articolo trauma - psicologa, psicoterapeuta, Bologna, Giulia Grava

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articolo trauma - psicologa, psicoterapeuta, Bologna, Giulia Grava
IL TRAUMA
E’ un argomento trattato da millanta autori e io parlo solo di quelli che mi hanno dato un
accento di verità umana. Borgogno (1999) ha sottolineato la centralità dell’ambiente e della
forza traumatica che esso può avere nel formare l’individuo ed è per questo che inserisco
questo variegato contributo teorico, proprio perché sta a testimoniare l’importanza
dell’ambiente nella genesi dei disturbi alimentari: i genitori in primis, la famiglia allargata poi.,
La posizione teorica appena accennata e cioè dell’importanza dell’ambiente non è ancora
accettata da molti, chiusi in una visione monocentrica, unipersonale dello sviluppo individuale
centrato; faccia testo per questo durante le Contoversial Discussions in cui vi era aperta lotta
fra le fazioni di Melanie Klein e degli Anna freudiani e la prima, congiuntamente con Donald
Winnicott [che a volte fu considerato un kleiniano, in altre occasioni come facente parte del
“Middle Group”, cioè di tutti coloro che rivendicavano la propria originalità di pensiero, sia
rispetto ad un gruppo rispetto all’altro] in pratica riteneva che il ruolo della madre non potesse
che essere quello di dare cibo e di cercare di contenere le fantasie sadiche di questo [anche
riguardo a combattere gli usurpatori del grembo mai nato e cioè i fratelli]; la Klein non
accennerà mai ad un suo “problema” riguardo alla propria madre che era depressa ed altamente
svalutante per lei, elemento, fra gli altri che fa presumere F. Robert Rodman ( pagina 57) che le
sue successive amiche, sue sostenitrici alla società Psicoanalitica Britannica, a volte pazienti, a
volte traduttrici dei suoi lavori siano stato un gesto riparativo (inteso come posizione
depressiva) nei confronti della propria madre.
Ma qual è il motivo di questa mia lunga digressione?
Il constare Winnicott come una persona con un proprio percorso e che quindi all’inizio
seguì una linea di pensiero ben consolidata, ma che alla fine riuscì ad esprimere i propri
sentimenti aggressivi [si lamenterà svariate volte che da piccolo era troppo carino Rodmanpag.24], [F. Robert Rodman, Winnicott, vita ed opere, Cortina, pag. 103).
Mi pare innegabile che parlarvi delle Controversial Discussions e quindi dei due
protagonisti è stato una modalità per riaffermare i punti di vista diametralmente opposti delle
due fazione: per la Klein la madre praticamente non esiste in quanto è la mente del bambino
che è “intrisa” di gelosia, cattiveria, istinti predatori.
Ritengo che il modo migliore per farci comprendere il pensiero di Winnicott sia la sua
celebre frase: “non esiste un bambino senza la madre”, con questo intendendo dire che il
neonato non ha solo impulsi suoi innati, ma che sono le cure materne che hanno il compito di
accrescere o meditate questi ultimi, pertanto egli affida uguale importanza all’ambiente
esterno, come a quello interno. Pertanto innatismo vs. empirismo.
Pertanto il trauma per Winnicott può essere in egual misura sia sollecitato da eventi
esterni, sia interni; per la Klein la madre è solo un “facilitatore”, non si può in realtà dare nulla
al bambino perché è il suo mondo interno [inteso come pulsioni e non come oggetti introiettati]
è per noi adulti inaccessibile.
Riprendendo le fila di quanto accennato sopra siano di ulteriore esempio gli scritti di
Franco Borgogno mi ha anche meglio specificato il concetto di percorso dello sviluppo della
persona e del suo modo d rispetto ai due “bastioni”: Anna Freud e Melanine Klein dall’altrai
pensare per tutto il corso della sua vita, così come mi ha dato un interesse precipuo per i due
autori il cui percorso seguo alla ricerca di verità sulla natura del trauma, Ferenczi e Heimann.
Per tutto il resto, Borgogno non ha colpe di mie scelte e asserzioni.
