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QUADERNI/4
RICERCA GIURIDICA
sugli orientamenti giurisprudenziali
in materia d’asilo
Nella stessa collana:
INDICE
1 - Immigrazione e asilo: una nuova legge a misura di chi?
2 - Diritti umani e volontariato: atti del corso di formazione 2002
3 - Storie di diritti negati: i risultati di un’attività di monitoraggio sulla
condizione dei richiedenti asilo a Roma
La Ricerca giuridica e la realizzazione di questo volume sono state curate da:
Giusy D’Alconzo, Susanna Matonti, Flavia Vianello
Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
pag.
5
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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1. Natura giuridica dello status di rifugiato e dell’asilo
costituzionale e competenza giurisdizionale . . . . . . .
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2. Presupposti dello status di rifugiato e dell’asilo costituzionale e relativi criteri di riconoscimento . . . . . . .
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3. Aspetti formali della procedura di riconoscimento
dello status di rifugiato e loro effetti sostanziali . . . .
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4. Il diniego dello status di rifugiato: motivazioni ricorrenti o particolarmente rilevanti . . . . . . . . . . . . . . . . .
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A. Indice cronologico delle sentenze . . . . . . . . . . . . . . . .
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B. Indice delle sentenze per organo di emanazione . . . .
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C. Tabella ragionata per argomento . . . . . . . . . . . . . . . .
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Appendici
Pubblicazione edita da:
Associazione Centro Astalli per l’Assistenza agli Immigrati
Jesuit Refugee Service - Italia
Via degli Astalli, 14/a - 00186 Roma
Tel 06.69700306 – Fax 06.6796783
Email: [email protected]
Settembre 2003
2
3
LEGENDA
Ad. Plen.
AG
A.g.o.
BO
C.d.S.
Cost.
C.p.c.
C.p.p.
C.t.u.
D.L.
D.Lgs.
D.P.R.
Est.
GE
G.i.
G.O.
GO
L.
MI
P.Q.M.
RGAC
RM
S.C.
Sent.
Sez.
T.A.R.
TO
TP
Trib.
U.
4
Adunanza plenaria
Agrigento
Autorità giurisdizionale ordinaria
Bologna
Consiglio di Stato
Costituzione
Codice di procedura civile
Codice di procedura penale
Consulenza tecnica d’ufficio
Decreto legge
Decreto legislativo
Decreto del Presidente della Repubblica
Estensore
Genova
Giudice istruttore
Giudice ordinario
Gorizia
Legge
Milano
Per questi motivi
Registro Generale
Roma
Suprema Corte
Sentenza
Sezione / Sezioni
Tribunale Amministrativo Regionale
Torino
Trapani
Tribunale
Unite
PREFAZIONE
La Ricerca giuridica sugli orientamenti giurisprudenziali in materia
di asilo, curata dall’Associazione Centro Astalli e dalla Casa dei Diritti
Sociali-Focus, ha innanzitutto i pregi della semplicità e della concretezza;
e sono pregi non da poco, se si pensa alla materia trattata ed ai destinatari primi di questo lavoro.
La semplicità: quando si affronta il problema di un diritto fondamentale ed elementare, come quello di asilo, il primo aspetto che viene in
considerazione è quello dell’accessibilità e della comprensibilità di ciò che
si propone all’attenzione del lettore. In materia di diritti fondamentali, la
prima difficoltà in cui ci si imbatte è proprio la conoscenza e prima ancora la conoscibilità di essi: un diritto sconosciuto è necessariamente, e già
per ciò solo, un diritto negato; conoscere i propri diritti, poter sapere che
le talvolta inconsapevoli istanze elementari di chi è più diseredato, trovano in realtà una precisa corrispondenza ed un riconoscimento in situazioni giuridiche disciplinate dall’ordinamento internazionale e da quello interno, è condicio sine qua non per poter lottare al fine di dare forza ed
effettività al riconoscimento di quei diritti e all’accoglimento di quelle
istanze.
A maggior ragione il pregio della semplicità diventa essenziale
quando, come nel caso del diritto di asilo, colui che ne è titolare, ne ignora il contenuto e ne chiede il riconoscimento, si trova in condizioni di totale isolamento e inferiorità, di fronte a un ambiente estraneo se non ostile: un contesto in cui è troppo facile opporre, a chi non ha niente (magari e di solito neppure gli strumenti culturali e linguistici per stabilire un
dialogo e per esprimere il proprio bisogno e la richiesta di asilo), la rigidità, la complicazione burocratica e astratta, l’incomprensibilità e la pretesa “maestà” della legge. Sotto questo aspetto, la ricerca è importante
non solo come strumento di cognizione e di informazione per chi è direttamente interessato e deve esercitare e richiedere quel diritto; ma anche, e
prima ancora, come strumento per chi – nella rete del volontariato, e senza dover necessariamente essere un addetto ai lavori – può aiutare un al5
tro a conoscere e ad esercitare quel diritto, proponendosi come intermediario fra la sua solitudine e l’ambiente sociale e istituzionale che lo circonda.
La concretezza: in una materia complessa come quella dei diritti
fondamentali, e soprattutto di fronte a un diritto come quello di asilo - in
cui si riflettono e si intrecciano profili di diritto internazionale, di diritto
costituzionale, di diritto interno; e tale è la situazione italiana, caratterizzata dalla coesistenza fra la legge attuativa della Convenzione di Ginevra
del 1951 e l’articolo 10 comma 3 della Costituzione, in mancanza tuttavia di una organica legge quadro, della quale da troppo tempo si sente il
bisogno – è facile, forse quasi inevitabile cadere nella suggestione e nella
tentazione del tecnicismo. Senza nulla levare all’importanza di un’analisi
e di una ricostruzione teorica e tecnica, è tuttavia altrettanto importante
saper cogliere gli spunti essenziali di questo istituto (la sua natura, i suoi
presupposti, i criteri per il suo riconoscimento, gli aspetti formali delle relative procedure), quali essi emergono dall’elaborazione giurisprudenziale
che si è formata in materia, e cioè dal c.d. “diritto vivente” e prima ancora dalla prassi amministrativa; così come fa la ricerca, nei quattro capitoli in cui si articola la presentazione della giurisprudenza in tema di diritto di asilo.
Se la semplicità della presentazione è essenziale per la conoscibilità
di un diritto, la sua concretezza lo è altrettanto, per assicurare l’effettività
di quel diritto: sapere come esso vive nella realtà concreta del quotidiano,
soprattutto per chi si propone di aiutare ad esercitarlo chi di quell’aiuto
ha un particolare bisogno, è una condicio sine qua non pari almeno alla consapevolezza che quel diritto esiste ed è previsto dall’ordinamento. E,
d’altronde, tutti ben sappiamo come non sono sufficienti la proclamazione
ed il riconoscimento formale di un diritto fondamentale, da parte delle
Costituzioni e delle leggi, se essi non sono accompagnati dalla concretezza della sua effettività, della sua promozione e della sua garanzia.
A me sembra però che la ricerca – nel presentare i risultati dell’elaborazione giurisprudenziale sullo status di rifugiato e sull’asilo costituzionale – proponga anche un’altra riflessione, di fondo e più generale, particolarmente attuale: una riflessione che nasce sia dalla constatazione del
dualismo fra le situazioni soggettive dei due istituti, e quindi fra i presupposti e gli ambiti di disciplina di essi; sia dalla generale disattenzione
ai problemi dell’asilo (testimoniata anche dalla mancanza di una legge organica in materia), in un contesto che è invece di crescente attenzione e
sensibilità ai problemi dell’immigrazione; sia, infine, dalla valutazione dei
problemi innescati dalla globalizzazione, di cui tanto si parla.
Come è noto, vi è una serie di differenze fra le due categorie dei ri6
fugiati politici e degli aventi diritto all’asilo, non ostante la comune origine storica ed il comune carattere umanitario e solidaristico: la prima categoria è meno ampia della seconda, poiché la Convenzione di Ginevra
prevede un requisito (il fondato timore di persecuzione), che è assente nell’art. 10 comma 3 della Costituzione; d’altronde, il sistema attuale riconosce un trattamento di maggior favore agli appartenenti alla prima categoria, proprio in base alla Convenzione, mentre il diritto di asilo – in
mancanza di una legge di attuazione del precetto costituzionale – si risolve, secondo la giurisprudenza, soltanto nella garanzia all’ingresso nello Stato, a favore di colui cui venga impedito l’esercizio delle libertà democratiche nel suo paese d’origine.
Ancora, l’ingresso, nel nostro come negli altri Paesi, è regolato in
maniera profondamente diversa, per quanto concerne da un lato la posizione e le aspettative dei c.d. migranti economici, che aspirano a migliori
condizioni di vita economica, sociale, civile e democratica, i quali devono
essere in possesso di un passaporto od equipollente; e, da un altro lato, la
posizione dei rifugiati o dei richiedenti l’asilo politico, il riconoscimento
della cui posizione (lo status dei primi e il diritto all’ingresso dei secondi) richiede soltanto un’istanza motivata e documentata nei limiti del possibile.
Questa sorta di frammentazione è inevitabile, logica e per certi
aspetti allo stato ineliminabile, come conseguenza che discende ovviamente dalle scelte di diritto positivo in un campo che incide profondamente
sui valori della solidarietà e della dignità umana. Tuttavia, anche in questo caso - nella prospettiva, oggi generalmente condivisa, della indivisibilità dei diritti fondamentali come connotazione essenziale quanto quelle
della loro universalità e della loro effettività – occorre tenere ben presente
la difficoltà di tracciare una linea precisa di demarcazione all’interno della sfera dei diritti umani fondamentali, patrimonio essenziale dell’identità
e della condizione umana: i diritti civili e politici, da un lato; quelli economici, sociali e culturali, dall’altro lato.
Ogni forma di intervento a tutela dei diritti umani fondamentali,
nello specifico (ed il riconoscimento dello status di rifugiato o quello del
diritto di asilo politico si inquadra certamente in tale intervento e ne è anzi un aspetto prioritario), è espressione del riconoscimento della condizione umana. E non v’è bisogno certo di sottolineare quanto quel riconoscimento sia essenziale, in un contesto di globalizzazione i cui sviluppi deteriori (in tutti i campi e gli aspetti, da quello dell’economia a quello dell’ambiente, della convivenza e della solidarietà, della tolleranza e del rifiuto della violenza individuale e di massa nei confronti dei soggetti deboli) mettono veramente a rischio, come non mai nel passato, il rispetto
della condizione umana.
Lavorare consapevolmente, nello specifico e nel concreto, all’attua7
zione dei diritti umani (come appunto, nel caso nostro, al riconoscimento
dello status di rifugiato o del diritto di asilo politico a chi ne ha titolo e
bisogno), vuol dire inserirsi consapevolmente, per la propria parte, in un
disegno globale di riconoscimento e di difesa della condizione umana. Ed
è, questo, un impegno di cui si sente particolarmente bisogno nel contesto di globalizzazione e di spersonalizzazione attuale: come dimostra, proprio in questi giorni, il conferimento del premio Nobel per la pace per il
2003 all’iraniana Shirin Ebadi per i suoi sforzi per la democrazia e i diritti umani, specialmente quelli delle donne e dei bambini, “nel suo Paese,
nel mondo musulmano e in tutti i Paesi in cui la battaglia per i diritti
umani richiede ispirazione e sostegno” (così la motivazione del premio);
e come dimostra – alla luce della recente guerra in Iraq, e delle più di cinquanta guerre che in questo momento segnano il mondo, contribuendo in
modo prevalente a creare le premesse per una crescente serie di richieste
di asilo e di rifugio politico – il messaggio di Giovanni Paolo II sulla pace. Quest’ultima non può essere soltanto l’assenza della guerra, ma ha e
deve avere un contenuto positivo e un valore in sé; non può essere semplicemente il frutto di compromessi e di trattative, o quello di un equilibrio precario, fondato sul terrore reciproco o sulla sopraffazione e sul dominio del più forte. Riprendendo ed attualizzando l’insegnamento di un
altro grandissimo Pontefice – Giovanni XXIII, nella Pacem in Terris –
Giovanni Paolo II ci ricorda che, se la guerra in sé è ingiusta, non può
comunque esservi pace senza giustizia: cioè senza rispetto dell’altro, e
quindi della sua pari dignità e della sua libertà; e senza rispetto della verità, della solidarietà e dell’amore, e dei diritti fondamentali della persona.
E, nel momento in cui ci si occupa del tema del diritto fondamentale all’asilo e al rifugio politico, vale forse la pena di ricordare come il rispetto
dell’uomo, della sua centralità e del suo valore, è fondamentale nella logica cristiana; ma è altrettanto essenziale in una logica ed in una prospettiva umana, la quale va sempre più acquistando la consapevolezza che –
per la sopravvivenza del nostro mondo – deve essere l’uomo, con i suoi
valori, a gestire una nuova globalizzazione dal volto umano, perché altrimenti essa finirà per distruggerlo.
Giovanni Maria Flick
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INTRODUZIONE
Che cosa vuol dire promuovere i diritti umani, oggi? Quali sono i diritti umani più violati? Quale può essere il ruolo delle Associazioni di volontariato impegnate a promuovere, tutelare e difendere tali diritti? Come
possono queste Associazioni mettersi in rete e collaborare tra loro? Qual è la
condizione dei richiedenti asilo e rifugiati in Italia?
Sono alcune delle domande a cui sta tentando di dare risposte il progetto “Diritti umani e volontariato” promosso da cinque Associazioni di volontariato: Associazione “Centro Astalli”, Associazione “Progetto Casa
Verde”, Associazione “Medici contro la Tortura”, “Casa dei Diritti SocialiFocus”, Associazione “La Ronda della Solidarietà” e realizzato con il contributo dei Centri di servizio per il volontariato del Lazio, Cesv e Spes.
Diverse le azioni messe in cantiere: un corso di formazione base e uno
specializzato per volontari e cittadini interessati; animazione delle Giornate
del Rifugiato 2002 e 2003; un monitoraggio sulla condizione dei richiedenti asilo e rifugiati, con particolare riferimento alla realtà di Roma.
In aggiunta a tali attività, le Associazioni proponenti hanno ritenuto
di dover promuovere una ricerca giuridica sugli orientamenti giurisprudenziali in materia d’asilo, i cui risultati sono presentati in questo volume.
Si tratta di un lavoro che non ha alcuna pretesa di essere esaustivo:
rappresenta semplicemente un agile strumento di orientamento, offerto a coloro che ogni giorno sono impegnati nell’accompagnamento socio-legale di
richiedenti asilo e rifugiati.
La selezione di sentenze contenute nel presente volume intende mostrare i principali interventi giurisprudenziali succedutisi nel corso degli ultimi anni, spesso anche divergenti tra loro, a causa soprattutto della cronica mancanza di una legge quadro in materia, capace di dare piena attuazione alla Convenzione di Ginevra del 1951 e all’articolo 10 comma 3 della
Costituzione italiana.
I materiali sono suddivisi e presentati in tre sezioni. Il primo capitolo
è dedicato alla “natura giuridica dello status di rifugiato e dell’asilo costituzionale e competenza giurisdizionale”; il capitolo secondo si sofferma sui
“presupposti dello status di rifugiato e dell’asilo costituzionale e relativi cri9
teri di riconoscimento; il terzo infine propone una raccolta di dispositivi sugli “aspetti formali della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato e loro effetti sostanziali”. In ciascun capitolo i materiali sono preceduti da una breve presentazione che ha lo scopo di mettere in evidenza alcuni
dei principi emersi dalla giurisprudenza considerata. All’interno dei singoli
paragrafi le sentenze maggiormente rilevanti sono in gran parte riprodotte
per intero. Alcune di esse compaiono in più di un paragrafo, scelta resa
necessaria dai molteplici aspetti del diritto di asilo presi in considerazione
dalle stesse.
Il quarto capitolo invece propone una breve indagine su una casistica
di dinieghi dello status di rifugiato, ossia gli atti di rigetto della domanda di
asilo politico emanati dalla Commissione Centrale per il Riconoscimento
dello Status di Rifugiato. L’indagine si sofferma, analizzando un significativo numero di casi, sulle motivazioni che più spesso hanno spinto gli organi
competenti a rigettare le domande di asilo.
L’auspicio è che questo sussidio possa aggiungersi a quei pochi strumenti che oggi sono a disposizione di coloro che devono districarsi in una
materia, la tutela del diritto d’asilo, che oggi in Italia non è certamente semplice. Ma la speranza è soprattutto che il lavoro della ricerca ancora una volta testimoni l’assoluta necessità di una legge quadro non solo sul riconoscimento e la tutela del diritto, ma anche sulle misure concrete di accoglienza,
orientamento e integrazione di richiedenti asilo e rifugiati.
10
1.
NATURA GIURIDICA
DELLO STATUS DI RIFUGIATO
E DELL’ASILO COSTITUZIONALE
E COMPETENZA GIURISDIZIONALE
Il diritto d’asilo è un diritto umano fondamentale. La
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 prevede,
all’art. 14, il diritto di ognuno di “cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni”. La Convenzione di Ginevra sullo Status dei
Rifugiati del 28 luglio 1951 – ratificata dall’Italia il 24 luglio 1954 –
individua una definizione generale e internazionalmente riconosciuta di rifugiato e dell’insieme dei diritti conseguenti al riconoscimento di tale status. Secondo l’art. 1 della Convenzione il “rifugiato” è colui che “avendo un fondato timore di persecuzione per motivi
di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo
sociale o di opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e
non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di
tale Paese”. La procedura di riconoscimento dello status di rifugiato in Italia è attualmente disciplinata dall’art. 1 della L. 39/90 (c.d.
L. Martelli) come integrato dalla L. 189/02 (c.d. L. Bossi-Fini).
Il diritto d’asilo è anche uno dei diritti fondamentali riconosciuti dalla nostra Carta Costituzionale, la quale all’art. 10 comma
3 statuisce che “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione
italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
La diversa natura delle disposizioni citate e la non perfetta
coincidenza dei presupposti della loro applicazione hanno reso
necessari dei profondi interventi interpretativi da parte della giurisprudenza; questa si è riferita in particolare alla natura giuridica delle situazioni soggettive individuate dalle due norme, derivandone principi fondamentali in tema di azionabilità delle stesse in giudizio e di individuazione del giudice competente.
Tuttavia, nonostante la risalenza di entrambi gli istituti, tale intervento si è avuto in tempi relativamente recenti, probabilmente anche a causa del contesto di generale disattenzione rispetto ai temi
dell’esilio e dell’asilo.
11
La selezione di sentenze contenute nel presente paragrafo
intende mostrare i principali interventi giurisprudenziali succedutesi nel corso degli ultimi anni e le divergenze emerse riguardo
all’interpretazione dei due istituti; tali divergenze si sono progressivamente attenuate, senza però appianarsi del tutto neanche
a seguito dei pronunciamenti delle giurisdizioni superiori.
L’evoluzione riguarda innanzitutto il tema della natura del disposto dell’art. 10 comma 3 della Costituzione, con particolare riferimento alla sua precettività e conseguentemente all’individuazione del giudice competente e all’individuazione dei presupposti
della sua applicazione. La questione dell’individuazione del giudice naturale è stata parallelamente trattata dalla giurisprudenza
con riferimento alla competenza in materia di impugnazione delle decisioni di rigetto della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato ex Convenzione di Ginevra.
In tempi ravvicinati due importanti decisioni della Suprema
Corte – rispettivamente la sentenza n. 4674 del 12 dicembre 199626 maggio 1997 e la sentenza per regolamento di giurisdizione del
8 ottobre 1999 – sono intervenute in maniera determinante rispetto ai due temi citati, stabilendo dei principi guida che, se considerati congiuntamente, contribuiscono efficacemente ad illustrare il
quadro dell’attuazione del diritto d’asilo nel nostro ordinamento.
La prima delle sentenze citate, emanata dalla Cassazione a
Sezioni Unite, interviene una volta per tutte sul menzionato tema
della “consistenza” giuridica dell’asilo costituzionale, istituto disciplinato da una norma sulla cui natura – programmatica o, al
contrario, precettiva – dottrina e giurisprudenza sono state per
lungo tempo divise. La Corte definisce la questione dichiarando il
“carattere precettivo e la conseguente immediata operatività della disposizione costituzionale” contenuta nell’art. 10 comma 3 Cost., precisando tuttavia che la normativa ordinaria applicabile al relativo
iter di riconoscimento non è quella prevista dall’art. 1 della L.
39/90 (già citata Legge Martelli) che disciplina invece l’accertamento dello status di rifugiato ex Convenzione di Ginevra. La S.C.
conclude quindi statuendo che, se è vero che l’art. 10 terzo comma della Costituzione prevede un vero e proprio diritto soggettivo con conseguente giurisdizione del giudice ordinario, dal riconoscimento di tale diritto non discendono tuttavia le prerogative
connesse allo status di rifugiato come sancite dalla Convenzione
di Ginevra. La posizione dell’“asilante costituzionale” rimane così molto meno definita di quella del rifugiato riconosciuto ai sensi della Convenzione. Se quest’ultimo a seguito del riconoscimento diviene titolare di diritti civili e sociali chiaramente individua12
ti dalla Convenzione stessa, a chi gode dell’asilo costituzionale,
secondo la Corte, “null’altro viene garantito se non l’ingresso nello
Stato”. La questione rimane aperta, anche se alcune sentenze
dell’Autorità Giudiziaria Ordinaria riportate nel paragrafo sono
tornate sull’argomento con interessanti spunti per ulteriori riflessioni. Si veda in particolare la Sentenza del Tribunale di Roma Seconda Sezione del 1 ottobre 1999 che, nel riconoscere l’asilo costituzionale ad Abdullah Ocalan approfondisce minuziosamente i
diversi aspetti (storici, giuridici, sociali) dell’istituto. La parte in
diritto riportata nelle seguenti pagine (la sentenza compare per
intero nel cap. 2) merita una lettura attenta per la completezza dei
riferimenti e la chiarezza dell’analisi operata.
La seconda rilevante sentenza della Suprema Corte è invece relativa alla questione del giudice competente a conoscere le
impugnazioni dei dinieghi del riconoscimento dello status di rifugiato ex Convenzione di Ginevra. Essa conclude il procedimento per regolamento di giurisdizione instaurato da un cittadino della Repubblica Democratica del Congo il quale, avendo impugnato innanzi al TAR il diniego del riconoscimento della propria domanda di asilo politico da parte della competente
Commissione interministeriale, in pendenza di tale giudizio
chiedeva alla S.C. che venisse dichiarata la competenza del giudice ordinario. L’incertezza nella quale tale vicenda si colloca risulta frutto del vuoto legislativo esistente in materia di competenza giurisdizionale sulle impugnazioni dei dinieghi emessi
dalla menzionata Commissione ai sensi dell’art. 1 della L. 39/90.
Detto vuoto legislativo era stato prodotto dall’abrogazione, ad
opera dell’art. 47 del T.U 286/98, degli artt. 2 e seguenti della L.
39/90; quest’ultima, all’art. 5, attribuiva ai Tribunali
Amministrativi Regionali la competenza in materia di impugnazioni dei dinieghi di riconoscimento dello status di rifugiato.
Nella sentenza la S.C. prende atto di tale abrogazione, considerandola motivo per determinare la giurisdizione in base ai principi generali dell’ordinamento “secondo i quali tutte le controversie
concernenti lo status delle persone rientrano nella giurisdizione del
giudice ordinario”. È quindi con riferimento alla natura di diritto
soggettivo dello status di rifugiato – analogamente a quanto accaduto per l’asilo Costituzionale – che la Corte riconosce la competenza del Giudice Ordinario, con tutte le conseguenze derivanti in materia di procedimento, forma dell’atto introduttivo,
aspetti probatori, effetti della sentenza. In particolare l’azione del
giudice ordinario culmina con un atto dichiarativo, il riconoscimento del preesistente status di rifugiato, e non richiede una rei13
terazione della procedura amministrativa retrostante l’atto impugnato.
La sentenza citata segna certamente uno dei principali momenti di svolta della riflessione giuridica in materia di asilo politico; essa, tuttavia, sembra non chiudere definitivamente la questione. Alcune successive sentenze dei giudici amministrativi di
seguito riportate – si veda, ad esempio, la sent. del Consiglio di
Stato n. 6710 del 27 ottobre 2000 – continuano ad affermare la giurisdizione del giudice amministrativo. Secondo l’interpretazione
espressa dal Consiglio di Stato nella sentenza citata l’abrogazione
del citato art. 5 della L. Martelli “non comporta, in mancanza di
un’apposita diversa disposizione normativa l’automatico passaggio di tali controversie al giudice ordinario” ma impone un riferimento ai
principi dell’ordinamento, i quali individuerebbero come giudice
naturale in subiecta materia il giudice amministrativo.
Impostazione, questa, recepita da alcuni TAR, si veda ad esempio
la sentenza del TAR Liguria n. 1045 del 28 ottobre 2002, nell’ambito della quale si ribadisce la competenza del giudice amministrativo, affermando che il Collegio “non ignora il diverso indirizzo
delle Sezioni Unite della Cassazione Civile (…). Tuttavia tale giurisprudenza non appare condivisibile…”.
Consiglio di Stato Sez. IV, sent. n. 133 del 14 febbraio 1994
Massima
In sede di distribuzione territoriale di competenza nel giudizio amministrativo, vige una speciale norma di legge nel contenzioso in tema di
trattamento degli extracomunitari: infatti, secondo l’art. 5 del D.L. 30 dicembre 1989 n. 416, commi secondo e terzo, nel testo di cui alla legge di
conversione 28 febbraio 1990 n. 39, contro i provvedimenti di diniego di riconoscimento della status di rifugiato, di espulsione dal territorio dello
Stato e di diniego e revoca del permesso di soggiorno è competente il
Tribunale Amministrativo Regionale del luogo di domicilio eletto dall’interessato, anche quando l’autorità che emette il provvedimento abbia
competenza generale e pur scontando che i decreti sul soggiorno hanno
tendenzialmente effetti su tutto il territorio nazionale.
14
Corte di Cassazione – Sez. Unite civili – Sent. n. 4674 del 12 dicembre
1996-26 maggio 1997
(omissis)
Le controversie che riguardano il diritto di asilo, di cui al comma 3
dell’articolo 10 della Costituzione, rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di un diritto soggettivo al quale non è applicabile la disciplina sullo status di rifugiato (D.L. 416/1989, convertito
dalla legge 39/1990), la quale, invece, espressamente prevede la giurisdizione del giudice amministrativo.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto notificato il 26 marzo 1992 (...), cittadino liberiano, conveniva davanti al Tribunale di Roma il Ministero dell’Interno, chiedendo
che venisse accertato che, essendogli stato impedito nel suo paese d’origine l’effettivo esercizio delle libertà democratiche, aveva diritto di asilo
in Italia, ai sensi dell’art 10, terzo comma, della Costituzione.
Nel corso del giudizio in tal modo instauratosi l’Avvocatura
Generale dello Stato eccepiva a difetto di giurisdizione del giudice ordinario, in relazione alla domanda proposta da (...), in quanto in materia di
riconoscimento dello status di rifugiato, l’art. 5, secondo comma, del D.L.
30 dicembre 1989 n. 416, modificato in sede di conversione dalla legge 28
febbraio 1990 n. 39, prevede espressamente la giurisdizione del giudice
amministrativo.
(...) ha proposto ricorso per regolamento di giurisdizione, chiedendo che venga affermata la giurisdizione del giudice ordinario in relazione alla domanda proposta, in quanto la stessa ha ad oggetto il riconoscimento del diritto di asilo di cui all’art. 10, terzo comma, Cost., e non il riconoscimento dello status di rifugiato politico ai sensi della convenzione
di Ginevra del 28 luglio 1951, alla quale fanno riferimento le disposizioni contenute nel D.L 30 dicembre 1989 n. 416, convertito nella legge 28
febbraio 1990 n. 39. L’Avvocatura Generale dello Stato non ha svolto attività difensiva in questa sede.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Nonostante alcune ormai lontane pronunce di segno contrario da
parte della giurisprudenza amministrativa, secondo l’opinione attualmente pressoché pacifica l’art. 10, terzo comma, Cost. attribuisce direttamente allo straniero il quale si trovi nella situazione descritta da tale norma un vero e proprio diritto soggettivo all’ottenimento dell’asilo, anche
in mancanza di una legge che, del diritto stesso, specifichi le condizioni
di esercizio e le modalità di godimento.
15
Come è stato osservato in dottrina, a carattere precettivo e la conseguente immediata operatività della disposizione costituzionale sono
da ricondurre al fatto che essa, seppure in una parte necessita di disposizioni legislative di attuazione, delinea con sufficiente chiarezza e precisione la fattispecie che fa sorgere in capo allo straniero il diritto di asilo,
individuando nell’impedimento all’esercizio delle libertà democratiche
la causa di giustificazione del diritto ed indicando l’effettività quale criterio di accertamento della situazione ipotizzata.
Ciò posto, sorge a problema se, in mancanza di una specifica normativa di attuazione del precetto dell’art. 10, terzo comma, Cost., la normativa che disciplina il riconoscimento dello status di rifugiato politico
sia applicabile anche in tema di riconoscimento del diritto di asilo.
Ad avviso del collegio la risposta deve essere negativa.
Il precetto costituzionale e la normativa sui rifugiati politici, infatti, non coincidono dal punto di vista soggettivo, perché la categoria dei
rifugiati politici è meno ampia di quella degli aventi diritto all’asilo, in
quanto la citata Convenzione di Ginevra prevede quale fattore determinante per la individuazione del rifugiato, se non la persecuzione in concreto, un fondato timore di essere perseguitato, cioè un requisito che non
è considerato necessario dall’art. 10, terzo comma, Cost.
In secondo luogo, tale Convenzione non prevede un vero e proprio
diritto di asilo in favore dei rifugiati politici.
Né si potrebbe invocare una incongruenza del sistema, consistente
nel riconoscimento di un trattamento di maggior favore nei confronti di
coloro ai quali viene semplicemente impedito nel loro paese d’origine
l’esercizio delle libertà democratiche rispetto a coloro i quali hanno
quantomeno fondato timore di essere perseguitati per le loro idee politiche.
L’incongruenza è, infatti, soltanto apparente.
In mancanza di una legge di attuazione del precetto di cui al l’art.
10, terzo comma, Cost., infatti, allo straniero il quale chiede il diritto di
asilo null’altro viene garantito se non l’ingresso nello Stato, mentre il rifugiato politico, ove riconosciuto tale, viene a godere, in base alla
Convenzione di Ginevra, di uno status di particolare favore.
Chiarito ciò in linea generale, è da escludere che, in particolare, il
D.L. 30 dicembre 1989 n. 416, convertito nella legge 28 febbraio 1990 n.
39, contenga una normativa di attuazione dell’art. 10, terzo comma, Cost.
A nulla varrebbe, innanzitutto, in senso contrario, invocare il fatto
che nel “titolo” venga menzionato l’asilo politico, in quanto anche con riferimento ai rifugiati nel preambolo della Convenzione di Ginevra si
parla di “droit d’asile”.
È significativo, invece, il fatto che nel provvedimento legislativo in
questione non venga menzionato l’art. 10, terzo comma, Cost., mentre vi
16
è un esplicito riferimento alla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951
e i destinatari della normativa dettata dall’art. 1 vengono ripetutamente
individuati in coloro che intendono ottenere il riconoscimento dello status o qualifica di rifugiato.
Alla luce di quanto esposto il collegio non può non ritenere manifestamente infondata ed irrilevante ai fini della giurisdizione la questione, sollevata dal P.M. nella udienza di discussione, di “costituzionalità
dell’art. 1 decreto legge 416/89 convertito in legge 39/90 per contrasto
con l’art. 10 della Costituzione nella parte in cui, nel determinare le condizioni per le concreta applicazione del diritto di asilo restringe il novero dei soggetti del diritto stesso a coloro che hanno lo status di rifugiato”.
Come già detto, infatti, l’art. 1, cit., non disciplina il diritto di asilo
di cui all’art. 10, terzo comma, Cost.
A ciò va aggiunto che la questione, così come prospettata, parte da
una interpretazione dell’art 1, cit., che non sembra corretta.
La norma in questione, infatti, non presuppone il godimento dello
status di rifugiato ai fini della concessione del diritto di asilo, ma si limita a porre delle limitazioni alla possibilità di chiedere il riconoscimento
di tale status (da parte di chi evidentemente non ne sia già in possesso)
e disciplina la procedura da seguire per ottenere tale riconoscimento.
In definitiva, quindi, poiché, l’art. 10, terzo comma, Cost. prevede
un diritto soggettivo al quale non è applicabile la normativa che disciplina lo status di rifugiato, ne consegue che le controversie che riguardano il riconoscimento di tale diritto rientrano nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria.
Nessun provvedimento va emesso per quanto riguarda le spese,
non avendo il Ministero dell’Interno svolto attività difensiva in questa
sede.
P.Q.M.
La Corte dichiara la giurisdizione del giudice ordinario.
17
Corte di Cassazione, Sez. Unite civili, sent. del 08 ottobre 1999
(omissis)
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(...)
-ricorrenteCONTRO
Ministero dell’Interno, commissione centrale per il riconoscimento dello
status di rifugiato;
(omissis)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
omissis, nato il (...) a Kinshasa, capitale dello Zaire, ora Repubblica
Democratica del Congo, assumendo che dopo il colpo di Stato che ha deposto Mobuto e insediato Kabila, per sfuggire alle rappresaglie dei nuovi vincitori che gli hanno ucciso i genitori, è stato costretto a rimanere
chiuso in una cantina per sei mesi ed a fuggire poi in Italia il (...), ha chiesto il riconoscimento di rifugiato politico, non potendo più vivere nel
Congo, perché sostenitore del precedente regime.
La Commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato, costituita presso il Ministero dell’Interno, con provvedimento del 18.6.1998,
ha negato la qualifica richiesta. Il diniego è stato impugnato, con ricorso
al T.A.R. del Lazio, notificato in data 3.10.1998.
In pendenza del relativo giudizio davanti al giudice amministrativo, lo stesso (...) ha proposto istanza di regolamento di giurisdizione, con
atto del 9.4.1999, chiedendo che sia dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L’istanza è fondata.
La disposizione dell’art. 5 del d.l. 30.12.1989 n. 416, convertito, con
modificazioni, nella legge 28.2.1990, n. 39, che attribuiva al giudice amministrativo la decisione dell’impugnazione del provvedimento di diniego del riconoscimento dello status di rifugiato, è stata espressamente
abrogata, ancora prima dell’adozione del provvedimento impugnato e
quindi della proposizione del ricorso innanzi al T.A.R. Lazio.
Trattasi di abrogazione espressa, contenuta nell’art. 46 della legge 6
marzo 1998, n. 40 e confermata dall’art. 47 del Testo unico di cui al d.lgs.
25 luglio 1998, n. 286.
Ne consegue che la giurisdizione deve essere determinata in base
ai principi generali dell’ordinamento, secondo i quali tutte le controver18
sie concernenti lo status delle persone rientrano nella giurisdizione del
giudice ordinario.
La qualifica di rifugiato politico, secondo le previsioni della
Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, che garantisce ad ogni rifugiato il libero e facile accesso ai tribunali nel territorio degli stati contraenti, con conseguente sostanziale parificazione del rifugiato al cittadino ai fini della delibazione relativa alla sussistenza della giurisdizione,
costituisce come quella di avente diritto all’asilo — dalla quale si distingue, perché richiede, quale fattore determinante, un fondato timore di essere perseguitato, cioè un requisito che non è considerato necessario dall’art. 10, 3º comma, Cost. — uno status, un diritto soggettivo, con la conseguenza che tutti i provvedimenti, assunti dagli organi competenti in
materia, hanno natura meramente dichiarativa e non costitutiva, per cui
le controversie riguardanti il riconoscimento del diritto di asilo o la posizione di rifugiato rientrano nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria
ordinaria (Cass., sez. un., 26.5.1997, n. 4674).
Un’ulteriore conferma si evince dall’art. 11 l. 6.3.1998, n. 40, confluito nell’art. 13 del T.U. delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con
d.lgs. 25.7.1998, n. 286 che, nel regolare l’espulsione amministrativa dello straniero, ha previsto la cognizione camerale del Pretore sulle impugnazioni avverso le misure di espulsione.
A differenza del preesistente regime, contenuto negli artt. 2 e ss. del
d.l. 416 del 1989, convertito in legge 28 febbraio 1990 n. 39, abrogati dall’art. 46, lett. e) della legge n. 40/98, che prevedeva la “giustiziabilità” innanzi al T.A.R. di tutti i provvedimenti di espulsione, in modo da delineare un sistema di controlli del tutto interno alla giurisdizione amministrativa, nel nuovo sistema è stato mantenuto il sindacato della giurisdizione amministrativa del T.A.R. del Lazio in relazione alla valutazione
della sola legittimità dell’espulsione disposta dal Ministro per ragioni di
ordine pubblico o sicurezza (comma primo), mentre il sindacato sulla validità dell’espulsione disposta dal Prefetto nei casi di cui alle lettere a),
b), c) del comma secondo è stato affidato in via esclusiva al Pretore (Cass.
sez. I, 9.2.1999 n. 1082).
Alla stregua delle esposte considerazioni, va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario.
Le spese dell’intero processo meritano di essere compensate, attesa
la novità della questione.
P.Q.M.
La Corte dichiara la giurisdizione del giudice ordinario. Compensa
le spese dell’intero processo.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle sezioni unite
civili della Corte di cassazione, addì 8.10.1999
19
Consiglio di Stato Sez. IV sent. n. 6710 del 27 ottobre 2000
(omissis)
DECISIONE
sul ricorso in appello iscritto al NRG 4097 dell’anno 2000 proposto dal
MINISTERO DELL’INTERNO (COMMISSIONE CENTRALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLO STATUS DI RIFUGIATO), in persona del ministro in carica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, presso i cui uffici domicilia ope legis in Roma, via dei Portoghesi 12;
CONTRO
(...), in proprio e quale legale rappresentante dei figli minori […],
[…], […] e […], non costituito in giudizio;
per l’annullamento della sentenza del Tribunale Amministrativo
Regionale della Lombardia, prima sezione, n. 2424 del 28 giugno 1999;
(omissis)
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
Lombardia, denunciandone l’illegittimità per carenza di istruttoria, errata valutazione dei presupposti di fatto e carenza di motivazione.
L’adito Tribunale, con la sentenza segnata in epigrafe, ha accolto il
ricorso ed annullato l’atto impugnato, ritenendo fondate le censure mosse dal ricorrente, in quanto le informazioni acquisite dall’Ambasciata
Italiana di Luanda, sulla base delle quali la Commissione aveva respinto
la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, erano state acriticamente recepite, senza svolgere gli opportuni e necessari ulteriori riscontri, anche in considerazione della documentazione esibita dall’interessato.
Con atto notificato il 13 aprile 2000 il Ministero dell’Interno ha interposto appello avverso tale sentenza, contestando che sussistesse un
onere di ulteriore attività istruttoria rispetto a quella già espletata, non
essendovi alcun elemento che facesse dubitare della correttezza, completezza e genuinità delle notizie acquisite attraverso l’Ambasciata Italiana.
L’appellato non si è costituito in giudizio.
All’udienza del 27 ottobre 2000 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
FATTO
(...), cittadino angolano entrato in Italia il (...) attraverso la frontiera aerea di Milano Linate insieme ai propri figli […], […], […], e […],
chiedeva il riconoscimento dello status di rifugiato politico, adducendo
di essere di etnia Bakongo, di far parte del movimento politico clandestino Mako (che persegue l’autodeterminazione del Kongo) e di essere
stato anche arrestato dalle autorità governative e detenuto tra il (...) ed il
(...), in quanto sospettato di aver organizzato una manifestazione clandestina in occasione della ricorrenza del massacro dei Bakongo avvenuto il
22 gennaio 1992.
La Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato, all’esito dell’istruttoria svolta, ed in particolare sulla base delle notizie fornite dall’Ambasciata d’Italia a Luanda, con decisione del 5 dicembre 1996, respingeva la domanda ritenendola infondata, sia perché
l’etnia Bakongo risultava integrata nella vita politica e sociale
dell’Angola, tanto che suoi esponenti rivestivano anche importanti cariche governative; sia perché non aveva trovato conferma l’asserita esistenza del movimento politico Mako e perché non era stata raggiunta la
prova delle dedotte persecuzioni; del resto, secondo la Commissione
centrale, l’Angola era un paese retto da un governo legittimamente eletto, pluripartitico e multirazziale.
Avverso tale diniego (...), in proprio e nella qualità segnata in epigrafe, ha proposto ricorso al Tribunale amministrativo regionale della
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I. La questione portata all’esame del Collegio concerne la legittimità della decisione del 5 dicembre 1996 della Commissione centrale per
il riconoscimento dello status di rifugiato che ha respinto la domanda a
tal fine proposta da (...).
Il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, sezione prima, con la sentenza n. 2424 del 28 giugno 1999, su ricorso dell’interessato, ha annullato il predetto diniego, ritenendolo affetto da carenza di
istruttoria, come lamentato dal ricorrente: ciò in quanto
l’Amministrazione non avrebbe dovuto limitarsi a prendere atto delle
notizie fornite dall’Ambasciata Italiana a Luanda, ma avrebbe dovute vagliarle criticamente, anche alla stregua della documentazione esibita dall’interessato.
L’Amministrazione dell’Interno, per contro, con l’appello in esame
sostiene di aver correttamente respinto la richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato avanzata da (...) proprio sulla base delle notizie acquisite dall’Ambasciata Italiana a Luanda, non essendo emerso alcun
motivo per dubitare della affidabilità, correttezza e genuinità delle
stesse.
II. Al riguardo il Collegio osserva quanto segue.
II.1. In via preliminare, la mancata costituzione in giudizio dell’appellato, impone al Collegio la verifica della corretta instaurazione del
contraddittorio.
Sul punto deve darsi atto della ritualità della notifica dell’atto di
21
appello, fatta – come risulta dagli atti di causa – alla parte appellata presso il suo difensore costituito in primo grado al domicilio eletto, mediante consegna di cinque copie conformi: ciò in quanto (...) ha agito in proprio e quale legale rappresentante di quattro figli minori.
Il gravame, inoltre, è tempestivo, non trovando applicazione alla
controversia in esame la dimidiazione dei termini processuali, prevista
dall’art. 5, commi 2 e 5, del D.L. 30 dicembre 1989 n. 416, convertito con
modificazioni dalla legge 28 febbraio 1990 n. 39, espressamente abrogato
dall’art. 46 della legge 6 marzo 1998 n. 40: del resto non vi è alcuna disposizione di legge che rende ultrattiva la disciplina processuale abrogata per i provvedimenti amministrativi relativi al riconoscimento dello
status di rifugiato emanati nella vigenza della stessa.
II.2. Ad avviso del Collegio, poi, le questioni relative al riconoscimento dello status di rifugiato politico rientrano nella giurisdizione del
giudice amministrativo.
Infatti, l’abrogazione per effetto dell’art. 46 della legge 6 marzo
1998 n. 40 del già ricordato art. 5, comma 2, del D.L. n. 416 del 1989, che
attribuiva espressamente al giudice amministrativo la cognizione dei
provvedimenti di diniego dello status di rifugiato, non comporta, in
mancanza di un’apposita diversa disposizione normativa, l’automatico
passaggio di tali controversie al giudice ordinario, ma impone al contrario di individuare l’autorità giudiziaria competente sulla base dei principi generali circa il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo.
È noto al riguardo che la giurisdizione si determina sulla base della domanda e, ai fini del suo riparto tra giudice ordinario e amministrativo, non rileva la prospettazione delle parti, bensì il c.d. petitum sostanziale, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta statuizione che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della causa petendi, ossia dell’intrinseca natura della posizione
soggettiva dedotta in giudizio ed individuata dal giudice stesso con riguardo alla sostanziale protezione accordata in astratto a quest’ultima
dal diritto positivo (Cass. SS.UU., 21 dicembre 1999 n. 915; 5 dicembre
1995, n. 12523; C.d.S., sez. V, 5 giugno 1997 n. 592).
La decisione della Commissione Centrale di concedere o meno lo
status di rifugiato politico non consegue automaticamente al riscontro
dell’esistenza o meno di determinati presupposti di fatto, ma implica l’esercizio di un ampio potere discrezionale di valutazione e di apprezzamento dei fatti stessi: infatti è stato precisato (C.d.S., sez. IV, 10 marzo
1998 n. 408) che ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato non è
sufficiente la mera generica gravità della situazione politico – sociale ovvero la mancanza dell’esercizio delle libertà democratiche, dovendo per
contro valutarsi ed apprezzarsi se le condizioni oggettive in cui versa il
paese, puntualmente accertate, in rapporto alla specifica situazione del
22
soggetto richiedente, siano tali da far ritenere ragionevole l’esistenza di
un grave pericolo per l’incolumità della persona.
La scelta della Commissione Centrale circa la concedibilità o meno
dello status di rifugiato, che deve perciò essere puntualmente e adeguatamente motivata, implica l’esercizio di un potere di valutazione della
complessiva situazione denunciata dallo straniero al fine di stabilire se,
secondo l’id quod plerumque accidit, sussista effettivamente il suo fondato
timore di essere perseguitato nel paese di origine con pericolo attuale di
vita, e non si sostanzia nel mero accertamento di fatti: rispetto a un siffatto potere la posizione giuridica vantata dall’interessato non può che
essere di interesse legittimo.
