprattutto in funzione delle problematiche sanitarie, sui
rapporti di mercato.. Inoltre, similmente a quanto accade per il comparto avicolo, i dati
economico-statistici relativi alla filiera cunicola sono scarsi a causa della natura
industriale dei grandi allevamenti, svincolata dalle problematiche agro-zootecniche
comuni agli altri settori.
Dal 1990 al 2000 il numero di aziende cunicole e' diminuito di oltre il 45%. Questa
diminuzione e' stato tuttavia meno sensibile in termini quantitativi di produzione in
quanto la chiusura ha riguardato allevamenti di dimensioni famigliari ed alcuni di
questi si sono evoluti da un indirizzo per autoconsumo a struttura di produzione
intensiva.
Tab. 36 - Cunicoli - numero di capi e aziende al 2000 in Italia per regione
Aziende
2000
Piemonte
Valle d'Aosta
Lombardia
Trentino A.A.
Bolzano
Trento
Veneto
Friuli V.G.
Liguria
Emilia R.
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
Totale
15.539
619
9.899
2.740
1.502
1.238
20.343
4.386
5.891
18.153
24.893
11.706
25.748
23.868
12.543
4.380
20.417
1.670
5.439
6.193
1.588
837
216.842
Capi
1990
Var %
2000
1990
Var %
2000/1990
2000/1990
50.248
-69,1 1.022.907 1.525.000
-32,9
1.220
-49,3
7.383
16.025
-53,9
31.682
-68,8
611.427
824.663
-25,9
5.330
-48,6
114.526
157.107
-27,1
1.748
-14,1
27.753
32.478
-14,5
3.582
-65,4
86.773
124.629
-30,4
37.940
-46,4 3.205.785 3.520.615
-8,9
12.982
-66,2
719.412
539.255
33,5
15.148
-61,1
87.499
255.537
-65,8
36.868
-50,8
945.388 1.210.989
-21,9
44.135
-43,6
544.876 1.464.581
-62,8
16.155
-27,5
193.293
283.411
-31,8
40.242
36,0
984.638 1.718.934
-42,7
35.975
-33,7
517.113 1.450.795
-64,4
20.736
-39,5
478.842
547.395
-12,5
6.101
-28,2
82.448
151.704
-45,7
27.376
-25,4
656.294
504.629
30,1
5.537
-69,8
171.153
206.773
-17,2
7.200
-24,5
104.649
129.837
-19,4
8.468
-26,9
136.856
167.089
-18,1
2.473
-35,8
100.929
96.781
4,3
1.781
-53,0
202.126
122.874
64,5
407.597
-46,8% 10.887.544 14.893.771
-26,9%
Fonte Istat – 5° Censimento Agricoltura
65
N.medio
capi
2000
66
12
62
42
18
70
158
164
15
52
22
17
38
22
38
19
32
102
19
22
64
241
50
In Italia la produzione del coniglio da carne mostra differenze significative tra il Nord,
il Centro ed il Sud della penisola.
Le regioni italiane più rappresentative sono: Veneto, Emilia Romagna, Friuli V.
Giulia, Piemonte e Lombardia.
Nella cunicoltura l’allevamento in purezza di una singola razza non dà risultati
soddisfacenti, per cui la produzione riguarda per il 90% l’allevamento di ibridi
commerciali. Esistono comunque allevamenti specializzati per la produzione di
soggetti maschi e femmine destinati alla riproduzione.
Le aziende a carattere intensivo che operano nel settore sono circa 8.000 con un
impiego di circa 10.000 addetti.
Il Nord Italia (Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Friuli) è
caratterizzato dalla presenza di grandi allevamenti (400 - 1.000 fattrici) e di più
elevato livello tecnologico applicato. Al Centro ed al Sud si trova un gran numero di
medi e piccoli allevamenti e solo alcuni di grandi dimensioni.
Per le aziende di dimensioni medio-grandi, la filiera è integrata verticalmente con
l’industria mangimistica. L’allevamento cunicolo è spesso legato all’industria avicola
ed i grossi impianti sono di proprietà di macellatori di bassa corte o delle aziende del
settore avicole stesse.
Nei grandi allevamenti è frequente l'alimentazione automatica, la fecondazione
artificiale e il ciclo chiuso: nella stessa unità produttiva si mantengono le fattrici e i
coniglietti che vengono poi ingrassati.
Nell'Italia Centrale sono diffusi medi (Marche - Abruzzo) e grandi (Lazio)
allevamenti, mentre in Toscana, e in Umbria sono più frequenti i piccoli allevamenti (<
50 fattrici), anche se il Sud dell'Italia si distingue per l'elevato numero di allevamenti
medi e piccoli della Campania. I grandi allevamenti (> 500 fattrici) spesso dispongono
di un macello aziendale.
La regione italiana più importante per la coniglicoltura, è il Veneto dove si concentra il
38% della produzione nazionale in circa 500 allevamenti di grandi dimensioni.