Ferenczi: un percorso tutto personale
Il contributo di Ferenczi riguardo al trauma è fondamentale, anche se non viene
riconosciuto per intero o è frainteso (Borgogno, 1999) da chi non si è dato la pena di conoscere
il suo percorso e la sua persona, e ha soltanto sottolineato il suo disconoscimento da parte di
Freud e dei suoi fedeli nell’ultima parte della sua vita, quando, sempre secondo i più fedeli
(Jones, 1957), uscì pazzo.
Il concetto di percorso è molto importante e può essere usato più utilmente di quello di
processo: processo è come una fotografia della dinamica delle forze che interagiscono nel
campo, percorso è una freccia, una direzione, con un inizio che riporta al padre e alla madre, ai
nonni e ai bis-nonni e che termina con la morte. Come nelle coppie o nelle famiglie uno
acquista un aspetto, un ruolo, un nomignolo che è difficile modificare e che rimane nel tempo
oscurando un proprio cambiamento personale, che non viene riconosciuto fin quando non
esplode in conflitti e rotture, anche all’interno della psicoterapia, quando un paziente è stato
etichettato in un certo modo, non è facile vederne il cambiamento e la resistenza alla
riproposizione dell’immagine consueta. Si tende sempre a essere visti come si è stati visti. La
disconferma e la non convalida sono traumatiche, perché tolgono una parte dell’identità del
soggetto.
Bisogna sapere da dove uno è partito, ma anche dare valore a dove uno sta andando.
Un’immagine spesso usata negli ultimi anni per descrivere il compito degli psicoterapeuti,
come delle persone al volante, è che essi debbono guardare nello specchio retrovisore, ma nello
stesso tempo guardare avanti; il che vuol anche dire che, parafrasando il concetto di Bion
(1962) di visione binoculare, si deve guardare con il microscopio ai derivati dell’inconscio, ma
nel frattempo guardare a tuttocchi la realtà dell’esistenza. I pazienti devono essere studiati nel
loro percorso: se li guardiamo dall’esterno e a prima vista vediamo solo la loro sofferenza e la
loro stramberia, ma se andiamo ad osservare bene quella sofferenza e quella stramberia a poco
a poco ci diventano comprensibili: questo è stato l’insegnamento di Freud e quello di
Binswanger e in genere degli antropofenomenologi, agli inizi del secolo scorso.
Anche gli autori e i loro contributi alla conoscenza vanno colti nel loro percorso:
Ferenczi è arrivato a sostenere una terapia attiva, nel senso che è il paziente che nella terapia si
attiva: il compito di una terapia è quello di rendere il paziente attivo, autonomo, e la terapia
deve attivare qualcosa, altrimenti che senso ha? Mai Ferenczi si è posto come attivo, se non,
come dice in una lettera a Freud, del 1931, quando aveva adottato all’inizio della sua attività la
neutralità e l’astinenza che i canoni tecnici freudiani prevedevano.
Fin dai suoi primi lavori, a cavallo degli anni ’10, egli ha percepito che il presente è
fallace se non ha un passato e un futuro, e fallaci sono le sensazioni soggettive del terapeuta
quando trova un paziente che non è capace di mettere in parola ciò che sente e può allora, il
terapeuta, sentirsi annoiato, sonnolento, attaccato, risentito contro il paziente che gli pare stia
boicottando il suo progetto terapeutico. Ma se il paziente non ha la capacità di percepire e
comunicare le sue emozioni dobbiamo dire che sta attaccando il terapeuta? Che il sintomo
attacchi la mente può non essere immediatamente comprensibile. Allora in gioco sono la
tenacia e la pazienza del terapeuta nel prendere in considerazione la direzione futuro, le
intenzioni, le aspirazioni che il paziente può avere riguardo al proprio futuro. Dall’interesse e
dalla considerazione per i bisogni e le aspirazioni dell’altro membro della coppia terapeutica
può nascere una relazione terapeutica efficace e produttiva.
La visione di Ferenczi sul passato si concentrava sul trauma. Trauma prodotto da piccole
cose che si ripetono. Per capire un sintomo, occorre avere attenzione per come si costruisce
nella seduta, arrivando per gradi ad una sorta di modello prototipico di come si è andata
costruendo la malattia psicologica di ogni specifico individuo. Microtraumi come ferite al
proprio narcisismo. Ferenczi scrisse questo nella seconda metà del primo decennio del
Novecento, quando ancora nessuno aveva sviluppato il concetto di ferita narcisistica dell’Io.