Del resto lo status di rifugiato politico si differenzia ontologicamente dal diritto di asilo, previsto dall’art. 10, 3º comma cost., il quale,
oltre a comportare per l’interessato minori benefici, postula proprio il
mero accertamento della presenza di una situazione di mancanza di libertà democratiche nel paese di origine (C.d.S., IVª, 10 marzo 1998 n. 405;
12 gennaio 1999 n. 11) e fonda quindi l’esistenza di una posizione di diritto soggettivo perfetto.
Per completezza sul punto deve poi sottolinearsi che non è stato
giammai messo in dubbio che la previsione contenuta nell’art. 5 del D.L.
n. 416 del 1989, convertito con modificazioni dalla legge n. 39 del 1990,
non costituiva un’ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sui provvedimenti di diniego del riconoscimento dello status di
rifugiato.
Sussiste quindi la giurisdizione del giudice amministrativo.
……….omissis………
III. In conclusione l’appello va accolto e, in riforma dell’impugnata
sentenza, deve essere respinto il ricorso proposto in primo grado da (...).
Sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese processuali.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sezione quarta) accoglie l’appello proposto dal Ministero dell’Interno (Commissione Centrale
per il riconoscimento dello status di rifugiato) e per l’effetto, in riforma
della sentenza n. 2424 del 28 giugno 1999 del Tribunale amministrativo
regionale della Lombardia, sezione prima, respinge il ricorso proposto
da (...), in proprio e nella qualità in atti, avverso il provvedimento di diniego del riconoscimento dello status di rifugiato.
Spese compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
23
Tribunale di Roma - 2ª sez. Civile sent. 1 ottobre 1999 – est. De Fiore
Nel procedimento (omissis) tra Abdullah Ocalan (omissis) e
Presidenza del Consiglio dei Ministri (omissis) e Ministero dell’Interno
(omissis)
Oggetto: riconoscimento del diritto di asilo politico.
(omissis)
Si costituivano la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed il
Ministero dell’Interno sostenendo:
a) l’inammissibilità della domanda per difetto di giurisdizione
in difetto di normativa di attuazione;
b) l’inammissibilità della domanda per difetto di collegamento
territoriale con lo Stato Italiano;
c) in subordine, l’infondatezza nel merito della domanda.
Nel procedimento interveniva ex art. 70 c.p.c. il P.M. presso il
Tribunale chiedendo in via principale la declaratoria di difetto di giurisdizione del giudice ordinario ed, in via subordinata, il rigetto della domanda attrice per difetto del requisito essenziale della permanenza nel
territorio italiano per avere l’Ocalan abbandonato volontariamente il nostro Paese.
(omissis)
La norma costituzionale – ad avviso del giudicante che aderisce all’orientamento espresso dalla S.C. nella sentenza a Sez. Unite del 12 dicembre 1996 - 26 maggio 1997 n. 4674 nonché alle opinioni espresse dalla migliore dottrina – ha un indubbio nucleo precettivo; infatti essa è di
per sé idonea a regolare gli aspetti salienti dell’istituto quanto ai presupposti e al contenuto e, d’altra parte, contiene una precisa delimitazione
dei poteri delle leggi ordinarie che, in una prospettiva futura, dovranno
disciplinare le condizioni di esercizio del diritto di asilo (la norma costituzionale pone certamente un divieto, ad esempio, alla limitazione del
beneficio agli appartenenti di determinati paesi; ovvero alla ottemperanza di condizioni formali da parte dell’esitante ovvero, ancora, alla previsione di requisiti e situazioni soggettive diverse ed ulteriori rispetto a
quanto previsto dal dettato costituzionale).
Il diritto di asilo si configura, quindi, come un diritto soggettivo
perfetto che sorge in capo allo straniero allorché venga accertato l’impedimento nel Paese di origine all’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana (art. 10, 3 co. Costituzione).
Né può obiettarsi che tale accertamento “senza il filtro di una normativa di attuazione” esula dai poteri del giudice, perché affidare al giudice la valutazione sulla “democraticità” di un ordinamento straniero si24
gnificherebbe accettare ipotesi di responsabilità internazionale dello
Stato Italiano per attività del suo potere giudiziario. Invero, in nessun caso, al di fuori della violazione delle limitazioni risultanti da accordi internazionali, la concessione dell’asilo può concretare di per sé un illecito
da parte dello Stato il quale – nell’esercizio della sua sovranità – tale diritto ritenga di riconoscere allo straniero.
Inoltre occorre considerare che la legge ordinaria non può modificare il presupposto a cui il dettato costituzionale subordina il sorgere del
diritto di asilo né, tantomeno, diversamente condizionarlo. In sostanza al
giudice, che sia chiamato a decidere sulla domanda di asilo dello straniero, sarà indefettibilmente sottoposta, anche se intervenuta un’organica disciplina del disposto costituzionale, la valutazione circa la effettiva
democraticità dell’ordinamento giuridico della Patria dell’asilante.
Del resto una valutazione, analoga quanto a portata politica anche
se affatto diversa per il contenuto, è quella demandata al Giudice investito della richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi del
dl n. 416/1989 (giudice amministrativo quantomeno nel vigore dell’art.
5, 2 co. Legge di conversione, peraltro abrogato dall’art. 46 Legge n.
40/1998 e dall’art. 47 d.lgs. n. 286/96).
Tale diritto, infatti, sorge allorché, ai sensi dell’art. 1 della
Convenzione di Ginevra del 1951, lo straniero “ritenga a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza
ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche”.
Si tratta, quindi, di due diritti (quello vantato dal richiedente il rifugio e quello dell’asilante) diversi per presupposti (vedi sent. Cass. Sez.
Un. cit.) sicché le due categorie – definite, peraltro, un criterio puramente concettuale dalla Costituzione e con un diverso criterio attinente ad
una specifica situazione personale dalla Convenzione – non coincidono
(né può oscurare tale distinzione la confusione terminologica in cui spesso le Convenzioni internazionali e le leggi che le rendono esecutive incorrono). Le due situazioni soggettive si diversificano, inoltre sotto il
profilo della fonte giuridica da cui scaturiscono: il diritto al rifugio ha
origine da una norma convenzionale internazionale, il diritto all’asilo da
una previsione costituzionale che, con una scelta politica precisa, ha inteso porre non già una enfatica dichiarazione di principio, bensì un preciso precetto giuridico.
Che tale distinzione sia insita ed accettata nel nostro sistema giuridico è, poi, ulteriormente provato dal fatto che nel disegno di legge inteso a disciplinare la materia, attualmente all’esame del Senato, esso è riprodotto.
In comune i due istituti hanno senza dubbio l’origine storica ed il
carattere umanitario e solidaristico che li ispirano, caratteristica vieppiù
accentuata per il diritto di asilo consacrato in una norma costituzionale.
(omissis)
25
P.Q.M.
pronunciando sulla domanda proposta da Abdullah Ocalan
(omissis)
cosi provvede:
a) dichiara l’ammissibilità dell’intervento dell’Associazione
Studi Giuridici sull’immigrazione, dell’Associazione Giuristi Democratici di Torino e del Consiglio Italiano per i Rifugiati;
b) dichiara l’inammissibilità dell’intervento dell’Associazione
Tutela e Sostegno per le famiglie delle vittime del Pkk;
c) dichiara il diritto dell’attore all’asilo politico in Italia ai sensi
dell’art. 10, 3 co. della Costituzione;
d) condanna la Presidenza del Consiglio ed il Ministero dell’interno in solido al pagamento in favore dell’attore delle spese processuali omissis;
e) condanna, inoltre, la Presidenza del Consiglio ed il Ministero
dell’interno in solido al pagamento in favore dell’Asgi, dell’Ass. Giuristi
Democratici di Torino e del CIR Onlus, delle spese processuali ;
(omissis)
◆
Tribunale di Bologna ordinanza del 5.9.2001 - est. Palumbi
A scioglimento della riserva di cui al verbale 30.8.2001, osserva
quanto segue.
L’intera materia dello status di rifugiato politico e dell’asilo politico da intendersi ora appartenente alla giurisdizione del G.O. (“La qualifica di rifugiato politico ai sensi della convenzione di Ginevra del 29 luglio 1951 costituisce, come quella di avente diritto all’asilo (dalla quale si
distingue perché richiede quale fattore determinante un fondato timore
di essere perseguitato, cioè un requisito non richiesto dall’art. 10, co. 3,
cost.), una figura giuridica riconducibile alla categoria degli “status” e
dei diritti soggettivi, con la conseguenza che, tutti i provvedimenti assunti dai competenti organi in materia hanno natura meramente dichiarativa e non costitutiva, e le controversie riguardanti il riconoscimento
della posizione del rifugiato (così come quelle del riconoscimento del diritto di asilo) rientrano nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, una volta espressamente abrogato dall’art. 46 della legge n. 40 del
1998, l’art. 5 del d.l. n. 416 del 1989, convertito con modificazioni dalla
legge n. 39 del 1990 (abrogazione confermata dall’art. 47 del d.lgs. n. 286
del 1998 - Testo unico sull’immigrazione e la condizione dello straniero),
26
che attribuiva al giudice amministrativo la competenza per l’impugnazione del provvedimento di diniego dello status di rifugiato”: Cass. S.U.
sent. n. 907 del 17.12.1999). Da ciò discende necessariamente la sussistenza del potere dell’A.G.O. di conoscere anche tutte le domande cautelari legate da vincolo di strumentalità delle controversie relative al riconoscimento dello status di rifugiato politico o del diritto di asilo.
Certamente è da riconoscere tale vincolo all’istanza volta a conseguire,
dopo il diniego del questore, il permesso di soggiorno temporaneo previsto “per richiesta di asilo, per la durata della procedura occorrente, e
per asilo” dall’art. 11, comma 1, lett. a) del d.p.r. n. 349/99: la ratio della
norma risponde, come è evidente, all’esigenza di assicurare allo straniero il libero ed effettivo esercizio del diritto di promuovere e coltivare dinanzi al G.O. il giudizio per il riconoscimento dello status di rifugiato
politico ovvero del diritto d’asilo. Deve, pertanto, disattendersi l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalle parti convenute in merito all’ordine di rilascio del permesso di soggiorno di cui si discute.
Quanto all’ammissibilità della istanza cautelare in esame sotto il
profilo – rilevabile d’ufficio – di cui all’art. 100 c.p.c. il rigetto dell’istanza presentata al questore di Bologna rende attuale e concreto l’interesse
in parola e, quindi, ammissibile il ricorso.
Nel merito, ritiene questo giudice che l’oggettiva ed incontrovertibile pendenza di un giudizio di cognizione ordinaria avente ad oggetto
la controversia sul diritto all’asilo costituisca il presupposto necessario e
sufficiente per il rilascio al sig. [...] di un permesso di soggiorno temporaneo valido fino alla definizione del giudizio di merito, pendente il quale è stato presentato ricorso in esame.
P.Q.M.
in accoglimento del ricorso, dispone il rilascio da parte della questura di Bologna in favore del ricorrente di un permesso di soggiorno ai
sensi dell’art. 11, co. 1, lett. a) del d.p.r. n. 349/99, valido sino alla definizione del giudizio di merito di cui al procedirnento iscritto al n. [...] al
Tribunale civile di Bologna.
27
Tribunale di Torino sentenza n. 8178 del 6 ottobre 2001 - est. Vitrò
Nella causa civile iscritta al n. R.G. 6944/2000 promossa da [...]
contro Presidenza del Consiglio dei ministri, [...], nonché amministrazione dell’interno.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato in data 23.6.2000 il sig. [...] cittadino camerunense, conveniva in giudizio la Presidenza del Consiglio dei
ministri e l’amministrazione dell’interno. L’attore riferiva:
– che nel mese di ottobre 1999 egli era stato costretto a fuggire dal
suo paese, dove gli era impedito di esercitare i suoi diritti a causa della
sua militanza in un partito di opposizione, il Social Democratic Front
(SDF);
– che le organizzazioni non governative come Amnesty International avevano spesso avuto motivo di censurare gravemente la situazione dei diritti umani nel Camerun, violati dalle autorità governative;
– che, in particolare, nel corso del 1997, dette autorità avevano attuato gravissime forme di repressione nei confronti degli oppositori politici, che molti oppositori erano stati arrestati e processati senza rispetto
dei diritti di difesa, che anche il sig. [...] era stato arrestato – solo per la
partecipazione ad un movimento studentesco per la rivendicazione dei
diritti degli studenti e della democrazia nel paese –, che il medesimo era
stato tenuto in carcere dall’aprile 1997 all’ottobre 1999, era stato sottoposto a torture fisiche e psichiche ed era stato privato delle possibilità di difesa, che nell’ottobre 1999, egli, tramite l’aiuto di un parente poliziotto,
era riuscito a fuggire dal carcere e ad imbarcarsi su di un volo diretto a
Parigi e che, poi, si era trasferito in Italia, temendo di poter essere estradato in Camerun dalla Francia, paese particolarmente legato al Camerun. A questo punto l’attore chiedeva:
– che fosse accertato il suo diritto all’asilo nel territorio della
Repubblica italiana, art. 10, co. 3, della Costituzione
– e che, inoltre, fosse conseguentemente dichiarato l’obbligo
delle amministrazioni convenute di concedergli un permesso di soggiorno in Italia a tempo indeterminato.
E sosteneva:
– che l’art. 10, co. 3, della Costituzione era disposizione immediatamente precettiva, immediatamente applicabile dal giudice ordinario, e
che l’istituto dell’asilo costituzionale aveva natura di diritto soggettivo;
– che vi era diversità tra lo status di rifugiati, previsto dalla legge
n. 772 del 24.7.1954 (di ratifica della Convenzione di Ginevra del
28.7.1951) e dalla legge n. 39 del 28.2.1990, e del diritto di asilo ex art. 10
28
Cost., con esclusione, pertanto, della procedura amministrativa prevista
per lo status di rifugiati;
– che non vi era dubbio che al sig. [...] non fosse consentito, nel suo
paese d’origine, l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite
dalla Costituzione italiana. Le convenute amministrazioni, costituitesi
con comparsa del 13.11.2000, contestavano le domande attoree, eccependo:
– in via pregiudiziale l’inammissibilità delle domande per difetto
di interesse, in particolare per carenza di interesse ad agire, mancando
contestazione del diritto vantato per carenza di interesse ad un provvedimento sul merito, per carenza di interesse in relazione al contenuto
della domanda (non apparendo potervi essere un miglioramento della situazione del [...] attraverso la proposta azione giudiziale);
– in subordine, il difetto assoluto di giurisdizione del tribunale
adito (non potendo il giudice applicare direttamente il dettato costituzionale di cui all’art. 10, co. 3, Cost.) ed anche il difetto relativo di giurisdizione in relazione al petitum sostanziale di richiesta di permesso di soggiorno a tempo indeterminato;
– in via preliminare, il difetto di legittimazione passiva della amministrazioni convenute;
– l’infondatezza, comunque, nel merito, delle domande attoree.
Nel corso del giudizio il G.I., con ordinanza del 4.5.2001, respingeva le istanze di prove orali e di c.t.u. avanzate dall’attore, non ritenendole rilevanti ai fini della decisione della causa e, comunque, osservando che le convenute avevano dichiarato di non contestare le circostanze
di fatto indicate dall’attore. All’udienza del 30.5.2001 le parti precisavano le conclusioni, richiamando quelle di cui all’atto di citazione e alla
comparsa di risposta. Il G.I. tratteneva la causa a decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L’attore, in primo luogo, chiede l’accertamento del diritto all’asilo
nel territorio della Repubblica italiana, ai sensi dell’art. 10, co. 3, Cost.;
1.1. Innanzitutto, va respinta l’eccezione, sollevata dalle parti convenute, di difetto assoluto di giurisdizione del giudice ordinario adito. In
particolare, si osserva che, dalla giurisprudenza e dalla dottrina, viene
ormai ritenuto che l’art. 10, co. 3, Cost. (lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese, l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite
dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della
Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”) abbia un contenuto immediatamente precettivo. In tal senso si veda, per es., la motivazione della sentenza Cass. civ., sez. un., 26.5.1997 n. 4674:
– “nonostante alcune ormai lontane pronunce di segno contrario
29
da parte della giurisprudenza amministrativa, secondo l’opinione attualmente pressoché pacifica l’art. 10, co. 3, Cost. attribuisce direttamente allo straniero, il quale si trovi nella situazione descritta da tale norma, un
vero e proprio diritto soggettivo all’ottenimento dell’asilo, anche in mancanza di una legge che, del diritto stesso, specifichi le condizioni di esercizio e le modalità di godimento.
Come è stato osservato in dottrina, il carattere precettivo e la conseguente immediata operatività della disposizione costituzionale sono
da ricondurre al fatto che essa, seppure in una parte necessita di disposizioni legislative di attuazione, delinea con sufficiente chiarezza e precisione, la fattispecie che fa sorgere in capo allo straniero il diritto di asilo,
individuando nell’impedimento all’esercizio delle libertà democratiche
la causa di giustificazione del diritto ed indicando l’effettività quale criterio di accertamento della situazione ipotizzata. Ciò posto, sorge il problema se, in mancanza di una specifica normativa di attuazione del precetto dell’art. 10, co. 3 Cost., la normativa che disciplina il riconoscimento dello status di rifugiato politico sia applicabile anche in tema di riconoscimento del diritto di asilo. Ad avviso del collegio la risposta deve essere negativa. In definitiva, le controversie che riguardano il diritto di
asilo, di cui all’art. 10, co. 3, Cost. rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di un diritto soggettivo al quale non è applicabile la disciplina dello status di rifugiato (decreto legge 30.12.1989 n.
416, conv. nella legge 29.2.190 n. 39), la quale invece espressamente prevede la giurisdizione del giudice amministrativo”. Circa il contenuto immediatamente precettivo del citato art. 10, co. 3, Cost. si veda anche:
– trib. Roma 1.10.1999 (caso Ocalan): “ai sensi dell’art. 10, co. 3,
Cost. il diritto di asilo si configura come un diritto soggettivo perfetto
che sorge in capo allo straniero allorché venga accertato l’impedimento
nel paese di origine all’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana. Tale situazione soggettiva è diversa,
per presupposti e per fonte giuridica, da quella del rifugiato”;
– trib. Roma 27.9.1999 (sempre caso Ocalan): “il disposto dell’art.
10, co. 3, Cost. ha carattere immediatamente precettivo e comporta un diritto soggettivo perfetto in capo a chi dimostri di trovarsi nelle condizioni previste, il quale può chiederne l’accertamento al giudice ordinario”.
Circa la differenza tra status di rifugiato e diritto di asilo ex art. 10 Cost.
si veda anche, per es.: T.A.R. Friuli Venezia Giulia 18.12.1991 n. 531;
T.A.R. Friuli Venezia Giulia 23.1.1992 n. 15.
Pertanto va sicuramente riconosciuta la sussistenza della giurisdizione dell’a.g.o. in ordine alla richiesta di riconoscimento del diritto di
asilo.
1.2.1 In primo luogo si nota che l’interesse ad agire consiste in quella situazione giuridica subiettiva di vantaggio sostanziale, il cui riconoscimento viene posto ad oggetto della pretesa fatta valere in giudizio.
Esso si concreta nell’esigenza di colui che propone la domanda di conseguire un risultato di utile e giuridicamente apprezzabile e non altrimenti conseguibile che con l’intervento del giudice (v., per es.: Cass. civ.,
23.11.1990 n. 11319; Cass. civ., 20.1.1998 n. 486). L’interesse ad agire sussiste quando l’azione sia intesa ad evitare una lesione anche soltanto potenziale al diritto soggettivo (Cass. civ., 14.11.1975 n. 3850). Per la sussistenza dell’interesse ad agire, previste dall’art. 100 c.p.c. come presupposto della domanda giudiziale, è sufficiente uno stato di incertezza obiettiva circa l’esistenza della situazione giuridica della quale si chiede l’accertamento, positivo o negativo (Cass. civ., 4.5.1983 n. 2798; Cass. civ.,
19.5.1987 n. 4599).
1.2. Va, poi, respinta l’eccezione delle convenute di carenza dell’interesse ad agire dell’attore.
– “deve ritenersi che la presenza del richiedente il diritto di asilo
nel territorio dello Stato non è condizione necessaria per il consegui-
30
1.2.2 Si rileva, poi, quale sia il contenuto del diritto di asilo di cui
all’art. 10, come accertato dalla giurisprudenza:
– Cass. n. 4674/97: “in mancanza di una legge di attuazione del
precetto di cui all’art. 10, co. 3, Cost., allo straniero il quale chiede il diritto di asilo null’altro viene garantito se non l’ingresso nello Stato”;
– T.A.R. Friuli Venezia Giulia 23.1.1992 n. 15: L’art. 10, co. 3, Cost.
comporta per l’interessato minori benefici (rispetto allo status di rifugiato), “potendo consistere al limite nel solo diritto a non essere espulso dal
paese”.
1.2.3 Si osserva, allora, che nel presente caso va senz’altro riconosciuto l’interesse dell’attore ad ottenere un riconoscimento giuridico del
suo diritto di asilo, cioè nel suo diritto di ingresso nel territorio italiano
e del suo diritto a non essere espulso dal medesimo. È vero che l’attore
risulta essere già entrato nel territorio della Repubblica italiana ed essere attualmente presente in Italia. Ma si tratta di una situazione di fatto,
senza che vi sia alcun accertamento e riconoscimento giuridico che stabilizzi giuridicamente tale situazione. Sussiste, pertanto, l’interesse del
sig. [...] al riconoscimento giuridico del diritto di asilo, allo scopo di evitare una potenziale lesione al suo diritto di ingresso in Italia e a non esserne espulso (lesione che potrebbe verificarsi nel caso in cui egli uscisse
dall’Italia e gli fosse poi impedito di rientrarvi o nel caso in cui fosse
emesso un provvedimento di espulsione – situazioni, queste, tutte possibili, mancando appunto, allo stato un riconoscimento del diritto di asilo
che impedisca di porre in essere divieti di ingresso o espulsioni). A tale
proposito si argomenti anche dalla motivazione della sentenza del trib.
Roma 27.9.1999 già citata:
31
mento del diritto stesso. La presenza non è, infatti, richiesta nella previsione costituzionale che prevede e regolamenta nei suoi aspetti essenziali il diritto di asilo... Il volontario allontanamento dal territorio italiano
dello straniero, il quale, al tempo dell’istanza di asilo ex art. 10, co. 3,
Cost., si trovava in Italia, non comporta automaticamente il venir meno
delle condizioni per l’accoglimento dell’istanza; deve infatti distinguersi
l’interesse ad agire dall’utilità pratica della sentenza favorevole, e la permanenza dell’interesse inteso come condizione per l’accoglimento della
domanda di asilo deve escludersi soltanto quando l’interesse dell’attore
sia (divenuto) puramente teorico e accademico”.
Dunque, la sussistenza o meno dell’interesse ad agire non può essere ricollegata alla mera situazione di fatto consistente nella contingente presenza o meno dell’attore sul territorio dello Stato. Né è rilevante
l’assenza di provvedimenti amministrativi contenenti contestazione o
negazione del diritto di asilo dell’attore. Infatti, non sussiste, comunque,
alcun attuale riconoscimento giuridico di un diritto di ingresso e non
espulsione dell’attore dall’Italia, il che già di per sé crea una situazione
di incertezza riguardo a tale diritto, trattandosi di soggetto straniero,
presente sul territorio italiano senza essere in possesso di alcun permesso di soggiorno.
Né è rilevante il fatto che le convenute non abbiano contestato le
circostanze di fatto dedotte dall’attore. Infatti, “un comportamento del
convenuto che evidenzi una disponibilità a concedere all’attore quanto
richiesto con la domanda, può spiegare rilievo quale riconoscimento della fondatezza della pretesa fatta valere giudizialmente, ma non implica il
venir meno dell’interesse ad agire, persistendo per l’attore stesso l’utilità
di conseguire una pronuncia di accoglimento della domanda” (Cass. civ.,
7.1.1984 n. 97).
1.3. Va anche respinta, in ordine alla domanda di riconoscimento
del diritto di asilo, l’eccezione delle convenute di difetto di legittimazione passiva. È evidente, infatti, che l’accertamento del suddetto diritto
debba essere compiuto nei confronti delle amministrazioni deputate al
controllo degli stranieri in Italia. Il che trova conferma nelle sentenze della Cassazione e del tribunale di Roma, sopra citate, nelle quali non viene
mai in alcun modo messa in discussione la legittimazione passiva della
Presidenza del Consiglio dei ministri e del Ministro degli interni, ivi
sempre convenute.
…….Omissis………
3. Per quanto riguarda le spese processuali, le difficoltà giuridiche
inerenti alla presente causa e la parziale soccombenza reciproca delle
parti inducono a ritenere sussistenti giusti motivi per addivenire alla
compensazione delle spese processuali fra le parti nella misura della
metà.
32
P.Q.M.
definitivamente pronunciando nel contraddittorio delle parti, ogni
diversa istanza, eccezione e deduzione disattesa o respinta, in accoglimento della domanda attorea, dichiara il diritto dell’attore sig. [...] all’asilo nel territorio della Repubblica italiana, ai sensi di cui all’art. 10, co.
3, Cost.;
dichiara la carenza di giurisdizione del giudice ordinario in ordine
alla domanda attorea di dichiarazione dell’obbligo della P.A. di concessione di un permesso di soggiorno a tempo determinato.
◆
Corte di appello di Catania, Decreto 1/22.3.2002 - est. Morgia
Letti gli atti relativi all’affare civile n. 8/2002 R.g. avente per oggetto il reclamo proposto da [...] nato in [...] Sri-Lanka il [...] avverso il decreto del tribunale di Catania in data 7.1.2002 che ha dichiarato inammissibile il ricorso con il quale il predetto aveva impugnato, ex art. 1 del
d.l. 30. 12. 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, nella legge
28.2.1990, n. 39, il provvedimento della Commissione centrale per il riconoscimento dello stato di rifugiato emesso in data 14.3.2001 con il quale
la suddetta Commissione aveva deciso di non riconoscere lo stato di rifugiato all’odierno reclamante;
letta la memoria difensiva depositata dalla Presidenza del consiglio
dei ministri, in persona del Presidente del consiglio pro-tempore, organicamente rappresentata dall’avvocatura distrettuale dello Stato di
Catania;
sentite le parti all’udienza camerale del 22.2.2002 (alla quale è comparso solo il difensore del reclamante) e sciogliendo la riserva in quella
sede formulata, osserva quanto segue.
1. Per motivi di ordine logico-processuale occorre, in primo luogo,
esaminare la doglianza relativa alla declaratoria di inammissibilità pronunciata dal primo giudice sulla scorta della considerazione che “nessuna norma consente di proporre la domanda di cui sopra con ricorso di
volontaria giurisdizione, dovendo, invece, essa essere proposta con atto
introduttivo di un giudizio contenzioso ordinario”.
La doglianza è fondata. Invero, l’art. 1.6 dei d.l. 30.12.1989, n. 416,
convertito, con modificazioni, nella legge 28.2.1990, n. 39, testualmente
prevede che “attraverso la decisione di respingimento (dell’istanza volta
ad ottenere lo status di rifugiato) presa in base ai commi 4 e 5 è ammesso ricorso giurisdizionale”. Al riguardo la Suprema corte ha avuto, di re33
cente, modo di statuire che “la qualifica di rifugiato politico ai sensi della Convenzione di Ginevra del 29.7.1951 costituisce, come quella di avente diritto all’asilo (dalla quale si distingue perché richiede quale fattore
determinante un fondato timore di essere perseguitato, cioè un requisito
non richiesto dall’art. 10, co. 3, Cost.), una figura giuridica riconducibile
alla categoria degli “status” e dei diritti soggettivi, con la conseguenza
che tutti i provvedimenti assunti dai competenti organi in materia hanno natura meramente dichiarativa e non costitutiva, e le controversie riguardanti il riconoscimento della posizione di rifugiato (così come quelle sul riconoscimento dei diritto d’asilo) rientrano nella giurisdizione
dell’autorità giudiziaria ordinaria, una volta espressamente abrogato
dall’art. 46 legge n. 40 del 1998, art. 5, d.l. n. 416 del 1989, convertito con
modificazioni della legge n. 39 del 1990 (abrogazione confermata dall’art.
47 dei testo unico d.lgs. n. 286 del 1998), che attribuiva al giudice amministrativo la competenza per l’impugnazione del provvedimento di diniego dello status di rifugiato” (Cass. S.U. 17.12.1999, n. 907).
Ora, poiché proprio con, riferimento ai procedimenti in materia di
famiglia e di stato delle persone (titolo Il del libro IV del c.p.c.) – ma non
soltanto in relazione ad essi – il capo VI del medesimo libro detta la disciplina generale dei procedimenti di camera di consiglio (artt. 737-742
bis), e poiché proprio l’art. 737 pone la regola che tali procedimenti – come molti altri previsti da leggi speciali – vadano proposti con ricorso
(diversamente dai giudizi contenziosi ordinari che vanno, di regola, proposti con citazione), non par dubbio che il ricorso avanzato al tribunale
civile di Catania da [...] avverso il provvedimento negativo della
Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato sia
stato correttamente proposto, in rito, anche perché i predetti articoli (737
e segg. c.p.c.) sono, comunque, definiti come disposizioni comuni di procedimenti in camera di consiglio, senza distinzione tra procedimenti volontari o contenziosi, ed anzi il legislatore ha soppresso ogni riferimento
alla volontaria giurisdizione, di cui faceva, invece, parola l’art. 778 del
codice di rito del 1865. A conferma di ciò basti considerare che, concordemente, dottrina e giurisprudenza prevalenti attribuiscono natura di
volontaria giurisdizione ai procedimenti di separazione consensuale tra
coniugi e divorzio su ricorso congiunto nonché, almeno in parte, ai procedimenti di interdizione e inabilitazione.
Non è, pertanto, vietato al legislatore ordinario di disporre, in base
ad una valutazione anche politica della vicenda, l’applicazione dei procedimento camerale che si concluda con l’emanazione di un provvedimento avente contenuto decisorio, quando ritenga che l’impiego di tali
forme sia più rispondente all’esigenza di una sollecita ed equa applicazione delle norme di diritto sostanziale nel caso concreto. Ciò che il legislatore ordinario non può, invece, fare è di precludere, con tale mezzo, il
ricorso per cassazione, che realizza la più completa tutela del diritto, ed
34
a ciò provvede il precetto dell’art. 111, comma secondo, della
Costituzione, che si sostituisce anche ad una (eventuale) espressa disposizione contraria del legislatore comune.
Peraltro, proprio i provvedimenti riguardanti lo status della persona sono normalmente emessi, anche in considerazione dell’evidente interesse pubblico ad essi connesso, in esito ai procedimenti aventi la natura di volontaria giurisdizione i quali, tra le altre caratteristiche, presentano quella dell’impulso sostanzialmente ufficioso, con una prevalenza dei poteri del giudice che accentua il carattere inquisitorio del procedimento di camera di consiglio e la parziale inapplicabilità del principio
iuxta alligata et probata, risultando così non certo esclusa ma almeno attenuata la sfera di applicabilità delle regole generali concernenti l’onere
della prova.
Se ancora ve ne fosse bisogno, a conferma della natura di volontaria giurisdizione del presente procedimento, sia la pregnante considerazione – ritenuta uno dei principali discrimini tra procedimento contenzioso e procedimento di volontaria giurisdizione – che l’interesse fatto
valere dall’odierno reclamante volto ad ottenere il riconoscimento dello
status di rifugiato non assurge al grado di diritto soggettivo e, comunque
non da luogo a posizioni subiettive contrapposte in relazione all’emanazione del provvedimento richiesto, in quanto manca il conflitto di diversi e contrapposti interessi correlativi ad una pretesa e ad una soggezione
scaturenti da un diritto e da un obbligo che, com’è noto, caratterizza ogni
procedimento contenzioso.
(omissis)
P.Q.M.
In accoglimento del reclamo proposto da [...] avverso il decreto del
tribunale di Catania in data 7.1.2002 che ha dichiarato inammissibile il ricorso con il quale il predetto aveva impugnato il provvedimento della
Commissione centrale per il riconoscimento dello stato di rifugiato emesso in data 14.3.2001 con il quale la suddetta Commissione aveva deciso
di non riconoscere all’odierno reclamante tale stato, la Corte riconosce a
[...] lo stato di rifugiato. Nulla sulle spese.
35
Consiglio di Stato Sez. IV sent. n. 4669 del 12 marzo 2002
DECISIONE
sul ricorso n. 4766/93 proposto da Ministero dell’Interno, in persona del
Ministro pro tempore, e la Questura di Roma, in persona del Questore
pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato,
presso la stessa legalmente domiciliati in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
contro […], non costituita in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, Roma,
Sez. I, n. 692, pubblicata in data 13 maggio 1992, resa tra le parti, con cui
è stato accolto il ricorso proposto da […], concernente procedimento per
il riconoscimento dello status di rifugiata.
….omissis…..
Ritenuto in fatto e in diritto quanto segue.
FATTO
La cittadina etiope […] ha impugnato dinanzi al Tribunale amministrativo regionale del Lazio il provvedimento con il quale il Questore
di Roma le ha negato in data 10 novembre 1990, in base alle disposizioni dell’art. 1, n. 5, della legge 28 febbraio 1990, n. 39, il riconoscimento
dello status di rifugiata politica.
Parte ricorrente esponeva di essere stata costretta a lasciare
l’Etiopia e di essere giunta in Italia in data 24 novembre 1990 attraverso
la frontiera di Fiumicino. Costretta a letto da una forma influenzale, non
ha presentato istanza di riconoscimento di rifugiata alla frontiera di
Fiumicino, ma direttamente alla Questura di Roma il successivo 10 dicembre. In data 18 dello stesso mese l’istanza è stata rigettata, in quanto
non presentata alla Polizia di frontiera, con ingiunzione a lasciare il territorio dello Stato.
Nel ricorso proposto ha dedotto violazione dell’art. 10, comma 3,
della Costituzione, in quanto il diritto di asilo sarebbe riconosciuto direttamente dalla Costituzione; violazione dell’art. 1 della legge 28 febbraio 1990, n. 39 e degli artt. 1, 2 e 3 del D.P.R. 15 maggio 1990, n. 136,
per illegittima dichiarazione di decadenza del diritto al riconoscimento
dello status di rifugiata a causa della mancata presentazione dell’istanza
all’Ufficio di polizia di frontiera; incompetenza, in quanto la legge consentirebbe alla polizia di frontiera e alla Questura solo funzioni amministrative di riscontro di fatto; violazione delle norme in tema di notificazione dei provvedimenti allo straniero.
Il Tribunale amministrativo – ritenuta estranea alla controversia la
questione della immediata precettività o meno della disposizione di cui
36
al comma terzo dell’art. 10 della Costituzione – ha accolto il ricorso, ritenendo illegittimo il provvedimento impugnato, avendo il Questore negato l’ammissione al procedimento di riconoscimento dello status di rifugiata per il solo fatto che l’istanza era stata presentata alla polizia di
frontiera, mentre all’Autorità di polizia compete solo il compito di verificare che non ricorrano cause ostative all’ingresso nello Stato, ma non
poteri decisori sulle condizioni del riconoscimento dello status richiesto.
L’Amministrazione dell’Interno ha ritenuto errata tale decisione e
l’ha impugnata con appello notificato in data 19 giugno 1993 e depositato il 5 del mese successivo. Nel gravame ha sollevato i seguenti motivi.
L’art. 10 della Costituzione è norma programmatica e non attribuisce allo straniero alcuna posizione giuridica soggettiva di asilo nel nostro
Paese. Le condizioni all’uopo richieste sono state stabilite con legge 28
febbraio 1990, n. 39, secondo cui lo straniero – come si evince anche dalla Convenzione di Ginevra – ha solo un interesse giuridicamente protetto all’asilo, subordinato al discrezionale apprezzamento dell’Autorità
amministrativa. Lo straniero che intende entrare nel territorio dello Stato
per essere riconosciuto rifugiato deve rivolgere istanza motivata e, per
quanto possibile, documentata, all’Ufficio di polizia di frontiera. È tale
Ufficio che, ove non esistano motivi ostativi, provvede a inviare l’istanza
presso il Questore competente per territorio. Successivamente il
Questore invia la documentazione alla competente Commissione presso
il Ministero dell’Interno, rilasciando all’interessato un permesso di soggiorno temporaneo fino alla definizione della procedura. Nel presente
caso la straniera ha avanzato richiesta di asilo direttamente presso la
Questura, la quale non poteva fare altro che respingerla, non avendo l’interessata osservato la prescritta procedura, né dato alcuna plausibile indicazione sulla mancata osservanza della prescrizione normativa.
Non va trascurato peraltro – continua l’appellante – che il dovere
di presentare l’istanza in parola direttamente alla polizia di frontiera risponde a serie ragioni di ordine pubblico ed è posto per evitare che entrino nel territorio nazionale soggetti ai quali l’accesso sia vietato, mentre è chiaro che alla Commissione prevista dall’art. 2 del D.P.R. 15 maggio 1990, n. 136 è riservato il potere di conoscere le sole istanze ritualmente presentate.
L’appellata non si è costituita in giudizio.
DIRITTO
1 - Come esposto in narrativa, il Ministero dell’Interno ha impugnato la decisione del Tribunale amministrativo del Lazio che ha annullato il provvedimento con il quale il Questore di Roma aveva negato a
[…] – con riferimento alle previsioni di cui all’art. 1, comma 5º, della legge 28 febbraio 1990, n. 39 – il riconoscimento dello status di rifugiata po37
litica. Il Tribunale, considerata inconsistente la dedotta violazione dell’art. 10, comma 3, della Costituzione, ha ritenuto fondate le censure secondo cui il provvedimento impugnato poneva a fondamento del diniego il solo fatto che la straniera non avesse presentato l’istanza di riconoscimento alla polizia di frontiera.
L’Amministrazione – dopo aver ribadito che l’art. 10 della
Costituzione è norma programmatica e non attribuisce allo straniero alcuna situazione di diritto soggettivo all’asilo – contesta la decisione del
Tribunale e sostiene che l’[…] , chiedendo il riconoscimento dello status
di rifugiata direttamente alla Questura, e non, com’era suo dovere,
all’Ufficio di frontiera, non ha rispettato le norme dettate dall’art. 1 della legge n. 39 del 1990. L’inosservanza costituirebbe presupposto valido
a sostenere la pronuncia di diniego non solo sotto il profilo formale, ma
anche perché concretizzerebbe la violazione di una disposizione posta a
garanzia dell’ordinato espletamento dei compiti dell’Amministrazione e
a tutela dell’ordine pubblico.
2 - Con riferimento alle osservazioni svolte sulla natura giuridica
della situazione soggettiva che lo straniero può vantare nel nostro ordinamento, il Collegio concorda pienamente con la tesi dell’Amministrazione. In effetti, il comma 3 dell’art. 10 della Costituzione, nel prevedere
il diritto di asilo per lo straniero al quale sia impedito, nel suo paese, l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione,
ha fatto esplicito rinvio alle condizioni stabilite dalla legge. È quindi attraverso le norme della legge ordinaria che vanno considerate le situazioni soggettive degli interessati, disciplinate nell’ordinamento italiano con
legge 28 febbraio 1990, n. 39. Questa, nell’accordare l’ingresso dello straniero nel territorio dello Stato, lo ha esplicitamente subordinato a precise
condizioni, la cui ricorrenza va di volta in volta accertata attraverso indagini che implicano indubbiamente valutazioni di natura discrezionale.
Deve perciò escludersi che la straniera possa vantare, nel nostro ordinamento, situazioni soggettive di diritto che le derivino direttamente
dalla Costituzione.
…..omissis……..
Nessuna pronuncia per le spese, atteso che l’appellata non si è costituita in giudizio.
P. Q. M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione quarta, definitivamente pronunziando sull’appello meglio indicato in epigrafe, lo respinge.
Nulla per le spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
(omissis)
38
Consiglio di Stato Sez. IV sent. n. 5943 del 30 aprile 2002
DECISIONE
sul ricorso in appello iscritto al NRG 4557 dell’anno 1993 proposto dal
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro in carica, e dalla
QUESTURA DI ROMA, in persona del Questore in carica, entrambi rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici domiciliano ope legis, in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
contro [….], non costituito in giudizio;
per l’annullamento
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione
I ter, n. 622 del 29 aprile 1992;
……omissis…..
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.
FATTO
Con sentenza n. 622 del 29 aprile 1992 il Tribunale amministrativo
regionale del Lazio, sez. I ter, accoglieva il ricorso proposto dal cittadino
sudanese […] ed annullava il provvedimento della Questura di Roma in
data 30 ottobre 1990, con il quale era stato negato a quest’ultimo l’ammissione al procedimento per il riconoscimento dello status di rifugiato
(con conseguente ordine di lasciare il territorio italiano).
Ad avviso dei primi giudici, infatti, la circostanza sulla quale era
stato fondato il provvedimento impugnato, e cioè la presentazione dell’istanza di riconoscimento dello status di rifugiato alla Questura di Roma
invece che all’ufficio di polizia di frontiera al momento dell’ingresso in
Italia, come stabilito dall’articolo 1, quinto comma, del decreto – legge 30
dicembre 1989, n. 416, convertito con modificazioni nella legge 28 febbraio 1990, n. 39, non poteva comportare per lo straniero, in mancanza di
un’esplicita sanzione in tal senso, la decadenza dal diritto ad ottenere il
predetto riconoscimento regolamentato dalla citata normativa.
Avverso tale statuizione proponeva appello il Ministero
dell’Interno, deducendo, per un verso, il carattere meramente programmatico della disposizione contenuta nell’articolo 10, comma 3, della
Costituzione, e rivendicando, per altro verso, la piena legittimità del
provvedimento impugnato in primo grado, perfettamente conforme al
dettato legislativo e coerente con le finalità di tutela dell’ordine pubblico
e di un ordinato afflusso degli stranieri sottese anche al procedimento di
riconoscimento dello status di rifugiato politico.
L’appellato non si è costituito in giudizio.
Alla pubblica udienza del 30 aprile 2002 la causa è stata assunta in
decisione.
39
DIRITTO
I. È controversa la legittimità del provvedimento della Questura di
Roma, Ufficio Stranieri, in data 30 ottobre 1990 con il quale è stato negato al cittadino sudanese […] l’ammissione al procedimento per il riconoscimento dello status di rifugiato (con conseguente ordine di lasciare il
territorio italiano) per aver presentato la relativa istanza direttamente alla Questura di Roma invece che all’ufficio di Polizia di frontiera all’atto
stesso del suo ingresso in Italia, come disposto dall’art. 1, comma 5, del
decreto – legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito con modificazioni
dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39.
Il Ministero dell’Interno chiede la riforma della sentenza n. 622 del
29 aprile 1992 del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sez.
Iª ter, che lo ha annullato, rivendicandone la piena conformità al dettato
legislativo e coerenza con le finalità di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica sottese anche al procedimento di riconoscimento dello status
di rifugiato politico.
L’appellato non si è costituito in giudizio.
II. Al riguardo la Sezione osserva quanto segue.
II.1. Occorre precisare, in via preliminare, che sussiste nella controversia de qua la giurisdizione del giudice amministrativo.
L’appello di cui si tratta infatti è stato notificato e depositato nella
vigenza dell’articolo 5, comma 2, del decreto legge 30 dicembre 1989, n.
416, convertito con modificazioni dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, che
attribuiva espressamente al giudice amministrativo la cognizione dei
provvedimenti di diniego di riconoscimento dello status di rifugiato politico: l’intervenuta abrogazione di tale norma da parte dell’articolo 46
della legge 6 marzo 1998, n. 40 non incide sulla giurisdizione, in virtù del
principio della perpetuatio jurisdictionis sancito dall’articolo 5 del codice
di procedura civile (Cass. SS.UU., 1º luglio 1997 n. 5899).
Peraltro la Sezione, con decisione n. 6716 del 15 dicembre 2000, ha
affermato che anche dopo l’abrogazione dell’articolo 5, comma 2, del decreto legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito con modificazioni dalla
legge 28 febbraio 1990, n. 39, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo nella materia di cui si tratta, sulla base dei principi generali
che regolano il riparto di giurisdizione, non essendo la norma sopra ricordata attributiva al giudice amministrativo di una giurisdizione esclusiva e non potendosi negare l’esistenza di un ampio potere discrezionale da parte dell’amministrazione in ordine all’apprezzamento dei fatti e
della loro rilevanza per il riconoscimento dello status di rifugiato.
II.2. Passando all’esame del merito, si osserva che la questione controversa si incentra esclusivamente sulla rilevanza delle modalità di presentazione della domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato
politico, ed in particolare se la sua mancata presentazione all’ufficio di
40
polizia di frontiera all’atto dell’ingresso nel territorio italiano, come stabilito dall’art. 1, comma 5, del decreto – legge 30 dicembre 1989, n. 416,
convertito con modificazioni dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, implichi
decadenza dalla possibilità di ottenere detto riconoscimento (il che esclude ai fini della decisione ogni rilievo circa la valenza programmatica o
precettiva del terzo comma dell’articolo 10 della Costituzione in materia
di esercizio del diritto di asilo, ampiamente illustrata dall’amministrazione appellante).