Provincia di Verona: vi si allevano circa 100.000 fattrici in un centinaio di allevamenti
che producono circa 5.000.000 di capi anno con una PLV di circa 32 miliardi.
Provincia di Padova: rispetto alle altre province del Veneto vi è la maggior presenza di
allevamenti di grandi dimensioni. Si identificano in una sessantina gli allevamenti
professionali, per un totale. comprensivo degli allevamenti di piccole dimensioni, di
circa 70.000 fattrici che producono 3.500.000 capi/anno e una PLV attorno ai 20
miliardi.
66
Provincia di Venezia : conta una quarantina di allevamenti, per un totale complessivo
di circa 50.000 fattrici, che danno vita ad una commercializzazione di circa 2.500.000
conigli/anno con 15 miliardi di PLV.
Provincia di Vicenza: presenza di allevamenti medio-piccoli dei quali solo una
cinquantina quelli professionali per circa 30.000 fattrici. La produzione annua è di
circa 1.500.000 conigli con una PLV di circa 10 miliardi.
Il Piemonte è senz'altro la seconda regione per importanza, sono presenti circa 350
allevamenti professionali di conigli. Molti di questi allevamenti sono localizzati in
collina e montagna o nei fondo valle alpini, in particolare nella provincia di Cuneo.
La dimensione degli allevamenti è così ripartita:
50-300 fattrici
300-500 fattrici
oltre 500 fattrici
n°200
n°120
n° 70
Distribuzione percentuale per provincia:
Cuneo
Torino
Alessandria
Asti
Vercelli
Biella
Novara
69%
15%
7%
4%
2,5%
1,5%
1,5%
Gli addetti all'allevamento possono essere così ripartiti: 250 addetti a tempo pieno e
250 addetti a tempo parziale. il coniglio è venduto ad peso vivo medio di 2,7 - 3 Kg.
si produce un coniglio pesante che spunta al mercato di Cuneo quotazioni differenziate
rispetto al mercato di Verona. Il carico negli allevamenti avviene una volta a
settimana. Il numero di capi prodotti annualmente in regione si aggira sui 10.000.000
di capi. La produzione è di 20.000 ton. all'anno.
La struttura di macellazione è piuttosto frazionata, con un numero consistente di
impianti che trasformano 4-5.000 conigli alla settimana.
Emilia Romagna: presenza di allevamenti di grandi dimensioni soprattutto nelle
province di Bologna, Modena e Forlì. Molti sono anche gli allevamenti di medie e
piccole dimensioni. Forlì, è sede di uno dei mercati più importanti per la quotazione
del coniglio vivo ed ha influenza sulle vendite nel centro e sud Italia. La maggior
concentrazione di tali allevamenti è localizzata in provincia di Modena e Forli`
67
(entrambi 24%), segue Ravenna (19%). Sono localizzati principalmente in pianura
(62%) e collina (23%). Pur trattandosi di allevamenti professionali solo il 63% è
gestito a tempo pieno mentre il restante 34% è a part-time. Si tratta comunque di
allevamenti professionali che riguardano un totale di 48,332 fattrici e 393,297 posti
ingrasso.
Marche: produzione pari a circa 1,8 milioni di capi macellati l'anno e circa 14.000
quintali di carne. l'80% dei produttori ed il 100% dei trasformatori regionali è riunito
in cooperativa, la CLAM (Coop.va Lavoratori, Allevatori Marchigiani), raggruppa. Le
Marche approvigionano alcune regioni del centro (Toscana, Lazio e Umbria) e la
Sicilia. In quanto alla tipologia del venduto, per il 90% si tratta di carne fresca, il
restante 10% è congelata. Le priorità a livello regionale attualmente sono
l'ammodernamento delle strutture di allevamento che presentano impianti obsoleti.
Per quanto riguarda i costi di produzione occorre fare un'ulteriore precisazione: una
componente non trascurabile di tali costi, è costituita dal costo dello smaltimento dei
sottoprodotti della macellazione. Solo nel comparto cunicolo i costi di smaltimento si
sono, nell'arco di pochi anni, decuplicati.
Tale problema sussiste in particolare nelle aziende di dimensione media e piccola che
non dispongono di propri impianti di smaltimento e devono rivolgersi realtà
imprenditoriali operanti a livello nazionale.
Abruzzo: 48 allevamenti professionali; negli ultimi 5 anni il 30% degli allevamenti ha
cessato la propria attività. La provincia più rappresentativa è L'Aquila; seguono
Teramo, Chieti e Pescara. Il numero di fattrici è di circa 30.000, per una produzione
stimata di 1.500.000 conigli/anno destinati al macello. Vi sono, però, allevamenti che
si dedicano solo all'ingrasso degli svezzati, per un totale di circa 400.000 conigli da
macello/anno e, di contro, allevamenti che producono esclusivamente svezzati. I
macelli cunicoli presenti in regione sono 2 ed hanno una capacità di circa 10.000 capi
macellati/settimana. Ad essi si affiancano 5 macelli aziendali, che lavorano
esclusivamente per gli allevamenti cui sono annessi. Gli animali sono pronti per il
macello ad un peso superiore ai 2,5 Kg (intorno ai 2,6 - 2,7 KG), per la produzione di
un coniglio cosiddetto pesante, il cui prezzo si allinea con quello di Verona.