Una collega e allieva di Ferenczi colse anch’essa questo insulto al nucleo profondo della
persona: Clara Thompson (1964) ai nevrotici di guerra, catatonici, diceva abbracciandoli: “cosa
ti hanno fatto figlio mio?” e allora essi “ritornavano”. L’abbraccio permetteva al paziente di
sentirsi degno di entrare di nuovo nel consorzio umano, mentre erano stati trattati come
lebbrosi e tali si erano sentiti. Trovare un contesto in contrasto con l’ambiente traumatico
permette quello che è chiamato un nuovo inizio (Balint, 1932 e 1968), la nascita di un nuovo
Sè. Le persone pensano con la pancia e con il cuore e poi con la testa, mentre molti hanno
vissuto in un contesto solo di mente, senza pancia e senza cuore. Il trauma non è solo qualcosa
che è accaduto, ma qualcosa che doveva accadere e non è avvenuto, è l’assenza, quel vuoto che
dipende dal fatto che quella famiglia non c’era nel modo giusto: troppo spesso si pensa che
l’abuso riguardi tutte le famiglie e non si guarda all’incapacità di molti genitori di essere
generosi e di sapere nutrire, divertire, ammaliare.
Poi il trauma deve riprodursi nella terapia, il terapeuta diventare l’assassino: la sofferenza
grande non si cura con le parole, ma bisogna incarnare i personaggi, e il terapeuta deve vivere i
sentimenti del paziente-infante e a lungo, per restituirli al paziente, non è sufficiente una
semplice operazione cognitiva. E bisogna ripetere, ripetere, ripetere. Ripete il paziente e ripete
il terapeuta. Come i bambini con i genitori, anche i pazienti con il terapeuta. E se il terapeuta sa
vedere il gioco (come non seppe vederlo il genitore), il gioco non è più pericoloso.
Il trauma allora sarà forte quando il paziente scoprirà quello che non c’è stato. La
guarigione comporta il passaggio attraverso una sofferenza più grande quando si capisce
perché si è tanto sofferto e la rabbia diventa più grande. Si passa attraverso un peggioramento
fenomenologico, che è in realtà un miglioramento, un percorso verso la guarigione.
E’ un’operazione eccezionale di Ferenczi quella di riconoscere l’identificazione con
l’aggressore che i bambini debbono spesso effettuare quando vivono in un ambiente malato.
Ne Il piccolo uomo gallo (1913), Ferenczi racconta di un bambino, Aràd, che viene morsicato
al prepuzio da un gallo e per affrontare questo trauma si coinvolge nella vita di galli e galline e
giunge ad imitare il verso del gallo. Diventerà come chi lo ha aggredito. Il suo mondo diventa
quello del pollaio. Il bambino cerca così di diventare protagonista di una vicenda traumatica
che ha subito.
Ferenczi metteva in luce che l’individuo si identifica con l’aggressore perché non può
fare diversamente, perché deve sopravvivere nell’ambiente che gli è toccato, anche se capisce
che il genitore è ammalato. Meglio quel genitore che nessuno. Il bambino non può fare
altrimenti, si identifica suo malgrado con il genitore aggressivo.
Questo, in misura diversa, vale per tutti: siamo fatti dai nostri genitori. Per Ferenczi
l’introiezione è la bramosia di oggetti del neonato. Fairbairn (1952) dirà che il bambino cerca
oggetti. Anche Ferenczi dice che il bambino cerca oggetti con brama, ma dice anche che non
necessariamente questi oggetti sono buoni. Introietta di necessità per questa brama di oggetti. I
lavori di Ferenczi nei suoi ultimi anni, e soprattutto il Diario clinico del ’32, sono la migliore e
più emotivante esposizione del dolore, dell’annichilimento e delle disperate misure difensive
del bambino- e dell’adulto- violato, nel corpo e nella mente.