Detta questione risulta già affrontata e risolta da questa Sezione
con le decisioni n. 149 del 6 marzo 1995 e n. 5497 del 16 ottobre 2000, dalle cui conclusioni non vi è ragione di discostarsi.
Invero nel sistema normativo delineato dal ricordato articolo 1 del
decreto legge n. 416 del 1989, convertito dalla legge n. 39 del 1990, dal relativo regolamento di attuazione, emanato con D.P.R. 15 maggio 1990, n.
136, è previsto che sulla domanda di riconoscimento dello stato di rifugiato politico si pronunci un’apposita commissione, denominata
Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato, alla quale tutte le predette istanze devono essere trasmesse.
Solo alla predetta Commissione spetta, dunque, di valutare le domande di riconoscimento dello status di rifugiato, non solo per quanto
attiene alla sussistenza dei relativi presupposti sostanziali, ma anche per
quanto attiene alle questioni procedurali di ritualità della loro presentazione.
…..Omissis…..
Ciò implica, infatti, per l’Amministrazione soltanto l’obbligo di attivare il normale procedimento previsto dalla legge per l’esame delle domande di riconoscimento dello status di rifugiato politico.
III. In conclusione l’appello deve essere respinto.
Non vi è luogo alla pronuncia sullo spese, stante la mancata costituzione in giudizio dell’appellato.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso in appello meglio in epigrafe indicato, respinge l’appello.
Nulla sulle spese.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
(omissis)
Massima
In materia di riconoscimento dello status di rifugiato politico sussiste la
giurisdizione del giudice amministrativo anche dopo l’abrogazione dell’articolo
41
5, comma 2, del D.L. 30 dicembre 1989 n. 416, convertito con modificazioni nella legge 28 febbraio 1990 n. 39 (che non era attributiva di una giurisdizione
esclusiva), sulla base degli ordinari principi circa il riparto di giurisdizionale tra
giudice ordinario e giudice amministrativo, sussistendo in materia un ampio potere discrezionale da parte dell’amministrazione in ordine all’apprezzamento dei
fatti e della loro rilevanza per il riconoscimento dello status di rifugiato.
Spetta solo alla Commissione di cui all’articolo 2 del D.P.R. n. 136 del
1990 di valutare le domande di riconoscimento dello stato di rifugiato, non solo
per quanto attiene alla sussistenza dei relativi presupposti sostanziali, ma anche
per quanto attiene alle questioni procedurali di ritualità della loro presentazioni,
con riguardo all’eventuale tardività o irritualità della domanda stessa.
l’utile esperimento dell’azione promossa, che rischierebbe di terminare
in una pronuncia inutiliter data qualora costui fosse costretto a fare ritorno nel Paese di origine: va infatti osservato, in relazione al periculum, che
nella presente fase di sommaria cognizione possono apprezzarsi le circostanze di fatto esposte da costui in atto di citazione, che saranno oggetto
di futura istruttoria, nonché, non ultimo, i dolorosi accadimenti, le
persecuzioni e le torture che, a livello internazionale, sono oggetto di cronaca;
ritenuto, infine, quanto alla tipologia del permesso da rilasciarsi,
che può essere accolta l’istanza svolta dal ricorrente in via principale, in
quanto costui si trova nelle condizioni di cui all’art. 19, comma 1, del d.
lgs. n. 286/98.
◆
Tribunale di Bologna, Decreto 29 maggio 2002 - est. Arceri
Il giudice istruttore, letto il ricorso ex art. 700 c.p.c. promosso da
[...] al fine di ottenere, in seno alla causa civile da costui promossa e rubricata sub R.G. n. 1238/02, l’emissione, da parte di questo giudice, di
ordine diretto alla questura di Bologna di rilascio, in favore dello stesso,
di “permesso di soggiorno per protezione umanitaria”, o, in subordine,
ai sensi dell’art. 1, comma 5, dei d.l. n. 416/89, convertito nella L. 39/90;
del d.l. n. 416/89, nella L. n. 39/90;
rilevato, in via preliminare, che la domanda cautelare in questione
rientra senza dubbio nella giurisdizione del giudice adito che, in virtù di
quanto statuito dalla Cassazione con sentenza a Sezioni Unite in data
18.12.1999, n. 907, è stato riconosciuto – nel caso di domanda di accertamento dello status di rifugiato – giudice deputato a pronunciarsi;
ritenuto, in particolare, che l’individuazione, pur sempre contenuta nell’art. 1, comma 5, dei d.l. n. 416/90, convertito nella L. n. 39/90, del
questore quale organo competente al rilascio del permesso di soggiorno
strumentale alla definizione dei procedimento di riconoscimento del predetto status non corrobora la tesi del difetto di giurisdizione, così come
sostenuto, in analoghi procedimenti, dal Ministero dell’interno, in quanto tale disposizione, letta alla luce di quanto affermato dalla citata sentenza, rende sostanzialmente “dovuto”, da parte dell’autorità predetta, il
rilascio del permesso di soggiorno qualora sia promosso, davanti al giudice competente, giudizio per il riconoscimento dello status di rifugiato,
senza alcuna possibilità, da parte dell’autorità amministrativa, di esercizio di discrezionalità alcuna;
ritenuto, in sostanza, che nel caso di specie il rilascio del permesso
di soggiorno in favore dei richiedente appare senz’altro strumentale al42
P.Q.M.
dispone che, in favore del ricorrente [... ] nato a [... ] Turchia, da
parte della questura di Modena ai sensi e per gli effetti degli artt. 19 d.
lgs. n. 286/98 e 28, lett. d) del d.p.r. n. 394/99, un permesso di soggiorno per motivi umanitari valido quantomeno fino alla definizione del presente procedimento. Spese al definitivo.
◆
TAR Liguria sent. n. 1045 del 28 ottobre 2002
SENTENZA
(omissis)
FATTO
Con ricorso notificato il 19.04.2000 al Ministero dell’Interno, alla
Questura di Genova ed alla Commissione Centrale per il Riconoscimento
Status di Rifugiato, il ricorrente ha impugnato, chiedendone l’annullamento, previa sospensione dell’esecuzione, il provvedimento della
Commissione Centrale per il Riconoscimento dello status di rifugiato, n.
53202/2000.dec, Sez. 2, adottato il 17.02.2000 e notificato il 03.04.2000,
con il quale gli è stato negato lo status di rifugiato ai sensi della convenzione di Ginevra del 28.07.1951, ratificata con L. 24.07.1954 n. 722, nonché ogni altro atto presupposto e/o preparatorio, connesso e/o conseguente, e in particolare il decreto di revoca dell’autorizzazione al sog43
giorno cat.A12/2000/STR.-AA.GG./rifugio del 27.03.2000 (notificato in
data 03.04.2000).
Il ricorrente, cittadino irakeno di etnia curda fa presente:
– di essere stato incarcerato due volte in Irak per avere partecipato a manifestazioni contro Saddam Hussein;
– di essere iscritto al PUK (Unione Patriottica del Kurdistan);
– di avere combattuto per sette anni contro il Governo irakeno;
– di essersi sottratto all’obbligo di leva;
– di avere chiesto in Italia nel febbraio del 1999 il riconoscimento
dello status di rifugiato politico.
A seguito di tale richiesta la Questura di Genova gli ha rilasciato
autorizzazione al soggiorno per richiesta di asilo, valida sino al 17 maggio 2000.
Con provvedimento in data 17 febbraio 2000 la Commissione
Centrale per il Riconoscimento Status di Rifugiato, gli ha negato il riconoscimento dello status di rifugiato politico.
Avverso i due provvedimenti impugnati il ricorrente deduce i seguenti motivi:
1) Violazione dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra, dell’art. 10
Cost. e dell’art. 1 L. n. 39/90.
In primo luogo si è ignorato che il solo fatto dell’appartenenza all’etnia curda costituirebbe in Irak motivo per essere perseguitato e, quindi, per rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 1 della Convenzione
di Ginevra.
In secondo luogo si è ignorato il fatto che il ricorrente, iscritto al
PUK (Unione Patriottica del Kurdistan) avrebbe combattuto per sette anni contro il Governo irakeno e sarebbe stato incarcerato due volte in Irak.
In terzo luogo si sarebbe ignorato il fatto che il ricorrente, che per
ragioni politiche si è sottratto all’obbligo di leva, rischierebbe al suo ritorno la pena di morte.
2. Eccesso di potere per difetto di motivazione e di istruttoria.
Eccesso di potere per travisamento dei fatti.
Il diniego di riconoscimento dello “status” di rifugiato richiederebbe una rigorosa motivazione sull’insussistenza della condizione di pericolo per l’incolumità personale dello straniero, che mancherebbe nel caso di specie, così come sarebbe mancata un’adeguata istruttoria.
Si è costituita in giudizio l’amministrazione dell’interno chiedendo
la reiezione del ricorso e dell’istanza di sospensiva.
Con ordinanza di questo Tribunale in data 18 maggio 2000 n. 530 è
stata accolta l’istanza di sospensiva.
Alla pubblica udienza del 24 ottobre 2002 la causa è passata in decisione.
44
DIRITTO
1. Il ricorso in esame è rivolto avverso il provvedimento della
Commissione Centrale per il Riconoscimento dello status di rifugiato, n.
53202/2000.dec, Sez. 2, adottato il 17.02.2000 e notificato il 03.04.2000,
con il quale gli è stato negato lo status di rifugiato ai sensi della convenzione di Ginevra del 28.07.1951, ratificata con L. 24.07.1954 n. 722,
Viene impugnato, inoltre, ogni altro atto presupposto e/o preparatorio, connesso e/o conseguente, e in particolare il decreto di revoca dell’autorizzazione al soggiorno cat.A12/2000/STR.-AA.GG./rifugio del
27.03.2000 (notificato in data 03.04.2000).
2. In via preliminare deve essere affrontata la questione attinente
alla sussistenza o meno della giurisdizione del giudice amministrativo in
tema di riconoscimento dello status di rifugiato politico.
Il Collegio ritiene che la questione debba avere una risposta positiva.
Come è stato affermato dalla giurisprudenza amministrativa, “la
decisione della commissione centrale di concedere o meno lo “status” di
rifugiato politico non consegue automaticamente al riscontro dell’esistenza o meno di determinati presupposti di fatto, ma implica l’esercizio
di un ampio potere discrezionale di valutazione e di apprezzamento dei
fatti stessi; ne consegue, pertanto, che sussiste in materia la giurisdizione del giudice amministrativo” (Cons. St., sez. IV, 15 dicembre 2000, n.
6710 e n. 6716).
Il Collegio non ignora il diverso indirizzo delle Sezioni Unite della
Cassazione civile, secondo cui “la qualifica di rifugiato politico ai sensi
della convenzione di Ginevra del 29 luglio 1951 costituisce, come quella
di avente diritto all’asilo (dalla quale si distingue perché richiede quale
fattore determinante un fondato timore di essere perseguitato, cioé un requisito non richiesto dall’art. 10, comma 3, cost.), una figura giuridica riconducibile alla categoria degli ‘status’ e dei diritti soggettivi, con la conseguenza che tutti i provvedimenti assunti dai competenti organi in materia hanno natura meramente dichiarativa e non costitutiva, e le controversie riguardanti il riconoscimento della posizione di rifugiato (così come quelle sul riconoscimento del diritto di asilo) rientrano nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, una volta espressamente
abrogato dall’art. 46, l. n. 40 del 1998, l’art. 5, d.l. n. 416 del 1989, conv.
Con modificazioni dalla l. n. 39 del 1990 (abrogazione confermata dall’art. 47 del testo unico d.lg. n. 286 del 1998), che attribuiva al giudice
amministrativo la competenza per l’impugnazione del provvedimento di
diniego dello ‘status’ di rifugiato” (Cass. Civ. sez. un., 17 dicembre 1999,
n. 907).
Tuttavia detta giurisprudenza non appare condivisibile proprio
laddove ritiene che tutti i provvedimenti di diniego dello “status” di ri45
fugiato abbiano natura meramente dichiarativa e non costitutiva, al pari
di quelli sul riconoscimento del diritto di asilo.
In realtà, come è stato osservato, il provvedimento sullo “status” di
rifugiato implica l’esercizio di un potere di valutazione della complessiva situazione denunciata dallo straniero al fine di stabilire se, sulla base
dell’id quod plerumque accidit, sussista il fondato timore che questi possa
essere perseguitato nel paese di origine con pericolo attuale di vita con
riferimento alle condizioni politico istituzionali, di sicurezza pubblica e
di vivibilità democratica di tale paese. A detto potere corrisponde una
posizione giuridica di interesse legittimo (Cons. St., sez. IV, 15 dicembre
2000, n. 6710 e n. 6716; id., 12 gennaio 1999, n. 11; nonché da ultimo id.
27 maggio 2002 n. 2937).
Al contrario il diritto di asilo previsto dall’art. 10 comma 3 Cost., il
quale (oltre a comportare minori benefici per lo straniero) presuppone il
mero accertamento della mancanza di libertà democratiche nel paese di
origine, dà luogo ad una posizione giuridica di diritto soggettivo (Cons.
St., sez. IV, 15 dicembre 2000, n. 6710; Cons. St. sez. IV, 10 marzo 1998, n.
405).
Ne consegue che sulla base della vigente normativa nazionale ed
internazionale sussiste un’ontologica differenza fra diritto di asilo e “status” di rifugiato politico, tale da giustificare il diverso riparto di giurisdizione.
3. Passando al merito del ricorso, lo stesso risulta fondato.
In particolare il provvedimento impugnato appare inadeguato sotto il profilo della motivazione sull’insussistenza della condizione di pericolo dell’incolumità personale del richiedente che deve essere assai rigorosa, concernendo una materia così delicata e importante (cfr. T.A.R.
Friuli V.G. 26 ottobre 1998, n. 1176).
Con riferimento alla fattispecie in esame si può osservare che il
provvedimento impugnato si limita ad esaminare (senza neppure approfondirne tutte le implicazioni) il solo aspetto della diserzione dal servizio militare.
Nulla è detto nel provvedimento di diniego in merito al fatto che il
ricorrente, cittadino irakeno di etnia curda:
– sia stato incarcerato due volte in Irak per avere partecipato a
manifestazioni contro Saddam Hussein;
– sia iscritto al PUK (Unione Patriottica del Kurdistan);
– abbia combattuto per sette anni contro il Governo irakeno.
Il Collegio ritiene che tali circostanze dovevano formare oggetto di
approfondita istruttoria per verificarne l’effettiva fondatezza.
Parimenti indubitabile è che di tale verifica doveva essere dato conto nel testo del provvedimento così da consentire l’esame, in sede giurisdizionale della congruità dell’iter logico seguito.
46
Il provvedimento impugnato dovrà, quindi, essere annullato al fine di consentire alla Commissione Centrale di valutare tutti gli aspetti
presenti nella vicenda in esame e di pronunciarsi in merito ad essi motivatamente.
In conclusione il ricorso in esame deve essere accolto.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate così come indicato nel dispositivo.
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale della Liguria, Sezione
Seconda, definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso in epigrafe.
Condanna il Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica al pagamento a favore del ricorrente delle spese di giudizio, comprensive di onorari, che si liquidano in complessive € 1.500 (millecinquecento euro).
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
(omissis)
◆
Tribunale di Bologna, Decreto 10 febbraio 2003 - est. Arceri
Il Giudice istruttore, letto il ricorso ex art. 669 duodecies c.p.c. promosso da [...] al fine di ottenere, in esecuzione del provvedimento cautelare emesso da questo giudice in seno alla causa civile n. 1238/2002, la
nomina di un “commissario ad acta” per l’esecuzione del provvedimento, o, comunque, l’emissione di tutte le misure necessarie ed opportune
al fine di assicurare la pronta e piena esecuzione del provvedimento in
questione; richiamate, in diritto, tutte le motivazioni del precedente
provvedimento cautelare in data 29.5.2002;
rilevato che, effettivamente, il comportamento dell’Amministrazione convenuta non rappresenta corretto adempimento dell’ordine contenuto nel provvedimento di cui sopra, il quale era volto a garantire la possibilità, per il ricorrente, di ottenere un titolo di soggiorno sul territorio
nazionale in attesa delle determinazioni del giudice ordinario in merito
alla domanda svolta in via principale (riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra del 28.7.1951 o, in via subordinata, dei diritto di asilo ex art. 10 Cost.): infatti, tale esigenza appare di fatto essere stata frustrata giacché il permesso in concreto rilasciato
è di durata assai limitata, sicuramente inferiore alla presumibile durata
47
del processo (vedasi, a tale proposito, il testuale disposto dell’art. 11 del
d.p.r. 31.8.1999 n. 394), e pone al ricorrente, in modo dei tutto immotivato e non conforme a legge, divieto di lavoro (tale divieto non è espressamente imposto dall’art. 28 della legge sopra citata);
ritenuta dunque la necessità, in applicazione dell’art. 669 duodecies
c.p.c., e preso atto dell’impossibilità, autorevolmente affermata, di proporre giudizio di ottemperanza davanti all’autorità amministrativa per
l’attuazione di provvedimenti privi di contenuto decisorio (Cons. Stato,
sez. IV, 4 maggio 1999, n. 778, in Cons. Stato, 1999, 1, 792), di emettere un
provvedimento strumentale all’attuazione corretta dei precetto cautelare,
di libera determinazione quanto a contenuto, nei limiti dell’idoneità al
raggiungimento dello scopo;
ritenuto, a tale ultimo proposito, che appare allo stato sovrabbondante la nomina di un “commissario ad acta” (pur ammessa da taluna
isolata giurisprudenza: Trib. Bari, 12 febbraio 1997, in Giur. It. 1998, 276)
o la delega dell’attuazione del provvedimento ad ufficiale giudiziario
(Trib. Catania, 13 ottobre 2000, in Foro It. 2000, 1, 3620), provvedimento
cui si potrà eventualmente dar corso qualora l’Amministrazione non si
adeguasse alle ulteriori specificazioni contenute nel sotto esteso ordine
giudiziale di carattere attuativo.
P.Q.M.
Dispone che la questura di Modena rilasci in favore del ricorrente
[...] un permesso di soggiorno per motivi umanitari della durata di almeno due anni, senza divieto di lavoro. Spese di lite al definitivo.
◆
Corte d’appello di Firenze, decreto 7 marzo 2003 - est. De Simone
Nella causa civile iscritta al n. 353/2002 del Ruolo generale della
volontaria giurisdizione di questa Corte e vertente tra Ministero degli
Interni [...], reclamante, e [...], resistente non costituito, nonché con l’intervento del P.G. Oggetto: riconoscimento della qualifica di rifugiato politico. La Corte, sciogliendo la riserva formulata in udienza,
OSSERVA
Il reclamante Ministero degli interni deduce il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in ordine all’impugnazione di provvedimento della Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifu48
giato. Si controverte intorno ad un provvedimento emesso da un’autorità
amministrativa (la Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato) avente sede in Roma, onde non banale appare il rilievo
che la competenza per territorio, ormai sottratta a rilievi in quanto non
eccepita nei termini di cui all’art. 39 cod. proc. civ., sarebbe spettata ad
altra sede giudiziaria.
La questione di giurisdizione, per la materia di cui si tratta, ha già
formato oggetto di contrastanti decisioni, ad opera delle Sezioni unite
della Corte di Cassazione (17 dicembre 1999, n. 907) e del Consiglio di
Stato (Sez. IV, 15 dicembre 2000, n. 6710). Il primo Consesso ha osservato che l’art. 5 della legge 39/1990, che prevedeva espressamente la giurisdizione del T.A.R. in ordine a tutti i provvedimenti di espulsione, era
stato abrogato dall’art. 47 del d. lgs. 286/1998 e che la qualifica di rifugiato politico costituisce, come quella di avente diritto all’asilo, un diritto soggettivo, con la conseguenza che tutti i provvedimenti, assunti dagli organi competenti in materia, hanno natura meramente dichiarativa e
non costitutiva, per cui le controversie riguardanti il riconoscimento del
diritto di asilo o la posizione di rifugiato rientrano nella giurisdizione
dell’autorità giudiziaria ordinaria. Il secondo ha invece ritenuto, per
giungere all’affermazione della giurisdizione amministrativa, che la decisione della Commissione Centrale non consegue automaticamente al riscontro dell’esistenza di determinati presupposti di fatto, ma implica l’esercizio di un ampio potere discrezionale di valutazione ed apprezzamento dei fatti stessi, attività di valutazione che è differente da quella
preposta al riconoscimento del diritto d’asilo, che invece fonda l’esistenza di un diritto soggettivo perfetto. Ritiene questo Collegio di pervenire
alla stessa conclusione della cennata decisione del Consiglio di Stato, non
senza aver rilevato quanto segue.
L’art. 1 del d.l. 416/1989, dopo aver stabilito norme in materia di riconoscimento dello status di rifugiato, prevede che “Avverso la decisione di respingimento presa in base ai commi 4 e 5 è ammesso ricorso giurisdizionale”. Nella terminologia corrente ed in presenza di un sistema
di giustizia amministrativa che comprende la tutela giurisdizionale e
quella costituita dai ricorsi amministrativi (gerarchico, gerarchico improprio, straordinario al Capo dello Stato), con la locuzione ricorso amministrativo si usa designare la facoltà di adire l’organo giurisdizionale come
appunto previsto dallo stesso decreto legge 416/1990 al successivo art. 5
comma 3, in relazione ai provvedimenti di espulsione.
La norma dell’art. 1, appena riportata, non risulta abrogata, né
espressamente, per effetto dell’art. 46 della legge 40/1998 (art. 47 del d.
lgs 286/998) che ha soppresso 1e seguenti disposizioni: “... e) gli articoli
2 e seguenti del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito, con
modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39”, né tacitamente, dalla
legge 189/2002 (il cui art. 32 introduce nel sistema del d.l. 416/1989 un
49
art. 1 ter che al comma 6 prevede la cognizione del tribunale ordinario in
ordine alla decisioni delle Commissioni territoriali, ma nulla innova in
relazione alle giustiziabilità delle decisioni della Commissione centrale,
istituita dal d.p.r. 136/1990).
La legislazione nazionale, sovrapponendo i concetti di asilo e di rifugio politico (è sufficiente considerare che l’art. 1 del d.l. 416/1989 reca
l’intitolazione asilo politico laddove espressamente si riferisce alla
Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata con legge 24 luglio
1954, n. 722, riguardante i rifugiati e che i due termini continuano ad essere sovrapposti nella modifica alle norme di quel d.l. introdotta con
l’art. 32 della legge 189/2002), ha inteso trattarli alla stessa maniera.
Tutte le norme, dall’art. 1 del d.l. 16/1989 all’art. 32 della legge
189/2002, che sanciscono diritti in favore dei rifugiati e di coloro che richiedono l’asilo, prevedono che in ordine ai diritti stessi debba esservi riconoscimento ad opera delle autorità dello Stato italiano. Quest’attività
di accertamento è demandata ad organi amministrativi, evidentemente
(e non illogicamente) ritenuti come i più idonei all’espletamento delle
necessarie procedure d’indagine e valutazione. Finché non intervenga il
provvedimento con cui la Commissione centrale riconosce la sussistenza
delle condizioni per lo status di rifugiato politico, allo straniero richiedente compete una posizione di interesse legittimo, che diverrà di diritto soggettivo soltanto allorché quell’atto venga adottato.
Le incertezze che dominano l’interpretazione delle norme regolanti l’intera materia legittimano la compensazione delle spese. In difformità
dal parere del P.G.
DICHIARA
il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in ordine alla presente
controversia e compensa le spese.
50
2.
PRESUPPOSTI
DELLO STATUS DI RIFUGIATO
E DELL’ASILO COSTITUZIONALE
E RELATIVI CRITERI DI RICONOSCIMENTO
Le definizioni dello status di rifugiato e dell’asilo costituzionale, contenute rispettivamente nell’art. 1 della Convenzione di
Ginevra sullo Status di Rifugiato del 1951, e nell’art. 10 comma 3
della Costituzione Italiana del 1948, sono frutto entrambe della
temperie del secondo dopoguerra, epoca in cui una nuova consapevolezza rispetto agli effetti atroci della guerra e delle persecuzioni sulle popolazioni civili rese evidente la necessità di garantire agli esuli uno status giuridico definito e stabile, quale forma di
riconoscimento e di protezione internazionale. Tuttavia, per cause
probabilmente dovute alla diversa collocazione e natura delle due
norme – contenuta la prima in uno strumento internazionale pattizio e la seconda nella carta fondamentale di una nascente repubblica – e dunque al diverso contesto e relativo grado di “contrattazione” caratterizzante i lavori preparatori, le due definizioni
appaiono avere ampiezza e contenuto diversi. Secondo la
Convenzione di Ginevra il rifugiato è colui che “avendo un fondato timore di persecuzione per motivo di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o di opinioni politiche, si
trova fuori dal Paese di cui è cittadino e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese”. Diversamente
l’art. 10 comma 3 della Cost. attribuisce il diritto d’asilo allo straniero “al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”.
La diversa formulazione delle norme riportate fa sì che la
prima di esse sembri ricomprendere una cerchia di persone più ristretta rispetto a quella individuata dalla seconda. I rifugiati della Convenzione di Ginevra sono infatti individui perseguitati o per
lo meno a rischio di persecuzione, un rischio percepito come fondato
timore; rilevano, nell’accertamento della sussistenza di tale fondatezza, le caratteristiche oggettive del background di provenienza
nonché quelle soggettive dell’interessato, come prescritto dal
Manuale sulle procedure e sui criteri per la determinazione dello status
51
di rifugiato edito dall’ACNUR nel 1979. I titolari del diritto all’asilo costituzionale sono invece individui deprivati nel proprio paese del godimento di quei diritti civili che i Costituenti hanno individuato come pilastri del nostro stato democratico, senza necessità che tale deprivazione si concreti in una persecuzione. Una categoria evidentemente più ampia e più vicina a considerazioni di
carattere generale sul trattamento dei cittadini da parte dello stato di origine, a fronte dell’altra, ancorata a valutazioni più attente
alla vicenda individuale dell’interessato.
La giurisprudenza ha dedicato attenzione ai due tipi di protezione degli asilanti soprattutto dal punto di vista della loro natura giuridica e azionabilità in giudizio (v. cap. 1); tuttavia essa si
è riferita in alcune decisioni anche ad alcuni elementi sostanziali,
inerenti ai presupposti del riconoscimento e al loro relativo accertamento. Tale analisi ha avuto ad oggetto in modo particolare lo
status di rifugiato ex Convenzione di Ginevra, a causa del solo recente riconoscimento della natura immediatamente precettiva del
dettato costituzionale.
Si tratta inizialmente di giurisprudenza amministrativa (solo negli anni tra il 1997 e il 1999 la Suprema Corte dichiara la competenza dell’A.G.O. in merito all’impugnativa dei dinieghi di status di rifugiato e di riconoscimetno dell’asilo costituzionale) che
insiste, tra l’altro, su questioni quali : il possesso di un passaporto rilasciato dall’autorità nazionale del paese di origine quale elemento a sfavore della sussistenza di una persecuzione (TAR Lazio
n. 652 del 1 aprile 1994, TAR Lazio n. 979 del 20 giugno 1994) ; il
riconoscimento della persecuzione proveniente da un entità diversa dal governo – c.d. “agente di persecuzione non statale” –
quale possibile presupposto dello status (TAR Friuli del 22 ottobre
1998); la necessità, ai fini del riconoscimento, di una specifica situazione soggettiva di persecuzione e l’insufficienza di una generica condizione di carenza di libertà democratiche (Consiglio di
Stato - Sez. IV, n. 405 del 10 marzo 1998); la provenienza da uno
Stato “terzo” – ossia diverso dallo stato di origine – firmatario
della Convenzione di Ginevra, ove il soggetto ha trascorso un periodo sufficientemente lungo per non potersi parlare di mero
transito, quale causa ostativa al riconoscimento (Consiglio di
Stato, Sez. IV, n. 3605 del 2 luglio 2002).
Dal 1999 in poi appaiono sentenze del Giudice ordinario
contenenti una disamina dei presupposti dei due status, con precipuo riferimento al tema della prova. Rimane esemplare, riguardo all’analisi dei presupposti del riconoscimento dell’asilo costituzionale, la già citata sentenza del Tribunale di Roma del 1 otto52
bre 1999, la quale dichiara il diritto all’asilo politico di Abdullah
Ocalan, leader del movimento Curdo PKK, applicando per la prima volta ad un caso concreto l’art. 10 comma 3 della Costituzione.
Il Tribunale si sofferma sul fondamentale presupposto della “carenza di godimento delle libertà democratiche” passando in rassegna i
principi contenuti nel Capo I della nostra Costituzione e la non
analoga ed effettiva esistenza di tali libertà in Turchia. A tal fine il
Tribunale considera mezzi di prova rilevanti anche fatti notori (la
detenzione per motivi esclusivamente politici di Leyla Zana, parlamentare europea di etnia Curda con cittadinanza Turca) e atti di
fonte istituzionale relativi a violazioni dei diritti umani in Turchia
(risoluzioni del Parlamento Europeo, sentenze della Corte
Europea dei Diritti Umani di Strasburgo), nonché rapporti provenienti da fonti non governative autorevoli (quale ad es. Amnesty
International).
E proprio in reazione al tema della prova delle persecuzioni,
questione di grande rilevanza in un procedimento promosso da
un individuo fuggito spesso repentinamente e in clandestinità dal
proprio paese, la giurisprudenza sembra attestarsi sul concetto di
prova “di carattere indiziario” (TAR Friuli, sent. 22 ottobre 1998),
ovvero di “alleggerimento dell’onere probatorio”, ammettendo l’utilizzo di “presunzioni logiche ovvero giudizi di verosimiglianza” (Corte
di Appelo di Catania, decreto 1/22 marzo 2002), dando così rilevanza alla “presumibile difficoltà”, per un richiedente asilo, “di procurarsi idonei mezzi di prova” (Tribunale di Genova, ordinanza 5 luglio 2001).
Ulteriore argomento di forte rilevanza “sostanziale” è la protezione urgente da garantire in via immediata al richiedente asilo
che ha impugnato il diniego di riconoscimento dello status di rifugiato e che corre un rischio attuale di espulsione verso il paese
in cui è stato perseguitato; si segnala a tale proposito l’utilizzo del
procedimento previsto dall’art. 700 del codice di procedura civile,
il quale dispone che “chi ha fondato motivo di temere che durante il
tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia
minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con
ricorso al giudice i provvedimenti di urgenza che appaiono, secondo le
circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli affetti della decisione sul merito”. Il procedimento in parola si sta rivelando idoneo ad ottenere, in caso di pronuncia favorevole del Giudice adìto, il rilascio di un permesso di soggiorno temporaneo finalizzato
a mettere l’appellante al riparo dal rimpatrio fino alla definizione
del giudizio d’impugnazione del diniego (si veda ad es. Tribunale
di Roma, decreto 12 giugno 2000).
53
TAR Lazio sent. n. 152 del 12 febbraio 1992
Massima
Ai sensi dell’art. 1 comma 4 Legge 28 febbraio 1990 nº39, i casi di
diniego dello status di rifugiato devono basarsi non su situazioni formalmente o astrattamente ritenute, ma su situazioni accertate. La mera
provenienza da uno Stato firmatario della Convenzione di Ginevra non
legittima di per sé il diniego dello status di rifugiato, essendo comunque
necessario che sia in concreto valutato se sopravvenute situazioni non
consentano di fatto nello Stato di provenienza la effettiva protezione dell’interessato.
◆
TAR Friuli sent. n. 90 del 19 febbraio 1992
Massima
Risulta illegittimo per difetto di istruttoria e motivazione, il diniego di riconoscimento dello status di rifugiato politico, fondato sull’assenza di credibili elementi di persecuzione, quando, al contrario, delle
dichiarazioni dei richiedenti e dagli elementi di fatto da essi prodotti,
emergono episodi che, se non sono di per se stessi idonei a dare piena
prova dell’esistenza di un disegno persecutorio da parte delle autorità
del paese d’origine, forniscano concordanti indizi in tal senso ed essi siano stati ignorati o non adeguatamente considerati, sia pure ai soli fini di
confutarne la sussistenza o il carattere determinante, nella motivazione
del provvedimento di rigetto, emesso dall’organo competente a pronunziarsi sull’istanza.
◆
TAR Friuli, sent. n. 15 del 23 gennaio 1992
TAR - Lazio (Latina), sent. n. 652 del 1 aprile 1993 Pres. Camozzi Est.
Aureli. […] - Min. Int. ed altri. - (parziale)
Massima
Al di là dei generici riferimenti alle violazioni dei propri diritti subite in patria dallo straniero richiedente asilo, a causa dell’attività di opposizione politica svolta, la circostanza di aver fatto ingresso in Italia con
regolare passaporto è indicativa che il ricorrente non rappresentava un
soggetto pericoloso e che non erano in corso azioni repressive nei suoi
confronti.
◆
TAR - Lazio, sez. I ter, sent. n. 979 del 20 giugno 1994 Pres. Mastrocola,
Est. Gasperini. […] - Min. Int. ed altri. - (parziale)
Spetta allo straniero richiedente asilo politico fornire elementi tali
da giustificare la presenza di un ragionevole e fondato timore di subire
persecuzioni dirette e personali in caso di rientro in patria per motivi di
razza, di religione, di nazionalità, di appartenenza a un certo gruppo razziale, e/o di opinioni politiche, così come previsto dalla Convenzione di
Ginevra 28/7/1951 resa esecutiva con la L. 24.7.1954 n. 722.
Lo status di rifugiato, rispetto a quello degli altri immigrati, è uno
status privilegiato e – come tale – può essere concesso solo a chi è stato
costretto a lasciare il proprio paese perché personalmente perseguitato
per motivi di razza, di religione, di nazionalità, di appartenenza a un determinato gruppo sociale o politico.
Invece, quando risulta dalle stesse dichiarazioni rilasciate dal richiedente asilo che egli ha lasciato volontariamente il proprio paese, anzi regolarmente munito di passaporto rilasciato dalle Autorità albanesi,
essenzialmente per trovare, sì, migliori condizioni di vita civile e democratica, ma soprattutto alla ricerca di maggiori possibilità di lavoro, è da
ritenersi come uno dei tanti immigrati provenienti da paesi disagiati.
Massima
Mentre il riconoscimento dello status di rifugiato politico richiede
come presupposto l’accertamento dei pericoli, per l’interessato, in caso di
ritorno al paese d’origine, di persecuzioni personali, il diritto d’asilo,
previsto dall’art. 10, terzo comma, della costituzione può venir concesso
a chiunque sia impedito, nello Stato di provenienza, l’effettivo esercizio
delle libertà democratiche, come garantire delle norme costituzionali italiane. Tale diritto, qualora riconosciuto, comporta peraltro minori benefici, coesistenti, al limite nel divieto di espellere chi ne sia titolare.
54
◆
TAR del Lazio - Sez. I ter sent. n. 1456 del 5 ottobre 1994 Pres.
Mastrocola, Est. Pugliese. […]- Min. Int. - (estratto)
– Riconoscimento dello status di rifugiato e concessione dell’asilo
politico sono istituti aventi proprie peculiarità, dovendosi per lo status di
rifugiato (ex art. 1, par. 2, della Convenzione di Ginevra) far riferimento
55
al serio e fondato timore di subire persecuzioni personali, nel proprio
paese di origine, per ragioni politiche o affini, mentre, per l’asilo politico
(ex art. 10 Cost., 3º comma) far riferimento all’impedimento all’esercizio
delle libertà democratiche, sempre nel proprio paese di origine.
In tale contesto, la Commissione Centrale per il riconoscimento
dello status di rifugiato, neppure competente ex D.P.R. 136/90 a concedere l’asilo politico, non può che far esclusivo riferimento ai parametri di
cui alla Convenzione di Ginevra e cioè alla concreta possibilità che l’interessato potesse essere, o meno, oggetto di persecuzioni per ragioni politiche, razziali o religiose nel proprio paese di origine.
– La mancata traduzione dell’atto e delle modalità di impugnazione dall’italiano in una lingua conosciuta dall’interessato non è – per costante giurisprudenza formatasi sul punto – elemento che ridondi in vizio di legittimità del provvedimento, ma, eventualmente, della sua notificazione: vizio sanato, come tale dal conseguimento dello scopo e cioè
dall’aver l’interessato stesso proposto tempestiva e rituale impugnativa.
◆
TAR - Lazio Sez. I ter sent. n. 597 del 7 aprile 1995; Pres. Mastrocola Est. Gasparini. - Min. Int. ed altri.
Quando alla luce di tutta una serie di elementi, peraltro documentati in atti appare evidente che i ricorrenti non sono dei semplici sbandati, approdati in Italia in cerca di un qualsiasi lavoro o comunque di
mezzi di sussistenza che non erano riusciti a trovare nel loro paese di origine ma, al contrario, avendo perso per motivi di odio politico, una situazione di benessere economico già raggiunto nel loro paese, sono espatriati per trovare altrove una civile base di vita, tanto che Autorità di altri paesi hanno riconosciuto agli altri membri della stessa famiglia perseguitata lo “status” di rifugiato senza opporre difficoltà, è da ritenere illegittima la decisione di non riconoscimento dello “status” di rifugiato in
quanto la Commissione non ha espletato una sufficiente istruttoria sul
caso in questione e non ha quindi tenuto conto della situazione come sopra rappresentata, che ha in se tutti i presupposti per il rilascio del richiesto “status” di rifugiato politico.
TAR Lazio - Sez. I ter sent. n. 578 del 10 aprile 1996 Pres. Mastrocola,
Est. Mele, […]- Min. int. - (parziale)
La Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato ha ritenuto di rigettare l’istanza presentata dal ricorrente, in quanto lo stesso non è stato in grado di individuare motivi di persecuzione a
lui riferibili in via diretta e personale e per ritenersi sproporzionata la
reazione dell’espatrio in relazione al timore di subire repressioni.
L’istruttoria non appare, però, completa.
E ciò perché la Commissione non ha mostrato di fare alcun riferimento ad alcune condizioni obiettive nelle quali versa il ricorrente, e
cioè: la sua appartenenza etnica (“amhara”) in un paese dove tale fatto è
sicuramente rilevante (l’Etiopia), il suo “status” di impiegato pubblico
nel precedente regime, la sua posizione di segretario della commissione
di controllo dell’Associazione dei giovani rivoluzionari etiopici, strettamente legata al partito unico marxista al potere nel precedente regime, il
suo invio in Bulgaria per ragioni di studio e di approfondimento ideologico.
Tutte queste evenienze sono state assolutamente pretermesse nell’istruttoria della Commissione o, quantomeno, non appaiono nella trasposizione dei motivi che hanno determinato il diniego di concessione dello
“status” di rifugiato.
Ritiene, pertanto, il Collegio che l’atto sia privo di una adeguata
motivazione, in ragione peraltro di una carente e frettolosa istruttoria,
per cui appare la necessità che l’istruttoria medesima venga rinnovata e
più approfonditamente condotta, al fine di verificare se realmente sussistono, nella comparazione tra lo stato del ricorrente e la situazione politica in Etiopia, le condizioni per considerare o meno il ricorrente rifugiato politico. Il ricorso va, pertanto, accolto e il provvedimento impugnato
annullato, facendo salvi in ogni caso i provvedimenti dell’Amministrazione in esito alla rinnovazione dell’istruttoria.
◆
Consiglio di Stato Sez. IV, sent. n. 405 del 10 marzo 1998
Massima
La generica gravità della situazione politico-economica e la stessa
mancanza dell’esercizio delle libertà democratiche, se sono sufficienti per
l’ottenimento dell’asilo politico, non sono di per sé sufficienti a costituire i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi
dell’articolo 5 della legge 28 febbraio 1990 n. 39, essendo necessario, a que-
56
57
st’ultimo fine, che la specifica situazione soggettiva del richiedente, in
rapporto alle caratteristiche oggettive sussistenti nel suo paese, siano tali da far ritenere l’esistenza di un grave pericolo per l’incolumità della
persona.
done l’illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere, sia in via
derivata che per vizi propri.
(omissis)
DIRITTO
◆
TAR Friuli, sent. del 22 ottobre 1998 - est. Savoia
SENTENZA
omissis
FATTO
1. Il ricorrente […] cittadino ruandese, giungeva a Pordenone all’età di 17 anni in data 30 dicembre 1995, in stato di abbandono, privo di
ogni mezzo di sostentamento.
Lo stesso veniva, inizialmente, affidato al Centro Diocesano di solidarietà di Pordenone e, da questo, in data 17 gennaio 1996, con decreto
del Tribunale per i Minorenni di Trieste al Comune di Pordenone affinché provvedesse a “idoneo collocamento”.
1.1 In data 28 febbraio 1996 la “Commissione Centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato”, pur negando lo status richiesto,
tuttavia, riconosceva l’esistenza di una situazione in Ruanda tale da giustificare la circostanza che il giovane non venisse rimpatriato e, quindi,
che lo stesso venisse accolto nel nostro territorio, almeno fino a quando
in Ruanda fosse cessato il conflitto interno.
1.2 Contro il surriferito provvedimento di diniego dello status di rifugiato veniva proposto il primo dei ricorsi in epigrafe, deducendone l’illegittimità per eccesso di potere per inadeguatezza istruttoria, difetto e
contraddittorietà della motivazione.
Nel frattempo il giovane […] riusciva a superare molte difficoltà e
iniziava a frequentare l’Istituto Professionale per l’Industria e
l’Artigianato; in data 30.08.1997, all’odierno ricorrente, veniva notificato
il provvedimento emesso dal Prefetto di Pordenone di espulsione dal territorio dello Stato per avere violato le norme che disciplinano l’ingresso
in Italia e il soggiorno degli stranieri. Conseguentemente, il Questore di
Pordenone gli intimava di abbandonare il territorio dello Stato entro
quindici giorni dalla notifica dello stesso.
Il provvedimento di espulsione e l’intimazione ad abbandonare il
territorio dello stato vengono impugnati con il secondo ricorso deducen58
Prima di esaminare in dettaglio i ricorsi, riuniti per connessione oggettiva e soggettiva, appare opportuno illustrare brevemente la normativa che in Italia regola il riconoscimento dello status di rifugiato.
Viene innanzi tutto in rilievo il dettato della costituzione: l’articolo
10 comma 3 Cost. esprime un principio in favore del rifugiato politico,
che deve essere di guida non solo per il legislatore, ma anche per la pubblica amministrazione.
Detta norma riconosce invero la qualità di rifugiato politico avente
diritto ad asilo allo straniero perseguitato dalle autorità del Paese d’origine, per aver preteso di esercitare libertà democratiche non dissimili da
quelle riconosciute nell’ordinamento italiano e che si trovi nell’impossibilità di rientrare in patria, senza esporsi al rischio delle sanzioni gravissime previste dal regime in carica per i dissenzienti.
Viene poi in rilievo la nozione di rifugiato contenuta nella
Convenzione di Ginevra del 1951 e resa esecutiva in Italia con L. 722 del
24.7.54, secondo cui è rifugiato colui che, temendo a ragione di essere
perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad
un particolare gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dal paese di cui è cittadino e non può o non vuole avvalersi della protezione di questo paese.
Secondo un noto orientamento giurisprudenziale internazionale, lo
status di rifugiato deve essere accordato qualora l’interessato abbia subito la violazione di quei diritti umani fondamentali sanciti da documenti
internazionali che indichino inconfutabilmente l’assenza di protezione
da parte del paese d’origine.
A tale riguardo rileva il paragrafo 65 del manuale sulle procedure
e sui criteri per la determinazione dello status di rifugiato, pubblicato a
cura dell’alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, rubricato sotto la dicitura g) gli “Agenti della persecuzione” che così afferma: La
persecuzione è normalmente riferita alla condotta dell’autorità di un
Paese; essa può essere però svolta da gruppi della popolazione che non
si adegua alle norme delle leggi del Paese. A titolo esemplificativo, si può
citare l’intolleranza religiosa, spinta fino alla persecuzione, che può aversi in un paese laico ove più ampi settori della popolazione non rispettano le convinzioni religiose altrui.
Pertanto la persecuzione va intesa anche nella mancanza ed incapacità di un governo di proteggere i diritti umani della sua popolazione,
incapacità intesa quindi anche come assenza di volontà di proteggere.
59
L’ingresso del rifugiato nel territorio nazionale è regolamentato in
maniera differente da quello del migrante economico.
La differenza è rilevante in quanto mentre l’ingresso del migrante economico è subordinato al possesso di una serie di requisiti formali, tra cui un passaporto valido o un documento equipollente, nonché,
se necessario, il visto, titolo per ottenere l’ingresso del rifugiato è la
semplice presentazione di un’istanza motivata e se possibile documentata.
L’esecutorietà del provvedimento espulsivo di uno straniero che
richieda lo status di rifugiato, violerebbe peraltro anche l’art. 3 della
Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli,
disumani o degradanti (ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 498
del 3.11.88), che è stata interpretata come tendente a proibire anche le forme di allontanamento che comportino di fatto tale trattamento.
Infatti, secondo il parere della Commissione europea, l’espulsione
può in certe condizioni rappresentare un trattamento inumano e degradante ai sensi dell’art. 3.