Il mercato
La produzione italiana copre il 98% del fabbisogno nazionale per cui non vi è export di
prodotto finito. Minime quantità di carne di coniglio vengono importate
essenzialmente dalla Cina e dall’Ungheria. Secondo dati ISTAT il consumo pro capite
di carne di coniglio e selvaggina è stabile negli ultimi anni e nel 2000 si attestava sui
4,4 kg.
68
Al Nord il coniglio prodotto ha un peso alla macellazione di 2,6 - 2,8 Kg con punte di
3 Kg in Piemonte, in Centro Italia il peso scende a 2,4 - 2,5 Kg mentre al Sud si
macellano i conigli già attorno ai 2 Kg di peso vivo.
Dal punto di vista qualitativo e di immagine delle carni, la cunicoltura non ha subito
contraccolpi come altri comparti a causa delle emergenze sanitarie, per cui la
produzione ed il mercato mostrano una certa stabilità. Le carni vengono apprezzate per
le ottime caratteristiche organolettiche (rapporto proteine/grasso favorevole alle
proteine).
Le prospettive commerciali non lasciano intravedere ulteriori spazi di espansione
interna del mercato a meno di un cambiamento delle abitudini alimentari degli italiani
nel consumo di carne. Ancora più difficoltosa appare la collocazione del prodotto su
nuovi mercati come quelli del Nord Europa dove per ragioni culturali il coniglio viene
visto come animale da compagnia piuttosto che come alimento.
Sul fronte del biologico il comparto cunicolo è senz’altro quello che mostra meno
dinamicità nel settore zootecnico.
Problematiche di mercato
La produzione è molto frammentata e con difficoltà di rapporti con il mercato. Il
prodotto è posizionato sul mercato vivo od in prima lavorazione. Esistono ancora
poche strutture attrezzate per la trasformazione e valorizzazione del prodotto.
Questo espone il settore ad una forte volatilità di prezzo e, quindi, di programmazione.
Si tratta, cioè di una filiera che sta avviando ora i processi di integrazione verticale.
A differenza del mercato avicolo, le aziende effettuano solo produzione, senza
sviluppo di prodotti della macellazione a più elevato valore aggiunto, (non vi sono
prodotti di 3° e 4° gamma, non vi sono iniziative di valorizzazione del prodotto) per
cui devono ricorrere all'intermediazione del grossista.
Esiste una situazione di dipendenza strutturale del settore cunicolo da altre attività
zootecniche. Questo potrebbe rappresentare un limite non solo per l'aspetto di struttura,
ma anche per quello sanitario ed organizzativo, i quali potrebbero rappresentare vere e
proprie barriere ad un reale sviluppo economico del settore. Il sistema di consegna
predominante per tutte le aree è quello che riguarda un solo macello ( 91% dei casi). I
tempi di consegna del prodotto sono principalmente settimanali (47%), seguiti da
quelli quindicinali (32%), trisettimanali (19%) e a ciclo unico (2%).
La percentuale di prodotto scartato mensilmente è mediamente del 5.6%.
69
Conclusioni
La domanda, viene totalmente soddisfatta dalle ditte organizzate del Nord Italia.
Potrebbe essere tuttavia interessante per gli allevamenti intraprendere la strada
dell’adozione di un marchio privato per produzioni di qualità che sottostanno a
disciplinari sul tipo di alimentazione o allevamento. Data l’integrazione di filiera
esistente, la realizzazione di una completa tracciabilità delle carni di coniglio non
dovrebbe rappresentare un grosso ostacolo. Inoltre intraprendere la strada delle
produzioni certificate può rappresentare un salvagente nella prospettiva reale di un
progressivo aumento nelle quantità di carni importate anche da paesi extra europei (o
paesi comunitari) che vengono vendute a costi inferiori a quelle nazionali. Il costo
relativamente alto delle carni di coniglio rispetto alle altre carni è infatti uno dei fattori
limitanti il consumo, insieme all’assenza di prodotti innovativi sul mercato, come
avviene per le carni avicole. Dati i nuovi di stili di vita che accanto alla qualità
richiedono una sempre maggior valore aggiunto al prodotto, potrebbe essere
economicamente valida la commercializzazione di prodotti elaborati di 3a e 4a
generazione, ricalcando il notevole successo ottenuto dagli stessi prodotti ottenuto con
le carni avicole. Altre opportunità sono offerte dallo sviluppo dell’allevamento
biologico per aumentare il valore del prodotto e conquistarsi delle nicchie di mercato,
non sembra vi siano altri spazi per collocare le carni.
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