Viene così ribaltato il punto di vista classico secondo il quale in terapia si introiettano Io
e Super-Io del terapeuta: oggi molti sottolineano che sono più importanti la disidentificazione
e la scelta delle identificazioni. Ma non è semplice: il paradosso è che è solo quando si è maturi
che si possono combattere certe identificazioni e sceglierne altre; un percorso che normalmente
avviene soprattutto nell’adolescenza, ma che spesso richiede l’aiuto di un terapeuta il cui
compito, come dissi all’inizio di questo capitolo, è di lavorare per consentire l’attività e
l’autonomia di chi ha sofferto. Ancora più distante è il punto di vista di Ferenczi da quello di
Melanie Klein che già in quegli anni ’30 parlava di seno buono, buon latte, buon pene, che
diventa invece cattivo perché il bambino lo rende non-buono. Per la Klein il primo alito di vita
è già di morte in quanto per invidia di quel che è buono e che non è nostro lo corrodiamo.
Paula Heimann: un percorso di pensiero che l’allontanò dalla Klein.
Quali fatti della vita sottendono le teorie.
Paula Heimann, dopo essersi laureata a Berlino in Medicina, fu inviata da Max Eitingon a
Theodor Reik per la formazione psicoanalitica. Nel 1933 Eitingon la raccomandò a Jones, vista
la mala parata per gli ebrei. Essa pertanto si trasferì in Inghilterra. Lì si rilaurerò in medicina ad
Edimburgo per le pressioni di Jones. Venuta a Londra fu invitata a casa della Klein per un
evento mondano; le due si conobbero, si piacquero (a quel tempo la Heimann credeva
fortemente come la Klein nell’impulso di morte e nell’invidia, cosa che cambierà negli anni
50). La Klein nel 1933 subì il lutto della morte del figlio e la Heimann, che andò in analisi da
lei, divenne come un suo sostituto. A detta della Heimann una delle cose che non perdonò mai
alla Klein fu di non aver mai riconosciuto apertamente che in analisi lei era il sostituto del
figlio e la Klein il sostituto della madre della Heimann, che, avendo perso la prima figlia prima
della nascita di Paula, la “costrinse” poi a diventarne la sostituta. Era la Heimann che si sedeva
in prima fila, assieme a Clara Thompson, quando la Klein parlava, la prima a difenderla
durante le Controversial Discussions. D’altronde per anni fu la Heimann che ebbe anche il
compito di tradurre in inglese gli scritti della Klein. Fu sempre lei che diede il nome agli
psicoanalisti che non si schieravano del tutto o per la Klein o per Anna Freud, quello di
Indipendenti. Solo nella maturità, un poco prima del 1950, in occasione del Congresso
dell’Associazione Psicoanalitica che si tenne ad Edimburgo, un cui tema era il controtransfert,
si affrancò dalla Klein (operazione d’altronde difficile in particolare dal punto di vista
emozionale in quanto ne era contemporaneamente amica, analizzanda, segretaria, traduttrice e
difensore in prima fila) e scrisse articoli che raccolse in Bambini e non più bambini (19551956), articoli in cui la visione dell’invidia e della pulsione di morte si erano alquanto
ammorbidite e dove trovava grande spazio il tema del transfert e controtransfert, da lei
considerati elementi fondamentali in un’analisi.
Punto importante è l’appello che la Heimann fa agli psicoanalisti: mischiarsi con il
paziente, scendere nel campo di battaglia. Nell’articolo sul contro-transfert (1950), dice che
esso è reazione al paziente e che in qualche modo è frutto dell’ identificazione proiettiva del
paziente. Il paziente “mette” se stesso nell’analista, il quale si identifica con lui e si restituisce
al paziente. L’introiezione è un atto di ricezione del terapeuta, ma per interpretare deve
proiettare, dando al paziente modo di conoscere ciò che è suo e ciò che è del paziente.
Perché avviene un tal malfunzionamento nella coppia? Perché vi è un gap temporale tra
quello che l’analista riceve e quello che rimanda? Perché il paziente provoca questo ritardo
temporale? L’analista deve interrogarsi sulla sua effettiva apertura verso il paziente, deve
trovare a vivere il Sé bambino del paziente. La Heimann parla di rovesciamento di ruoli e
inizia a pensare che insieme al contro-transfert dell’analista c’è il anche il transfert
dell’analista, che quindi deve differenziare quello che il paziente gli chiede di vivere e quello
che è proprio per sue caratteristiche. Gli analisti bambini. Questo percorso culmina con un
contributo, del 1969, che riguarda la responsività dell’analista.