Sulla base della normativa applicabile e di quanto fin qui illustrato, risulta palese che lo status di rifugiato va rapportato ad una vasta tipologia di situazioni, mutevoli nel tempo e riferite alle più varie realtà
locali, anche se la soglia sotto la quale scatta la persecuzione tutelata dalla Convenzione è usualmente inferiore a quella garantita dal nostro ordinamento costituzionale.
La prima questione è il carattere della persecuzione, in atto o temuta, che deve (secondo una costante giurisprudenza) risultare personale e diretta, mentre non sarebbe sufficiente un semplice riferimento alla
situazione politica ed economica del Paese di provenienza, ovvero un generico e non meglio precisato dissenso verso la politica perseguita dal
Governo.
Altrettanto insufficiente per ottenere lo status di rifugiato appare
l’aspirazione, indubbiamente legittima e commendevole, a migliori condizioni di vita civile e democratica.
Se in astratto i limiti suindicati appaiono chiari, la realtà del mondo di oggi, con persecuzioni attuate da governi legittimi, con gruppi di
ribelli armati, con innumerevoli guerre a sfondo tribale, etnico o addirittura religioso, rende complesso l’esame delle singole fattispecie.
Sicuramente si può affermare che, anche nell’attuale situazione di
alcune aree, certo non caratterizzate dal rispetto ai diritti umani, non risulta sufficiente l’appartenenza ad una etnia, sia pure in posizione di difficoltà, per ottenere lo status di rifugiato: ad esempio non può bastare la
semplice appartenenza all’etnia albanese del Kosovo, ovvero a quella
curda dell’Iraq per rendere – perciò solo eleggibile un soggetto al riconoscimento dello status di rifugiato.
60
È comunque necessario un quid pluris, dato da una persecuzione
specificamente rivolta al richiedente, sia pure eventualmente collegata a
ragioni razziali o etniche.
Quanto detto, porta inevitabilmente a considerare l’altra questione,
quella cioè dei mezzi di prova. Evidentemente le notizie di stampa, ovvero i comunicati dei vari Governi, non possono risultare sufficienti a
fondare la convinzione della Commissione per il riconoscimento dello
status di rifugiato prima e quella del giudice poi.
Altrettanto insufficienti appaiono poi le semplici dichiarazioni dell’interessato, soprattutto ove non risultino corroborate da prove.
Su tale aspetto va peraltro rilevato che, paradossalmente, tanto più
grave risulta la persecuzione, tanto minore è la possibilità per l’interessato di fornire prove certe. Pertanto, si tratta quasi sempre di prove di carattere indiziario collegate a fatti notori, come la persecuzione degli appartenenti ad una determinata etnia o religione.
Questi due elementi, la varietà delle situazioni persecutorie tutelate dalla Convenzione di Ginevra e la oggettiva difficoltà di provare la
persecuzione, richiedono un esame particolarmente attento delle domande da parte della Commissione per il riconoscimento dello status di
rifugiato ed una motivazione delle sue decisioni particolarmente incisiva, specie in caso di diniego.
Ciò premesso, il presente ricorso va ora esaminato in dettaglio.
Il primo gravame censura il diniego del riconoscimento dello status di rifugiato, deducendone l’illegittimità per violazione di legge e carenza e contraddittorietà della motivazione. Il rilievo è fondato. Secondo
quanto detto in linea di principio, spetta all’amministrazione la rigorosa
motivazione, in caso di diniego, sull’insussistenza della condizione di
pericolo dell’incolumità personale del richiedente, per motivi, nella specie, di appartenenza all’etnia “perdente” nel conflitto civile in corso nel
Paese di origine del ricorrente.
Orbene, mentre da un lato è notoria la situazione di pericolo ivi esistente per la popolazione – tanto che, per esempio, è stata considerata legittima la fuga da campi ONU perché ritenuti inidonei alla protezione
degli appartenenti all’etnia “Hutu” –, l’atto impugnato omette totalmente di spiegare le ragioni della ricordata insussistenza, ponendosi poi in
contrasto con tale assunto laddove invece riconosce il particolare contesto che consiglia di non rimpatriare il ricorrente fin quando perduri tale
critica situazione.
All’accoglimento del primo ricorso consegue quello del secondo, risultando tutti i provvedimenti con questo impugnati atti consequenziali
e necessitati dal diniego di riconoscimento dello status di rifugiato di cui
si è accertata l’illegittimità.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
61
P.Q.M.
il Tribunale amministrativo regionale per il Friuli-Venezia Giulia,
definitivamente pronunziando sui ricorsi in è premessa, riuniti per connessione, respinta ogni contraria istanza ed eccezione, li accoglie, con
conseguente annullamento degli atti impugnati.
◆
Consiglio di Stato Sez. IV, sent. n. 291 del 18 marzo 1999
Massima
La generica gravità della situazione politico-economica (al pari della stessa mancanza dell’esercizio della libertà democratica), se sono sufficienti per l’ottenimento dell’asilo politico, previsto dall’articolo 10,
comma terzo, della Costituzione, anche solo in presenza di una situazione di mancanza di libertà democratiche nel paese di origine, non sono di
per sé sufficienti a costituire i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della legge 28 febbraio 1990 n. 39 essendo necessario, a questo fine, che la specifica situazione soggettiva del richiedente, in
rapporto alle caratteristiche oggettive sussistenti nel suo paese, siano tali da far ritenere – come rilevato in precedenza – l’esistenza di un grave
pericolo per l’incolumità della persona.
◆
Si costituivano la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed il
Ministero dell’Interno sostenendo:
a) l’inammissibilità della domanda per difetto di giurisdizione
in difetto di normativa di attuazione;
b) l’inammissibilità della domanda per difetto di collegamento
territoriale con lo Stato Italiano;
c) in subordine, l’infondatezza nel merito della domanda.
Nel procedimento interveniva ex art. 70 c.p.c. il P.M. presso il
Tribunale chiedendo in via principale la declaratoria di difetto di giurisdizione del giudice ordinario ed, in via subordinata, il rigetto della domanda attrice per difetto del requisito essenziale della permanenza nel
territorio italiano per avere l’Ocalan abbandonato volontariamente il nostro Paese.
Interveniva volontariamente anche la Repubblica di Turchia che
contestava il fondamento della domanda; con successivo atto depositato
il 23 febbraio 1999 la Repubblica turca dichiarava, tramite il proprio rappresentante diplomatico, di non voler ulteriormente prendere parte al
procedimento.
Intervenivano inoltre l’Associazione per gli Studi Giuridici
sull’Immigrazione (ASGI), il CIR, Consiglio Italiano per i rifugiati Onlus, L’Associazione Giuristi democratici di Torino che chiedevano
l’accoglimento della domanda attrice.
Nel corso dell’istruttoria, concessi alle parti i termini ex art. 180
CPC, era respinta una richiesta di informazioni ai sensi dell’art. 213 CPC.
All’udienza del 6 maggio 1999 la difesa dell’attore depositava ulteriore documentazione. Ammessa ed espletata prova testimoniale, sulle conclusioni riportate in epigrafe e previa discussione orale ex art. 190
bis c.p.c., la causa è passata in decisione all’udienza del 20 settembre
1999.
Tribunale di Roma - 2ª sez. Civile sent. 1 ottobre 1999 - est. De Fiore
Nel procedimento (omissis) tra Abdullah Ocalan (omissis) e
Presidenza del Consiglio dei Ministri (omissis) e Ministero dell’Interno
(omissis)
(omissis);
oggetto: riconoscimento del diritto di asilo politico.
(omissis)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 21 dicembre 1998 Abdullah
Ocalan esponeva:
(omissis)
62
MOTIVI DELLA DECISIONE
Deve preliminarmente dichiararsi l’ammissibilità dell’intervento
della Associazione per gli Studi Giuridici sull’immigrazione,
dell’Associazione Giuristi Democratici di Torino e del Consiglio Italiano
per i Rifugiati - Onlus.
Infatti l’art. 6 dello Statuto dell’Associazione per gli Studi Giuridici
sull’Immigrazione annovera fra le finalità dell’Associazione quella di
“fornire assistenza legale e costituirsi in giudizio ovvero, se necessario,
promuoverlo o resistere, per l’affermazione e tutela dei diritti e interessi
dello straniero.”
Con formulazione più generale, ma parimenti pregnante ai fini che
ci occupano, l’art. 2 dello Statuto dell’Associazione Giuristi Democratici
63
elenca tra i propri fini quello di “sostenere ogni azione in difesa dei diritti dell’uomo, della libertà dei popoli...”.
Parimenti la lettera f) dell’art. 2 dello Statuto del CIR, Consiglio
Italiano per i Rifugiati, annovera specificamente tra gli scopi associativi
quello di “monitorare le iniziative, le fasi e le modalità di corretta attuazione ed efficace applicazione sul territorio delle normative sul diritto
d’asilo.... adoperandosi affinché la legislazione sia rispettata ed applicata dalle autorità competenti”.
Pertanto deve ritenersi che sussiste con riguardo agli interventi
suddetti un collegamento diretto tra l’interesse degli intervenienti in relazione ai fini istituzionali statutoriamente previsti e quello posto a fondamento della domanda attrice diretta al conseguimento del diritto d’asilo, che richiede – ai fini del riconoscimento della sua fondatezza – una
valutazione complessa tale da attingere anche i diritti fondamentali dell’individuo e la libertà dei popoli.
Di conseguenza, gli interventi spiegati dall’ASGI, dall’Associazione
Giuristi Democratici di Torino e dal Cir devono dichiararsi ammissibili ai
sensi dell’art. 105, 2º co. CPC, configurandosi come interventi adesivi dipendenti.
Né può obiettarsi che le associazioni de quibus non possono vantare un diritto soggettivo nei confronti delle parti originarie dal processo: infatti l’intervento adesivo dipendente ex art. 105, 2 co. cpc non è caratterizzato dall’esistenza di un diritto soggettivo nei confronti delle parti originarie del processo, ma dall’esistenza di un interesse giuridico ad
un determinato esito della controversia in favore della parte adiuvata
perché, in caso contrario, la soccombenza in giudizio per l’efficacia riflessa del giudicato si ripercuoterebbe anche nei confronti delle parti intervenute (Cass. Sez. I 11 luglio 1988 n. 4570).
Ciò è tanto più vero in una vicenda come questa oggetto del presente giudizio la quale – per la portata emblematica che riveste – assume
un risalto che travalica l’ambito giudiziario.
Le medesime considerazioni non sembrano valere per l’Associazione Tutela e Sostegno della quale non è dato conoscere i fini istituzionali,
non essendo stato depositato lo Statuto dell’Associazione e non essendo
stati specificati neanche i compiti statutari (il fascicolo di parte non è allegato agli atti, né risulta depositata la comparsa conclusionale). Pertanto
il detto intervento deve essere dichiarato inammissibile.
Nel merito la domanda attrice si fonda sul disposto dell’art. 10, 3
co. della Costituzione il quale stabilisce: “Lo straniero al quale sia impedito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla
Costituzione Italiana ha diritto di asilo nel territorio della repubblica secondo le condizioni della legge”.
La norma costituzionale – ad avviso del giudicante che aderisce all’orientamento espresso dalla S.C. nella sentenza a Sez. Unite del 12 di64
cembre 1996 - 26 maggio 1997 n. 4674 nonché alle opinioni espresse dalla migliore dottrina – ha un indubbio nucleo precettivo; infatti essa è di
per sé idonea a regolare gli aspetti salienti dell’istituto quanto ai presupposti e al contenuto e, d’altra parte, contiene una precisa delimitazione
dei poteri delle leggi ordinarie che, in una prospettiva futura, dovranno
disciplinare le condizioni di esercizio del diritto di asilo (la norma costituzionale pone certamente un divieto, ad esempio, alla limitazione del
beneficio agli appartenenti di determinati paesi; ovvero alla ottemperanza di condizioni formali da parte dell’esitante ovvero, ancora, alla previsione di requisiti e situazioni soggettive diverse ed ulteriori rispetto a
quanto previsto dal dettato costituzionale).
Il diritto di asilo si configura, quindi, come un diritto soggettivo
perfetto che sorge in capo allo straniero allorché venga accertato l’impedimento nel Paese di origine all’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana (art. 10, 3 co. Costituzione).
Né può obiettarsi che tale accertamento “senza il filtro di una normativa di attuazione” esula dai poteri del giudice, perché affidare al giudice la valutazione sulla “democraticità” di un ordinamento straniero significherebbe accettare ipotesi di responsabilità internazionale dello
Stato Italiano per attività del suo potere giudiziario. Invero, in nessun caso, al di fuori della violazione delle limitazioni risultanti da accordi internazionali, la concessione dell’asilo può concretare di per sé un illecito
da parte dello Stato il quale – nell’esercizio della sua sovranità – tale diritto ritenga di riconoscere allo straniero.
Inoltre occorre considerare che la legge ordinaria non può modificare il presupposto a cui il dettato costituzionale subordina il sorgere del
diritto di asilo né, tantomeno, diversamente condizionarlo. In sostanza al
giudice, che sia chiamato a decidere sulla domanda di asilo dello straniero, sarà indefettibilmente sottoposta, anche se intervenuta un’organica disciplina del disposto costituzionale, la valutazione circa la effettiva
democraticità dell’ordinamento giuridico della Patria dell’asilante.
Del resto una valutazione, analoga quanto a portata politica anche
se affatto diversa per il contenuto, è quella demandata al Giudice investito della richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi del
d.l. n. 416/1989 (giudice amministrativo quantomeno nel vigore dell’art.
5, 2 co. Legge di conversione, peraltro abrogato dall’art. 46 Legge n.
40/1998 e dall’art. 47 d.lgs. n. 286/96).
Tale diritto, infatti, sorge allorché, ai sensi dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951, lo straniero “ritenga a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un
determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche”.
Si tratta, quindi, di due diritti (quello vantato dal richiedente il rifugio e quello dell’asilante) diversi per presupposti (vedi sent. Cass. Sez.
Un. cit.) sicché le due categorie – definite, peraltro, un criterio puramen65
te concettuale dalla Costituzione e con un diverso criterio attinente ad
una specifica situazione personale dalla Convenzione – non coincidono
(né può oscurare tale distinzione la confusione terminologica in cui spesso le Convenzioni internazionali e le leggi che le rendono esecutive incorrono). Le due situazioni soggettive si diversificano, inoltre sotto il
profilo della fonte giuridica da cui scaturiscono: il diritto al rifugio ha
origine da una norma convenzionale internazionale, il diritto all’asilo da
una previsione costituzionale che, con una scelta politica precisa, ha inteso porre non già una enfatica dichiarazione di principio, bensì un preciso precetto giuridico.
Che tale distinzione sia insita ed accettata nel nostro sistema giuridico è, poi, ulteriormente provato dal fatto che nel disegno di legge inteso a disciplinare la materia, attualmente all’esame del Senato, esso è riprodotto.
In comune i due istituti hanno senza dubbio l’origine storica ed
il carattere umanitario e solidaristico che li ispirano, caratteristica
vieppiù accentuata per il diritto di asilo consacrato in una norma costituzionale.
Sotto questo profilo deve essere ricordato l’art. 14 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo, sottoscritta anche dalla Repubblica Turca, che sancisce il diritto assoluto di ciascun individuo ad ottenere
e godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni.
La Dichiarazione sull’Asilo territoriale adottata dall’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite il 15 dicembre 1967 soggiunge poi:
a) la concessione da parte di uno stato dell’asilo a persone che possano invocare l’art. 14 della Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo costituisce un atto pacifico e umanitario che, in quanto tale,
non deve essere considerato un atto ostile nei confronti di un altro Stato;
b) l’asilo accordato da uno Stato, nell’esercizio della sua sovranità,
a persone che possono invocare l’art. 14 della Dichiarazione Universale
dei Diritti dell’Uomo deve essere rispettato da tutti gli altri Stati.
In questa ottica, da cui esula ogni profilo di conflitto tra Stati, deve
essere collocata e valutata la richiesta di concessione di diritto di asilo
che l’attore ha introdotto con il presente giudizio.
Occorre, quindi, passare all’esame in ordine all’esistenza della condizione fondamentale alla quale la Costituzione subordina il riconoscimento del diritto di asilo: l’impedimento nel Paese di origine dell’attore
all’effettivo svolgimento delle libertà democratiche, garantite ed assicurate, invece, dalla nostra Costituzione. Dall’amplissima documentazione
prodotta e dalle risultanze delle prove testimoniali può ritenersi accertato:
A) Rispetto dell’integrità della persona (artt. 2, 13, 14, 16, 24 e 27
della Costituzione Italiana) con particolare riferimento:
66
A1) Omicidi politici, stragi, sparizioni
Si legge testualmente nel rapporto del Dipartimento di Stato degli
USA sui diritti umani in Turchia emesso dallo speciale ufficio dello stesso Dipartimento il 26 febbraio 1999 (doc. n. 19 nuova produzione):
“Nonostante il Primo Ministro Yilmar abbia dichiarato che i diritti umani sarebbero stati la priorità del Governo nel 1998, gravi abusi dei diritti
umani sono continuati... Omicidi extragiudiziali comprese le morti sotto
detenzione a causa dell’uso eccessivo della forza, ‘omicidi misteriosi’ e
scomparse continuano...”.
Sul piano giurisdizionale sono intervenute la sentenza della Corte
Europea di Strasburgo del 19/02/98 in merito al caso Kaya nonché la
successiva sentenza della stessa Corte del 25 maggio 1998 in merito al caso Kurt (doc. nn. 5 e 6 produzione originaria) che hanno riconosciuto la
responsabilità del Governo Turco nell’aver condotto un’inchiesta inadeguata sulla scomparsa dei due cittadini in seguito ad un’operazione delle forze di sicurezza governative.
Il rapporto annuale di Amnesty International del 1997 e quello del
1998 (doc. n. 11 e 12 della produzione originaria) indicano rispettivamente in 23 ed in 9 il numero delle persone sparite misteriosamente durante la prigionia.
In questo quadro assume drammatica veridicità quanto riferito dal
teste (omissis) circa il rinvenimento in una discarica presso la cittadina di
Siirt di 73 corpi (quelli da lui identificati) e le persecuzioni (compreso il
carcere) da lui subite per aver pubblicato la notizia (l’inchiesta sul fatto
venne messa a tacere dall’Autorità).
Omissis.
A2) Tortura e trattamenti inumani e degradanti
Risale a data non lontana (24 dicembre 1997) il rapporto del
Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti e
delle pene disumane e degradanti (doc. n. 7 nuova produzione) che segnala l’uso diffuso della tortura in Turchia “anche su un significativo numero di bambini”.
Ancora più recentemente (26 febbraio 1999) il Dipartimento di
Stato, nel già citato rapporto, informa che la tortura rimane una pratica
diffusa sia da parte della Polizia che delle squadre antiterrorismo.
Numerose sono, poi, le risoluzioni del Parlamento Europeo che
stigmatizzano e censurano l’uso della tortura e la prassi dei maltrattamenti nei confronti dei prigionieri (cfr. per tutte: Risoluzione del 20 giugno 1996: n. 29 originaria produzione).
In questo quadro assume verosimiglianza la deposizione del teste
Frisullo il quale, nel raccontare la sua esperienza carceraria in Turchia, ha
riferito che la pratica della tortura non risparmia né i detenuti politici né
quelli comuni.
Sul piano giurisdizionale è intervenuta la sentenza della Corte di
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Strasburgo del 18 dicembre 1996 (doc. nº 3 produzione originaria) che ha
accertato come Zeki Aksey, cittadino turco, sospettato di essere simpatizzante del PKK, fu crudelmente torturato nel corso del lungo periodo
di fermo di polizia a cui venne sottoposto (Aksey fu assassinato in circostanze misteriose nell’aprile del 1994).
A3) Arresti e detenzioni arbitrari
Vi sono agli atti le decisioni n. 37/1994 e n. 38/1994 (doc. n. 8 nuova produzione) da parte del gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria
della Commissione dei diritti umani che hanno accertato e dichiarato l’illegalità della detenzione di (...) cittadini turchi entrambi di etnia curda,
arrestati e detenuti per reati di opinione ai quali venne arbitrariamente
applicata la legge antiterrorismo.
Con la già citata sentenza del 18 dicembre 1996 (caso Aksey) la
Corte di Strasburgo ha condannato, tra l’altro, la Turchia per la violazione dell’art. 5 della Convenzione dei diritti dell’uomo; la Corte – dopo
aver sottolineato nella motivazione – che il controllo di interferenze con
i diritti di libertà dell’individuo da parte dell’esecutivo è un aspetto essenziale della garanzia rappresentata dall’art. 5 paragrafo 3 della citata
convenzione che sancisce l’obbligo di pronta presentazione al giudice
dell’arrestato o del fermato, ha confutato l’obiezione del Governo Turco
che si appellava alle esigenze particolari delle indagini di polizia in un’area minacciata da un’organizzazione terroristica, affermando testualmente che “la Corte non può accettare che sia necessario trattenere un
sospetto per 14 giorni senza controlli giudiziari. Tale periodo era eccezionalmente lungo ed aveva lasciato il ricorrente vulnerabile non solo alle interferenze arbitrarie con il suo diritto alla libertà, ma anche alla tortura... Inoltre il governo non ha addotto alcun motivo dettagliato sul perché la lotta al terrorismo nella Turchia sudorientale non rendesse attuabili gli interventi giudiziali”.
A4) Uso eccessivo della forza e violazioni delle leggi umanitarie nei
conflitti interni
La sentenza della Corte Europea di Strasburgo del 16 dicembre
1996 (caso Huseyin Akdivar e Ahmet Cicek; doc. n. 4 originaria produzione) ha accertato che le forze di polizia incendiarono arbitrariamente le
abitazioni dei richiedenti e che nessuna giustificazione è stata presentata
dal Governo Turco il quale “ha limitato la sua reazione al negato coinvolgimento delle forze di sicurezza nell’incidente”.
Si legge, poi, nel più volte citato rapporto del Dipartimento di Stato
che “la maggior parte delle stime concorda circa il numero di 2600/3000
tra paesi e villaggi che sono stati spopolati. Alcune organizzazioni non
governative indicano il numero delle persone forzatamente trasferite in
due milioni”.
Ad uno di questi episodi si è riferito il teste (...) il quale ha ricordato come aveva assistito all’incendio di due piccoli villaggi (in uno di
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essi vi era la sua abitazione), aggiungendo che nei luoghi dove viveva
(egli è di etnia curda) vi era stata una sistematica distruzione delle foreste e dei boschi al fine di costringere la popolazione ad una forzata emigrazione.
A5) Diniego di un processo pubblico e giusto
Il teste (...) ha riferito, con precisione convincente, in ordine all’effettiva conduzione delle istruttorie e dei procedimenti dibattimentali che
sono ben lontani dal rispettare la garanzia del diritto di difesa così come
previsto dalla Costituzione Italiana e realizzato nel diritto vivente.
Nel rapporto dell’Ufficio per la democrazia ed i diritti umani del
Dipartimento di Stato degli Stati Uniti si evidenziano le numerose anomalie, fonte di soprusi che derivano dalla costituzione e dalla gestione
dei Tribunali per la Sicurezza dello Stato (SSC) le cui decisioni, tra l’altro,
possono essere impugnate solamente presso un dipartimento speciale
dell’Alta Corte di Appello.
B) Rispetto delle libertà civili (artt. 18, 21 e 49 della Costituzione)
con particolare riferimento:
B 1) Libertà di parola e di stampa
La risoluzione del Parlamento Europeo del 12 dicembre 1996 (doc.
n. 31 nuova produzione) descrive una situazione complessiva che impedisce di fatto ai giornalisti di operare liberamente, attuata attraverso intimidazioni di ogni genere (arresti, sparizioni, distinzioni delle sedi).
Omissis
In questo contesto si colloca l’esperienza del teste (...) (già ricordato) il quale venne costretto alla fuga ed all’esilio per aver tentato di far
chiarezza sul retroscena della strage di Siirt.
B2) Libertà di associazione
L’associazione per la tutela dei diritti umani di Ankara (doc. n. 10
originaria produzione) segnala che dal gennaio al novembre 1997 i
“raid” nei confronti di sindacati, associazioni e partiti sono stati ben 189,
mentre 147 sono stati i sindacati, le associazioni ed i partiti che sono stati soppressi per ordine delle Autorità.
In atti vi è la circostanziata deposizione del teste (...) il quale ha riferito tutta la serie di persecuzioni sofferte (che lo costrinsero ad abbandonare la Turchia) sia quale difensore di imputati di separatismo sia quale promotore di un’associazione alla quale aderivano in prevalenza studenti di etnia curda, sorta per affermare e tutelare i diritti di libertà di
tutti gli studenti.
B3) Partiti politici
L’appello del 29/03/1999 di Lord Avenbury (vedi doc. n. 4 nuova
produzione), presidente della Commissione dei diritti umani della
Camera dei Lord, denuncia con forza la antidemocraticità del procedimento elettorale che ha portato alle recenti elezioni, mettendo in evidenza, in particolare, la repressione nei confronti dell’Hadep (Partito della
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Democrazia del Popolo) il quale “è determinato ad offrire alla popolazione Kurda la possibilità di rafforzare un’alternativa reale ai partiti
Kemalisti ed islamici”.
Sul piano giurisdizionale, è estremamente significativa la sentenza
della Corte Europea di Strasburgo in data 30 gennaio 1998 (doc. n. 13
nuova produzione) che, con verdetto unanime, ha ritenuto illegittimo ed
ha annullato lo scioglimento del TBRP (Partito Comunista Unificato della Turchia) disposto dalla Corte Costituzionale Turca prima che il partito
iniziasse a svolgere la propria attività, sulla base dell’atto costitutivo e
dello Statuto che si proponevano come obiettivo il tentativo “di trovare
una soluzione del problema curdo attraverso il libero dibattito e nel rispetto delle leggi democratiche affinché i popoli turco e curdo possano
convivere di loro spontanea volontà entro i confini della Repubblica sulla base dell’eguaglianza dei diritti... (vedi paragrafo 56 della parte motivata).
Gli stessi argomenti sono posti a fondamento della successiva sentenza della Corte di Strasburgo in data 25 maggio 1998 (doc. n. 14 nuova produzione) che ha sancito l’illegittimità dello scioglimento del
Partito Socialista Turco, disposto anch’esso sulla base delle affermazioni
di principio contenute nello Statuto che auspicavano la soluzione del
problema curdo su basi democratiche e con metodo pluralista.
B4) Discriminazione in relazione alla razza (art. 3 della Costituzione)
È questo un passaggio fondamentale al fine della valutazione della
situazione della democrazia in Turchia.
La previsione dell’art. 3 della Costituzione Turca: “ Lo Stato Turco
costituirà con il suo territorio e nazione, un’entità indivisibile”, dell’art.
4: “ Nessun emendamento potrà essere presentato o proposto... da quanto previsto dall’art. 3” dell’art. 14: “Nessuno dei diritti e delle libertà cui
si riferisce la Costituzione potrà essere esercitato allo scopo di mettere in
pericolo l’integrità dello Stato e l’unità della Nazione”, sono assunti dal
Governo Turco come valori assoluti ed intangibili, insuscettibili di essere
verificati e controllati nella realtà concreta e nel mutare della storia.
I gravi eccessi e le cospicue limitazioni alle libertà fondamentali di
cui si è fatto cenno nell’esposizione precedente diretti a discriminare la
popolazione curda della quale si arriva a negare l’identità (i curdi sono
chiamati turchi delle montagne; non è lecito esprimersi in lingua curda)
trovano giustificazione in questo atteggiamento monistico che determina
l’assoluta chiusura al dialogo ed al confronto con le minoranze nazionali ed etnico-linguistiche.
La vicenda di Leyla Zana, Hatip Dicle, Selin Sadak e Orhan Dagan,
tutti di etnia curda ed eletti al Parlamento nel 1991, appare esemplare.
Essi, privati dell’immunità parlamentare, vennero condannati a 15 anni
di reclusione per aver indossato sui loro abiti, all’atto dell’insediamento
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nel Parlamento, i colori tradizionali curdi ed enunciato (esprimendosi in
lingua curda) il loro programma politico che si proponeva l’obiettivo
“che il popolo curdo e quello turco possano vivere pacificamente in un
ambiente democratico” (vedi rapporto dicembre 1997 di Amnesty
International: doc. n. 45 originaria produzione).
Ancora oggi Layla Zana, premio Sacharov per la pace, ed i suoi
compagni di lotta sono detenuti nella prigione centrale chiusa di Ankara.
Conclusivamente, alla stregua degli accertamenti e delle considerazioni in precedenza formulate, deve ritenersi che in Turchia – malgrado
alcuni passi avanti recentemente effettuati – sussista una diffusa compressione delle libertà fondamentali dell’individuo e, più specificatamente, per gli appartenenti all’etnia curda, un impedimento all’effettivo
esercizio delle libertà democratiche che la nostra Costituzione garantisce.
Sussiste, pertanto, la essenziale condizione perché sia accertato e
dichiarato il diritto di Abdullah Ocalan all’asilo politico in Italia ai sensi
dell’art. 10, 3 co. della Costituzione.
È pur vero che, tra le libertà fondamentali riconosciute dalla
Costituzione Italiana, non vi è quella di agire e operare contro di essa (alla quale, al contrario, si ètenuti ad obbedire ed essere fedeli), cosi che
può sostenersi che l’art. 10, 3º co. non si estende a coloro che, come l’attore, abbiano compiuti atti contrari alla Costituzione del loro Paese e siano, in conseguenza perseguiti nelle forme legali.
Tuttavia occorre considerare che l’art. 10 ult. co. (“non è ammessa
l’estradizione dello straniero per motivi politici”) integra e completa la
previsione dell’art. 10, 3 co. Tale norma, in sostanza, estende l’asilo politico a tutti coloro che siano legalmente perseguiti nel loro Paese per l’attività politica posta in essere.
Sul piano internazionale la Convenzione Europea di estradizione
di Parigi del 19 dicembre 1957, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 30 gennaio 1963 n. 300 (alla quale ha aderito anche la Turchia) – regolamentando il regime delle “infractions politiques” – prevede che l’estradizione non sia concessa dallo Stato richiesto qualora questo ritenga che
il reato sulla base del quale si chiede l’estradizione sia di natura politica
o costituisca un fatto connesso ad un reato di tale natura (art. 3 comma
1); l’art. 3 comma 2 stabilisce, ad ulteriore garanzia dell’estradando, che
l’estradizione non verrà concessa nel caso che lo Stato richiesto “abbia
dei seri motivi di credere che la domanda di estradizione, per motivata
da un reato di diritto comune, sia stata presentata per perseguire o punire un individuo per considerazioni di razza, religione, nazionalità ed
opinioni politiche oppure che la situazione di detto individuo rischi di
essere aggravata da una qualsiasi di queste ragioni”.
La stessa natura delle imputazioni (quale risulta dalla richiesta di
estradizione da parte della procura Generale presso la Corte di Appello
allegata agli ahi) e la figura dell’Ocalan, oppositore del Governo Turco e
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leader di una formazione politica che ha intrapreso la lotta armata per il
riconoscimento dei diritti di un popolo, rendono indubbio che quelle situazioni – ritenute dalla norma internazionale rischiose per l’obiettività
del giudizio che il Paese richiedente intende celebrare nei confronti dell’estradando – siano effettivamente ricorrenti nella specie.
Pertanto l’attività criminosa contestata ad Ocalan non può determinare – in forza del preciso obbligo assunto dall’Italia con la detta
Convenzione – la sua estradizione con la ulteriore conseguenza che tale
attività non può essere considerata di impedimento al riconoscimento
del diritto di asilo.
Sul piano del diritto interno, può richiamarsi l’orientamento giurisprudenziale, prevalente quantomeno tendenzialmente, che in tema di
delitto politico – integra il criterio soggettivo su cui si fondava l’interpretazione dell’art. 8 c.p. con gli aspetti di oggettiva gravità dei fatti.
A tale orientamento è sottesa l’esigenza di contemperare la rilevanza del delitto politico ai fini estradizionali con la tutela dei valori umani
di carattere universale (Cass. I Sez. Pen. 27 febbraio 1989 Gomez; Cass. I
Sez. Pen. 17 febbraio 1992 Khaled).
L’elemento di novità introdotto da questa interpretazione degli
artt. 10 e 26 della Costituzione consiste nella necessità – ai fini della qualificazione del delitto politico nelle singole fattispecie – di un bilanciamento del rilievo del delitto politico con “i valori umani primari e irrinunciabili consacrati nella nostra Costituzione” che il delitto abbia offeso o posto in pericolo. Orbene in questo bilanciamento – se da una parte viene in gioco il peso dell’offesa – non si possono ignorare, ad avviso
del Giudicante, il valore della finalità e la dignità della causa che hanno
ispirato l’azione delittuosa. Pertanto, ai fini della qualificazione di un delitto come “delitto politico” ai sensi della previsione costituzionale è necessario:
a) l’individuazione da compiersi sul piano dell’assolutezza dei valori di un obiettivo politico quale movente dell’azione;
b) la comparazione tra tale obiettivo, inquadrato nella realtà storica al fine di saggiarne la validità e l’irrinunciabilità, con la gravità dell’offesa.
Dal rapporto di questi due termini si deve trarre il giudizio conclusivo, per cui l’azione delittuosa anche se abbia reso offesa a valori primari previsti dalla Costituzione, ha pur sempre un valore politico.
Nella specie la spinta ideale dell’attività di Ocalan (che ha dato luogo a delitti obiettivamente gravi) è stata costantemente il riconoscimento
dei diritti del popolo curdo, diritti fino ad ora contestati e conculcati.
Tale motivazione – politica sul piano dei valori assoluti e certamente degna di considerazione sia nell’attuale contesto che in una prospettiva storica – funge da contrappeso all’entità delle offese arrecate.
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Pertanto, anche sul piano del diritto interno, per effetto del divieto di
estradizione posto costituzionalmente per i diritti politici, sussiste il diritto dell’attore a non vedersi estradato così che, sotto questo profilo, l’attività delittuosa a lui contestata non può condizionare negativamente il
riconoscimento del diritto di asilo.
La difesa delle Amministrazioni convenute obietta ulteriormente
che, in seguito ai noti eventi (Ocalan si è allontanato volontariamente
dall’Italia e si trova attualmente ristretto nella prigione di Imrali; nei suoi
confronti è stata pronunciata una condanna a morte da parte di un
Tribunale Turco) manca la relazione con il territorio dello Stato (che sarebbe condizione necessaria per il conseguimento del diritto di asilo) e fa
difetto nell’attore lo stesso interesse ad agire “essendo attualmente impossibile quel concreto riconoscimento o disconoscimento di un bene
della vita che costituisce funzione della giurisdizione”.
Deve, al contrario, ritenersi che la presenza del richiedente il diritto di asilo nel territorio dello Stato non è condizione necessaria per il
conseguimento del diritto stesso. La presenza non è, infatti, richiesta nella previsione costituzionale che prevede e regolamenta nei suoi aspetti
essenziali il diritto di asilo.
Inoltre, benché non siano state emanate nell’ordinamento giuridico
italiano vere e proprie norme di attuazione del disposto costituzionale,
non può negarsi che le convenzioni sui rifugiati quali la Convenzione di
Ginevra del 28 luglio 1951 resa esecutiva in Italia con legge 24 luglio 1954
n. 722 e la Convenzione di Dublino del 15 luglio 1990 resa esecutiva in
Italia con legge 23 dicembre 1992 n. 253, pur essendo gli istituti del tutto
diversi quanto ai presupposti, possono tuttavia essere considerate, sul
piano sistematico, come un insieme di disposizioni corrispondenti al disposto dell’art. 10, 3 co. Costituzionale che, in virtù dell’analogia, concorrono a disciplinare il diritto di asilo (tali disposizione si applicano direttamente, malgrado alcuni refusi che si riferiscono al diritto di asilo,
soltanto ai rifugiati).
In nessuna di tali disposizioni è inserita la condizione che subordina il diritto al conseguimento del relativo status alla presenza nel territorio dello Stato, anzi l’art. 10 della legge n. 253/92 che ratifica e rende
esecutiva in Italia la convenzione di Dublino prevede alcune situazioni
di concedibilità del diritto di asilo (rectius: rifugio) anche allo straniero
che non sia presente nel territorio dello Stato, precisando che gli obblighi
suddetti “...si estinguono se lo straniero ha lasciato il territorio degli stati membri per un periodo non inferiore ai tre mesi”.
Nella specie l’attore ha, è vero, lasciato il territorio dello Stato, ma,
al momento della cattura che ha determinato (ovviamente) l’impossibilità del ritorno in Italia, non si erano compiuti i tre mesi di cui alla previsione normativa.
Né può collegarsi la necessità di questo presupposto (la presenza
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nel territorio dello Stato) alla struttura stessa del diritto di asilo che è detto “territoriale” soltanto per contrapposizione alla protezione accordata
da parte di uno Stato al di fuori della propria sfera territoriale a individui che tale protezione richiedono (c.d. asilo “extraterritoriale”: asilo nelle sedi diplomatiche, a bordo di aeromobili).
In realtà la questione della mancata presenza nel territorio dello
Stato è questione che si collega all’ulteriore obiezione per cui manca nell’attore l’interesse ad agire, non potendo avere, così si argomenta, l’eventuale sentenza favorevole alcun effetto pratico.
L’impossibilità pratica di Ocalan di poter usufruire concretamente,
nelle condizioni in cui si trova, della concessione del diritto di asilo farebbe sì che il suo interesse a questo riconoscimento abbia una “valenza
puramente ed inammissibilmente astratta”.
Si deve, innanzitutto, richiamare in contrario la distinzione tra l’interesse ad agire (nella specie: il permanere dell’interesse ad agire in
quanto Ocalan, al momento della proposizione della domanda, si trovava in stato di libertà in Italia) e la eseguibilità concreta della sentenza una
volta intervenuta: l’obiezione della difesa delle Amministrazioni convenute sembra, infatti, attenere a questo momento che è successivo e che
non riguarda la verifica della sussistenza dell’interesse ad agire come
condizione dell’azione.
Tuttavia, anche a voler considerare connessi i due momenti, deve
osservarsi che l’elaborazione giurisprudenziale in tema di attualità e concretezza dell’interesse ad agire sembra essere arrivata ad un approdo sicuro che costituisce il limite negativo al riconoscimento di un interesse
concreto ed attuale: non risponde a tali requisiti l’interesse di colui che,
se non intervenisse la pronuncia giudiziale, subirebbe un pregiudizio
soltanto potenziale ed astratto così che è inibito al giudice di risolvere
questioni meramente teoriche al fine di una pronuncia dal contenuto
astratto e congetturale (Cass. 9/10/1998 n. 10062; Cass. 23/05/1982
n. 3198).
Nella specie l’attore il quale ha indirizzato al Tribunale due appelli, rispettivamente in data 16 gennaio 1999 (tramite i suoi legali) ed in data 14 febbraio 1999 nei quali ha ribadito l’importanza del procedimento
per lui stesso e per la sua causa, non ha prospettato un interesse accademico, ma un interesse che riveste un’oggettiva consistenza anche se assume, nel quadro attuale, una valenza ridotta (ma non meramente teorica) rispetto alla pienezza del diritto di asilo e, nel contempo, una pregnanza più forte per effetto del preciso riferimento ideale che contiene.
Infatti il riconoscimento del diritto di asilo rappresenta un elemento che
può valere senza dubbio a mitigare o, comunque ad influire sulla situazione attuale dell’attore; tale riconoscimento implica, poi, l’accertamento
– in una sede giudiziaria neutra ed imparziale – dell’esistenza del problema del popolo curdo e del suo diritto all’autodeterminazione o, co74
munque, a spazi di libertà e democrazia, obiettivi dell’azione politica di
Ocalan. Si tratta, come già accennato, di aspetti che, sotto un certo punto di vista, rappresentano un “minus” rispetto al contenuto pieno del diritto di asilo, ma che sono, comunque, strettamente legati all’oggetto del
giudizio ed alle ragioni della decisione. Tali considerazioni devono indurre a ritenere che l’interesse dell’attore ad una pronuncia favorevole
non sia meramente teorico ed accademico, ma conservi concretezza ed
attualità. Pertanto deve essere dichiarato il diritto di Ocalan ad ottenere
l’asilo politico in Italia ai sensi dell’art. 10, 3 co. della Costituzione (in esso è compreso il diritto ad ottenere un permesso di soggiorno a tempo
indeterminato). Le amministrazioni convenute devono essere condannate in solido al pagamento in favore dell’attore nonché dell’Associazione
per gli Studi sull’immigrazione (ASGI), dell’Associazione Giuristi
Democratici di Torino e del Consiglio Italiano per i Rifugiati delle spese
processuali che, in assenza di nota spese, si liquidano come in dispositivo. Sussistono giusti motivi per compensare le spese processuali nei confronti dell’Associazione Tutela e Sostegno.
P.Q.M.
pronunciando sulla domanda proposta da Abdullah Ocalan
(omissis)
così provvede:
a) dichiara l’ammissibilità dell’intervento dell’Associazione Studi Giuridici sull’immigrazione, dell’Associazione Giuristi Democratici di
Torino e del Consiglio Italiano per i Rifugiati;
b) dichiara l’inammissibilità dell’intervento dell’Associazione
Tutela e Sostegno per le famiglie delle vittime del Pkk;
c) dichiara il diritto dell’attore all’asilo politico in Italia ai sensi
dell’art. 10, 3 co. della Costituzione;
d) condanna la Presidenza del Consiglio ed il Ministero dell’interno in solido al pagamento in favore dell’attore delle spese processuali omissis;
e) condanna, inoltre, la Presidenza del Consiglio ed il Ministero
dell’interno in solido al pagamento in favore dell’Asgi, dell’Ass. Giuristi
Democratici di Torino e del CIR Onlus, delle spese processuali omissis;
omissis.
75
Tribunale di Roma Decreto 12 giugno 2000 - est. Lenzi
Letto il ricorso presentato da […] ex art. 700 c.p.c. diretto ad ottenere la concessione di un permesso di soggiorno per asilo o in subordine per motivi di giustizia;
disposta la comparizione delle parti;
osserva
IN FATTO
con ricorso ex art. 700 c.p.c.
premesso che:
– è cittadino turco di etnia curda e appartiene ad una famiglia
che per avere difeso e protetto militanti ed esponenti di movimenti indipendentisti curdi, ha subito in diverse occasioni incarcerazioni e torture;
– è stato anche lui molte volte arrestato e torturato; in data 11.11.94
a Colonia ha inoltrato la propria domanda di riconoscimento dello status
di rifugiato, rigettata dalle autorità competenti;
– il provvedimento di diniego è stato confermato dal Tribunale
Amministrativo della città di Colonia di fronte al quale aveva impugnato lo stesso, e successivamente gli è stato notificato un decreto di espulsione;
– dopo alcune settimane il ricorrente è fuggito in Francia per sottrarsi al forzato rimpatrio in Turchia ed ai gravissimi rischi che in tal caso avrebbe corso;
– in data 20.04.98 ha presentato alle autorità amministrative francesi una nuova istanza di riconoscimento dello status di rifugiato che gli
è stata respinta in quanto ai sensi della Convenzione di Dublino competente all’esame della domanda sarebbe la sola Germania;
– dopo pochi giorni, sottraendosi nuovamente all’esecuzione dell’espulsione, si è recato a Milano dove, in un primo momento era stata
accolta la sua domanda di rifugio;
– solo successivamente, in data 10.01.00, dopo essersi recato all’ufficio stranieri della Questura di Milano per il rinnovo del permesso di
soggiorno gli è stato comunicato il rigetto, per carenza di competenza ai
sensi della Convenzione di Dublino, della propria domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, ed è stato anche informato che sarebbe stato rimpatriato in Turchia;
– ha chiesto, in via cautelare, il rilascio di un permesso di soggiorno che gli consenta una legittima permanenza in Italia fino al riconoscimento del proprio diritto di asilo come sancito dall’art. 10 Cost.
Disposta la comparizione delle parti la Presidenza del Consiglio
76
dei Ministri ed il Ministero degli Interni, nonostante rituale notifica, non
si sono costituiti.
Sentito il ricorrente, e modificata in parte la domanda originaria nel
senso di chiedere, in via subordinata, la sospensione del decreto di espulsione, il G.D. ha riservato la decisione.
IN DIRITTO
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 4674
del 1997, si sono pronunciate sull’applicabilità diretta dell’art. 10 della
Cost., oltre a configurare “un vero e proprio diritto soggettivo all’ottenimento dell’asilo” a favore dello straniero che versi nelle situazioni contemplate dalla norma con conseguente competenza del giudice ordinario
a decidere della domanda relativa, avrebbe portata precettiva relativamente alla possibilità di accoglienza dello stesso nel territorio, “anche in
mancanza di una legge che, del diritto stesso, specifichi le condizioni di
esercizio e le modalità di godimento”. Il carattere precettivo e la conseguente immediata operatività della disposizione costituzionale sono da
ricondurre al fatto che essa, seppure in una parte necessita di disposizioni legislative di attuazione, delinea con sufficiente chiarezza e precisione la fattispecie che fa sorgere in capo allo straniero il diritto di asilo,
individuando nell’impedimento all’esercizio delle libertà democratiche
la causa di giustificazione del diritto ed indicando l’effettività quale criterio di accertamento della situazione ipotizzata”.
Come precisato dalla pronuncia della Corte di cassazione indicata,
il diritto di asilo è dunque nozione più ampia a quella di rifugiato politico. Infatti la Convenzione di Ginevra del 28.07.51 (che disciplina lo status di rifugiato politico) “prevede quale fattore determinante per la individuazione del rifugiato, se non la persecuzione in concreto, un fondato
timore di essere perseguitato, cioè un requisito che non è considerato necessario dall’art. 10, 3 comma della Costituzione” in base al quale l’accertamento in concreto dell’impedimento nel Paese di origine dello straniero all’esercizio delle libertà democratiche dalla Costituzione italiana.
Del resto il diritto di asilo comporta per l’interessato minori benefici,
“potendo consistere al limite nel solo diritto a non essere espulso dal
Paese” (TAR Friuli Venezia Giulia 23.01.92 n. 15; Cons. St. Sez. IV
10.03.98 n. 405), mentre lo status di rifugiato assicura particolari benefici
a chi lo ottenga.
Ciò premesso, venendo al caso di specie, al fine di accertare l’esistenza del fumus boni iuris occorre verificare in concreto se al ricorrente
sia impedito in Turchia, suo Paese di provenienza, del godimento effettivo delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana. A tal
fine, seppure sommariamente, in quanto ciò sarà oggetto di un più approfondito esame nel corso del giudizio di merito finalizzato all’otteni77
mento del diritto di asilo, è necessario non solo raffrontare le disposizioni contenute nella Costituzione italiana che regolano le libertà democratiche con quelle previste in Turchia, ma occorre verificare se le libertà anche tutelate nel testo della Costituzione risultino effettivamente vigenti
in Turchia, ovvero concretamente esistenti sulla base di una indagine che
tenga conto non solo della legislazione di attuazione, ma anche di prassi, di precedenti, di testimonianze.
A questo proposito l’esistenza del fumus si ricava dalla documentazione prodotta, la quale attesta che la repressione antidemocratica in
Turchia, in particolare nei confronti dei curdi, continua in modo massiccio, nonostante l’intervento di denuncia delle organizzazioni indipendenti ed internazionali e che in Turchia vengono negati i più elementari
diritti, quali il diritto alla libera associazione ed alla manifestazione del
pensiero. In particolare dai rapporti annuali del 1997, 98, 99 di Amnesty
International emerge che: centinaia di persone sono state detenute come
prigionieri di coscienza per loro attività politica non violenta; la tortura
continua ad essere sistematica; i gruppi di opposizione armata hanno ucciso deliberatamente e arbitrariamente sia prigionieri che civili; ci sono
state una serie di denunce per decessi avvenuti in detenzione e per sparizioni durante la prigionia.
Inoltre il rapporto dell’associazione turca per i diritti umani evidenzia le morti, le torture, le violazioni della libertà di stampa e di associazione, le detenzioni per i reati di opinione nei confronti della popolazione curda.
A maggiore conferma, la sentenza della Corte Europea dei diritti
dell’uomo del 18.12.96 relativa al caso Alsoy contro Turchia, attesta l’esistenza di maltrattamenti e di torture a seguito di un arresto con l’accusa
di appartenere al PKK.
Quanto al periculum in mora, dalla documentazione prodotta risulta che nei confronti del ricorrente è pendente un provvedimento di
espulsione emesso in Germania, ed operante anche in Italia a seguito del
rigetto della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato politico.
Inoltre emerge che lo stesso, sia in Turchia che in Germania che in
Italia, è stato particolarmente attivo nella partecipazione a manifestazioni ed iniziative a sostegno della causa del popolo curdo, in contrapposizione con il governo turco. È pertanto altamente probabile, anche sulla
base della conoscenza di casi analoghi, che, qualora fosse forzatamente
rimpatriato, venga immediatamente arrestato e processato senza il rispetto delle garanzie in precedenza evidenziate.
Sussistono pertanto i presupposti per la concessione del provvedimento richiesto.
Tuttavia ritiene questo Giudice che non possa ordinarsi alle
Amministrazioni convenute di concedere un permesso di soggiorno. Tale
78
provvedimento infatti non consegue necessariamente al riconoscimento
del diritto di asilo, che, come in precedenza evidenziato, comporta solo
il diritto a permanere nel Paese e cioè di non esserne espulso.
Diversamente si ordinerebbe alla P.A. il compimento di un’attività discrezionale, e ciò in palese violazione della legge 20.03.1865 n. 2248 allegato E.
Misura idonea ad assicurare provvisoriamente gli effetti della domanda di merito appare essere invece quella della sospensione dell’esecuzione del decreto di espulsione, come richiesto in via subordinata dal
ricorrente.
Data la contumacia dei resistenti nulla deve essere disposto in relazione alle spese.
P.Q.M.
Sospende l’esecuzione del provvedimento di espulsione nei confronti di […]. Fissa entro giorni 30 il termine per l’inizio del giudizio di
merito.
◆
TAR Veneto, sent. n. 270 del 31 gennaio 2001
SENTENZA
sul ricorso n. 2536/91, proposto da (...)
CONTRO
la Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato,
rappresentata e difesa dall’Avvocatura distrettuale dello Stato di
Venezia, domiciliataria ex lege;
per l’annullamento
della deliberazione n. 0214 datata 29 luglio 1991 di diniego dello
status di rifugiato politico;
…….Omissis………
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO
Il ricorrente, studente di Kiev, dichiara di essere stato anticomunista e come tale inviso al regime.
79
Ritiene il diniego di status di rifugiato illegittimo per le seguenti ragioni:
1 - Insufficiente e incongrua motivazione.
Il provvedimento risulta motivato in modo apodittico, né le dichiarazioni del ricorrente sono state prese in considerazione.
2 - Violazione art. 1 comma quinto della legge 39 del 1990.
Il legislatore consente di provare la situazione di persecuzione politica solo ove possibile.
Si è costituita in giudizio l’amministrazione, che puntualmente
controdeduce nel merito del ricorso, concludendo per la sua reiezione,
siccome infondato.
DIRITTO
Prima di esaminare in dettaglio il presente ricorso, appare opportuno illustrare brevemente la normativa che in Italia regola il riconoscimento dello status di rifugiato.
Viene innanzi tutto in rilievo il dettato della Costituzione: l’articolo 10 comma 3 Cost. esprime un principio in favore del rifugiato politico, che deve essere di guida non solo per il legislatore, ma anche per la
pubblica amministrazione.
Detta norma riconosce invero la qualità di rifugiato politico avente
diritto ad asilo allo straniero perseguitato dalle autorità del Paese di origine, per aver preteso di esercitare libertà democratiche non dissimili da
quelle riconosciute nell’ordinamento italiano e che si trovi nell’impossibilità di rientrare in patria, senza esporsi al rischio delle sanzioni gravissime previste dal regime in carica per i dissenzienti.
Viene poi in rilievo la nozione di rifugiato contenuta nella
Convenzione di Ginevra del 1951 e resa esecutiva in Italia con L. 722 del
24.7.54, secondo cui “è rifugiato colui che, temendo a ragione di essere
perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad
un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova
fuori dal paese di cui è cittadino e non può o non vuole avvalersi della
protezione di questo paese”.
Secondo un noto orientamento giurisprudenziale internazionale, lo
status di rifugiato deve essere accordato qualora l’interessato abbia subito la violazione di quei diritti umani fondamentali sanciti da documenti
internazionali che indichino inconfutabilmente l’assenza di protezione
da parte del paese di origine.
A tale riguardo rileva altresì il paragrafo 65 del manuale sulle
procedure e sui criteri per la determinazione dello status di rifugiato, pubblicato a cura dell’alto Commissario delle Nazioni Unite per i
rifugiati, rubricato sotto la dicitura g) “Agenti della persecuzione”,
80
che così afferma: “La persecuzione è normalmente riferita alla condotta dell’autorità di un paese; essa può essere però svolta dai gruppi della popolazione che non si adeguano alle norme delle leggi del
Paese. A titolo esemplificativo, si può citare l’intolleranza religiosa,
spinta fino alla persecuzione, che può aversi in un paese laico ove
più ampi settori della popolazione non rispettano le convinzioni religiose altrui.”.
Pertanto la persecuzione va intesa anche nella mancanza ed incapacità di un governo di proteggere i diritti umani della sua popolazione,
incapacità intesa quindi anche come assenza di volontà di proteggere.
L’ingresso del rifugiato nel territorio nazionale è regolamentato in
maniera differente da quello del migrante economico.
La differenza è rilevante, in quanto mentre l’ingresso del migrante
economico è subordinato al possesso di una serie di requisiti formali, tra
cui un passaporto valido o un documento equipollente, nonché, se
necessario, il visto, titolo per ottenere l’ingresso del rifugiato è la
semplice presentazione di un’istanza motivata e se possibile documentata.
L’esecutorietà del provvedimento espulsivo di uno straniero che richieda lo status di rifugiato, violerebbe peraltro anche l’articolo 3 della
Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti (ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 498 del
3.11.88), che è stata interpretata come tendente a proibire anche le forme
di allontanamento che comportino di fatto tale trattamento.
Infatti secondo il parere della Commissione europea, l’espulsione
può in certe condizioni rappresentare un trattamento inumano e degradante ai sensi dell’articolo 3.
Sulla base della normativa applicabile e di quanto fin qui illustrato, risulta palese che lo status di rifugiato va rapportato ad una vasta tipologia di situazioni, mutevoli nel tempo e riferite alle più varie realtà
locali, anche se la soglia sotto la quale scatta la persecuzione tutelata dalla Convenzione è usualmente inferiore a quella garantita dal nostro ordinamento costituzionale.
La prima questione è il carattere della persecuzione, in atto o temuta, che deve (secondo una costante giurisprudenza) risultare personale e diretta, mentre non sarebbe sufficiente un semplice riferimento alla
situazione politica ed economica del Paese di provenienza, ovvero un generico e non meglio precisato dissenso verso la politica perseguita dal
Governo.
Altrettanto insufficiente per ottenere lo status di rifugiato appare
l’aspirazione, indubbiamente legittima e commendevole, a migliori condizioni di vita civile e democratica.
Se in astratto i limiti suindicati appaiono chiari, la realtà del mondo di oggi, con persecuzioni attuate da governi legittimi, con gruppi di
81
ribelli armati, con innumerevoli guerre a sfondo tribale, etnico o addirittura religioso, rende complesso l’esame delle singole fattispecie.
Sicuramente si può affermare che, anche nella attuale situazione di
alcune aree, certo non caratterizzate dal rispetto dei diritti umani, non risulta sufficiente l’appartenenza ad una etnia, sia pure in posizione di difficoltà, per ottenere lo status di rifugiato: ad esempio non può bastare la
semplice appartenenza alla etnia albanese del Kossovo, ovvero a quella
curda dell’Iraq per rendere – per ciò solo – eleggibile un soggetto al riconoscimento dello status di rifugiato.
È comunque necessario un quid pluris, dato da una persecuzione
specificamente rivolta al richiedente, sia pure eventualmente collegata a
ragioni razziali o etniche.
Quanto detto porta inevitabilmente a considerare l’altra questione,
quella cioè dei mezzi di prova. Evidentemente le notizie di stampa, ovvero i comunicati dei vari Governi, non possono risultare sufficienti a
fondare la convinzione della Commissione per il riconoscimento dello
status di rifugiato prima e quella del giudice poi.
Altrettanto insufficienti appaiono poi le semplici dichiarazioni dell’interessato, soprattutto ove non risultino corroborate da prove.
Su tale aspetto va peraltro rilevato che, paradossalmente, tanto più
grave risulta la persecuzione, tanto minore è la possibilità per l’interessato di fornire prove certe. Pertanto, si tratta quasi sempre di prove di carattere indiziario collegate a fatti notori, come la persecuzione degli appartenenti a una determinata etnia o religione.
Questi due elementi, la varietà delle situazioni persecutorie tutelate dalla Convenzione di Ginevra e la oggettiva difficoltà di provare la
persecuzione, richiedono un esame particolarmente attento delle domande da parte della Commissione per il riconoscimento dello status di
rifugiato e una motivazione delle sue decisioni particolarmente incisiva,
specie in caso di diniego.
Ciò premesso, il presente ricorso va ora esaminato in dettaglio.
Orbene, dalla documentazione versata in atti e dalle dichiarazioni
rese a verbale alla commissione, non risulta che il ricorrente sia stato mai
sottoposto ad alcuna persecuzione specificatamente diretta nei suoi confronti, né che la sua situazione si possa distinguere da quella dei restanti cittadini del proprio Paese.
In sostanza, non solo manca ogni principio di prova di persecuzione politica ma nulla di specifico viene affermato sul punto in ricorso.
Quanto fin qui esposto appare sufficiente per rigettare il ricorso
medesimo.
Vi sono tuttavia ragioni per compensare le spese di giudizio tra le
parti.
82
P.Q.M.
il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, sezione terza,
definitivamente pronunziando sul ricorso in premessa, respinta ogni
contraria istanza ed eccezione,
lo rigetta.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Venezia, nella camera di consiglio del 31 gennaio
2001.
◆
TAR Veneto, sent. n. 2328 del 4 luglio 2001
SENTENZA
sul ricorso n. 3392/95, proposto da (...)
CONTRO
il Ministero degli interni, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato di Venezia, domiciliataria ex lege;
per l’annullamento
del provvedimento della commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato datato 15 dicembre 1994 che rigetta la richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato;
….Omissis……
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO
Il ricorrente, cittadino togolese, illustra la sua situazione di oppositore politico del regime operante nel suo Paese.
Ritiene il diniego di riconoscimento dello status di rifugiato illegittimo per eccesso di potere, carenza e contraddittorietà della motivazione,
contrasto con altri provvedimenti, vizi logici ed errata applicazione della legge.
Le argomentazioni della Commissione, il non aver presentato subito la domanda di status di rifugiato ed essere transitato in altro Paese –
83
non precisato – firmatario della Convenzione di Ginevra, non appaiono
argomenti sufficienti per negare lo status, anche in presenza di un’evidente persecuzione subita dal ricorrente.
La famiglia dell’istante è stata costretta ad emigrare e suo fratello
era stato ucciso in quanto oppositore del regime.
Altro motivo di illegittimità è il fatto che gli atti gravati non sono
stati notificati in lingua conosciuta.
Si è costituita in giudizio l’amministrazione, che puntualmente
controdeduce nel merito del ricorso, concludendo per la sua reiezione,
siccome infondato.
DIRITTO
Prima di esaminare il dettaglio il presente ricorso, appare opportuno illustrare brevemente la normativa che in Italia regola il riconoscimento dello status di rifugiato.
….Omissis…...
Ciò premesso, il presente ricorso va ora esaminato in dettaglio.
La motivazione del diniego si fonda su una circostanza, non smentita in ricorso, relativa all’intervenuto ritorno del ricorrente nel suo Paese
senza subire persecuzioni o restrizioni di sorta.
Il ricorso stesso appare poi fondato su elementi del tutto generici
che non riguardano direttamente l’interessato, oltre che sfornito della minima prova.
Per le suindicate ragioni il ricorso risulta privo di giuridico pregio
e va rigettato.
Sussistono tuttavia valide ragioni per compensare le spese di giudizio tra le parti.
P. Q. M.
il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, Sezione terza,
definitivamente pronunziando sul ricorso in premessa, respinta ogni
contraria istanza ed eccezione, lo rigetta.
◆
Tribunale di Genova - ordinanza 5 luglio 2001 - est. Maganza
Il g.i., sciogliendo la riserva che precede;
ritenuta anzitutto, la competenza dell’a.g.o. in ordine al ricorso ex
art. 700 c.p.c. proposto, giacché come più volte affermato dalla giuri84
sprudenza della Cassazione le controversie relative al riconoscimento
della qualifica di rifugiato politico, o di avente diritto all’asilo, sono riconducibili a status, ovvero a diritti soggettivi, direttamente ed immediatamente protetti dall’art. 10 Cost. e perciò i relativi provvedimenti
hanno natura dichiarativa, e non costitutiva;
ritenuto che va, in particolare, disattesa la eccezione della avvocatura dello Stato, secondo cui sussisterebbe comunque un difetto di giurisdizione in ordine alla istanza cautelare che “di fatto contesta il decreto
del questore di Genova 14.11.2000” (e cioè la intimazione al ricorrente di
lasciare il territorio nazionale);
che infatti, il [...], il quale si è rivolto al tribunale per far accertare
nel merito il suo diritto allo status di rifugiato politico, o almeno il suo
diritto di asilo, di tale diritto chiede al tribunale anche la tutela in via urgente, risultando la posizione soggettiva da lui fatta valere esposta a grave ed irreparabile pregiudizio – all’evidenza – anche dalla esecuzione del
citato decreto di espulsione;
ritenuto quanto al fumus boni iuris, che la necessità per il ricorrente di
un provvedimento che gli consenta, seppure in via provvisoria ed urgente,
di rimanere in Italia e di non fare rientro nel suo paese, dove egli sarebbe
esposto al rischio di subire altre violenze ed altri trattamenti, anche detentivi, arbitrari, trova riscontro nelle sue produzioni, nonostante la esiguità
degli elementi finora a disposizione, ma tenuto conto, d’altra parte, della
presumibile difficoltà, per lo stesso ricorrente, di procurarsi idonei mezzi
di prova, documentali o di altro tipo, a sostegno delle sue deduzioni;
considerato che la sopra descritta necessità va individuata, ad una
indagine seppur limitata e sommaria, nelle dichiarazioni rese dallo stesso cittadino camerunense, fin dal suo ingresso in Italia, nella sua militanza in una organizzazione politica (Social democratic front del Camerun S.D.F.) che continua a subire minacce e persecuzioni nello Stato camerunense, secondo quanto si evince dalle relazioni prodotte dal ricorrente, ed
altresì nelle personali vicissitudini del giovane, avendo egli subito dopo
il suo arresto, a Donala, un anno di detenzione, senza che sia stato svolto nessun processo, e senza aver potuto difendersi in alcun modo;
ritenuto, infine, che quanto fin qui esposto induce a ravvisare la
concreta sussistenza anche del cd. periculum in mora, giacché se [...] non
trovasse più ospitalità nel nostro paese, nelle more del giudizio da lui già
introdotto, la sua libertà e la sua stessa incolumità potrebbero trovarsi a
rischio di pregiudizio grave ed irreparabile.
P.Q.M.
visto l’art. 700 c.p.c. dichiara che il cittadino camerunese [...] nato a
Donala (Camerun) [...] , ha diritto di rimanere nel territorio dello Stato
italiano fino all’esito del giudizio da lui introdotto [...].
85
Tribunale di Torino sent. n. 8178 del 6 ottobre 2001 - est. Vitrò
Nella causa civile iscritta al n. R.G. 6944/2000 promossa da [...]
contro Presidenza del Consiglio dei ministri, [...], nonché amministrazione dell’interno.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato in data 23.6.2000 il sig. [...] cittadino camerunense, conveniva in giudizio la Presidenza del Consiglio dei
ministri e l’amministrazione dell’interno. L’attore riferiva:
– che nel mese di ottobre 1999 egli era stato costretto a fuggire dal
suo paese, dove gli era impedito di esercitare i suoi diritti a causa della
sua militanza in un partito di opposizione, il Social Democratic Front
(SDF);
– che le organizzazioni non governative come Amnesty International avevano spesso avuto motivo di censurare gravemente la situazione dei diritti umani nel Camerun, violati dalle autorità governative;
– che, in particolare, nel corso del 1997, dette autorità avevano attuato gravissime forme di repressione nei confronti degli oppositori politici, che molti oppositori erano stati arrestati e processati senza rispetto
dei diritti di difesa, che anche il sig. [...] era stato arrestato – solo per la
partecipazione ad un movimento studentesco per la rivendicazione dei
diritti degli studenti e della democrazia nel paese –, che il medesimo era
stato tenuto in carcere dall’aprile 1997 all’ottobre 1999, era stato sottoposto a torture fisiche e psichiche ed era stato privato delle possibilità di difesa, che nell’ottobre 1999, egli, tramite l’aiuto di un parente poliziotto,
era riuscito a fuggire dal carcere e ad imbarcarsi su di un volo diretto a
Parigi e che, poi, si era trasferito in Italia, temendo di poter essere estradato in Camerun dalla Francia, paese particolarmente legato Camerun. A
questo punto l’attore chiedeva:
– che fosse accertato il suo diritto all’asilo nel territorio della
Repubblica italiana, art. 10, co. 3, della Costituzione
– e che, inoltre, fosse conseguentemente dichiarato l’obbligo delle
amministrazioni convenute di concedergli un permesso di soggiorno in
Italia a tempo indeterminato.
E sosteneva:
– che l’art. 10, co. 3, della Costituzione era disposizione immediatamente precettiva, immediatamente applicabile dal giudice ordinario, e
che l’istituto dell’asilo costituzionale aveva natura di diritto soggettivo;
– che vi era diversità tra lo status di rifugiati, previsto dalla legge
n. 772 del 24.7.1954 (di ratifica della Convenzione di Ginevra del
28.7.1951) e dalla legge n. 39 del 28.2.1990, e del diritto di asilo ex art. 10
86
Cost., con esclusione, pertanto, della procedura amministrativa prevista
per lo status di rifugiati;
– che non vi era dubbio che al sig. [...] non fosse consentito, nel suo
paese d’origine, l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite
dalla Costituzione italiana.
Le convenute amministrazioni, costituitesi con comparsa del
13.11.2000, contestavano le domande attoree, eccependo:
– in via pregiudiziale l’inammissibilità delle domande per difetto
di interesse, in particolare per carenza di interesse ad agire (mancando
contestazione del diritto vantato per carenza di interesse ad un provvedimento sul merito, per carenza di interesse in relazione al contenuto
della domanda (non apparendo potervi essere un miglioramento della situazione del [...] attraverso la proposta azione giudiziale);
– in subordine, il difetto assoluto di giurisdizione del tribunale
adito (non potendo il giudice applicare direttamente il dettato costituzionale di cui all’art. 10, co. 3, Cost.) ed anche il difetto relativo di giurisdizione in relazione al petitum sostanziale di richiesta di permesso di
soggiorno a tempo indeterminato;
– in via preliminare, il difetto di legittimazione passiva della amministrazioni convenute;
– l’infondatezza, comunque, nel merito, delle domande attoree.
Nel corso del giudizio il G.I., con ordinanza del 4.5.2001, respingeva le istanze di prove orali e di c.t.u. avanzate dall’attore, non ritenendole rilevanti ai fini della decisione della causa e, comunque, osservando che le convenute avevano dichiarato di non contestare le circostanze
di fatto indicate dall’attore. All’udienza del 30.5.2001 le parti precisavano le conclusioni, richiamando quelle di cui all’atto di citazione e alla
comparsa di risposta. Il G.I. tratteneva la causa a decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L’attore, in primo luogo, chiede l’accertamento del diritto all’asilo
nel territorio della Repubblica italiana, ai sensi dell’art. 10, co. 3, Cost.;
1.1. Innanzitutto, va respinta l’eccezione, sollevata dalle parti convenute, di difetto assoluto di giurisdizione del giudice ordinario adito. In
particolare, si osserva che, dalla giurisprudenza e dalla dottrina, viene
ormai ritenuto che l’art. 10, co. 3, Cost. (lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese, l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite
dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della
Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”) abbia un contenuto immediatamente precettivo. In tal senso si veda, per es., la motivazione della sentenza Cass. civ., sez. un., 26.5.1997 n. 4674:
87
– “nonostante alcune ormai lontane pronunce di segno contrario
da parte della giurisprudenza amministrativa, secondo l’opinione attualmente pressoché pacifica l’art. 10, co. 3, Cost. attribuisce direttamente allo straniero, il quale si trovi nella situazione descritta da tale norma, un
vero e proprio diritto soggettivo all’ottenimento dell’asilo, anche in mancanza di una legge che, del diritto stesso, specifichi le condizioni di esercizio e le modalità di godimento.
Come è stato osservato in dottrina, il carattere precettivo e la conseguente immediata operatività della disposizione costituzionale sono
da ricondurre al fatto che essa, seppure in una parte necessita di disposizioni legislative di attuazione, delinea con sufficiente chiarezza e precisione, la fattispecie che fa sorgere in capo allo straniero il diritto di asilo,
individuando nell’impedimento all’esercizio delle libertà democratiche
la causa di giustificazione del diritto ed indicando l’effettività quale criterio di accertamento della situazione ipotizzata. Ciò posto, sorge il problema se, in mancanza di una specifica normativa di attuazione del precetto dell’art. 10, co. 3 Cost., la normativa che disciplina il riconoscimento dello status di rifugiato politico sia applicabile anche in tema di riconoscimento del diritto di asilo. Ad avviso del collegio la risposta deve essere negativa. In definitiva, le controversie che riguardano il diritto di
asilo, di cui all’art. 10, co. 3, Cost. rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di un diritto soggettivo al quale non è applicabile la disciplina dello status di rifugiato (decreto legge 30.12.1989 n.
416, conv. nella legge 29.2.190 n. 39), la quale invece espressamente prevede la giurisdizione del giudice amministrativo”. Circa il contenuto immediatamente precettivo del citato art. 10, co. 3, Cost. si veda anche:
– trib. Roma 1.10.1999 (caso Ocalan): “ai sensi dell’art. 10, co. 3,
Cost. il diritto di asilo si configura come un diritto soggettivo perfetto
che sorge in capo allo straniero allorché venga accertato l’impedimento
nel paese di origine all’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana. Tale situazione soggettiva è diversa,
per presupposti e per fonte giuridica, da quella del rifugiato”;
– trib. Roma 27.9.1999 (sempre caso Ocalan): “il disposto dell’art.
10, co. 3, Cost. ha carattere immediatamente precettivo e comporta un diritto soggettivo perfetto in capo a chi dimostri di trovarsi nelle condizioni previste, il quale può chiederne l’accertamento al giudice ordinario”.
Circa la differenza tra status di rifugiato e diritto di asilo ex art. 10 Cost.
si veda anche, per es.: T.A.R. Friuli Venezia Giulia 18.12.1991 n. 531;
T.A.R. Friuli Venezia Giulia 23.1.1992 n. 15.
Pertanto va sicuramente riconosciuta la sussistenza della giurisdizione dell’a.g.o. in ordine alla richiesta di riconoscimento del diritto di
asilo.
1.2. Va, poi, respinta l’eccezione delle convenute di carenza dell’interesse ad agire dell’attore.
88
1.2.1 In primo luogo si nota che l’interesse ad agire consiste in quella situazione giuridica subiettiva di vantaggio sostanziale, il cui riconoscimento viene posto ad oggetto della pretesa fatta valere in giudizio.
Esso si concreta nell’esigenza di colui che propone la domanda di conseguire un risultato di utile e giuridicamente apprezzabile e non altrimenti conseguibile che con l’intervento del giudice (v., per es.: Cass. civ.,
23.11.1990 n. 11319; Cass. civ., 20.1.1998 n. 486). L’interesse ad agire sussiste quando l’azione sia intesa ad evitare una lesione anche soltanto potenziale al diritto soggettivo (Cass. civ., 14.11.1975 n. 3850). Per la sussistenza dell’interesse ad agire, previste dall’art. 100 c.p.c. come presupposto della domanda giudiziale, è sufficiente uno stato di incertezza obiettiva circa l’esistenza della situazione giuridica della quale si chiede l’accertamento, positivo o negativo (Cass. civ., 4.5.1983 n. 2798; Cass. civ.,
19.5.1987 n. 4599).
1.2.2 Si rileva, poi, quale sia il contenuto del diritto di asilo di cui
all’art. 10, come accertato dalla giurisprudenza:
– Cass. n. 4674/97: “in mancanza di una legge di attuazione del
precetto di cui all’art. 10, co. 3, Cost., allo straniero il quale chiede il diritto di asilo null’altro viene garantito se non l’ingresso nello Stato”;
– T.A.R. Friuli Venezia Giulia 23.1.1992 n. 15: L’art. 10, co. 3, Cost.
comporta per l’interessato minori benefici (rispetto allo status di rifugiato), “potendo consistere al limite nel solo diritto a non essere espulso dal
paese”.
1.2.3 Si osserva, allora, che nel presente caso va senz’altro riconosciuto l’interesse dell’attore ad ottenere un riconoscimento giuridico del
suo diritto di asilo, cioè nel suo diritto di ingresso nel territorio italiano
e del suo diritto a non essere espulso dal medesimo. È vero che l’attore
risulta essere già entrato nel territorio della Repubblica italiana ed essere attualmente presente in Italia. Ma si tratta di una situazione di fatto,
senza che vi sia alcun accertamento e riconoscimento giuridico che stabilizzi giuridicamente tale situazione. Sussiste, pertanto, l’interesse del
sig. [...] al riconoscimento giuridico del diritto di asilo, allo scopo di evitare una potenziale lesione al suo diritto di ingresso in Italia e a non esserne espulso (lesione che potrebbe verificarsi nel caso in cui egli uscisse
dall’Italia e gli fosse poi impedito di rientrarvi o nel caso in cui fosse
emesso un provvedimento di espulsione – situazioni, queste, tutte possibili, mancando appunto, allo stato un riconoscimento del diritto di asilo
che impedisca di porre in essere divieti di ingresso o espulsioni). A tale
proposito si argomenti anche dalla motivazione della sentenza del trib.
Roma 27.9.1999 già citata:
– “deve ritenersi che la presenza del richiedente il diritto di asilo
nel territorio dello Stato non è condizione necessaria per il conseguimento del diritto stesso. La presenza non è, infatti, richiesta nella previsione costituzionale che prevede e regolamenta nei suoi aspetti essenzia89
li il diritto di asilo... Il volontario allontanamento dal territorio italiano
dello straniero, il quale, al tempo dell’istanza di asilo ex art. 10, co. 3,
Cost., si trovava in Italia, non comporta automaticamente il venir meno
delle condizioni per l’accoglimento dell’istanza; deve infatti distinguersi
l’interesse ad agire dall’utilità pratica della sentenza favorevole, e la permanenza dell’interesse inteso come condizione per l’accoglimento della
domanda di asilo deve escludersi soltanto quando l’interesse dell’attore
sia (divenuto) puramente teorico e accademico”.
Dunque, la sussistenza o meno dell’interesse ad agire non può essere ricollegata alla mera situazione di fatto consistente nella contingente presenza o meno dell’attore sul territorio dello Stato. Né è rilevante
l’assenza di provvedimenti amministrativi contenenti contestazione o
negazione del diritto di asilo dell’attore. Infatti, non sussiste, comunque,
alcun attuale riconoscimento giuridico di un diritto di ingresso e non
espulsione dell’attore dall’Italia, il che già di per sé crea una situazione
di incertezza riguardo a tale diritto, trattandosi di soggetto straniero,
presente sul territorio italiano senza essere in possesso di alcun permesso di soggiorno.
Né è rilevante il fatto che le convenute non abbiano contestato le
circostanze di fatto dedotte dall’attore. Infatti, “un comportamento del
convenuto che evidenzi una disponibilità a concedere all’attore quanto
richiesto con la domanda, può spiegare rilievo quale riconoscimento della fondatezza della pretesa fatta valere giudizialmente, ma non implica il
venir meno dell’interesse ad agire, persistendo per l’attore stesso l’utilità
di conseguire una pronuncia di accoglimento della domanda” (Cass. civ.,
7.1.1984 n. 97).
1.3. Va anche respinta, in ordine alla domanda di riconoscimento
del diritto di asilo, l’eccezione delle convenute di difetto di legittimazione passiva. È evidente, infatti, che l’accertamento del suddetto diritto
debba essere compiuto nei confronti delle amministrazioni deputate al
controllo degli stranieri in Italia. Il che trova conferma nelle sentenze della Cassazione e del tribunale di Roma, sopra citate, nelle quali non viene
mai in alcun modo messa in discussione la legittimazione passiva della
Presidenza del Consiglio dei ministri e del Ministro degli interni, ivi
sempre convenute.
1.4. Ed allora, nel merito, va ritenuta fondata la domanda attorea di
richiesta di accertamento del suo diritto di asilo nel territorio della
Repubblica italiana.
Infatti, dai rapporti di Amnesty International del 1999 e dai fatti
narrati dall’attore (che le convenute hanno dichiarato, più volte, espressamente, nei loro atti, di non contestare) risulta chiaramente la sussistenza dei presupposti per l’applicabilità dell’art. 10, co. 3, Cost. In particolare, gli arresti, da parte del governo camerunense, di centinaia di oppositori e persone che avevano criticato il governo, molti dei quali erano pri90
gionieri di coscienza, il mantenimento in detenzione di molti di tali arrestati, la diffusione di torture e maltrattamenti nelle carceri camerunesi
(che hanno in più occasioni provocato la morte dei prigionieri), il trattenimento in carcere degli arrestati senza la proposizione di formali accuse e la celebrazione di regolari processi, l’attuazione di esecuzioni extragiudiziali da parte delle forze dell’ordine (tutte situazioni emergenti dai
citati rapporti di Amnesty international) e (relativamente alla posizione
particolare dell’attore) l’arresto del medesimo per mera partecipazione
ad un movimento studentesco rivendicante i diritti degli studenti e la democrazia nel paese, le torture fisiche e psichiche alle quali il [...] è stato
sottoposto in carcere e la mancata concessione al medesimo di esercitare
il proprio diritto di difesa (così come descritto dall’attore nell’atto di citazione ed espressamente non contestato dalle convenute nei loro atti),
dimostrano inequivocabilmente la sussistenza, in Camerun, di una diffusa compressione delle libertà fondamentali dell’individuo. Ne deriva
sicuramente l’esistenza della condizione fondamentale alla quale la
Costituzione subordina il riconoscimento del diritto di asilo: l’impedimento nel paese di origine dell’attore all’effettivo svolgimento delle libertà democratiche, garantite ed assicurate, invece, dalla nostra
Costituzione.
Va, pertanto, dichiarato il diritto di asilo dell’attore nel territorio
della Repubblica italiana, ai sensi dell’art. 10, co 3, Cost.
2. Va, invece, respinta la domanda attorea di dichiarazione, in conseguenza del suddetto accertamento del diritto di asilo, dell’obbligo delle amministrazioni convenute di concedere all’attore un permesso di soggiorno in Italia a tempo indeterminato. Si osserva, infatti, che manca una
legge di attuazione dell’art. 10, co. 3, Cost., che specificamente descriva
il contenuto del diritto di asilo (individuando modalità di godimento del
medesimo più specifiche rispetto alla facoltà, ovvia, di fare ingresso nel
territorio italiano) e delinei il medesimo quale diretto presupposto giuridico per la concessione di un formale atto di permesso di soggiorno o
per il godimento di altri benefici.
Per tale motivo il giudice ordinario non può dichiarare la P.A. tenuta a rilasciare un formale atto di permesso di soggiorno (oltretutto le
leggi attuali prevedono solo permessi di soggiorno a tempo determinato). Impossibilità che deriva, appunto, dal fatto che nessuna legge prevede che il giudice ordinario abbia il potere di effettuare un tale ordine, a
seguito dell’accertamento del diritto di asilo ex art. 10 Cost. E che deriva, dunque, dal fatto che, in assenza di leggi specifiche, il giudice ordinario non può ordinare alla P.A. alcuno specifico facere.
Né una tale legge di attuazione della disposizione costituzionale di
cui all’art. 10 può essere individuata nel d.p.r. n. 394/99. Infatti, il permesso di soggiorno per asilo previsto dall’art. 11 di tale d.p.r. risulta collegato ai presupposti previsti da tale legge e non è direttamente ricolle91
gabile all’accertamento del diritto di asilo di cui all’art. 10 Cost. Ed allora, va dichiarata la carenza di giurisdizione del giudice ordinario riguardo al richiesto ordine diretto alle amministrazioni convenute.
3. Per quanto riguarda le spese processuali, le difficoltà giuridiche
inerenti alla presente causa e la parziale soccombenza reciproca delle
parti inducono a ritenere sussistenti giusti motivi per addivenire alla
compensazione delle spese processuali fra le parti nella misura della
metà.
P.Q.M.
definitivamente pronunciando nel contraddittorio delle parti, ogni
diversa istanza, eccezione e deduzione disattesa o respinta, in accoglimento della domanda attorea, dichiara il diritto dell’attore sig. [...] all’asilo nel territorio della Repubblica italiana, ai sensi di cui all’art. 10, co.
3, Cost.;
dichiara la carenza di giurisdizione del giudice ordinario in ordine
alla domanda attorea di dichiarazione dell’obbligo della P.A. di concessione di un permesso di soggiorno a tempo determinato.
◆
Corte di appello di Catania, Decreto 1/22.3.2002 - est. Morgia
Letti gli atti relativi all’affare civile n. 8/2002 R.g. avente per oggetto il reclamo proposto da [...] nato in [...] Sri-Lanka il [...] avverso il decreto del tribunale di Catania in data 7.1.2002 che ha dichiarato inammissibile il ricorso con il quale il predetto aveva impugnato, ex art. 1 del
d.l. 30. 12. 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, nella legge
28.2.1990, n. 39, il provvedimento della Commissione centrale per il riconoscimento dello stato di rifugiato emesso in data 14.3.2001 con il quale
la suddetta Commissione aveva deciso di non riconoscere lo stato di rifugiato all’odierno reclamante;
letta la memoria difensiva depositata dalla Presidenza del consiglio
dei ministri, in persona del Presidente del consiglio pro-tempore, organicamente rappresentata dall’avvocatura distrettuale dello Stato di
Catania;
sentite le parti all’udienza camerale del 22.2.2002 (alla quale è comparso solo il difensore del reclamante) e sciogliendo la riserva in quella
sede formulata, osserva quanto segue.
1. Per motivi di ordine logico-processuale occorre, in primo luogo,
esaminare la doglianza relativa alla declaratoria di inammissibilità pro92
nunciata dal primo giudice sulla scorta della considerazione che “nessuna norma consente di proporre la domanda di cui sopra con ricorso di
volontaria giurisdizione, dovendo, invece, essa essere proposta con atto
introduttivo di un giudizio contenzioso ordinario”.
La doglianza è fondata. Invero, l’art. 1.6 del d.l. 30.12.1989, n. 416,
convertito, con modificazioni, nella legge 28.2.1990, n. 39, testualmente
prevede che “attraverso la decisione di respingimento (dell’istanza volta ad ottenere lo status di rifugiato) presa in base ai commi 4 e 5 è ammesso ricorso giurisdizionale”. Al riguardo la Suprema corte ha avuto,
di recente, modo di statuire che “la qualifica di rifugiato politico ai sensi della Convenzione di Ginevra del 29.7.1951 costituisce, come quella
di avente diritto all’asilo (dalla quale si distingue perché richiede quale fattore determinante un fondato timore di essere perseguitato, cioè
un requisito non richiesto dall’art. 10, co. 3, Cost.), una figura giuridica
riconducibile alla categoria degli “status” e dei diritti soggettivi, con la
conseguenza che tutti i provvedimenti assunti dai competenti organi in
materia hanno natura meramente dichiarativa e non costitutiva, e le
controversie riguardanti il riconoscimento della posizione di rifugiato
(così come quelle sul riconoscimento dei diritto d’asilo) rientrano nella
giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, una volta espressamente abrogato dall’art. 46 legge n. 40 del 1998, art. 5, d.l. n. 416 del 1989,
convertito con modificazioni della legge n. 39 del 1990 (abrogazione
confermata dall’art. 47 dei testo unico d.lgs. n. 286 del 1998), che attribuiva al giudice amministrativo la competenza per l’impugnazione del
provvedimento di diniego dello status di rifugiato” (Cass. S.U.
17.12.1999, n. 907).
Ora, poiché proprio con, riferimento ai procedimenti in materia di
famiglia e di stato delle persone (titolo Il del libro IV del c.p.c.) – ma non
soltanto in relazione ad essi – il capo VI del medesimo libro detta la disciplina generale dei procedimenti di camera di consiglio (artt. 737-742
bis), e poiché proprio l’art. 737 pone la regola che tali procedimenti – come molti altri previsti da leggi speciali – vadano proposti con ricorso (diversamente dai giudizi contenziosi ordinari che vanno, di regola, proposti con citazione), non par dubbio che il ricorso avanzato al tribunale civile di Catania da [...] avverso il provvedimento negativo della
Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato sia
stato correttamente proposto, in rito, anche perché i predetti articoli (737
e segg. c.p.c.) sono, comunque, definiti come disposizioni comuni di procedimenti in camera di consiglio, senza distinzione tra procedimenti volontari o contenziosi, ed anzi il legislatore ha soppresso ogni riferimento
alla volontaria giurisdizione, di cui faceva, invece, parola l’art. 778 del
codice di rito del 1865. A conferma di ciò basti considerare che, concordemente, dottrina e giurisprudenza prevalenti attribuiscono natura di
volontaria giurisdizione ai procedimenti di separazione consensuale tra
93
coniugi e divorzio su ricorso congiunto nonché, almeno in parte, ai procedimenti di interdizione e inabilitazione.
Non è, pertanto, vietato al legislatore ordinario di disporre, in base
ad una valutazione anche politica della vicenda, l’applicazione del procedimento camerale che si concluda con l’emanazione di un provvedimento avente contenuto decisorio, quando ritenga che l’impiego di tali
forme sia più rispondente all’esigenza di una sollecita ed equa applicazione delle norme di diritto sostanziale nel caso concreto. Ciò che il legislatore ordinario non può, invece, fare è di precludere, con tale mezzo, il
ricorso per cassazione, che realizza la più completa tutela del diritto, ed
a ciò provvede il precetto dell’art. 111, comma secondo, della
Costituzione, che si sostituisce anche ad una (eventuale) espressa disposizione contraria del legislatore comune.
Peraltro, proprio i provvedimenti riguardanti lo status della persona sono normalmente emessi, anche in considerazione dell’evidente interesse pubblico ad essi connesso, in esito ai procedimenti aventi la natura di volontaria giurisdizione i quali, tra le altre caratteristiche, presentano quella dell’impulso sostanzialmente ufficioso, con una prevalenza dei poteri del giudice che accentua il carattere inquisitorio del procedimento di camera di consiglio e la parziale inapplicabilità del principio
iuxta alligata et probata, risultando così non certo esclusa ma almeno attenuata la sfera di applicabilità delle regole generali concernenti l’onere
della prova.
Se ancora ve ne fosse bisogno, a conferma della natura di volontaria giurisdizione del presente procedimento, sia la pregnante considerazione – ritenuta uno dei principali discrimini tra procedimento contenzioso e procedimento di volontaria giurisdizione – che l’interesse fatto
valere dall’odierno reclamante volto ad ottenere il riconoscimento dello
status di rifugiato non assurge al grado di diritto soggettivo e, comunque
non da luogo a posizioni subiettive contrapposte in relazione all’emanazione del provvedimento richiesto, in quanto manca il conflitto di diversi e contrapposti interessi correlativi ad una pretesa e ad una soggezione
scaturenti da un diritto e da un obbligo che, com’è noto, caratterizza ogni
procedimento contenzioso.
A ben vedere, anzi, la richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato (che ha, peraltro, natura dichiarativa e non costitutiva) non consente neppure di individuare un qualsiasi vero contro-interessato in
quanto non configura neppure un interesse autonomo e tutelato in modo diretto dalla legge ma, in qualche modo, pur sempre (anche indirettamente) collegato alla posizione giuridica di un altro soggetto (il c.d.
controinteressato, appunto) che potrebbe risentire, direttamente o indirettamente, degli effetti del provvedimento chiesto da altri e che, perciò,
potrebbe avere valide ragioni contrarie alla sua emanazione anche se il
provvedimento stesso è, per sua natura, diretto a regolare un unico inte94
resse. E, ad esempio, sono, in tal senso, controinteressati (in vario grado
e sotto vari profili) l’interdicendo e l’inabilitando, l’amministratore condominiale di cui si chiede la revoca, il conservatore dei registri immobiliari che si è rifiutato di eseguire la cancellazione di un’iscrizione ovvero
gli amministratori ed i sindaci di una società quando siano denunciate
gravi irregolarità ai sensi dell’articolo 2409 c.c. in quanto ciascuno di tali soggetti ha comunque da temere, nei sui confronti, ripercussioni di vario genere da provvedimenti che pure sono in linea di principio, volti a
soddisfare altri interessi: dei condomini, della società e dei soci o l’interesse generale.
2. Così affermata l’ammissibilità del ricorso presentato dallo […] e
venendo all’esame del merito, rileva la Corte che la normativa nella specie applicabile è quella, sopra richiamata, di cui all’art. 1 del d.l.
30.12.1989, n. 416, convertito, con modificazioni, nella legge 28.2.1990, n.
39 il quale, al fine del riconoscimento dello status di rifugiato fa espresso
riferimento alla Convenzione di Ginevra del 28.7.1951, ratificata
dall’Italia con la legge 24.7.1954, n. 722 il cui art. 1.2 definisce “rifugiato”:
“colui che, a seguito di avvenimenti verificatisi anteriormente al primo
gennaio 1951, temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di
razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dal paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della
protezione di questo paese...”.
La procedura per ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato è, poi, enunciata nel regolamento di cui al d.p.r. 15.5.1990, n. 136.