Individuiamo tre fasi nel percorso della Heimann:
•
Ricerca nel paziente, l’analista studia la patologia del paziente
•
Ricerca con il paziente, diventa meno autoritaria
•
Ricerca del paziente: l’analista è ancora più attivo nel cercare il paziente
nella seduta.
Chi parla? Chi parla a chi? Questo piaceva al mondo kleiniano, ma la Heimann era molto
più dinamica, diceva che gli alieni possono essere proprio alieni e questo non piaceva ai
kleiniani. E poi che l’interpretazione (1970) troppo brillante dell’analista distrugge la squadra
di lavoro e questo faceva immediatamente torto ai kleiniani che dicevano che il paziente è
invidioso dell’interpretazione. Quel che è importante è la funzione dell’interpretazione e non il
contenuto, e nell’interpretazione ci possono essere dei meta-messaggi: sono quelli che si
inviano al paziente quando attraverso i contenuti si dice cosa al terapeuta è gradito e cosa è
sgradito. Fatti più in là, fatti più in qua, non toccarmi, ti devi comportare bene, altrimenti
dicono “guarda che terapeuta”. Per la Heimann invece il fine della terapia è di aiutare il
paziente ad essere se stesso, ad essere libero nel proprio modo di essere.
Si devono poi prendere in considerazione i processi cognitivi dell’analista, analizzare i
processi mentali che l’analista utilizza quando si occupa del paziente. Spesso è importante
affidarsi alle proprie immagini: portarle in seduta perché possono rivelarsi molto importanti, se
non si riescono a mettere in parola.
La spontaneità per la Heimann non è lo spontaneismo, perchè la spontaneità deve essere
attrezzata dall’esperienza. L’analista non è un dio e fa vedere al paziente le vie con cui giunge
al pensiero, fa vedere al paziente come ragiona.
La psicoterapia inoltre non riguarda solo il dolore. Ci sono momenti di gioia, di gioco. I
bambini ricercano la verità e se questo non viene riconosciuto lo fanno per conto loro con tutto
il pericolo che ne deriva.
Rivediamo l’identificazione proiettiva. È un mostro, un ibrido: la Klein intende una
proiezione che non sia solo intrapsichica ma interpersonale, la proiezione in un altro che
riguarda se stessi, pezzi che il paziente non vuole riconoscere come propri. Non è come la
rimozione, è un’esperienza più complessa: si fa vivere ad altri qualcosa che lui non può vivere,
si crea nell’altro un proprio fenomeno psichico. Per esempio una donna depressa che
verbalmente non pronuncia il desiderio di morte lo fa vivere agli altri.
I kleiniani hanno iniziato con il considerare l’identificazione proiettiva come
manipolazione e controllo dell’oggetto, ma non c’è niente in questa prima definizione di quello
che vedranno poi in seguito quando diranno che essa permette di vedere qualcosa che non si
riesce a dire a parole. Oggi l’identificazione non è solo quello che intendeva la Klein, ma
un’azione personale dove si fa sperimentare qualcosa che non si riesce a vivere. È una modalità
relazionale.
La Heimann si sbarazza dell’istinto di morte: ciò che appare anomalo può non essere un
eccesso di pulsione distruttiva, ma l’effetto di un ambiente deprivante, dissociato. Le carenze
dei genitori vengono trasmesse ai figli. Le storie si trasmettono a prescindere
dall’intenzionalità. Per molti genitori il pensiero è questo: “io sono confuso e sto male e anche
tu lo sarai.” Questa è come una dannazione, un peccato originale che viene trasmesso come una
macchia indelebile, è il dolore che si trasmette.
D’altronde per essere se stessi bisogna aver ricevuto amore. E se non si è ricevuto amore
non lo si può trasmettere. Parlo quindi di questo non per colpevolizzare i genitori- Bettelheim
procede in modo analogo quando ne La Fortezza Vuota (1967) rifiuta come eziologia
dell’autismo la madre-, ma per evidenziare quanta sofferenza può circolare all’interno delle
famiglie e quanto dolore, in gran parte inconscio e inelaborato e proveniente da più
generazioni, venga ineluttabilmente veicolato. Figli di genitori che non ebbero genitori.