Deve, infine, rammentarsi che la definizione di “rifugiato”, originariamente soggetta alla duplice limitazione di ordine temporale (sopra menzionata) e di ordine spaziale di cui al co. 1 della Convenzione (rifugiati
di provenienza europea), ha oramai carattere generale essendo stata la
prima limitazione rimossa dal Protocollo di New York del 31.1.1967, reso esecutivo in Italia con la legge 14.2.1970, n. 95, e la seconda dal citato
art. 1, primo comma del d.l. 30.12.1989, n. 416, convertito, con modificazioni, nella legge 28.2.1990, n. 39, il quale ha sancito che “dalla data di
entrata in vigore del presente decreto cessano nell’ordinamento interno
gli effetti della dichiarazione di limitazione geografica e delle riserve di
cui agli articoli 17 e 18 della Convenzione di Ginevra dei 28.7.1951, ratificata con legge 24.7.1954, n. 722, poste dall’Italia all’atto della sottoscrizione della convenzione stessa”. Il quarto comma del medesimo art. 1
stabilisce, inoltre, che “non è consentito l’ingresso nel territorio dello
Stato dello straniero che intende chiedere il riconoscimento dello status
di rifugiato quando, da riscontri obiettivi da parte della polizia di frontiera, risulti che il richiedente: a) sia stato già riconosciuto rifugiato in altro Stato. In ogni caso non è consentito il respingimento verso uno degli
Stati di cui all’art. 7, co. 10; b) provenga da uno Stato, diverso da quello
95
di appartenenza, che non abbia aderito alla Convenzione di Ginevra, nel
quale abbia trascorso un periodo di soggiorno, non considerandosi tale il
tempo necessario per il transito sul relativo territorio sino alla frontiera
italiana. In ogni caso non è consentito il respingimento verso uno degli
Stati di cui all’art. 7, co. 10; c) si trovi nelle condizioni previste dall’art. 1,
par. F, della Convenzione di Ginevra; d) sia stato condannato in Italia per
uno dei delitti previsti dall’art. 380, co. 1 e 2, del c.p.p. o risulti pericoloso per la sicurezza dello Stato, ovvero risulti appartenere ad associazioni di tipo mafioso o dedite al traffico degli stupefacenti o ad organizzazioni terroristiche.”
3. Esaurita, così, una brevissima sintesi dei dati normativi, occorre
adesso delineare, se pure ai limitati fini che qui giovano, almeno le essenziali linee guida in tema di individuazione del concetto di rifugiato
delineato dalla norma sopra riferita (di cui meglio si dirà nell’esaminare
il caso di specie) e, soprattutto, in tema di onere probatorio.
3.1. A questo ultimo riguardo non è, forse, superfluo rammentare,
in primo luogo, che il riconoscimento dello status di “rifugiato” ha natura meramente dichiarativa e non certo costitutiva (cfr. anche la sentenza
della Suprema corte sopra citata). Infatti, una persona è “rifugiato” ai
sensi della Convenzione di Ginevra suddetta quando soddisfa i criteri
enunciati nella definizione sopra riportata. Questa condizione si realizza
necessariamente prima che lo status di rifugiato sia formalmente riconosciuto. Di conseguenza, la determinazione dello status di rifugiato noti
ha l’effetto di conferire la qualità di rifugiato ma constata solamente l’esistenza di detta qualità. Una persona non diventa, pertanto, un rifugiato perché è stata riconosciuta tale, ma è riconosciuta come tale proprio
perché è un rifugiato.
L’affermazione, oltre che rilevante in sé, non sembra priva di significato anche sotto il profilo dell’individuazione dell’onere probatorio che
caratterizza questa peculiare materia. A tale riguardo né la Convenzione,
né la legge n. 39 del 1990, né il relativo regolamento (d.p.r. n. 136 del
1990) stabiliscono regole precise. Soccorrono, in parte, per un verso la
stessa definizione del termine “rifugiato” data dal citato art. 1 della
Convenzione (“colui che teme a ragione di essere perseguitato per motivi di razza... etc.”), nonché il citato comma 5 dell’art. 1 dei d.l. 30.12.1989,
n. 416, convertito, con modificazioni, nella legge 28.2.1990, n. 39 che, testualmente, recita: “salvo quanto previsto dal comma 3, lo straniero che
intende entrare nel territorio dello Stato per essere riconosciuto rifugiato
deve rivolgere istanza motivata e, in quanto possibile, documentata dell’ufficio di polizia di frontiera.”
La prima considerazione desumibile da tali norme è che il criterio
basilare sancito dall’art. 1 della Convenzione (il timore, a ragione, di essere perseguitato) ha, per un verso, una dubbia connotazione soggettiva (il timore di essere perseguitato) ma richiede, per altro verso, una
96
imprescindibile, seppure non stringente, almeno sotto il profilo probatorio, connotazione oggettiva (costituita dall’inciso, a ragione). In favore della non assoluta categoricità di tale connotazione oggettiva (e,
quindi, del conseguente “alleggerimento” dell’onere probatorio gravante sull’istante) milita anche il disposto dell’ora ricordato comma 5 dell’art 1 della legge n. 39/1990 il quale, mentre pone l’accento sulla necessità di un’adeguata allegazione (istanza motivata), stempera, invece,
l’onere strettamente probatorio posto a carico del richiedente affermando che se la suddetta istanza deve essere motivata, essa deve, però, essere solo “in quanto possibile documentata”, ciò che, oltretutto, sembra
lasciare aperta, come in tutti i procedimenti officiosi, quanto meno la
possibilità di accertamenti disposti dalla competente Commissione e,
per gli stessi motivi, anche da parte della autorità giudiziaria in sede di
ricorso.
Può dirsi, in conclusione, che se, secondo un principio generale di
diritto, l’onere della prova spetta al richiedente, tuttavia, in subiecta materia, accade spesso che il richiedente non sia in grado si sostenere le
proprie dichiarazioni con prove documentali o di altro genere: anzi i casi in cui il richiedente può fornire delle prove a sostegno di tutte le sue
dichiarazioni costituiscono l’eccezione e non la regola. Nella maggioranza dei casi, infatti, una persona che fugge da persecuzioni arriva sprovvista di tutto e spesso anche senza documenti personali.
Pertanto, quantunque l’onere della prova spetti in linea di principio al richiedente, l’accertamento della valutazione di tutti i fatti rilevanti fanno carico congiuntamente al richiedente e all’esaminatore. In alcuni casi, invero, sarà compito dell’esaminatore utilizzare tutti i mezzi a
sua disposizione per raccogliere le prove necessarie a sostegno della domanda.
Tuttavia, anche questa ricerca indipendente e officiosa potrebbe
non essere coronata da successo, come pure talune dichiarazioni potrebbero essere non suscettibili di prova. In tali casi, se il racconto del richiedente appare credibile, anche in base alla notorietà di fatti ed avvenimenti non strettamente personali, a questi bisognerà concedere il beneficio del dubbio a meno di valide ragioni in contrario.
Giova, infine, notare, che i principi ora esposti hanno non soltanto
il conforto di autorevole dottrina ma hanno trovato, in buona sostanza,
conferma nelle, sia pure poco numerose, pronunce rese, in materia, da
parte dei giudici amministrativi prima che l’art. 46, legge n. 40 del 1998
abrogasse l’art. 5, d.l. n. 416 del 1989, convertito con modificazioni dalla
legge n. 39 del 1990, abrogazione poi confermata dell’art. 47 del testo
unico d.lgs. n. 286 del 1998, così attribuendo al giudice ordinario la giurisdizione in materia. Invero, quanto all’onere della prova facente carico
al richiedente, alcuni tribunali amministrativi regionali hanno avuto modo di precisare che è necessario che il richiedente fornisca elementi tali
97
da giustificare la presenza di un ragionevole fondato timore di subire
persecuzioni dirette e personali per motivi di cui all’art. 1 della
Convenzione in caso di rientro in patria (T.A.R. Lazio, 1 sez., 20.6.1994,
n. 990, T.A.R., 1994, 1 p. 2364). È stato anche precisato che l’onere probatorio dovrà essere assolto compatibilmente con la pochezza di documentazione che un espatrio affrettato e magari clandestino può giustificare”,
precisandosi, altresì, che la prova, anche indiziaria, potrà essere data “a
mezzo di elementi seri, precisi e concordanti, desumibili da documenti
testimonianze, dichiarazioni anche dello stesso interessato che consentono di ritenere, in base al comune buon senso e alle circostanze di tempo
e di luogo addotte, l’effettiva sussistenza delle suddette persecuzioni politiche” (T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 19.5.1993, n. 244, in T.A.R. 1993, 1,
p. 2538; T.A.R. Veneto, 6.3.1995, n. 417, in T.A.R., 1995, 1, p. 2307). In altra pronuncia ancora si è riconosciuto come il giudizio sull’esistenza dei
requisiti per il riconoscimento dello status “possa raramente basarsi accurate indagini in ordine di affermazioni fatte dallo straniero richiedente, essendo per lo più forzatamente basato su presunzioni logiche ovvero giudizi di verosimiglianza, fondati sulle stesse dichiarazioni dell’interessato” (T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 22.12.1993, n. 633, T.A.R., 1994, 1,
p. 669).
4. Ciò posto in linea di principio, rileva, in concreto, il collegio che
il provvedimento della Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato avverso il quale l’odierno reclamante ha proposto il
ricorso e che tale riconoscimento gli ha negato si fonda su due considerazioni: 1) che lo [...] ha, comunque, affermato che “dopo l’ingresso del
suo partito in Parlamento la sua posizione personale è più sicura”; 2) che
“il (suo) desiderio di ottenere un permesso di soggiorno per motivi di lavoro è assorbente”. Entrambi gli argomenti motivazionali sono, invero,
contraddittori, illogici e, comunque, infondati.
4.1. Il secondo per l’evidente motivo che il “desiderio di ottenere
un permesso di soggiorno “per motivi di lavoro”, non esprime altro
che il legittimo ed anzi doveroso intento dell’odierno reclamante di
procurarsi un lavoro che gli consenta di mantenere se medesimo qui in
Italia e, ove possibile, di contribuire al mantenimento della sua famiglia
(una moglie ed un figlio) nel suo paese d’origine. Tale legittimo desiderio non costituisce, infatti, il motivo della stia richiesta di avere riconosciuto lo status di rifugiato ma solo una necessaria conseguenza, quale mezzo – una volta ottenuto il riconoscimento – per la sua sopravvivenza in Italia anche a prescindere da ogni assistenza che fosse prevista
per i rifugiati e di cui si fa cenno nel comma 7 del citato art. 1 del d.l.
30.12.1989, n. 416, convertito, con modificazioni, nella legge 28.2.1990,
n. 39. È, comunque, superfluo ricordare che il diritto al lavoro è uno dei
diritti fondamentali dell’individuo e non può certo essere motivo di
esclusione dello status di rifugiato ed, anzi, vi confluisce non potendo
98
dubitarsi che al rifugiato debba riconoscersi il diritto al lavoro nel paese che lo ospita.
4.2. Ma anche il primo degli argomenti adottati dalla Commissione
ministeriale di cui sopra è meritevole di censura in quanto illogico ed
infondato. Infatti, la Commissione, pur senza contestare la gravità e la
veridicità dei fatti addotti dal richiedente, ha tuttavia negato allo [...] il
riconoscimento dello status di rifugiato sulla base della semplice (e semplicistica) considerazione che il predetto ha – da ultimo – affermato che,
“dopo l’ingresso del suo partito in Parlamento, la sua posizione personale è più sicura, considerazione questa che non appare condivisibile per
almeno tre ordini di motivi.
4.2.1. Il primo discende dal fatto che il concetto di “persecuzione”
di una persona a motivo della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza ad un certo gruppo sociale o delle sue
opinioni politiche delineato dall’art. 1, secondo comma, della Convenzione di Ginevra non può, ovviamente, essere limitato alla sola minaccia
alla vita ovvero nello stretto ambito dell’incolumità personale del perseguitato e/o dei propri familiari ma si estende ad ogni forma di lotta radicale e spietata che, per i suddetti motivi, incida in maniera penetrante
sui diritti fondamentali dell’individuo. Pertanto il riconoscimento dello
stesso [...] in ordine ad un diminuito pericolo circa la sua incolumità personale, oltre che esprimere un concetto relativo che non fa cessare, di per
sé, lo stato di persecuzione, non significa, comunque, il venir meno di altre forme di violazione dei diritti fondamentali che – esemplificativamente – vanno dalla interdizione a manifestare e praticare il proprio credo religioso, a gravi atti discriminatori derivanti dall’appartenenza ad
una razza o gruppo etnico (nella specie il gruppo etnico tamil), a tutte le
forme di limitazione delle libertà individuali e collettive da parte del
gruppo di potere dominante verso coloro che appartengono, appunto, a
gruppi etnici o linguistici diversi e non necessariamente illimitati, a tutte le discriminazioni poste in essere verso gli appartenenti ad un determinato gruppo sociale, a tutte le forme di repressione nei confronti di coloro che hanno opinioni politiche contrarie o di critica alla politica dell’autorità al potere (nella specie lo [...] ha asserito di far parte del partito
di opposizione dello J.V.P. – partito liberazione del popolo –), alle restrizioni del diritto di guadagnarsi la vita.
4.2.2. Il secondo motivo discende dalla pregnante considerazione
che, per un verso, lo [...], adempiendo al suo onere di allegazione, ha sicuramente fornito ampia ed adeguata motivazione in ordine di fatti e
dettagliate circostanze che hanno indotto in lui non soltanto il fondato timore ma la certezza di essere perseguitato (la sua militanza come attivista nel partito di opposizione dello J.V.P. – partito di liberazione del popolo –, le minacce e le violenze a lui ed alla sua famiglia, l’incendio della sua casa, l’uccisione di uno stretto parente militante nel suo stesso par99
tito, la impossibilità di procurare a sé ed alla sua famiglia adeguato sostentamento e, per suo figlio, adeguata istruzione etc.). Per contro, la
Commissione ha rigettato la richiesta pur senza nulla eccepire in ordine
alla completezza ed adeguatezza della, invero, esauriente allegazione dei
fatti posti dallo [...] a sostegno della propria istanza e pur senza mettere
in dubbio la veridicità di tali sue affermazioni, tanto da non aver ritenuto necessario o utile esperire alcun accertamento d’ufficio (tramite gli organi istituzionali tra cui, ad esempio, l’Ambasciata italiana a Colombo)
in ordine alla veridicità di quanto dedotto dall’odierno reclamante. Se a
ciò si aggiunge la considerazione che i fatti attendibilmente rappresentati dallo [...] trovano indiretto ed esterno riscontro nella obbiettiva e ben
nota situazione politica e sociale dei paese di origine di costui (Sri
Lanka), è evidente che, in base ai principi sopra esposti e specie in mancanza di ogni contestazione da parte della Commissione, il limitato onere probatorio posto a carico del richiedente deve ritenersi, anche presuntivamente, assolto. Invero, è noto dalla recente storia e dalle cronache
che, oramai da molti anni lo Sri Lanka è in preda a spietate e sanguinose lotte e dissidi interni il più grave dei quali (ma non l’unico) è quello
che oppone alla maggioranza singalese (74%) la minoranza indù dei tamil (18%), antichi immigrati dall’India che vivono prevalentemente nel
nord del paese e che reclamano l’indipendenza con atti di terrorismo e
con un esercito irregolare annidato nella penisola di Jaffna. In ogni caso,
apparendo il racconto del richiedente credibile anche in base alla notorietà dei fatti ed avvenimenti non strettamente personali ora succintamente esposti, a questi bisognerà concedere il beneficio del dubbio, a
meno di valide ragioni in contrario.
4.2.3. Il terzo motivo che induce a ritenere illogico ed infondato il
diniego dello status di rifugiato da parte della Commissione consiste nel
fatto di avere recepito acriticamente e senza effettuare alcuna verifica il
fatto oggettivo costituito dall’ingresso nel Parlamento dello Sri Lanka anche del partito di cui fa parte lo [...]. Invero, recentissime notizie desunte dal sito web ufficiale dell’Ambasciata d’Italia a Colombo (www.italianembassy.lk), scheda informativa per visitatori temporanei, voce: sicurezza) consentono di affermare che la situazione politica e di sicurezza
(anche per turisti ed operatori commerciali stranieri) in quel paese non è
affatto normalizzata, né sono prevedibili i tempi di un ritorno ad accettabili condizioni di legalità e sicurezza. Si legge, infatti, in tale sito dell’autorità italiana che “le recenti elezioni, tenutesi (in quel paese) il 5 dicembre ultimo scorso hanno visto l’affermazione dell’opposizione. La
formazione di un nuovo Governo e l’avvio di un processo di pacificazione con la guerriglia tamil hanno portato un clima di moderato ottimismo nel paese. Dal periodo natalizio è in vigore un “cessate il fuoco”
proclamato prima unilateralmente e dal 23 febbraio concordato in un apposito memorandum d’intesa dalle due parti in causa. Sono quindi di100
minuiti i posti di blocco sia nella capitale che nel resto del paese e sono
state riaperte varie strade di collegamento con le zone del nord-est”. Ma
si aggiunge, però: “è da verificare se e quando le trattative dirette, che
inizieranno entro due-tre mesi con l’ausilio della intermediazione del
Governo norvegese, porteranno ad una effettiva pacificazione, anche
perché iniziative del genere in passato sono fallite dopo qualche tempo”.
Precedono e seguono pressanti inviti a non entrare nel Paese salvo che
per motivi di lavoro o altra necessità e, comunque, inviti alla massima
prudenza, evitando, in ogni caso, alcune zone del paese, ed “evitando di
fare uso di autobus locali, di guidare fuori Colombo non accompagnati,
di viaggiare nelle ore notturne. A coloro che per motivi di lavoro o per
necessità devono recarsi nel paese, si consiglia di contattare anticipatamente e comunque all’arrivo a Colombo l’Ambasciata d’Italia, segnalando la propria presenza ed attenendosi ai suggerimenti indicati o a quelli
che di volta in volta potranno essere aggiornati”. Viene, infine, elencata
una lunga serie di sanguinosi attentati, anche recenti, che hanno fatto, solo negli ultimi due anni, centinaia di morti e feriti anche tra stranieri.
Come si vede, dunque, l’oggettiva situazione di instabilità politica di cui
il reclamante si dice vittima non è stata ancora affatto superata.
5. In base a tutte le superiori considerazioni ritiene, pertanto, questa Corte di dovere censurare la impugnata decisione della Commissione
centrale per il riconoscimento dello stato di rifugiato in capo a [...] e, conseguentemente, riconoscere a quest’ultimo il suddetto stato di rifugiato.
6. Trattandosi di procedimento di volontaria giurisdizione non
avente, dunque, natura contenziosa in quanto non postula la composizione di contrapposte posizioni di diritto soggettivo, non può legittimamente configurarsi per posizione di “parte soccombente tenuta al rimborso delle spese a favore di “altra parte” (vittoriosa) a norma dell’art. 91
c.p.c. (cfr., tra le tante, Cass. 8.5.2001; Cass. 30.3.2001, n. 4706; Cass.
2.10.1997, n. 9636).
P.Q.M.
In accoglimento del reclamo proposto da [...] avverso il decreto del
tribunale di Catania in data 7.1.2002 che ha dichiarato inammissibile il ricorso con il quale il predetto aveva impugnato il provvedimento della
Commissione centrale per il riconoscimento dello stato di rifugiato emesso in data 14.3.2001 con il quale la suddetta Commissione aveva deciso
di non riconoscere all’odierno reclamante tale stato, la Corte riconosce a
[...] lo stato di rifugiato. Nulla sulle spese.
101
MOTIVI DELLA DECISIONE
Trib. Civ. di Roma sent. n. 31411 del 5 luglio 2002
(omissis)
SENTENZA
nella causa civile di primo grado iscritta al n. 78496 del R.G. per gli affari contenziosi dell’ anno 2001 e vertente
TRA
(omissis) nato in Etiopia (omissis)
ATTORE
E
MINISTERO DEGLI INTERNI, (omissis) CONTUMACE.
CONVENUTO
Con l’intervento del Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale di Roma
OGGETTO: Dichiarazione stato di rifugiato politico e/o asilo politico.
CONCLUSIONI
All’udienza di precisazione delle conclusioni del 30 aprile 2002 il
procuratore dell’attore concludeva come in atti
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione ritualmente notificato (omissis), premesso che
era cittadino etiope di etnia Oromo; che, essendo tale etnia affine a quella eritrea ed essendo gli Oromo solidali con gli Eritrei nella loro lotta per
l’indipendenza, del proprio Stato da quello etiope, come ben noto anche
a causa della lunga guerra di aggressione da parte dell’Etiopia nei confronti dell’Eritrea,la propria etnia era soggetta a dure persecuzioni da
parte dell’autorità etiope, con diniego di esercizio di ogni diritto democratico; che,a causa di tale situazione uno zio era stato ucciso dai militari etiopi, mentre due suoi fratelli erano stati incarcerati; che, nel 1999 era
riuscito a giungere quindi in Italia; ciò premesso chiedeva che il
Tribunale di Roma dichiarasse il proprio stato di rifugiato politico o gli
concedesse asilo politico, con le conseguenze di legge.
Il Ministero convenuto rimaneva contumace. Quindi, sentito il ricorrente ed acquisita documentazione, la causa passava in decisione sulle conclusioni in epigrafe trascritte.
102
La domanda di asilo politico è fondata e deve pertanto essere accolta. Va premesso che le Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza
nº 4674/1997, relativamente al diritto di asilo, hanno affermato la portata precettiva, e l’applicabilità diretta dell’art. 10 della Costituzione, avendo precisato che la norma costituzionale configura un vero e proprio diritto soggettivo all’ottenimento dell’asilo anche in mancanza di una legge che, del diritto stesso specifichi le condizioni di esercizio e la modalità di godimento, individuando nell’impedimento all’esercizio delle libertà democratiche la causa di giustificazione del diritto ed indicando
l’effettività quale criterio di accertamento della situazione ipotizzata.
Non costituisce inoltre ostacolo dalla domanda di asilo, il diniego
dello stato di rifugiato operato dalla Commissione Centrale per il riconoscimento dello stato di rifugiato politico, data la diversa configurazione, delle due fattispecie come ipotizzate dalla Convenzione di Ginevra
28 luglio 1951 e dall’art. 10 Cost..
Ciò premesso, dalla documentazione prodotta risultano le seguenti circostanze: la repressione antidemocratica della popolazione di etnia
etiope-oromo da parte delle autorità governative etiopi. Dalla documentazione proveniente dall’Oromo Liberation Front e specificamente dai
rapporti di Amnesty International, risulta evidente la repressione operata dalle autorità etiopi nei confronti degli appartenenti all’etnia Oromo,
con arresti ingiustificati per motivi politici, senza accuse né processi di
centinaia appartenenti alla detta etnia. Di tali persone le autorità etiopi
non hanno dato informazioni, né hanno permesso alle organizzazioni
umanitarie di conoscere dove si trovassero i detenuti. Tra gli arrestati vi
erano anche numerose persone prigioniere solo per motivi di coscienza
ed altre accusate solo per la loro attività politica non violenta. Inoltre tra
il mese di aprile e di maggio del 2002 risulta che si sono verificati arresti
di circa 3.000 persone di etnia Oromo, appartenente al fronte di liberazione Oromo, tra cui studenti, membri del partito di opposizione, attivisti dei diritti umani, organizzazione alla quale appartiene appunto l’attore. (omissis)
Deve pertanto concludersi che in Etiopia sussiste una diffusa compromissione delle libertà fondamentali dell’individuo riconosciute e tutelate dalla Costituzione italiana ed in particolare agli appartenenti all’etnia etiope Oromo; quale appunto quella dell’attore, sia impedito l’effettivo esercizio delle comuni libertà democratiche.
Ricorre, pertanto, la condizione essenziale perché sia dichiarato il
diritto dell’attore all’asilo politico in Italia ai sensi dell’art. 10 comma 3
della Costituzione.
Data la natura del procedimento, le spese relative vanno dichiarate irripetibili.
103
P.Q.M.
Pronunciando sulla domanda proposta da (omissis) così provvede:
– dichiara il diritto dell’attore all’asilo politico in Italia ai sensi dell’art. 10 comma 3 della Costituzione;
– dichiara irripetibili le spese del procedimento.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 5 luglio 2002.
◆
Tribunale di Roma Sez. I civile 6 dicembre 2002
SENTENZA
nella causa civile – in primo grado iscritta ai n 18326/2002 RGAC, posta
in deliberazione nella camera di consiglio del 6.12.2002, vertente
TRA
(...)
– attore –
E
COMMISSIONE CENTRALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLO STATUS DI RIFUGIATO, in persona del l. rapp.te,
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro, dom. in Roma,
presso l’Avv. Gen. dello Stato, che li rappr. e dif. per legge;
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del
Presidente, tutti dom. in Roma, presso l’Avv. Gen. dello Stato, che
li rappr. e dif. per legge;
– convenuti –
PUBBLICO MINISTERO
intervenuto
OGGETTO: Domanda di rifugio politico.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazioni del 4 e 5 marzo 2002 (...) ed (...), coniugi di nazionalità colombiana, premesso che avevano vissuto fino al 28 aprile 2001 in
Colombia, che l’attore era dipendente del Governo Colombiano con la
qualifica di tecnico fiscale, essendo le sue mansioni quelle di perito tecnico nei procedimenti riguardanti il narcotraffico ed i gruppi paramilita104
ri, che le condizioni di vita e di lavoro di (...), militante nel partito liberale, erano divenute nel corso degli anni sempre più pericolose, e che anche la moglie era soggetta a minacce per l’attività del marito: nel 1999 era
stato assassinato in Colombia (...), con cui l’attore aveva stretti rapporti
di amicizia e lavoro, poco dopo veniva assassinato (...), cugino dell’attore; che l’(...) era stato oggetto di intimidazioni e di un attentato, denunciati alla Polizia locale il (...), che in Colombia erano riconosciuti solo il
partito conservatore ai governo e quello liberale all’opposizione, ma che
in realtà il potere reale era detenuto da gruppi politici clandestini, che si
erano divisi il territorio in zone di controllo, ovvero il FARC (Gruppo armato comunista), l’ERN (esercito di liberazione nazionale) ed i gruppi
paramilitari che controllavano il narcotraffico; che per tutti i motivi indicati nell’aprile 2001 gli attori erano partiti per l’Italia, che la domanda alla Commissione Centrale per il riconoscimento dello Stato di Rifugiato
Politico era stata respinta, che a seguito di ciò la Questura di Roma aveva ordinato l’allontanamento dal territorio nazionale degli attori, provvedimento avverso il quale pendeva ricorso al TAR; ciò premesso chiedevano che fosse loro riconosciuto lo status di rifugiati politici.
Si costituivano tutti i convenuti, eccependo il difetto di giurisdizione dell’AGO, essendo stato impugnato un provvedimento negativo
emesso da un organo della Pubblica Amministrazione; nel merito contestavano la fondatezza della domanda. Acquisita documentazione ed
espletato interrogatorio libero dell’attrice, la causa era rimessa al collegio
per la decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
In ordine alla giurisdizione, si osserva che l’art. 5 del d.l.
30.12.1989, n. 416, conv. con modificazioni nella L. 28.2.1990, n. 39, che attribuiva al giudice amministrativo la decisione dell’impugnazione del
provvedimento di diniego del riconoscìmento dello status di rifugiato, è
stato abrogato dall’art. 46 della L. 6.3.1998, n. 40, disposizione quest’ultima confermata dall’art. 47 T.U. D. Lgs.
Ne consegue che la giurisdizione va determinata in base ai principi generali dell’ordinamento, per cui tutte le controversie concernenti lo
status delle persone appartengono alla giurisidizione del giudice ordinario.
In applicazione di detti principi, la Corte di cassazione aveva già
statuito che le controversie che riguardano il riconoscimento del diritto di
asilo – art. 10, 3º cm. Costituzione – rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario (Cass. sez. un. 26.5.1997, n. 4674, riv. dir. intern. 1997, 843).
È stato successivamente riconosciuto che la qualifica di rifugiato
politico costituisce, come quella dell’avente diritto all’asilo, uno status,
con la conseguenza che le controversie riguardanti il riconoscimento del
105
diritto di asilo o la posizione di rifugiato rientrano nella giurisdizione
dell’autorità giudiziaria ordinaria (Cass. sez. Un. 17.12.1999, n 907).
Nel merito, in base alla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951,
ratificata con L. 24.7.1954, n 722, al Protocollo di New York del 31.1.1967,
ratificato con L. 14.2.1970, n 95, che ha eliminato il riferimento temporale agli avvenimenti verificatisi anteriormente al 1º gennaio 1951, ed al
D.L. 30.12.1989, n 416, conv. nella L. 28.2.1990, n 39, è considerato rifugiato politico colui il quale, temendo a ragione di essere perseguitato per
motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato
gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del paese di
cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore avvalersi della protezione di questo paese; oppure il quale, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori del paese in cui aveva la residenza abituale, non può e non vuole tornarvi per il timore di cui sopra.
La qualifica di rifugiato politico si distingue pertanto da quella del
richiedente asilo, oltre che per la fonte da cui scaturisce – norma convenzionale internazionale piuttosto che previsione costituzionale – anche
perché è meno ampia della seconda, prevedendo quale fattore determinante, un fondato timore del richiedente di essere perseguitato per i motivi indicati dalla norma.
Dall’istruttoria svolta, mediante acquisizioni documentali ed interrogatorio libero dell’attrice, risulta che le affermazioni degli attori hanno
trovato ampi riscontri.
Ed al riguardo, in primo luogo non si ha motivo di dubitare della
conformità della documentazione prodotta in fotocopia agli originali,
questione del resto neanche sollevata dai convenuti; ne risulta pertanto
accertata l’identità degli attori e l’attività lavorativa dell’(...), così come
sono attendibili i rapporti dall’attore con le persone, il cui omicidio viene documentato in atti; del pari attendibile è la denuncia di un tentativo
di attentato e di minacce subiti dall’attore e dalla moglie, così come credibile e drammatica è giunta in corso di causa, la notizia dell’omicidio
del fratello dell’attrice, (...), con arma da fuoco.
Da quanto sopra, emerge con certezza che gli attori, nel proprio
paese, sono a rischio di persecuzione con grave pericolo per la loro vita;
né può dubitarsi che le ragioni della persecuzione, siano inerenti a motivi sociali e politici, facendo parte l’(...) di un gruppo politico di opposizione – partito liberale – ed essendo fino alla sua partenza dalla
Colombia dipendente pubblico, addotto al controllo sul narcotraffico,
mentre il pericolo per la moglie deriva dalla condizione del marito, ma è
stato constatato che esso è drammaticamente reale.
Non ci si sofferma, in questa sede sulle condizioni di vita in
Colombia, ampiamente documentate sulla base delle notizie informative
prodotte agli atti, costituenti del resto fatti notori, in base ai quali le organizzazioni clandestine e paramilitari dedite al narcotraffico hanno nel
106
Paese, nel quale si verificano annualmente migliaia di sequestri e di morti violente, ampi spazi. Ciò conferma ulteriormente l’attendibilità e fondatezza del pericolo di persecuzione cui gli attori sarebbero esposti nella loro terra di origine.
Ciò premesso, sulla base di quanto sopra, la domanda di riconoscimento dello stato di rifugiato politico degli attori va accolta ed i convenuti, in base alla soccombenza, vanno condannati alla rifusione delle
spese di lite.
P.Q.M.
Il tribunale, definitivamente pronunciando nella causa n.
18326/2002, così provvede:
– Dichiara che (...) ed (...) hanno lo status di rifugiati politici, a far
data dal loro ingresso in Italia, il (...);
– Condanna i convenuti in solido a rifondere agli attori le spese
giudiziali, liquidate in € 2.500,00 di cui € 200,00 per esborsi, € 900,00
per diritti ed € 1.400,00 per onorari.
Così deciso dal tribunale di Roma, prima sez. civile, nella camera
di consiglio.
◆
Tribunale di Roma Sez. I civile 20 dicembre 2002
SENTENZA
nella causa civile – in primo grado iscritta al n. 7982/2001 RGAC, posta
in deliberazione nella camera di consiglio del 20.12.2002, vertente
TRA
(...)
– attore –
E
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro, dom. in Roma,
presso l’Avv. Gen. dello Stato, che lo rappr. e dif. per legge;
– convenuto –
PUBBLICO MINISTERO
– intervenuto –
OGGETTO: Domanda di rifugio politico.
107
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione del 29.1.2001 (...), di nazionalità colombiana, premesso di essere giunto in Italia nel novembre 1999, di avere rivolto istanza di
riconoscimento dello status di rifugiato alla – Commissione Centrale
presso il Ministero dell’Interno, che l’aveva respinta con provvedimento
notificato il 27.10.2000, negandosi in detto provvedimento il motivo politico della fuga dal Paese, affermandosi che l’impegno politico di (omissis) era dettato da motivi di interesse, e che la Polizia locale poteva offrire tutta la protezione adeguata; che l’attore era militante nel Partito
Liberale Colombiano, che In tale veste aveva ricevuto aggressioni e minacce documentate a partire dal maggio 1999, denunciate alla Polizia locale, che in Colombia egli era impiegato di una impresa municipale della città di Tulua, addetto alla lettura dei contatori, che rivoltosi alla
Polizia con richiesta di protezione per sé e per un cugino, detto parente
(...) era stato poi assassinato, che la sezione cittadina del Partito in cui
egli militava il (...) aveva tenuto una riunione, in cui erano state discusse le vicende accadute all’attore ed era stato votato l’invito a lasciare il
Paese per avere salva la vita, che in Colombia erano riconosciuti solo il
partito conservatore al governo e quello liberale all’opposizione, ma che
in realtà il potere reale era detenuto da gruppi politici clandestini, che si
erano divisi il territorio in zone di controllo, ovvero il FARC (Gruppo armato comunista), l’ELN (esercito di liberazione nazionale) ed i gruppi
paramilitari che controllavano il narcotraffico; che per tutti i motivi indicati nel novembre 1999 l’attore era partito per l’Italia; ciò premesso chiedeva che gli fosse riconosciuto lo status di rifugiato politico, od in subordine il diritto all’asilo, oltre al permesso di soggiorno in attesa della
conclusione del procedimento.
Si costituiva l’Amministrazione convenuta, eccependo il difetto di
giurisdizione dell’AGO, essendo stato impugnato un provvedimento
emesso da un organo della Pubblica Amministrazione; nel merito contestava la fondatezza della domanda e l’inammissibilità della domanda di
asilo. Acquisita documentazione ed espletata prova testimoniale, la causa era rimessa al collegio per la decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
In ordine alla giurisdizione, si osserva che l’art. 5 del d.l.
30.12.1989, n. 416, conv. con modificazioni nella L. 28.2.1990, n. 39, che,
attribuiva al giudice amministrativo la decisione dell’impugnazione del
provvedimento di diniego del riconoscimento dello status di rifugiato, è
stato abrogato dall’art. 46 della L. 6.3.1998, n. 40, disposizione quest’ultima confermata dall’art. 47. TU. D. lgs. 25.7.1998, n. 286.
Ne consegue che la giurisdizione va determinata in base ai princi108
pi generali dell’ordinamento, per cui tutte le controversie concernenti lo
status delle persone appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario.
In applicazione di detti principi, la Corte di cassazione aveva
già statuito che le controversie che riguardano il riconoscimento del
diritto di asilo – art. 10, 3º co. Costituzione – rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario (Cass. sez. un. 26.5.1997, n. 4674, riv.
dir. intern. 1997, 84).
È stato successivamente riconosciuto che la qualifica di rifugiato
politico costituisce come quella dell’avente diritto all’asilo, uno status,
con la conseguenza che le controversie riguardanti il riconoscimento del
diritto di asilo o la posizione di rifugiato rientrano nella giurisdizione
dell’autorità giudiziaria ordinaria (Cass. sez. Un. 17.12.1999, n. 907).
Nel merito, in base alla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951,
ratificata con L. 24.7.1954, n. 722, al Protocollo di New York del 31.1.1967
ratificato con L. 14.2.1970, n. 95, che ha eliminato il riferimento, temporale agli avvenimenti verificatisi anteriormente al lo gennaio 1951, ed al
D.L. 30.12.1989, n 416, conv. nella L. 28.2.1990, n. 39 , è considerato rifugiato politico colui il quale, temendo a ragione di essere perseguitato per
motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato
gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dei paese di
cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore avvalersi della protezione di questo paese; oppure il quale, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori paese in cui aveva la residenza abituale,
non può e non vuole tornarvi per il timore di cui sopra.
La qualifica di rifugiato politico si distingue pertanto da quella del
richiedente asilo, oltre che per la fonte da cui scaturisce – norma convenzionale internazionale piuttosto che previsione costituzionale – anche
perché è meno ampia della seconda, prevedendo quale fattore determinante, un fondato timore del richiedente di essere perseguitato per i motivi indicati dalla norma.
Dall’istruttoria svolta, mediante acquisizioni documentali e prove
testimoniali, risulta che le affermazioni dell’attore hanno trovato ampi riscontri.
Ed al riguardo, in primo luogo non si ha motivo di dubitare della
conformità della documentazione prodotta in fotocopia agli originali,
questione del neanche sollevata dall’Amministrazione convenuta; ne risulta pertanto accertata l’identità dell’attore e la sua attività lavorativa nel
Paese d’origine, così come sono attendibili le denunce alla Procura della
Repubblica ed alla Polizia locale, nonché il verbale della sezione locale
del Partito liberale, in cui risultano gli attentati e le minacce subite dall’attore; infine, non può non rilevarsi che, prima della scadenza del termine
per il deposito delle comparse, è stato depositato un certificato che attesta
l’avvenuto omicidio del fratello dell’attore, (...), con arma da fuoco.
109
Da quanto sopra, emerge che l’attore, nel suo Paese, è perseguitato
con grave pericolo per la sua vita e che la persecuzione dipende da motivi sociali e politici, ovvero dalla sua appartenenza ad un gruppo politico di opposizione Partito liberale – mentre egli, finché aveva in
Colombia, non aveva particolari problemi economici, avendo un regolare lavoro retribuito.
Non ci si sofferma, in questa sede sulle condizioni di vita in
Colombia, ampiamente documentate sulla base delle notizie informative
prodotte agli atti, costituenti del resto fatti notori in base ai quali le organizzazioni clandestine e paramilitari dedite al narcotraffico hanno nel
Paese, nel quale si verificano annualmente migliaia di sequestri e di morti violente, ampi spazi. Ciò conferma ulteriormente l’attendibilità e fondatezza del pericolo di persecuzione cui l’attore era esposto nella terra di
origine. Né può accogliersi la tesi dell’Amministrazione convenuta per
cui, a fondamento della domanda di rifugio politico, vi è la sola persecuzione che provenga dall’autorità costituita, e non da gruppi fuori legge; in primo luogo perché detto limite non è implicito nella Convenzione
di Ginevra, nel caso specifico non essendovi prova da quale parte provengano le persecuzioni, ma in particolare non potendosi non tenere nel
debito conto, la capacità politica dell’autorità costituita, di proteggere da
attacchi e persecuzioni anche di gruppi illegali.
Ciò premesso, sulla base di quanto sopra, la domanda di riconoscimento dello stato di rifugiato politico dell’attore è fondata e va accolta e
la convenuta Amministrazione, in base alla soccombenza, va condannata alla rifusione delle spese di lite.
P.Q.M.
Il tribunale, definitivamente pronunciando nella causa n. RGAC.
7982/2001, così provvede:
– Dichiara che (...) ha lo status di rifugiato politico, a far data dal
suo ingresso in Italia, nel novembre 1999;
– Condanna il Ministero convenuto a rifondere all’attore le spese
giudiziali, liquidate in € 2.500,00 di cui € 200,00 per esborsi, € 900,00
per diritti ed € 1.400,00 per onorari.
Così deciso dal tribunale di Roma, prima sez. civile, nella camera
di consiglio del 20.12.2002.
110
3.
ASPETTI FORMALI DELLA PROCEDURA
DI RICONOSCIMENTO
DELLO STATUS DI RIFUGIATO
E LORO EFFETTI SOSTANZIALI
La procedura di riconoscimento dello status di rifugiato risulta tuttora interamente disciplinata da un solo articolo (il n. 1
della L. Martelli, integrato dalla L. 189/2002, c.d. Bossi-Fini) e
da un sintetico regolamento di attuazione (DPR n. 136 del 15
maggio 1990). La mancanza di una normativa organica sull’asilo atta a regolare in maniera esaustiva e coerente il riconoscimento dello status di rifugiato e i diritti ad esso connessi, ha
generato negli anni delle inevitabili questioni di interpretazione
intorno ai diversi aspetti formali della procedura stessa e alla
loro ricaduta sul piano sostanziale. La giurisprudenza che
segue rappresenta una selezione di sentenze intervenute a seguito di impugnazioni di dinieghi motivati sulla base di elementi di natura formale e di atti emessi dalla Polizia nel contesto della fase “burocratica” (presentazione della domanda,
rilascio del permesso di soggiorno temporaneo, etc.) della procedura di asilo.
Sembra innanzitutto interessante rilevare il fatto che la giurisprudenza si sia soffermata su tali questioni con un’insistenza
maggiore di quella riservata alla nozione e agli elementi costitutivi dello status di rifugiato. Non ininfluente su tale aspetto è l’assetto della competenza a conoscere le impugnazioni dei dinieghi;
tale competenza (v. cap. 1) è stata infatti attribuita per anni ai
Tribunali Amministrativi Regionali, organi giurisdizionali incaricati di un controllo di legittimità sulla procedura e sull’atto amministrativo, e dotati di limitati poteri rispetto all’assunzione di
prove inerenti alla situazione individuale oggettiva alla base della richiesta, come ad esempio l’interrogatorio libero del richiedente o l’audizione di testimoni. Non può tuttavia negarsi che
nell’affrontare questioni procedurali il Giudice amministrativo ha
fissato degli importanti principi in materia di procedura di asilo,
relativi in particolare a: tempo e momento di presentazione della
domanda di asilo; organo competente a valutare l’incidenza degli
111
elementi formali sull’esito della domanda; motivazione e notifica
del provvedimento.
L’annosa questione del luogo di presentazione della domanda è emersa soprattutto in relazione ai numerosi provvedimenti
delle Questure che rifiutavano di ammettere alla procedura di
asilo i richiedenti che non avessero presentato relativa richiesta in
frontiera al momento di arrivo sul territorio Italiano.
L’illegittimità di tali atti è stata sin da tempi risalenti dichiarata
da alcuni Tribunali Amministrativi (v. per tutti TAR Lazio, sent. n.
103 del 27 gennaio 1992) sulla base della non rinvenibilità nell’ordinamento di “alcuna ipotesi di decadenza o inammissibilità connessa
alla presentazione dell’istanza di riconoscimento alla Questura (che è
comunque competente allo svolgimento dell’istruttoria preliminare) anziché all’ufficio di polizia di frontiera” (TAR Emilia Romagna, sent. n.
776 del 12 ottobre 1994). Orientamento, questo, confermato dal
Consiglio di Stato anche in tempi recenti : nella sentenza n. 5735
del 7 maggio 2002 il Consiglio, argomentando a partire dalla
competenza attribuita in via esclusiva alla Commissione Centrale
a valutare le domande d’asilo e l’esistenza dei presupposti per il
riconoscimento, afferma che spetta a tale organo “valutare, con riferimento alla fattispecie in esame, se l’art. 1, comma 5, della legge n. 39
del 1990, nel prescrivere che la domanda sia presentata all’ufficio di polizia di frontiera, delinei implicitamente un onere da osservare a pena di
decadenza della possibilità stessa di proporre la domanda in un altro
termine; e considerare, nella attività di interpretazione della norma
insita nell’esercizio della funzione amministrativa, la compatibilità delle soluzioni interpretative possibili con il canone costituzionale della
ragionevolezza della legge e della sua conformità all’ordinamento internazionale”.
Analoga questione è quella relativa al momento della presentazione della domanda di asilo, ossia al lasso di tempo intercorso
tra l’ingresso del potenziale richiedente sul territorio e l’inoltro
della relativa domanda presso l’ufficio di P.S. e alla eventuale incidenza di tale intervallo sulla credibilità della domanda e dunque sul riconoscimento. Si veda, in proposito, la già citata sent.
TAR Emilia Romagna n. 776/1994 la quale a tale proposito afferma che, in particolare nei casi in cui la domanda non venga inoltrata alla Polizia di frontiera ma presso la Questura, essa debba
essere “presentata in tempi ragionevolmente brevi rispetto alla data di
ingresso in Italia, (…) al fine di non risolversi in un facile espediente per
evitare le sanzioni conseguenti alla violazione delle norme in materia di
ingresso e soggiorno degli stranieri in Italia.” Va tuttavia rilevato che
tale sentenza fa coincidere detti “tempi brevi (…) col termine di “ot112
to giorni dalla data di ingresso” previsto dall’art. 4, III co, L. n. 39/90”,
disposizione vigente all’epoca, ma in seguito abrogata.
Frequente motivo di censura da parte dei TAR nei confronti della P.A. è infine l’inadeguatezza, l’insufficienza, la stereotipicità della motivazione del diniego. Molteplici le sentenze che negli anni hanno annullato gli atti di rigetto della domanda di asilo
politico sulla base del difetto di motivazione, ne abbiamo riportato una selezione: v. inter alia TAR Lazio, sent. n. 903 del 6 giugno
1996 e TAR Veneto, sent. n. 2495 del 15 ottobre 1998.
Il trasferimento di competenza dal Giudice amministrativo
al Giudice ordinario (v. cap. 2) produrrà probabilmente uno spostamento di attenzione sugli aspetti sostanziali della richiesta di
asilo, stando a quanto sembra emergere dalle prime sentenze
emanate dai Tribunali all’esito di procedimenti di impugnazione
dei dinieghi; ci è parso tuttavia necessario dare conto dei principi fissati dalla giustizia amministrativa rispetto agli aspetti formali menzionati, principi che tuttora – basti pensare alla problematica attualissima del momento di presentazione della domanda – ispirano gli organi competenti nella valutazione delle domande di asilo.
TAR Lazio sent. n. 103 del 27 gennaio 1992
Massima
È illegittimo il provvedimento con cui il Questore nega allo straniero che non abbia presentato istanza di asilo alla frontiera, l’ammissione al procedimento per il riconoscimento dello status di rifugiato politico, con conseguente e contestuale invito a lasciare il territorio nazionale.
◆
TAR - Lazio sez. 1ª ter sent. n. 1467 del 9 ottobre 1993 ; Pres.
Mastrocola, Est. Landi, […] - Min. Int. ed altri (parziale)
– Una istanza di riconoscimento dello status di rifugiato presentata in epoca di molto posteriore all’ingresso nel nostro Paese, non può di
113
certo sanare la violazione per la mancata presentazione nel termine prescritto dalla legge della richiesta del permesso di soggiorno.
Se così non fosse, si arriverebbe a consentire che la semplice presentazione di una istanza di asilo politico, ancorché tardiva, impedirebbe di fatto la espulsione dal territorio nazionale dello straniero, il quale
ha violato le disposizioni in materia di ingresso e soggiorno nel nostro
paese, e ciò in contrasto con lo spirito e la lettera della legge n. 39/90.
La mancata indicazione della possibilità della automatica sospensione del decreto di espulsione nel caso di impugnativa nel più breve termine di quindici giorni non può ritenersi causa di illegittimità del decreto stesso.
◆
TAR Lazio - Sezione I ter sent. n. 1504 del 11 ottobre 1994; Pres.
Mastrocola, Est. Gasperini. […] - Min. Int. ed altri. (estratto)
Lo straniero che intende essere riconosciuto come “rifugiato politico”, deve rivolgere istanza motivata e, in quanto possibile, documentata
all’ufficio di polizia di frontiera (art. 1 comma 5 della L. 39/1990) e quest’ultimo, solo qualora non ricorra alcuna delle cause ostative di cui all’art. 1 comma 4 della stessa L. n. 39/1990, invita il richiedente ad eleggere domicilio ed a recarsi presso la Questura competente per territorio
e trasmette alla stessa l’istanza ricevuta (art. 1 comma 1 del DPR
15/5/1990 n. 136).
Non può ritenersi che una domanda di asilo politico presentata dopo la scadenza dei termini previsti dalla legge per la sua presentazione
ad organo incompetente (Questura anziché Ufficio di Polizia di frontiera) possa essere considerata come domanda ex art. 1 comma 5 n. 39/1990
e idonea ad ingenerare nell’Amministrazione un obbligo di provvedere
al riguardo.
◆
TAR - Emilia Romagna - Sezione I sent. n. 776 del 12 ottobre 1994; Pres.
f. f. Fiorentino Est. Rovis. […] - Min. Int. ed altri. (parziale)
Nell’ordinamento non è rinvenibile alcuna ipotesi di decadenza o
di inammissibilità connessa alla presentazione dell’istanza di riconoscimento alla Questura (che è comunque competente allo svolgimento dell’istruttoria preliminare), anziché all’ufficio di polizia di frontiera: tuttavia in tal caso l’istanza deve essere presentata in tempi ragionevolmente
114
brevi rispetto alla data di ingresso in Italia (cfr. TAR Lazio, I, 24.3.92), al
fine di non risolversi in un facile espediente per evitare le sanzioni conseguenti alla violazione delle norme in materia di ingresso e soggiorno
degli stranieri in Italia. Tempi brevi che, in mancanza di espressa indicazione, possono farsi coincidere col termine di “otto giorni dalla data di
ingresso” previsto dall’art. 4, III co, L. n. 39/90, in considerazione sia della previsione contenuta nell’art. 33 della Conv. Ginevra che obbliga lo
straniero entrato clandestinamente a presentarsi “senza indugi” alla autorità di polizia statale, sia del ristretto termine (7 gg.) concesso alla
Questura per svolgere l’istruttoria preliminare dell’istanza prima di inviare la documentazione alla competente Commissione centrale (art. 1, II
co., D.P.R. n. 136/90).
Nel caso di specie, invece, l’interessato ha atteso ben tre mesi e
mezzo prima di presentarsi alla Questura per proporre l’istanza di cui
trattasi. Ragione per la quale l’autorità, nel bilanciare gli opposti interessi, ha giudicato prevalente quello pubblico alla tutela della violazione
delle norme in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, implicitamente ritenendo che l’istanza avanzata dalla ricorrente non fosse sopportata da un concreto ed oggettivo interesse.
◆
TAR Lazio - Sez. I ter sent. n. 165 del 1 febbraio 1995 - Pres. Mastrocola
- Est. Mele Costantin […] e […] - Min. Int. ed altri. (parziale)
In presenza di una coppia di coniugi (quanto meno il marito, che
svolgeva la professione di giornalista) che ha abbandonato una specifica
attività di natura intellettuale per adattarsi nel nostro paese a lavori più
umili e precari e che sicuramente svolgeva nel proprio paese attività di
natura politica, la Commissione Centrale (alla quale sono stati presentati anche referti medici che certificano comunque l’esistenza di lesioni da
percosse) avrebbe dovuto meglio e più attentamente indagare circa la
reale situazione dei due richiedenti lo status di rifugiato in relazione alla situazione politica come complessivamente esistente e come evolutasi
realmente nel tempo in Romania.
A tale proposito, sarebbe stato oltremodo opportuno che i ricorrenti fossero stati personalmente sentiti.
È vero, sì, che gli stessi, sebbene avvertiti, non si sono presentati,
ma la particolarità della situazione avrebbe consigliato una seconda convocazione, attesa la necessità di verificare la situazione reale, altrimenti
non trasparente.
I ricorsi riuniti vanno, pertanto, accolti, relativamente alla insufficiente motivazione.
115
Consiglio di Stato, Sez. IV, sent. n. 149 del 06 marzo 1995
Massima
Spetta alla Commissione centrale per il riconoscimento dello “status” di rifugiato, prevista dalla legge 28 febbraio 1990 n. 39, e dal regolamento di attuazione emanato con D.P.R. 15 maggio 1990 n. 136, la competenza esclusiva a valutare le domande di riconoscimento dello “status” di rifugiato, anche quanto alla sussistenza o alla eventuale insussistenza dei relativi presupposti, pertanto, è illegittimo per incompetenza,
il provvedimento con il quale il Prefetto espelle dal territorio nazionale
lo straniero che abbia presentato domanda di asilo politico in un momento diverso dal suo ingresso.
◆
Consiglio di Stato Sez. Ad. Plen. , ord. n. 2 del 19 aprile 1996
Massima
Tra i termini di cui l’articolo 5, comma quinto, del D.L. 30 dicembre
1989 n. 416, convertito nella legge 28 febbraio 1990 n. 39, dispone, per i giudizi aventi ad oggetto l’impugnazione dei provvedimenti in materia di
diniego di riconoscimento dello status di rifugiato, di espulsione e di diniego e revoca del permesso di soggiorno, la riduzione a metà, sono
compresi anche quelli relativi al giudizio d’appello previsti dall’articolo
29 della legge 6 dicembre 1971 n. 1034, da essa richiamato; pertanto, il ricorso proposto per l’appello cautelare deve essere depositato nel termine abbreviato di quindici giorni.
◆
TAR Lazio, Sez. I ter sent. n. 903 del 6 giugno 1996; Pres. Mastrocola,
Est. Pugliese. […] - Min. Int. ed altri.
Senza tenere in debito conto i gravi ed oggettivi pericoli con cui in
caso di forzato rimpatrio andrebbe incontro il Sig. […] ingegnere elettronico capo della società nazionale di energia elettrica dello Zaire (Snel),
cofondatore di un’associazione culturale cui aderivano molti appartenenti al partito di opposizione (“Unione per la democrazia ed il progresso sociale”) parte dei quali sono stati arrestati, torturati ed uccisi dalla
polizia, lui stesso arrestato, tradotto nel carcere di Makala ove è rimasto
per tre mesi ed ivi ripetutamente torturato per non aver inteso adempiere all’ordine, impartito dal comandante della guardia presidenziale, di
116
interrompere l’erogazione della corrente elettrica in una zona della città,
riuscito a fuggire, quindi, appena ottenuta la libertà provvisoria in
Angola e da qui in Italia dove il 22.12.1992 ha chiesto asilo politico) la
Commissione centrale in argomento ha denegato al ricorrente, con argomentazioni che si appalesano generiche, stereotipe e acritiche (mancata
individuazione di “motivi di persecuzione riferibili in via diretta e personale” “critica situazione di insicurezza esistente nel suo Paese”; “restrizioni, genericamente indicate” nonché “difficoltà che devono comunque essere ritenute non più riferibili specificamente in via diretta e immediata”) il riconoscimento dello status di rifugiato senza che all’uopo si
sia curata di indicare, con congrua ed adeguata motivazione “i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione
dell’Amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria” (art. 3
legge 7/8/1990 n. 241) al fine di consentire all’interessato di avere contezza dell’iter logico-giuridico seguito dall’Autorità emanante, motivazione ancor più necessaria laddove si incida in senso sfavorevole, su posizioni soggettive di terzi o si neghi la richiesta espansione delle posizioni medesime.
D’altronde la giurisprudenza del giudice amministrativo ha più
volte ritenuto e ribadito (vedi tra le tante: TAR Friuli Venezia Giulia n.
531-532-533/91-92-93 - 410/92) che il provvedimento di concessione o di
mancata concessione dello status di rifugiato è un provvedimento amministrativo, la cui motivazione, secondo le regole usuali, deve essere
congrua (e quindi non generica), logica e deve tener conto delle risultanze dell’istruttoria esperita, con la conseguenza che nei confronti di tale tipo di provvedimento (particolarmente delicato per le sue implicazioni)
trova applicazione – come già accennato – il disposto di cui all’art. 3 della citata legge n. 241/90 in ordine alla necessità di una motivazione esaustiva della ragioni giuridiche di fatto che hanno determinato la decisione
dell’Amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria.
◆
TAR Lazio, Sez. I ter, sent. n. 1621 del 11 ottobre 1997; Pres. Mastrocola,
Est. Pugliese. […] - Min. Int. ed altri (estratto)
Come evidenziato soprattutto in memoria da parte ricorrente, va
sottolineata l’evidente discrasia rinvenibile nell’operato della Commissione:
per un verso la stessa prende atto delle persecuzioni subite dalla ricorrente con conseguente sussistenza, quanto meno, di un fumus di fondato timore di subire persecuzioni in caso di ritorno in patria e, per l’altro verso, la medesima asserisce che “non emergono elementi che giusti117
fichino la presenza di un ragionevole e fondato timore di subire persecuzioni dirette e personali in caso di eventuale rientro in Patria”.
Asserzione quest’ultima, che mal si concilia con la “segnalazione”
del disposto di cui all’art. 7 commi 6 e 10 della legge 39/90 in relazione
“all’attuale contesto in cui versa il Paese di origine”, “fintantoché, almeno, perduri tale critica situazione”.
I succitati commi, “segnalati” dalla Commissione, prevedono,
com’è noto, che “lo straniero espulso è rinviato allo stato di appartenenza ovvero, quando ciò non sia possibile, allo stato di provenienza, salvo
che, a sua richiesta e per giustificati motivi, l’autorità di pubblica sicurezza ritenga di accordagli una diversa destinazione, qualora possano essere in pericolo la sua vita o la sua libertà personale per motivi di razza,
di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di
condizioni personali o sociali” (comma 6) e che “in ogni caso non è consentita l’espulsione né il respingimento alla frontiera dello straniero verso uno stato ove possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”
(comma 10): tale essendo il disposto normativo di riferimento, ne discende, da una parte, la contraddittorietà tra quanto dalla Commissione
ritenuto e/o comunque paventato, e quanto in definitiva ha poi deciso
(reiezione dell’istanza di riconoscimento dello status di rifugiato) e, d’altra parte, come sottolineato da parte ricorrente, il palese travisamento dei
fatti ed errore sui presupposti in cui è incorsa la Questura di Roma che,
stravolgendo il chiaro senso del provvedimento assunto dalla
Commissione, pur se in termini riduttivi (invito a tener conto dell’attuale contesto in cui versa lo Zaire, almeno fino a quando “perduri tale critica situazione”) rispetto alla richiesta formulata dalla ricorrente, ha
adottato nei suoi confronti un provvedimento espulsivo a brevissimo termine, privo tra l’altro di qualsiasi garanzia per la salvaguardia del diritto fondamentale alla vita e all’integrità morale e fisica della ricorrente
stessa.
L’impugnato provvedimento denegativo del riconoscimento dello
status di rifugiato appare altresì viziato dei menzionati profili di eccesso
di potere per difetto di istruttoria e carenza di motivazione, ove si osservi, per un verso che la Commissione non ha fornito alcun riferimento ricognitivo dell’eventuale istruttoria compiuta, limitandosi ad affermare
con dizione quanto mai vaga e generica (soprattutto se rapportata con la
situazione documentale in esame) la formale insussistenza dei requisiti
per ottenere il chiesto riconoscimento e, per altro verso – come pure ricordato in memoria dalla difesa di parte ricorrente – la giurisprudenza
del giudice amministrativo ha più volte ritenuto e ribadito (cfr. T.A.R.
Friuli Venezia Giulia n. 531/91, 410/92; TAR Lazio I Ter n. 903/96) che il
118
provvedimento di concessione o di mancata concessione dello status di
rifugiato è un provvedimento amministrativo, la cui motivazione, secondo le regole usuali, deve essere congrua (e quindi non generica), logica e
deve tener conto delle risultanze dell’istruttoria esperita, con la conseguenza che nei confronti di tale tipo di provvedimento (particolarmente
delicato per le sue implicazioni) trova applicazione il disposto di cui all’art. 3 L. n. 241/90 in ordine alla necessità di una motivazione esaustiva
delle ragioni giuridiche di fatto che hanno determinato la decisione
dell’Amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria.
◆
TAR Lazio, Sez. I ter, sent. n. 1100 del 11 luglio 1997; Pres. Mastrocola,
Est. D’Ottavi. […] - Min. Int. ed altri. (estratto)
Dalla lettura del provvedimento e dal riferimento ivi contenuto
agli atti procedimentali – e in particolare al contenuto delle dichiarazioni rese in sede di audizione personale dall’interessato – si evince che il
convincimento raggiunto dalla Commissione, su cui si è fondata l’impugnata decisione, è congruamente motivato, perché sono indicate con sufficienti richiami le ragioni ritenute ostative al rilascio del richiesto riconoscimento.
Del resto la stessa situazione di fatto rappresentata dal ricorrente
(che ha richiesto lo status di rifugiato dapprima perché in contrasto con
il passato regime e attualmente perché timoroso anche del nuovo sistema di governo) contiene secondo quanto puntualmente indicato dalla
Commissione elementi di genericità e di irrilevanza ai fini dell’applicazione delle disposizioni previste dalla Convenzione di Ginevra del 1951.
Circa l’uso nell’impugnato provvedimento di frasi stereotipe lamentato dal ricorrente, il Tribunale rileva che a parte l’inconsistenza
della censura perché nel preambolo si fa preciso riferimento ad elementi specifici (status di militare del ricorrente, successiva diserzione,
contenuto dell’audizione personale ecc.) della fattispecie, va ribadito
quanto più volte affermato in casi analoghi, perché l’uso di una fraseologia tipicizzata non è per sé illegittimo se, come avviene nel caso in
esame – e nei limiti estrinseci di sindacabilità da parte del Giudice amministrativo – non sia smentita dall’obiettiva realtà dei fatti, che anzi la
ripetitività delle situazioni delle ragioni poste a fondamento dell’inapplicabilità della Convenzione di Ginevra, trova la sua migliore rappresentazione espressiva proprio nella proposizione di consuete fraseologie di riferimento.
Da ultimo, circa la pretesa contraddittorietà tra la ritenuta irrile119
vanza del riferimento allo status di militare-disertore e la segnalazione di
tale elemento, effettuata ex art. 7, commi 6 e 10 della L. n. 39/1990
all’Autorità di P.S., la censura è palesemente infondata perché le finalità
garantistiche (rapportate a particolari elementi di fatto) previste da tale
normativa (per cui in sede di espulsione potrà essere evitato, nell’interesse esclusivo del ricorrente, il rinvio allo Stato di appartenenza) non
possono essere ritenute di per sé indizio sufficiente alla sussistenza dei
presupposti per l’applicazione della Convenzione di Ginevra, mentre
possono esserlo per le menzionate cautele da osservarsi in sede di espulsione.
◆
Consiglio di Stato Sez. IV, sent. n. 404 del 10 marzo 1998
Massima
Il dimezzamento dei termini processuali previsti dall’articolo 5 del
D.L. 30 dicembre 1989 n. 416, convertito dalla legge 28 febbraio 1990 n. 39,
in materia di giudizi aventi ad oggetto l’impugnazione dei provvedimenti di diniego dello status di rifugiato politico, di espulsione e di diniego e revoca del permesso di soggiorno a cittadini extracomunitari, si
applica anche in relazione al deposito dell’appello quand’anche cautelare.
◆
TAR Veneto Sent. n. 2495 del 15 ottobre 1998
SENTENZA
sul ricorso n. 1147/97, proposto da […], rappresentato e difeso dagli avv. Aldo Campesan e Nicola Zampieri; con elezione di domicilio
presso l’Ufficio Vertenze Sindacali della CISL, in Venezia - Mestre, via
Ca’ Marcello n. 10;
CONTRO
il Ministero dell’Interno, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
Distrettuale dello Stato di Venezia, presso cui ha domicilio legale in san
Marco n. 63;
120
per l’annullamento
del provv. n. 13 del 1º.3.97 del Questore di Vicenza di diniego di rilascio
del permesso di soggiorno, nonché del parere negativo della
Commissione Centrale per il riconoscimento dello status di “rifugiato”;
….....….
ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO
Il ricorrente rappresenta di provenire dalla Bosnia e di essere entrato in Italia il 30. l 1.96.
In data 4.12.96 presentava istanza di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, in uno con la propria moglie e coi tre figli
minori, i quali – al contrario del ricorrente – lo ottenevano.
In data 12.3.97, infatti, gli veniva personalmente notificato l’opposto provvedimento di diniego, motivato con riferimento al parere negativo (non allegato) della Commissione Centrale per il riconoscimento
dello status di rifugiato.
Avverso il diniego agisce l’istante deducendone l’illegittimità sotto
i seguenti profili:
1) violazione dell’art. 3 Legge 7.8.90 n. 241 e dell’art. 3, comma m.
del D.P.R. 136/90. Difetto di motivazione.
Il provvedimento opposto si limita a richiamare per relationem il parere negativo espresso dal Comitato Centrale, senza allegarlo o renderlo
disponibile, e senza dar conto delle ragioni di fatto e di diritto che osterebbero al rilascio del permesso di soggiorno; di qui il palese difetto di
motivazione.
Inoltre risulta violata la disposizione che impone espressamente di
notificare per iscritto all’interessato la decisione della Commissione.
2) Violazione dell’art. 5 Legge 39/90. Nullità dell’atto per mancanza di sottoscrizione.
L’atto opposto non è stato notificato al ricorrente unitamente alla
traduzione in una lingua a lui conosciuta
Inoltre, il provvedimento risulta privo di sottoscrizione da parte di
alcuno, il che integra la sua assoluta nullità.
3) Violazione degli artt. l e 4 della Legge 39/90.
Poiché il parere negativo in ordine al riconoscimento dello status di
rifugiato non è stato dimesso, né si sono indicati specifici motivi ostativi
alla concessione del permesso di soggiorno, non è dato comprendere
quale sia stato l’iter logico seguito per addivenire al diniego opposto,
possedendo il ricorrente tutti i requisiti prescritti e non avendo pendenze o precedenti penali.
121
4) Violazione degli artt. 5, 6, 7 e 8 della Legge 7.8.90 n. 241 e dell’
art. 3, comma 1, del D.P.R 136/90.
Sono state violate le disposizioni relative alla partecipazione al procedimento, non essendo stato nominato il responsabile, né dato avviso
dell’avvio del procedimento stesso.
Sono state inoltre violate anche le norme relative al riconoscimento
dello status di rifugiato, che prevedono che l’interessato, ove lo richieda,
ha la facoltà di essere sentito personalmente.
5) Violazione dell’art. 1, comma 2, del D.P.R 136/90. Incompetenza.
Nel provvedimento non è indicato il termine di allontanamento.
Il Questore, poi, non ha competenza in materia di asilo politico,
poiché ove si faccia questione di “rifugiati” la Commissione Centrale,
non solo emette il necessario parere, ma rilascia (o denega) il permesso
di soggiorno.
6) Violazione dei principi di correttezza e buona amministrazione.
illogicità e contraddittorietà.
Non si è tenuto conto che tutti i familiari del ricorrente hanno ottenuto il permesso di soggiorno per motivi umanitari.
L’Amministrazione, costituita, chiede la reiezione del ricorso, siccome infondato.
DIRITTO
Oggetto del ricorso è la richiesta di annullamento del provvedimento del Questore di Vicenza di diniego del permesso di soggiorno,
nonché del presupposto parere negativo della Commissione Centrale per
il riconoscimento dello status di rifugiato.
Il ricorso è fondato e va conseguentemente accolto.
In particolare risultano sussistenti sia il vizio di difetto assoluto di
motivazione, sia quello di “nullità” del provvedimento per mancata sottoscrizione dello stesso.
Quanto al primo aspetto, va osservato che l’atto opposto è motivato ob relationem al parere negativo espresso dalla Commissione Centrale
per il riconoscimento dello status di rifugiato, il che è perfettamente corretto, anche a tenore dell’art. 3 della Legge 7.8.90 n. 241.
Tuttavia, perché tale indiretta motivazione sia legittima è necessario che “se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell’amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione
di quest’ultima sia (deve essere) indicato e reso disponibile...anche l’atto
cui essa si richiamino (art. 3, comma 3).
All’evidenza, “indicato” significa identificato nei suoi estremi, e
“reso disponibile” significa allegato in copia, o, quanto meno, posto a disposizione dell’interessato il quale possa prenderne diretta visione.
122
Laddove queste minimali formalità siano omesse, va da se che la
motivazione dell’atto non può ritenersi adeguata e sufficiente.
Nel caso di specie, il ricorrente non è stato posto nelle condizione
di conoscere le reali ragioni del diniego (che ben possono sussistere) e,
conseguentemente, di poter approntare un’adeguata difesa.
Ciò appare ancora più significativo se si consideri, da un lato, che
il provvedimento negativo della Commissione Centrale gli doveva essere personalmente notificato, a tenore dell’ art. 3, comma 3, del D.P.R. n.
136 del 15.3.90, e dall’altro che la moglie ed i figli del ricorrente hanno
viceversa ottenuto lo status di rifugiato.
Ciò è già sufficiente per addivenire all’annullamento del provvedimento opposto, tuttavia il Collegio non può tralasciare di prendere in
considerazione anche il problema della mancata sottoscrizione del provvedimento di diniego (quanto meno nella copia notificata al ricorrente)
da parte del Questore; prassi a quanto consta, assai diffusa.
Il Collegio non ignora che esiste giurisprudenza (formatasi proprio
nella particolare materia dei permessi di soggiorno) nel senso che la
mancanza di firma in calce all’ atto amministrativo monocratico è irrilevante allorché sia possibile procedere (comunque) all’individuazione del
soggetto emanante” (T.A.R. Liguria, sez. II, n. 328 del 28.10.97 e Cass. civ,
n. 7234 del 7.8.96 “l’autografia della sottoscrizione non è configurabile
come requisito di esistenza giuridica degli atti amministrativi, quanto
meno quando i dati esplicitati nello stesso contesto documentativo dell’atto consentano di accertare la sicura attribuibilità dello stesso a chi deve esserne l’autore secondo le norme positive”; quest’ultima però si riferisce ad un caso di facsimile a stampa della firma).
A questa giurisprudenza se ne contrappone altra, cui il Collegio ritiene di aderire, secondo cui “il provvedimento amministrativo, nei casi
in cui debba essere redatto per iscritto, rientra nel novero degli atti giuridici formali, sì che il documento stesso è costitutivo del contenuto giuridico; pertanto la sottoscrizione deve provenire inequivocabilmente dalla persona fisica che, secondo le norme della fattispecie, sia titolare dell’organo competente alla statuizione amministrativa, verificandosi in difetto la nullità (o inesistenza giuridica) del provvedimento”. Soggiunge
ancora la pronuncia che “la sottoscrizione di un atto amministrativo rappresenta anche un elemento essenziale dell’attestazione di conformità all’originale di una copia dell’atto stesso, in mancanza della quale il provvedimento non può essere ricondotto al suo autore e deve considerarsi
inesistente” ( T.A.R. Sicilia - Catania, n. 703 del 30.4.96 e C.S., sez. VI, n.
885 del 26.11.91).
Nella specie, la copia del provvedimento notificata al ricorrente e
dimessa in atti, è del tutto priva di sottoscrizione.
Contiene invece – e ciò non può non costituire, se possibile, un’ul123
teriore aggravante – l’attestazione resa dal funzionario (dirigente
dell’Ufficio Stranieri) di conformità all’originale, che, quindi, deve presumersi parimenti non sottoscritto o, quanto meno, sottoscritto a posteriori.
L’atto impugnato, quindi, appare anche affetto da insanabile nullità
per vizio di forma.
Il ricorso, in conclusione, va accolto.
Come di regola, le spese seguono la soccombenza, pertanto la soccombente Amministrazione viene condannata alla rifusione, in favore
della parte istante, delle spese e competenze di causa, che pare equo
quantificare in complessive £ 3.000.000 (tre milioni).
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, prima
Sezione, definitivamente pronunziando sul ricorso in premessa, respinta
ogni contraria istanza ed eccezione, lo accoglie.
Né, peraltro, può pensarsi che la richiesta del ricorrente dovesse essere intesa come richiesta di accesso procedimentale, in quanto quest’ultimo è direttamente discendente dalla qualità di partecipazione al procedimento, qualità che nella specie è escluso in capo al ricorrente, trattandosi invero di valutazioni latamente discrezionali della P.A. che, in quanto tali, non ammettono contradditorio.
Ciò posto, rileva inoltre il Collegio che l’istanza dal Sig. […], sia pure intempestivamente proposta deve comunque considerarsi acquisita
dalla Questura di Roma, la quale, una volta che il procedimento sarà
concluso, dovrà invitare l’interessato a dar luogo all’accesso richiesto,
senza che lo stesso debba nuovamente attivarsi per esperire la procedura che trattasi.
Consegue da quanto sopra che, allo stato degli atti, il ricorso non
può essere accolto.
◆
◆
Consiglio di Stato Sez. IV, sent. n. 1409 del 15 marzo 2000
TAR Lazio, Sez. I Ter, sent. n. 2154 del 8 luglio 1998; Pres. Mastrocola,
Est. Pugliese. […] - Min. Int. ed altri.
Richiamandosi alla sua ormai costante giurisprudenza, ritiene la
Sezione che nell’ambito della legge n. 241 del 90 sono rinvenibili due distinte tipologie di accesso agli atti amministrativi:
una, disciplinata dagli artt. 22 e segg. della citata legge, che mira a
consentire la conoscenza di provvedimenti amministrativi (con tutti gli
atti ad essi strumentali), al fine di individuare eventuali lesioni di situazioni soggettive da parte degli interessati, la quale, quindi non può che
riguardare atti conclusivi del procedimento;
un’altra, che può denominarsi di “accesso procedimentale”, disciplinata dagli artt. 7 e segg. della legge n. 241 del 1990, che mira a far conoscere ai soggetti partecipanti al procedimento ogni atto che renda significativa tale partecipazione, al fine di evitare possibili, future lesioni
di situazioni soggettive: in tale secondo corso, l’accesso è uno strumento
operativo collegato con la qualità di partecipante al procedimento.
Ora, è evidente che nella specie la richiesta di accesso è intervenuta prima che il relativo procedimento (riferito nella specie a domanda di
rilascio di permesso di soggiorno per asilo politico) si concludesse: non
essendovi ancora alcun provvedimento finale, corretto si appalesa l’implicito diniego di accesso operato nel caso in esame dalla Questura di
Roma.
124
Massima
La riduzione dei termini prevista dall’articolo 5 del Decreto legge 30
dicembre 1989 n. 416, convertito dalla legge 28 febbraio 1990 n. 39 in ordine
alle impugnative dei provvedimenti di diniego dello status di rifugiato;
della revoca o del diniego del permesso di soggiorno del provvedimento di espulsione, comprende anche quello per il deposito dell’appello e
quello cautelare.
◆
Tribunale di Trapani Ordinanza 6 giugno 2000 - est. Piscitello
Il Giudice letto il ricorso depositato il 27 maggio 2000 da […] nato
a Kinshasa (Zaire) il […] avverso il decreto di espulsione emesso dal
Prefetto della Provincia di Trapani il 22.05.2000;
sciogliendo la riserva che precede;
rilevata la tempestività del ricorso e la regolarità della notifica dell’atto introduttivo e del decreto di fissazione dell’udienza alla Prefettura,
che non si è costituita;
letti gli atti e i documenti prodotti;
ritenuto che appare fondata, ai sensi dell’art. 13 comma 7 del D.Lgs.
125
286/1998, l’eccezione di illegittimità del decreto impugnato in quanto
tradotto in lingua francese e non in quella inglese, la sola conosciuta dall’interessato (oltre la propria lingua madre africana), secondo quanto dichiarato in ricorso e non smentito da elementi di segno contrario;
considerato che […] ha avanzato espressa richiesta di asilo politico
con il ricorso introduttivo, adducendo il rischio di persecuzione politica
derivante dalla situazione di guerra civile in atto esistente nello Zaire;
ritenuto che, conformemente all’indirizzo giurisprudenziale richiamato dall’istante (vedi ordinanze prodotte in atti), ritiene questo giudicante che la richiesta di asilo politico fatta dallo straniero irregolare debba comunque essere presa in considerazione, qualunque sia il momento
in cui venga avanzata, al fine di valutare la legittimità dell’espulsione
amministrativa;
ritenuto, pertanto, che, per quel che ci occupa, è sufficiente che tale volontà sia stata espressa nel ricorso avverso il provvedimento di
espulsione, essendo poi rimessa all’autorità competente la delibazione
sulla ritualità e fondatezza della stessa;
ritenuto che il D.Lgs. 286/1998 (T.U. delle disposizioni concernenti
la disciplina dell’immigrazione e delle norme sulla condizione dello straniero) prevede il divieto sia di respingimento alla frontiera sia di espulsione dello straniero irregolare che “possa” subire persecuzioni per motivi politici, religiosi etc. nel paese di provenienza (art. 19);
considerato che il divieto di cui sopra presuppone la semplice
“possibilità” della persecuzione e che, nel caso di specie, tale presupposto, dichiarato dal ricorrente nel contesto del ricorso, può desumersi dalla situazione di notoria belligeranza presente nel Paese di provenienza
dello stesso, non smentita da elementi di segno contrario;
ritenuto che, in ogni caso, l’art. 10 comma 3 Cost., con immediata
forza precettiva, prevede nel nostro ordinamento, il diriTto di asilo politico dello straniero sulla base della mancanza di libertà democratiche nel
Paese di provenienza;
ritenuto che la situazione di irregolare di […] non può pregiudicare la possibilità, per lo stesso, di accedere alla procedura per il riconoscimento del diritto di asilo, in ottemperanza al principio del non refoulement espresso dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 (artt. 31
e 33), che esclude l’applicazione delle sanzioni per ingresso irregolare nei
confronti dello straniero richiedente asilo, con il conseguente divieto di
respingimento alla frontiera;
ritenuta, pertanto, che l’eccezione di illegittimità del decreto di espulsione appare fondata anche nel merito per quanto fin qui argomentato;
ritenuto, infine, che il ricorso è inammissibile relativamente alla richiesta di revoca del provvedimento di trattenimento del ricorrente presso il CPT Serraino Vulpitta, atteso che avverso lo stesso è proponibile solo ricorso per Cassazione.
126
P.Q.M.
Annulla il decreto di espulsione emesso dal Prefetto di Trapani il
22.5.2000 nei confronti di [… ], in atti compiutamente generalizzato;
dichiara inammissibile la domanda di revoca del provvedimento di
trattenimento del ricorrente presso il CPR Serraino Vulpitta;
manda alla cancelleria per gli adempimenti.
◆
TAR Calabria sent. n. 363 del 26 gennaio 2001
SENTENZA
sul ricorso n. 172/92 proposto da […], elettivamente domiciliato in
Catanzaro, via Carlo V n. 72, presso lo studio dell’avv. Sergio Tarantino,
dal quale è rappresentato e difeso;
CONTRO
Commissione Centrale per il Riconoscimento dello Status di Rifugiato
Politico, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso
dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Catanzaro, domiciliataria;
per l’annullamento
del provvedimento n. 1602 del 14 novembre 1991 della Commissione
Centrale per il Riconoscimento dello Status di Rifugiato Politico, nonché
di ogni atto presupposto, connesso o conseguente;
…….omissis……
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
FATTO
L’ing. […], cittadino della Repubblica Popolare Cinese, espone di
essere giunto in Italia su invito dell’Università della Calabria e di avere
presentato istanza per il riconoscimento dello status di rifugiato politico.
Il riconoscimento di tale status, tuttavia, gli è stato negato con il provvedimento oggetto di impugnazione.
Il ricorrente deduce la violazione dell’art. 10, 3º comma. della
Costituzione, della legge 24 luglio 1954 n. 722, di ratifica della
Convenzione di Ginevra, nonché della legge 7 agosto 1990 n. 241.
Deduce, inoltre, illogicità, insufficienza di motivazione, carenza istruttoria.
127
In particolare, il ricorrente rimarca l’esistenza di tutti i presupposti
per il riconoscimento dello status di rifugiato e lamenta il mancato rispetto di un principio di favore per il rifugiato, desumibile dalla richiamata norma costituzionale.
Sottolinea, poi, che i provvedimenti che negano detto riconoscimento devono essere sorretti da congrua motivazione, mentre l’atto impugnato nega genericamente l’esistenza dei fatti affermati nell’istanza.
Il ricorrente chiede, quindi, l’annullamento dell’atto stesso, con
ogni conseguenza anche in ordine alle spese di giudizio.
Si è costituita l’Amministrazione intimata, con il patrocinio
dell’Avvocatura dello Stato, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile, irricevibile o, in subordine , rigettato, con vittoria di spese.
Con ordinanza n. 576 del 4.6.1992, a seguito di istruttoria, è stata
accolta la domanda incidentale di sospensione dell’atto impugnato.
Alla pubblica udienza del 26 gennaio 2001 il ricorso è stato ritenuto per la decisione.
DIRITTO
L’istanza per il riconoscimento dello status di rifugiato politico, a
suo tempo presentata dal ricorrente, fa ampio riferimento alla partecipazione dello stesso alle dimostrazioni studentesche svoltesi a Pechino nel
periodo aprile-giugno 1989, note come moti di Piazza Tienanmen. Essa
riferisce, inoltre, dell’effettuazione di collette a sostegno dei dimostranti
e di altre circostanze quali l’esistenza di indagini in corso all’epoca da
parte delle Autorità cinesi riguardo a tale partecipazione. Vi si sottolinea
anche il timore di persecuzioni.
Nella stessa istanza l’odierno ricorrente ha precisato di avere avuto l’opportunità di venire in Italia solo grazie al fatto che le Autorità non
disponevano ancora di prove precise contro lo stesso.
Il ricorrente osserva che l’atto impugnato non è sorretto da congrua
motivazione, limitandosi esso ha negare genericamente la sussistenza dei
fatti indicati nell’istanza.
La doglianza è fondata.
Nel provvedimento impugnato si rileva che nel corso dell’audizione l’interessato è stato invitato a chiarire i motivi dell’espatrio, in quanto esso, nelle dichiarazioni in precedenza succintamente rese a verbale (il
riferimento, a quanto pare, è al verbale del 5 dicembre 1990), era stato
motivato con un generico dissenso verso la politica perseguita dal proprio Governo. Si rileva, inoltre, che non sono stati forniti elementi che
giustifichino la presenza di un ragionevole e fondato timore di subire
persecuzioni dirette e personali in casi di rientro in Patria.
Tale affermazione appare affatto generica e priva di supporto argomentativo.
128
Si è detto che nell’istanza per il riconoscimento dello status di rifugiato politico il ricorrente ha esposto dei fatti determinati, quali la partecipazione ai moti di Piazza Tienanmen e l’effettuazione di collette per la
raccolta di fondi in favore dei dimostranti, che, a giudizio dello stesso, lo
esponevano al rischio di persecuzioni.
La Commissione si è limitata a dare conto delle risultanze di un
verbale, dai contenuti, peraltro, estremamente succinti, ed ad affermare
apoditticamente che non sussistono gli elementi sopra indicati. Essa, invece, avrebbe dovuto dare specifico conto delle valutazioni fatte riguardo alla sussistenza delle circostanze riferite ed all’incidenza delle stesse
riguardo ad un eventuale rischio di persecuzioni.
D’altra parte, nello stesso provvedimento si rileva che la motivazione costituita dalla possibilità di trovare migliori condizioni di vita civile e democratica e più propizie possibilità di lavoro risulta assorbente
e prevalente rispetto agli altri moventi che lo hanno indotto all’espatrio.
Anche riguardo a questo aspetto il provvedimento risulta carente
sotto il profilo della motivazione.
Da un lato, infatti, non è chiaro, considerato anche il provvedimento nega che sussistano ragioni di timore di persecuzioni, quali siano
gli altri moventi tenuti presenti dalla Commissione. Dall’altro, non viene
specificato sulla base di quali elementi sia stato formulato tale giudizio
di prevalenza, espresso, peraltro, con riferimento a motivazioni interiori
del soggetto.
Il ricorso, pertanto, risulta fondato e deve essere accolto, con conseguente annullamento dell’atto impugnato, restando assorbiti i motivi
non esaminati.
Si ravvisano giusti motivi per compensare integralmente fra le parti le spese di giudizio.
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale della Calabria, Sede di
Catanzaro, Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso in
epigrafe, lo accoglie e, per l’effetto, annulla il provvedimento impugnato.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Catanzaro nella Camera di Consiglio del 26 gennaio
2001.
129
TAR Lombardia sent. n. 404 del 9 febbraio 2001
SENTENZA
sul ricorso n. 110 del 2001, proposto da […], rappresentata e difesa dall’avv.to Bruno Mazzi ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avv. R. Frau, in Brescia, via Armando Diaz n. 9;
CONTRO
il QUESTORE di ROMA, costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso,
ex lege, dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato, presso i cui ufficii, in
Brescia, Via S. Caterina n. 6, è ope legis domiciliato,
PER L’ANNULLAMENTO,
previa sospensione,
“del provvedimento emesso e notificato in data 07.11.2000 con il quale il
Questore di Roma … Decreta il rifiuto del permesso di soggiorno per asilo politico ai sensi della Convenzione di Ginevra del 28.7.1951” (così, testualmente, l’epigrafe del ricorso).
…....…
PREMESSO che, in sede di decisione collegiale sulla istanza cautelare,
la Sezione, accertata la completezza del contraddittòrio e dell’istruttòria
e ritenuta la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 21, comma 10, della legge n. 1034 del 1971, ha deciso, sentite sul punto le parti costituite,
di definire il giudizio nel mérito, a norma dell’art. 26 della stessa legge;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
FATTO e DIRITTO
– Il ricorso in esame è rivolto all’annullamento, previa sospensione, del decreto di “rifiuto del permesso di soggiorno per asilo politico ai
sensi della Convenzione di Ginevra del 28.7.1951” (così il provvedimento impugnato).
Con il rifiuto impugnato il Questore, una volta preso atto della “decisione della Commissione Centrale per il Riconoscimento dello Status di
rifugiato di non riconoscere al predetto straniero lo status di rifugiato”, fa applicazione degli articoli 4 e 5 del D.P.R. 15 maggio 1990, n. 136
(più che dell’art. 12, commi 1 e 2, del D. Lgs. n. 286/98, che, espressamente indicato nel provvedimento stesso, reca invece norme incriminatrici in materia di immigrazione).
Avverso tale provvedimento la ricorrente deduce i vizi di violazione di legge ed eccesso di potere, ritenendo necessario che le sia consentito “di accedere all’udienza di comparizione avanti la Commissione
130
Centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato” (pag. 5 ric.); fa altresì presente di aver impugnato il provvedimento della Commissione
Centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato avanti il Tribunale
Ordinario di Mantova.
Si è costituita, per l’Amministrazione intimata, l’Avvocatura
Distrettuale dello Stato, la quale, con formule di mero stile, chiede il rigetto del ricorso.
– Il gravame risulta fondato, in quanto:
il provvedimento impugnato trova il suo unico, relativo, presupposto nel mancato riconoscimento, da parte della Commissione centrale
di cui all’art. 2 del D.P.R. 15 maggio 1990, n. 136, dello status di rifugiato;
ai sensi dell’art. 3 del d.P.R. 15 maggio 1990, n. 136, colui il quale richieda il riconoscimento dello status di rifugiato vanta un diritto ad essere ascoltato dall’Amministrazione (v. Cons. St., IV, 10 marzo 1998, n. 400);
la stessa Amministrazione ha espressamente previsto, nel provvedimento di non riconoscimento, “il riesame … in espletamento della sua
facoltà di autotutela” della richiesta di riconoscimento, all’esito dell’esercizio del citato diritto di audizione, “in caso di successivo reperimento
del richiedente asilo”;
la ricorrente ha fornito all’Amministrazione medesima, tanto in sede di ricorso all’autorità giurisdizionale ordinaria (nella cui giurisdizione rientrano oggi le controversie riguardanti il riconoscimento della posizione di rifugiato: Cass. Civ., sez. un., 17 dicembre 1999, n. 907), quanto col ricorso all’esame, elementi più che sufficienti a far ritenere cessato
il precedente stato di irreperibilità, sì che l’Amministrazione dovrà nuovamente esercitare tutti i poteri istruttorii, che le competono in ordine alla domanda di riconoscimento dello status predetto;
il conseguente obbligo di riapertura di tale procedimento fa venir
meno i presupposti, sui quali si fonda l’impugnato provvedimento del
Questore di Roma.
2. - Alla luce delle considerazioni esposte, il Collegio ritiene che il
ricorso sia da accogliere.
Ne consegue l’obbligo, per il Questore di Roma, di rilasciare alla richiedente un permesso di soggiorno valido sino alla definizione della
nuova procedura (ex art. 1, comma 2, del D.P.R. 15 maggio 1990, n. 136).
3. - Le spese processuali possono essere integralmente compensate
tra le parti, sussistendone giusti motivi.
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia - Sezione
staccata di Brescia – definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe – lo accoglie e, per l’effetto, annulla il provvedimento impugnato.
131
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dalla Autorità
Amministrativa.
Così deciso in Brescia, il 9 febbraio 2001, dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, in Camera di Consiglio.
◆
considerando che l’amministrazione ha adottato i provvedimenti
di trasferimento il 3 novembre 2000 senza menzionare l’art. 9 cit. e la
condizione ivi prevista, richiamando in entrambi gli atti l’art. 5.4 della
Convenzione di Dublino e nel convincimento che non fossero di ostacolo ragioni di unità familiare;
ritenuto che il ricorso sia fondato e che sussistano, tuttavia, giusti
motivi per dichiarare compensate tra le parti le spese del giudizio;
P.Q.M.
TAR Lombardia - sez. I sent. n. 2166 del 7/14.3.2001
Su ricorso n. 156/2001 proposto da [...] contro la questura di
Milano, il Ministero dell’interno, costituitisi in giudizio, [...] per l’annullamento dei provvedirnenti n. 37198 e 37201 del 3.11.2000 con i quali è
stato disposto il trasferimento dei ricorrenti in Francia per l’esame della
domanda di asilo;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, accoglie il
ricorso e annulla i provvedimenti impugnati. Spese compensate.