Gli oggetti interni sono quindi da distinguere in due categorie: quelli introiettati
liberamente, quelli buoni, e quelli che vengono vissuti come intrusioni. Spesso sottolineiamo
quanto è importante la qualità dell’ambiente, cioè il tipo di relazioni che fanno parte
dell’ambiente. Ma non basta: c’è il diritto all’equità (Borgogno 1999) di sottolineare che il
bambino non è un adulto, così come il paziente non è uno psicoterapeuta. Questo disse
Winnicott (1987), ma anche Anna Freud (1968) diede importanza alla risposta della madre al
bambino come essere unico e speciale- e non uno fra tanti-, all’attenzione che le occorre nella
lettura delle necessità infantili e alla qualità del suo compito di soddisfarle adattandosi ai ritmi
del bambino e non solo imponendo i propri; su questa base teorica si fondava la tecnica del
warming up, cioè la costruzione del reticolo interattivo indispensabile all’accoglimento e al
lavoro psicoanalitico e dunque particolarmente sollecita ai problemi di formulazione e di
timing dell’interpretazione.
Molti dei pazienti difficili che trattiamo sono persone a cui non è stato concesso di
esistere come persone individualizzate, ma solo come appendici di qualcun altro. I loro bisogni
di base sono perciò stati ignorati.
Spoilt Children
Sono bambini in cui sono state introdotte dai genitori parti loro proprie: spoilt ha due
significati, uno è “viziato” e l’altro “essere spogliati”. Di spoilt children, come riferisce
Borgogno (1999), parlò la Heimann (1975) commentando il concetto di trauma cumulativo di
Khan (1974) per porre un importante quesito circa l’amore dei genitori. Seguendo il pensiero
della Heimann e di Bollas (1987, 1989) cerco di definire che cosa è uno spoilt child, tenendo
presente che l’ambiente da cui provengono numerosi nostri pazienti è assai più deprivante e
intrusivo di quello offerto dai genitori iperindulgenti e iperpermissivi che Khan (1974), come
tradizionalmente fanno gli psicoanalisti, indica come patogeni: si tratta di bambini in cui non
soltanto vengono posti proiettivamente delle esigenze, dei bisogni, dei desideri che non sono i
suoi, ma da cui vengono estratte aree di espressività e di esistenza: nel senso che, dovendo
tenere in primo piano i loro bisogni, i genitori non sentono e poi non riescono a rappresentare i
bisogni del bambino. L’evoluzione, che per diritto naturale spetterebbe ad ogni essere, viene
del tutto o in parte impedita e bloccata. Il bambino risulta infatti espropriato di qualche cosa di
suo e di specifico, trovando invece depositato al suo interno qualche cosa di estraneo ed alieno,
che proviene dai genitori e che in molti casi uccide ogni vita e ogni crescita.
Bion (1962, 1967) descrive bene questo processo quando, soffermandosi sulla nascita del
pensiero, parla del fallimento della reverie materna e sostiene che il bambino può incorporare
un seno invidioso che deruba e spoglia di significato le comunicazioni che riceve. Un seno che
rifiuta i bisogni e le angosce del bambino non digerendoli e invece restituendoli in forma
maligna per il mancato contenimento da parte del genitore dei vissuti sia del bambino che suoi
propri. L’incapacità del seno- madre- ambiente di accogliere e trasformare le identificazioni
proiettive del bambino che trasmettono realtà che hanno bisogno di essere comprese ripropone
al bambino la sofferenza psicologica che affligge la madre e pervade l’intero ambiente
transgenerazionale.
Da un’altra collocazione culturale, Piera Aulagnier (1975) parla di violenza materna,
come un’azione intrusiva che crea nella mente del bambino un oggetto alieno, obbligando il
bambino a usare una violenza speculare nel costruire un suo proprio sé. La Aulagnier è
particolarmente dura a sottolineare come questa violenza materna può essere riproposta nella
violenza dell’interpretazione, che obbliga il paziente a resistere con quella che nell’ambiente
kleiniano è stata chiamata reazione terapeutica negativa.
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