◆
TAR Lazio del 31 maggio 2001
FATTO E DIRITTO
SENTENZA
Considerato che i ricorrenti hanno impugnato i provvedimenti con
i quali è stato disposto il loro trasferimento in Francia per l’esame della
domanda di asilo;
considerato che, per quanto concerne la posizione del ricorrente, la
domanda d’asilo, presentata in Italia il 6 marzo 2000 allorché il visto rilasciato dalle autorità francesi era scaduto a meno di sei mesi, rientrerebbe nella competenza dello Stato francese ai sensi dell’art. 5.4 della
Convenzione di Dublino, ratificata con legge 23 dicembre 1992, n. 523 e
in tal senso si è pronunciato il Ministero dell’interno francese con nota
del 1º agosto 2000;
considerato che, per quanto concerne le posizioni della moglie del
ricorrente e del figlio minorenne, la domanda d’asilo risulta presentata in
Italia il 6 marzo 2000 allorché il visto rilasciato dalle autorità francesi e
valido fino al 24 agosto 1999 era scaduto da più di sei mesi, onde non
trova applicazione il criterio sopra indicato, sicché il Ministero dell’interno francese, tenuto conto della precedente accettazione e della giovanissima età del figlio, ha accettato con nota del 20 ottobre 2000 di prendere
in carico la domanda a titolo umanitario, richiamando l’art. 9 della
Convenzione, secondo cui “ogni Stato membro, anche se non competente per l’esame in base ai criteri previsti nella presente Convenzione, può
esaminare per motivi umanitari, in particolare di carattere familiare o
culturale, una domanda di asilo a richiesta di un altro Stato membro, a
condizione tuttavia che il richiedente l’asilo lo desideri”;
sui ricorsi n. 5557/2001 e 5556/2001 proposti dai sigg. […] e […] , rappresentati e difesi dall’avv. […] ed elettivamente domiciliati presso lo
studio dello stesso in […];
132
CONTRO
la Questura di Roma, in persona del Questore p.t., rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato e domiciliata presso gli
Uffici della stessa in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
per l’annullamento
del silenzio rifiuto formatosi sulle istanze di rilascio di permesso di soggiorno avanzate il 14 e 17 novembre 2000 alla Questura di Roma, Ufficio
Stranieri, a seguito di diffida e messa in mora notificata il 16 febbraio 2001;
…omissis…
Ritenuto e considerato in fatto ed in diritto quanto segue:
FATTO E DIRITTO
I due ricorsi devono essere riuniti per evidente connessione.
I ricorrenti coniugi provenienti dalla Repubblica del Congo, dopo
alterne e dolorose vicende, sono giunti in Italia ed hanno presentato domanda di riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della
Convenzione di Ginevra del 28/7/1951.
133
Con provvedimento del 24/2/2000 la Commissione centrale ha loro negato il riconoscimento ed, a seguito del diniego, la Questura di
Roma ha rifiutato loro il permesso di soggiorno “per motivi di asilo politico”.
Avverso tali provvedimenti sono stati presentati ricorsi al Tribunale
amministrativo regionale del Lazio, che con separate, ma conformi ordinanze n. 6635 e 6636 in data 27 luglio 2000 ha accolto le istanze di sospensione dei provvedimenti, ai fini di un riesame “ tenuto conto che
l’atto presupposto era ancora impugnabile al momento di adozione del
provvedimento e che i ricorrenti avevano provveduto a notificare atto di
citazione al competente tribunale di Roma avverso il diniego di status”.
In effetti con atto di citazione notificato il 23/6/2000 gli interessati
hanno convenuto in giudizio davanti al tribunale Civile di Roma il
Ministero dell’interno e la Commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato al fine di veder riconosciuto il loro diritto di asilo politico.
Contestualmente gli interessati, richiamando tra l’altro le ordinanze cautelari, hanno chiesto alla Questura il rilascio del permesso di soggiorno valido anche per motivi di lavoro.
Formalizzato il rifiuto a provvedere con la procedura del silenzio,
previa regolare diffida, trascorsi trenta giorni, i ricorrenti, attraverso l’impugnazione chiedono che il Tribunale accerti l’illegittimità del comportamento omissivo e deducono il motivo di violazione dell’art. 5 comma 9
del D.Lgs. 286/98, nonché la mancanza di motivazione.
L’amministrazione si è costituita nei giudizi con formula di rito.
Osserva il collegio che la pretesa volta ad ottenere una decisione
sull’istanza di permesso di soggiorno per ragioni di lavoro è fondata.
Deve infatti essere precisato che i ricorrenti non sono entrati in
Italia clandestinamente, avendo tempestivamente attivato la procedura
volta ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato, né allo stato
vi soggiornano illegalmente, sia perché è tuttora sub iudice il provvedimento di diniego di tale status, il cui accertamento, stante il mutamento
della giurisdizione non è più sottoposto a termine di decadenza ma alla
normale prescrizione, sia perché, seppure interinalmente, è sospesa l’efficacia del provvedimento di rifiuto di permesso di soggiorno per asilo
politico.
Ne deriva che, a parte ogni considerazione sulla facoltà degli interessati di chiedere l’esecuzione delle ordinanze, l’amministrazione era tenuta ad esaminare le istanze per le seguenti considerazioni.
È pacifico che il particolare tipo di permesso di soggiorno temporaneo previsto dall’art. 1, comma 5 della legge n. 39/90 e dall’art. 1 del
regolamento di cui al DPR 15 maggio 1990, n. 136 è valido fino alla definizione della procedura e che per “definizione della procedura” deve intendersi la conclusione del procedimento amministrativo.
È altrettanto pacifico, tuttavia, che il richiedente, al quale non sia ri134
conosciuto dalla Commissione centrale lo status di rifugiato, deve lasciare il territorio dello Stato solo se non gli possa essere concesso “un permesso di soggiorno ad altro titolo” (art. 5 del regolamento cit.).
L’art. 5 del D.Lgs. n. 286/98, al quinto comma prevede, d’altro canto, che il permesso di soggiorno, ed il suo rinnovo, sono rifiutati quando
mancano, o vengono a mancare i requisiti richiesti per l’ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato e sempre che non siano sopraggiunti
nuovi elementi che ne consentano il rilascio, o che non si tratti di irregolarità amministrative sanabili.
Ne deriva che l’amministrazione aveva il dovere di esaminare l’istanza dei ricorrenti, di valutare la serietà della loro richiesta di permesso di soggiorno per lavoro, in relazione alle proposte ed alle offerte ricevute dagli stessi, documentate o documentabili, nonché di rilasciare, in
presenza dei presupposti, il documento abilitativo, al di fuori dei flussi
annuali, posto che nella specie si verte in ipotesi di rinnovo, stante la
preesistenza di un titolo di soggiorno, seppure rilasciato in base a diversi presupposti e tuttora sub iudice.
Il dovere di provvedere è rafforzato dalla considerazione che, in
base all’art. 13, comma 2 lett. b) dello stesso decreto legislativo, la pendenza della domanda di rinnovo preclude l’espulsione.
La norma, infatti, impone tra l’altro l’espulsione allo straniero che
si sia trattenuto nel territorio dello Stato, solo quando il permesso di soggiorno sia scaduto da più di sessanta giorni e non ne sia stato richiesto il
rinnovo.
Tale termine nella specie decorre dalla data dell’ordinanza di sospensione degli effetti del diniego di permesso per asilo (27/7/2000), sicché la richiesta di rinnovo è stata presentata nei termini (atto notificato il
17/11/2000).
L’interpretazione coordinata delle norme ha una sua logica, ove si
consideri che i ricorrenti, se hanno ottenuto la sospensione dell’espulsione in sede civile, possono non lasciare il territorio italiano fino alla conclusione del processo, ma ove non si accedesse all’interpretazione fatta
propria dal Collegio, non avrebbero alcuna possibilità di provvedere lecitamente ai propri bisogni, attraverso lo svolgimento di un regolare lavoro, a causa della mancanza del relativo permesso di soggiorno, con
violazione dei principi costituzionali vigenti in materia.
Nulla vieta dunque ai ricorrenti, ove ne abbiano i requisiti, di richiedere un permesso di soggiorno per lavoro, a prescindere dalla diversa vicenda relativa al riconoscimento dello status di rifugiato, documentando però l’esistenza dei presupposti richiesti a regime per il rilascio del provvedimento ( cfr. art. 5 D.P.R. 15 maggio 1990, n. 136).
Il ricorso deve essere dunque accolto.
Le spese di giustizia possono, peraltro, essere compensate per ragioni di equità.
135
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio Iª sezione ter, accoglie il ricorso in epigrafe e per l’effetto ordina all’Amministrazione
convenuta di provvedere entro il termine di trenta giorni dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza o dalla notificazione a cura delle parti se anteriore, riservandosi il potere di nominare un
commissario in caso di inadempienza ai sensi dell’art. 21bis comma 2
della legge 1034/1971, inserito dall’art. 2 legge 205/2000.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
◆
TAR Emilia Romagna, sent. n. 403 del 1 marzo 2002 n. 403 - rel.
Calderoni
Sul ricorso n. 1024/2001. proposto da[...], rappresentato e difeso
dall’avv. [...], contro la questura di Bologna ed il Ministero dell’interno,
[...] per l’annullamento del decreto del questore di Bologna 7.4.2001, di
rigetto della domanda di rilascio dei permesso di soggiorno per richiesta
asilo; [...]; ritenuto e considerato quanto segue:
FATTO
I. Il ricorrente, cittadino eritreo e domiciliato in Bologna, espone di
aver richiesto, nell’aprile 2001, al questore di Bologna il rilascio del permesso di soggiorno temporaneo per richiesta asilo. Impugnando il diniego in epigrafe, egli deduce che, ai sensi dell’art. 1 co. 5 legge n.
39/1990, il rilascio del permesso di soggiorno temporaneo, ivi previsto,
sarebbe “questione materialmente e sistematicamente collegata rispetto
al luogo di elezione del domicilio” e che, comunque, la questione della
competenza territoriale a ricevere la domanda di asilo sarebbe da tempo
superata dalla giurisprudenza del Consiglio di stato, “nel senso che questa non dovrebbe necessariamente essere presentata al posto di frontiera
da cui lo straniero richiedente fa ingresso”.
2. Con ordinanza 26.7.2001, n. 633, questa sezione ha rigettato –
non ravvisando il necessario presupposto del danno grave ed irreparabile – la domanda incidentale di sospensione proposta dal ricorrente.
3. L’amministrazione intimata si è successivamente costituita in
giudizio con atto formale.
136
4. In vista del passaggio in decisione della causa, il ricorrente ha dimesso memoria conclusiva, in cui, per una parte, si rubricano, sotto apposito vizio di violazione di legge, le deduzioni svolte nel ricorso introduttivo; e per la restante parte si allegano nuove argomentazioni in ordine al difetto di motivazione che affliggerebbe il provvedimento impugnato. A sua volta, la difesa erariale ha prodotto copia della relazione illustrativa d’ufficio, redatta il 9.8.2001 dalla questura di Bologna.
5. All’odierna udienza di discussione, i difensori delle parti hanno
esposto oralmente le rispettive tesi.
DIRITTO
l. L’impugnato diniego è motivato con richiamo all’art. 1, co. 3 e 5
legge n. 30/1990 e nell’assunto dell’incompetenza territoriale dell’ufficio
procedente: lo stesso questore di Bologna esplicita, poi, nella menzionata relazione illustrativa 9.8.2001, che “l’eccezione di incompetenza sollevata dallo scrivente è evidentemente una questione preliminare, di rito e
non di merito”.
2. Il Collegio osserva che su queste stesse tematiche si è recentemente pronunciata la IV sezione del Consiglio di Stato (17/7/2000, n.
3965), ribadendo l’avviso espresso in precedenza (n. 149 del 6.3.1995).
Anche nella controversia decisa con la sentenza n. 3965/2000, l’amministrazione assumeva che la disposizione di cui all’art. 1 co. 5 della legge
n. 39 del 1990 imporrebbe, a pena di decadenza, che la domanda di riconoscimento dello stato di rifugiato sia presentata direttamente all’ufficio
di polizia di frontiera.
Ma il giudice amministrativo di appello non ha condiviso tale interpretazione ed ha, viceversa, enunciato i seguenti principi:
a) la presentazione, da parte dello straniero, della domanda di
asilo politico conferisce al richiedente, ai sensi dell’art. 1 co. 5 della legge n. 39 del 1990, il titolo a ottenere un permesso di soggiorno temporaneo, fino alla definizione della procedura di riconoscimento dello stato di
rifugiato;
b) la disposizione dell’art. 1, concernente il procedimento per lo
stato di rifugiato, assume carattere particolare rispetto alla disciplina generale dell’art. 4, che regola il rilascio del permesso di soggiorno dei cittadini extracomunitari;
c) le due discipline sono, pertanto, alternative e non è ipotizzabile riferire la normativa, posta dall’art. 4, ai casi in cui si controversa
dell’espulsione di stranieri che, abbiano chiesto il riconoscimento dello
stato di rifugiato;
d) la legge n. 39 e il regolamento di attuazione emanato con
d.p.r. 15.5.1990 n. 136 stabiliscono che, sulla domanda di riconoscimento
dello stato di rifugiato, si pronunci un’apposita Commissione, denomi137
nata Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato, alla quale le istanze vanno trasmesse;
e) tale Commissione ha, dunque, la competenza esclusiva a valutare le domande di riconoscimento dello stato di rifugiato, anche quanto alla sussistenza o alla eventuale insussistenza dei relativi presupposti;
f) spetta, pertanto, esclusivamente alla predetta Commissione
valutare se l’art. 1 co. 3 della legge n. 39 del 1990, nel prescrivere che la
domanda sia presentata all’ufficio di polizia di frontiera, delinei implicitamente un onere da osservare a pena di decadenza dalla possibilità stessa di proporre la domanda in un altro termine; e considerare, nella attività di interpretazione della norma insita nell’esercizio della funzione
amministrativa, la compatibilità delle soluzioni interpretative possibili
con il canone costituzionale della ragionevolezza della legge e della sua
conformità all’ordinamento internazionale;
g) non può, invece, ritenersi che le connesse questioni di rito
(come, in quella fattispecie, la supposta tardività della domanda; in questa: l’eccepita incompetenza territoriale dell’autorità ricevente) possano,
implicitamente, essere valutate dal prefetto o dal questore, il quale in
tanto può emanare un decreto di espulsione (ovvero, soggiunge questo
Collegio, di diniego di permesso di soggiorno), in quanto non vi sia affatto presentazione della domanda di riconoscimento dello stato di rifugiato e sussista la violazione degli altri obblighi in materia di ingresso e
soggiorno posti agli stranieri.
4. il ricorso va, pertanto, accolto ed il provvedimento in epigrafe va
annullato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in complessivi € 2.000 (duemila euro).
3. Il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi dall’orientamento
che la citata decisione n. 3965/2000 ha contribuito a consolidare in seno
al Consiglio di Stato, per cui deve, anche nella specie, disattendere l’opzione interpretativa sostenuta dalla amministrazione e ritenere, viceversa, preferibile la prospettazione difensiva del ricorrente che, nel ricorso
introduttivo, si richiama proprio alla giurisprudenza del giudice amministrativo d’appello, per mettere in luce come la domanda di asilo non
debba essere necessariamente presentata al posto di frontiera da cui lo
straniero fa ingresso e come appaia più razionale che sia il questore del
luogo, ove lo straniero dimora, ad occuparsi delle questioni attinenti al
suo permesso di soggiorno.
In definitiva ed in applicazione dei suesposti principi elaborati dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, deve concludersi che il questore di Bologna non poteva legittimamente negare il rilascio del permesso
temporaneo di soggiorno “per richiesta asilo”, adducendo esclusive ragioni di propria incompetenza territoriale, poiché, per un verso, la valutazione delle stesse spetta all’apposita Commissione centrale (cfr. lett.
“e” del precedente punto 2) e, per l’altro, la semplice presentazione della domanda di asilo politico conferisce allo straniero il titolo per ottenere l’anzidetto speciale permesso (cfr. lett. “a” del medesimo punto).
MINISTERO DELL’INTERNO - ROMA
QUESTORE DI LECCE
138
P.Q.M.
il tribunale amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna, sez. I,
accoglie il ricorso in premessa ed annulla il decreto impugnato.
Condanna il Ministero dell’interno a rifondere al ricorrente le spese di lite, nella misura indicata in motivazione.
◆
TAR Puglia sent. n. 722 del 20 marzo 2002
ORDINANZA
nella Camera di Consiglio del 20 Marzo 2002
visto il ricorso 722/2002 proposto da:
[…] ED ALTRI 51
CONTRO
per l’annullamento, previa sospensione dell’esecuzione,
dei quattro decreti cumulativi di respingimento con accompagnamento
alla frontiera emanati nei confronti dei ricorrenti, con i quali è stato disposto l’accompagnamento forzato dei medesimi in Turchia, attraverso
la frontiera di Roma-Fiumicino, emessi nei loro confronti dalla Questura
di Lecce in data 16.2.02 e di tutti gli atti connessi presupposti e consequenziali;
…....…
Ritenuto che con i decreti di cui in epigrafe, emessi cumulativamente nei confronti dei ricorrenti, sul presupposto del mancato riconoscimento in loro favore dello status di rifugiati da parte della
Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato,
è stato disposto dal Questore di Lecce per il respingimento dei medesimi in Turchia, con accompagnamento alla frontiera di Roma-Fiumicino;
Ritenuto che dei provvedimenti presupposti, di mancato riconoscimento dello status di rifugiato, emessi dalla Commissione centrale il
139
13-14 febbraio 2002, è stata tentata la notificazione ai ricorrenti, mediante consegna ai medesimi dei relativi decreti, redatti solo in lingua italiana, notifica come tale non accettata;
Ritenuto che in forza dell’art. 3 del D.P.R. 136/90 va ritenuto che il
provvedimento della Commissione, che riconosce o nega lo status di rifugiato, deve essere tradotto nella lingua madre, o in altra lingua nota al
richiedente;
Rilevato che dagli atti emerge che si tratta di cittadini turchi di etnia curda, che sono stati oggetto di attività persecutorie e di vere e proprie torture da parte degli organi di polizia del loro paese di origine, come emerge dalle dichiarazioni rese dai medesimi agli operatori del
Consiglio Italiano per i Rifugiati, comprovate da certificati medici redatti da sanitari italiani del Centro di Accoglienza e da documentazione fotografica circa i postumi del loro assoggettamento a pratiche di tortura o
comunque contrarie al senso di umanità;
Rilevato che gli organi della Polizia Italiana, che hanno decretato il
respingimento dei ricorrenti nel loro Paese d’origine, non hanno prodotto alcuna documentazione idonea a contrastare gli esiti univoci delle acquisizioni probatorie di cui sopra;
Ritenuto pertanto che emerge la necessità della piena tutela dei
predetti cittadini stranieri, ai quali deve ritenersi non siano riconosciuti,
nella loro patria, i diritti fondamentali della persona umana;
Ritenuto che tale necessità emerge, altresì, dal rispetto degli obblighi internazionali, cui l’Italia è tenuta in virtù delle norme costituzionali
nonché per effetto della ratifica della Convenzione di Ginevra sui rifugiati;
Richiamato l’art. 19 del D.Lgs. 286/98, secondo cui nessun caso
può disporsi il respingimento dello straniero verso uno Stato in cui lo
stesso possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso,
di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali;
Rilevato che ai sensi dell’art. 1 co. 2º D.P.R. 136/90 la Questura, ricevuta l’istanza volta al riconoscimento dello status di rifugiato ed inviata la documentazione istruttoria alla Commissione centrale per il riconoscimento del relativo status, è tenuta a rilasciare al richiedente un
permesso di soggiorno temporaneo valido sino alla definizione della
procedura;
Ritenuto che la procedura di riconoscimento dello status di rifugiato può considerarsi conclusa solo dopo esaurite, nelle giuste forme, le
procedure amministrative ed eventualmente i rimedi giurisdizionali relativi e che, fino a tale conclusione i richiedenti hanno titolo a soggiorno
temporaneo nel nostro Paese;
Visto che nei confronti dei ricorrenti non è stato avanzato alcun sospetto di essere autori di crimini in Patria o altrove;
140
Visti gli artt. 19 e 21, della Legge 6 Dicembre 1971, n. 1034, e l’art.
36 del R.D. 17 agosto 1907, n. 642;
Ritenuto che sussistono i presupposti previsti dal citato art. 21;
P.Q.M.
accoglie la suindicata domanda incidentale di sospensione e per
l’effetto sospende i provvedimenti impugnati;
dispone il rilascio in favore dei ricorrenti dei permessi di soggiorno temporaneo in Italia, da valere sino alla definizione delle procedure
amministrative ed eventualmente dei rimedi giurisdizionali concernenti
la loro richiesta di riconoscimento dello status di rifugiati.
◆
Corte di Cassazione Sez. I Civile, sent. n. 5055 del 09 aprile 2002
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
[…], domiciliato in Roma presso la cancelleria della Corte di Cassazione e rappresentato e difeso, per procura speciale a margine del ricorso, dall’avv. […]
– ricorrente –
CONTRO
PREFETTO di MACERATA - Ministero dell’Intemo
– intimati –
avverso il decreto in data 5.2.2001 del Tribunale di Macerata.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
6.03.2002 dal Relatore […]. Udito il P.M., in persona del Sostituto
Procuratore Generale […] che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con decreto in data 15.1.2001 il Prefetto di Macerata disponeva
l’espulsione dal territorio nazionale del cittadino rumeno (...) ai sensi
dell’art. 13 dei D. Leg. 28/98 per essersi introdotto in Italia, il
28.12.2000, con sottrazione ai controlli di frontiera. Impugnato il provvedimento, l’adito Tribunale di Macerata con decreto 5.2.2001 rigettava
il ricorso sull’assunto della piena legittimità dell’espulsione anche per
141
inesistenza di alcun divieto di respingimento ai sensi dell’art. 19 dei
D.Leg. 286/98 difettando la prova dell’esposizione dell’espulso a persecuzioni di sorta. Per la cassazione di tale decreto il (...) ha proposto ricorso notificando l’atto al Prefetto il 30.3.01. L’Amministrazione intimata non ha espletato difese.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso, infondato, deve essere respinto.
Nell’unico motivo il (...) denunzia violazione dell’art. 19 del T.U.
approvato con D.Leg. 286/98 perché il Tribunale, anziché limitarsi a constatare l’avvenuta presentazione di domanda di asilo – dalla quale sarebbe derivato il divieto di espulsione – aveva affrontato, con errata valutazione di merito, la questione della esistenza di una persecuzione a
suo danno.
La doglianza è infondata, avendo il Tribunale di Macerata correttamente respinto l’impugnazione del decreto espulsivo se pur dispiegando
motivazione che deve, come appresso, essere corretta.
1. È noto che, in coerenza con il dettato dell’art. 10 comma 3 della
Costituzione, il T. U. sulla disciplina dell’immigrazione e sulla condizione giuridica dello straniero approvato con D. Leg. 286/98, interamente
recependo le previsioni della L. 40/98, ha inteso escludere l’esercizio dei
poteri di respingimento ed espulsione degli stranieri che versino nelle
condizioni “... previste dalle disposizioni vigenti che disciplinano l’asilo
politico, il riconoscimento dello status di rifugiato, ovvero l’adozione di
misure di protezione temporanea per motivi umanitari” (art 10 comma 4
T.U.), in nessun caso essendo consentita una misura che importi il rinvio
del respinto o dell’espulso verso uno Stato che lo esponga a persecuzione in ragione delle sue condizioni personali e delle sue idee (art. 19 comma 1 T.U.).
2. Venendo alla condizione ostativa alla espulsione, costituita dallo status di rifugiato (che il [...] afferma essere stato richiesto alla competente Commissione), e rammentato che essa differisce, da quella dell’avente diritto all’asilo ex art. 10 comma 3º Cost. in ragione della esigenza
di accertare l’ulteriore requisito del pericolo di persecuzione (cfr. S.U.
907/99), va rilevato che il riconoscimento dello status in discorso tuttora
si consegue attraverso la procedura di cui all’art. 1 comma 5 del D.L.
416/89 conv. in L. 28.2.90 n. 39 (norma non abrogata dall’art. 47 del
D.Leg. 286/98, che, alla lett. E ha invece abrogato gli artt. 2 e seguenti del
citato D.L.). Ebbene, in base alla conservata disposizione lo straniero deve presentare all’Ufficio di Polizia istanza motivata e sulla sua base “il
Questore... rilascia, dietro, richiesta, un pemesso di soggiorno temporaneo valido fino alla definizione della procedura di riconoscimento.” Il regolamento di attuazione del T.U., approvato con DPR 31.8.99 n. 394, di142
sciplina poi (artt. 27 e 28) le modalità attraverso le quali avviene il rilascio del permesso di soggiorno.
3. Tutti i provvedimenti assunti al proposito, e con particolare riguardo a rifugiato (proprio della vicenda qui in esame), non possono che
avere natura dichiarativa-accertativa avendo essi ad oggetto il riconoscimento di un diritto soggettivo, con la conseguenza per la quale – come
affermato dalla più volte richiamata pronunzia 907/99 delle S.U. – le
controversie relative al diniego di tale riconoscimento ed al permesso di
soggiorno ad esso strumentale rientrano nella giurisdizione dell’autorità
giudiziaria ordinaria.
4. In tal quadro è chiaro che il divieto di espulsione, e l’illegittimità del decreto del Prefetto che abbia ad essa provveduto, sono conseguenza, nel caso dello straniero che deduca le condizioni per poter
beneficiare dello status di rifugiato, della presentazione della motivata
istanza all’Ufficio di Polizia e della correlata richiesta di fruire di permesso di soggiorno temporaneo in pendenza della relativa procedura
di riconoscimento, da un canto restando escluso il rilievo delle mere affermazioni dell’interessato di trovarsi nelle condizioni per un esito favorevole della procedura e, dall’altro canto, ben potendo il Giudice ordinario, adito in opposizione al decreto di espulsione, annullarlo in ragione della documentata pendenza della procedura e dell’ingiustificato
diniego del (o ritardo nella concessione del) permesso temporaneo da
parte del Questore.
5. Altro è, di contro, l’istituto del divieto di respingimento od
espulsione (art. 19 D.Leg. 286/98) in base al quale in nessun caso l’espulso può essere inviato in uno Stato nel quale egli può patire persecuzioni: si tratta di una misura di protezione umanitaria ed a carattere negativo che non conferisce, di per sé, al beneficiario alcun titolo di soggiorno in Italia ma solo il diritto a non vedersi reimmesso in un contesto
di elevato rischio personale. E sarà il Giudice a valutare in concreto la
sussistenza delle allegate condizioni ostative alla espulsione od al respingimento.
In base agli esposti principi è dunque evidente che – essendo
mancata e tuttora mancando da parte del (...)anche la prova (o tampoco la semplice allegazione) di aver presentato istanza di concessione del
permesso di soggiorno in pendenza di domanda di riconoscimento dello status
di rifugiato nessun ostacolo alla espulsione sarebbe stato costituito alla
sola proposizione della domanda stessa. E di converso, è altrettanto
evidente che, a contestare le valutazioni di fatto operate dal primo
Giudice sulla insussistenza delle condizioni di persecuzioni ostative al
respingimento ex art. 19 cit. non vale in alcun modo addurre il menzionato fatto” della proposizione di domanda di asilo, dovendo soltanto essere espressa dal Giudice di merito. Ed il ricorso di tali censure
non fa uso in alcun modo.
143
Corretta la motivazione nei sensi sopra indicati e respinto il ricorso, non è luogo a provvedere sulle spese in difetto di difese dell’intimata Autorità.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso.
◆
Consiglio di Stato Sez. IV sent. n. 5735 del 7 maggio 2002
DECISIONE
sul ricorso in appello n. 4768 del 1993 proposto dal Ministero
dell’Interno, in persona del Ministro in carica, e dalla Questura di Roma,
in persona del Questore in carica, rappresentati e difesi dall’Avvocatura
Generale dello Stato, presso i cui uffici sono ex-lege domiciliati in Roma,
via dei Portoghesi, n. 12;
CONTRO
il sig. […], non costituito;
per l’annullamento e/o la riforma
della sentenza n. 831 del 2 giugno 1992 resa inter partes dal
Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Sezione prima sul ricorso
iscritto nel registro generale di quel Tribunale al n. 4189 del 1990;
…omissis…..
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
FATTO
Con la decisione in epigrafe il Tribunale Amministrativo Regionale
del Lazio ha accolto il ricorso proposto in quella sede dal sig. […] avverso il provvedimento con il quale la Questura di Roma aveva respinto l’istanza di riconoscimento dello status di rifugiato dallo stesso avanzata ai
sensi dell’art. 1, comma 5, della L. 28 febbraio 1990, n. 39 perché presentata alla Questura invece che all’ufficio di polizia di frontiera.
L’Amministrazione dell’Interno, con atto notificato il 25 giugno
1993, appella la detta decisione perché erronea. Dopo aver ricordato che
la disposizione di cui all’art. 10 Cost. ha natura programmatica (così che
non deriva da essa un diritto soggettivo dello straniero ad ottenere il det144
to riconoscimento) che deve trovare specifica disciplina nella legge ordinaria, la difesa erariale osserva che la previsione del quinto comma della legge n. 39 del 1990, subordina, a pena di decadenza, la presentazione
dell’istanza agli uffici della polizia di frontiera, come si evince dall’uso
del termine “deve”; sono poi previsti gli adempimenti che quegli uffici
devono porre in essere una volta ricevuta l’istanza.
D’altra parte la procedura ivi prevista è giustificata da serie di ragioni di ordine pubblico e finalizzata ad un ordinato afflusso degli stranieri nel territorio nazionale anche per consentire l’effettività dell’esercizio delle potestà previste dalla legge del 1990.
Le Amministrazioni appellanti concludono chiedendo l’annullamento della decisione impugnata.
Non risulta costituito il sig. […].
Alla pubblica udienza del 7 maggio 2002, su richiesta della difesa
erariale, la controversia è stata spedita in decisione.
DIRITTO
1. Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio ha accolto il ricorso sotto il profilo assorbente dell’incompetenza, sia dell’Ufficio di polizia di frontiera sia della Questura, a decidere sulla domanda ammissione alla procedura di riconoscimento dello status di rifugiato presentata
dallo straniero, nonché sul rilievo che la specifica normativa non solo
commina decadenza alcuna nell’ipotesi di presentazione dell’istanza di
concessione del beneficio in questione direttamente alla Questura.
L’appellante Amministrazione si duole della statuizione del T.A.R.,
assumendo che la disposizione di cui all’art. 1 comma 5 della legge n. 39
del 1990 impone, a pena di decadenza, che la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato (o di asilo politico) sia presentata direttamente all’Ufficio di polizia di frontiera, e aggiungendo che ciò non preclude
allo straniero di presentarsi nuovamente nel territorio nazionale, invocando il riconoscimento suddetto.
2. L’appello è infondato.
La questione è già stata affrontata dalla Sezione (tra le altre, cfr.
Cons. Stato, IV Sez., n. 149 del 6 marzo 1995; n. 3965 del 17 luglio 2000),
dalle cui conclusioni il Collegio non ha motivo per discostarsi.
La presentazione della domanda da parte dello straniero conferisce
al richiedente, ai sensi dell’art. 1 comma 5 della legge n. 39 del 1990, il titolo a ottenere un permesso di soggiorno temporaneo fino alla definizione della procedura di riconoscimento dello stato di rifugiato.
La disposizione dell’art. 1, concernente il procedimento per l’ammissione al predetto beneficio, assume carattere particolare rispetto alla
disciplina generale dell’art. 4, che regola il rilascio del permesso di soggiorno dei cittadini extracomunitari.
145
Le due discipline sono, pertanto, alternative e non è ipotizzabile riferire la normativa posta dall’art. 4 ai casi in cui si controverta dell’espulsione di stranieri che abbiano chiesto il riconoscimento dello stato di
rifugiato.
In punto di fatto, l’originario ricorrente, al suo ingresso in Italia,
non ha presentato istanza all’ufficio di polizia di frontiera, ma successivamente alla Questura.
Ora, come esattamente rilevato dal primo giudice, la legge n. 39 del
1990 ed il regolamento di attuazione emanato con D.P.R. 15 maggio 1990
n. 136 stabiliscono che sulla domanda di riconoscimento dello stato di rifugiato si pronunci un’apposita Commissione, denominata Commissione
centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato, alla quale le istanze vanno trasmesse.
Tale Commissione ha, dunque, la competenza esclusiva a valutare
le domande di riconoscimento dello stato di rifugiato, anche quanto alla
sussistenza o alla eventuale insussistenza dei relativi presupposti.
Spettava, pertanto, al predetto organo valutare, con riferimento alla fattispecie in esame, se l’art. 1, comma 5, della legge n. 39 del 1990, nel
prescrivere che la domanda sia presentata all’ufficio di polizia di frontiera, delinei implicitamente un onere da osservare a pena di decadenza
dalla possibilità stessa di proporre la domanda in un altro termine; e considerare, nella attività di interpretazione della norma insita nell’esercizio
della funzione amministrativa, la compatibilità delle soluzioni interpretative possibili con il canone costituzionale della ragionevolezza della
legge e della sua conformità all’ordinamento internazionale.
Non può, invece, ritenersi che la supposta tardività della domanda
possa, implicitamente, essere valutata dal Prefetto o dal Questore, il quale in tanto può emanare un decreto di espulsione in quanto non vi sia
semplice presentazione della domanda di riconoscimento dello stato di
rifugiato e sussista la violazione degli altri obblighi in materia di ingresso e soggiorno posti agli stranieri.
2. In conclusione, l’appello va respinto, con la conseguente conferma della statuizione impugnata e fatti salvi gli ulteriori provvedimenti
della competente Autorità amministrativa.
Nessuna pronuncia è adottata in ordine alle spese, non essendosi
costituito l’appellato.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione quarta, definitivamente pronunciando, respinge il ricorso indicato in epigrafe, per l’effetto, conferma la decisione impugnata.
Nulla per le spese.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.
146
Cassazione Civile Sez. I, sent. n. 8067 del 04 giugno 2002
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con decreto in data 6 novembre 2000 il Prefetto di Roma disponeva
l’espulsione dal territorio nazionale di (…) ai sensi dell’art. 13, comma 2
lett. A) del D.Lgs. n. 286/98 per essersi introdotto in Italia con sottrazione
ai controlli di frontiera. Impugnato il provvedimento, l’adìto Tribunale di
Roma con decreto 11 gennaio 2001 accoglieva il ricorso sull’assunto che,
avendo lo straniero presumibilmente presentato domanda di riconoscimento dello “status” di rifugiato, ed essendo conseguentemente in atto
l’istruttoria per l’accertamento di tale qualità ai fini del riconoscimento
dell’Asilo, non si sarebbe potuto adottare alcun provvedimento di espulsione. Per la cassazione di tale decreto il Prefetto di Roma, unitamente al
Ministro dell’Interno, ha proposto ricorso con atto notificato il 14 giugno
2001. L’intimato non si è costituito né ha svolto attività difensive.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La ricorrente Amministrazione denunzia la violazione dell’art. 13,
comma 2 lett. A D.Lgs. n. 286/98, dell’art. 1 L. n. 39/90, dell’art. 2697 c.c. e
dell’art. 115 c.p.c., per avere il Tribunale indebitamente accertato essere
pendente procedura di riconoscimento dello “status” di rifugiato politico sulla sola base dell’asserzione dello straniero e nell’assenza dagli atti
della necessaria prova documentale della proposizione della istanza.
La censura, fondata, deve essere accolta.
1) È noto che, in coerenza con il dettato dell’art. 10, comma 3 della
Costituzione, il T.U. sulla disciplina dell’immigrazione e sulla condizione
giuridica dello straniero approvato con D.Lgs. n. 286/98, interamente recependo le previsioni della L. n. 40/98, ha inteso escludere l’esercizio dei poteri di respingimento ed espulsione degli stranieri che versino nelle condizioni “... previste dalle disposizioni vigenti che disciplinano l’asilo politico,
il riconoscimento dello “status” di rifugiato, ovvero l’adozione di misure di
protezione temporanea per motivi umanitari” (art. 10, comma 4, T.U.), in
nessun caso essendo consentita una misura che importi il rinvio del respinto o dell’espulso verso uno Stato che lo esponga a persecuzione in ragione
delle sue condizioni personali e delle sue idee (art. 19, comma 1, T.U.).
2) Venendo alla condizione ostativa alla espulsione, costituita dallo
“status” di rifugiato (che il decreto impugnato afferma essere stato invocato espressamente dal (…)), e rammentato che essa differisce da quella
dell’avente diritto all’asilo ex art. 10, comma 3, Cost. in ragione della esigenza di accertare l’ulteriore requisito del pericolo di persecuzione (cfr.
S.U. 907/99), va rilevato – come esattamente rammentato dalla ricorrente Autorità amministrativa – che il riconoscimento dello “status” in discorso tuttora si consegue attraverso la procedura di cui all’art. 1 comma
147
5 del D.L. n. 416/89 conv. in L. 28 febbraio 1990 n. 39 (norma non abrogata dall’art. 47 del D.Lgs. n. 286/98, che, alla lett. E ha invece abrogato gli
artt. 2 e seguenti del citato D.L.). Ebbene, in base alla conservata disposizione lo straniero deve presentare all’Ufficio di Polizia istanza motivata e sulla sua base “Il Questore... rilascia, dietro richiesta, un permesso di
soggiorno temporaneo valido fino alla definizione della procedura di riconoscimento”. Il regolamento di attuazione del T.U., approvato con
D.P.R. 31 agosto 1999 n. 394, disciplina poi (artt. 27 e 28) le modalità attraverso le quali avviene il rilascio del permesso di soggiorno.
3) Tutti i provvedimenti assunti al proposito, e con particolare riguardo a quelli occorsi nell’ambito della procedura afferente l’invocato
“status” di rifugiato (proprio della vicenda qui in esame), non possono
che avere natura dichiarativa-accertativa avendo essi ad oggetto il riconoscimento di un diritto soggettivo, con la conseguenza per la quale –
come affermato dalla più volte richiamata pronunzia 907/99 delle S.U. –
le controversie relative al diniego di tale riconoscimento ed al permesso
di soggiorno ad esso strumentale rientrano nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria.
4) In tal quadro è chiaro che il divieto di espulsione, e l’illegittimità
del decreto del Prefetto che abbia ad essa provveduto, sono conseguenza, nel caso dello straniero che deduca le condizioni per poter beneficiare dello “status” di rifugiato (quale è quello invocato da (…) innanzi al
Tribunale di Roma), della presentazione della motivata istanza all’Ufficio
di Polizia e della correlata richiesta di fruire di permesso di soggiorno
temporaneo in pendenza della relativa procedura di riconoscimento, da
un canto restando escluso il rilievo delle mere affermazioni dell’interessato di trovarsi nelle condizioni per un esito favorevole della procedura
e, dall’altro canto, ben potendo il Giudice ordinario, adìto in opposizione al decreto di espulsione, annullarlo in ragione della documentata pendenza della procedura e dell’ingiustificato diniego del (o ritardo nella
concessione del) permesso temporaneo da parte del Questore.
5) E pertanto l’impugnato decreto – che si è sottratto all’osservanza del principio testé sintetizzato – deve essere cassato, incombendo al
Giudice del rinvio, che si designa nel Tribunale di Roma in persona di altro magistrato, effettuare l’accertamento indicato e procedere, all’esito,
alla cognizione della domanda di opposizione all’espulsione facendo uso
dei poteri propri della giurisdizione piena attribuitagli dalla legge, incomberà al Giudice del rinvio anche l’onere di regolare le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione, accoglie il ricorso; cassa il decreto impugnato e rinvia – anche per le spese – al Tribunale di Roma in persona di
altro magistrato.
148
4.
IL DINIEGO DELLO STATUS
DI RIFUGIATO:
MOTIVAZIONI RICORRENTI
O PARTICOLARMENTE RILEVANTI
La breve indagine che segue ha ad oggetto una casistica di
dinieghi dello status di rifugiato, ossia gli atti di rigetto della domanda di asilo politico emanati dalla Commissione Centrale per
il Riconoscimento dello Status di Rifugiato1. L’indagine prende
le mosse dall’analisi di 185 casi di domande di asilo rigettate,
venute a conoscenza del Centro Astalli e della Casa dei Diritti
Sociali - FOCUS tra gennaio 2000 e settembre 2003 a seguito delle richieste di assistenza rivolte a tali associazioni dai diretti interessati.
L’indagine non ha carattere statistico, non vengono infatti riportati i dati totali relativi ai casi seguiti né l’incidenza percen1
La competenza sul riconoscimento dello status di rifugiato è attribuita a
tale organo interministeriale dall’art. 1 della L. 39 del 28 febbraio 1990 (c.d. L.
Martelli) e dal relativo regolamento di attuazione (DPR n. 136 del 15 maggio 1990),
il quale stabilisce che “la Commissione Centrale è nominata con decreto del Presidente
del Consiglio dei Ministri, su proposta congiunta dei Ministri dell’Interno e degli Affari
Esteri. Essa è presieduta da un prefetto ed è composta da un funzionario dirigente in servizio presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, da un funzionario del Ministero degli Affari Esteri con qualifica non inferiore a consigliere di legazione, da due funzionari del
Ministero dell’Interno, di cui uno appartenente al Dipartimento della pubblica sicurezza
ed uno alla Direzione generale dei servizi civili, con qualifica non inferiore a primo dirigente o equiparata. Alle riunioni della Commissione partecipa, con funzioni consultive, un
rappresentante del Delegato in Italia dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati”. La L. 189 del 2002 (c.d. Legge Bossi-Fini) contiene alcuni articoli che, oltre
a prevedere la possibilità di trattenimento del richiedente asilo, modificano l’assetto della competenza rispetto alla procedura di riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra. Esse, in particolare, attribuiscono
tale ruolo a delle Commissioni Territoriali decentrate. Secondo l’articolo 1-quater,
aggiunto all’art. 1 della L. Martelli, tali Commissioni, “nominate con decreto del
Ministero dell’interno, sono presiedute da un funzionario della carriera prefettizia e composte da un funzionario della polizia di Stato, da un rappresentante dell’ente territoriale
designato dalla Conferenza Stato-città ed autonomie locali e da un rappresentante
dell’ACNUR”. Al momento della chiusura di tale pubblicazione tale procedura non
risulta ancora applicata, mancando il decreto attuativo delle nuove norme.
149
tuale dei dinieghi sul numero complessivo delle domande, in
quanto il campione in esame non ci sembrava idoneo a fornire
una proiezione attendibile dal punto di vista statistico.
L’intero gruppo dei casi esaminati, di cui alla tabella che segue, ci è parso tuttavia sufficientemente ampio per risultare indicativo rispetto alle motivazioni che più spesso hanno spinto gli
organi competenti a rigettare le domande di asilo. Nel prosieguo
del testo vengono infatti riportate testualmente le motivazioni più
ricorrenti, unitamente a quelle che, per i loro contenuti, sono sembrate particolarmente degne di nota. Rispetto ai provvedimenti di
riconoscimento non è risultato possibile operare un’indagine sulle motivazioni analoga a quella svolta sui dinieghi, non essendo
le stesse riportate sull’atto di riconoscimento notificato al richiedente in caso di esito positivo della domanda.
Dinieghi
Afghanistan
Albania
Angola
Bangladesh
Benin
Burkina Faso
Camerun
Congo Braz.
Colombia
Costa d’Avorio
Ecuador
Totale
Dinieghi
Totale
1
5
1
3
1
1
2
4
4
1
1
Eritrea
Etiopia
Ghana
Iran
Iraq
Jugoslavia
Libia
Moldavia
Nigeria
Pakistan
Palestina
14
13
10
5
1
6
2
3
11
1
2
Dinieghi
nº 722 e il relativo protocollo adottato a New York il 31 gennaio
1967, reso esecutivo con legge 14 febbraio 1970, nº 95) l’atto contenga la decisione, senza alcun riferimento, come si accennava, alla motivazione a supporto della stessa.
Gli altri due tipi di decisione della Commissione Centrale
(diniego “secco” e diniego con “raccomandazione” di protezione
umanitaria), contengono le medesime premesse ma anche una,
seppur succinta, motivazione della decisione.
Segue ai modelli di provvedimento la menzionata selezione
di motivazioni a supporto dei dinieghi. Per facilitare la lettura, e
considerata la stereotipicità della parte dispositiva dell’atto, nel
testo che segue vengono riportate (testualmente) soltanto le clausole-motivazioni poste alla base del diniego di riconoscimento di
status.
Totale
RDC
Romania
Russia
Sierra Leone
Siria
Somalia
Sudan
Tunisia
Turchia
1
5
6
1
1
1
22
1
55
Totale dinieghi
185
Al fine di illustrare nei suoi vari aspetti l’atto che chiude l’iter della procedura di asilo siamo andati preliminarmente ad esaminarne la struttura, riproducendo a scopo esemplificativo nelle
pagine che seguono: un atto di riconoscimento dello status di rifugiato, un atto di diniego dell’anno 2000, uno del 2003 (la struttura è lievemente mutata) e un diniego dello status contenente la
cosiddetta “raccomandazione” di concedere all’individuo non riconosciuto rifugiato uno status temporaneo di protezione umanitaria ai sensi dell’ art. 5, comma 6 del D. Lgs. n. 286/1998 (Testo
Unico sull’Immigrazione).
Facendo innanzitutto riferimento al riconoscimento dello
status (cfr. p. 152), la cui formula è sempre identica, si noti come
dopo aver citato i presupposti giuridici (la Convenzione di
Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata con legge 24 luglio 1954,
150
151
Decisione di riconoscimento dello status di rifugiato:
152
Decisione di non riconoscimento di status (diniego - Anno 2000):
153
Decisione di non riconoscimento di status (diniego - Anno 2003):
154
Riconoscimento di una protezione temporanea umanitaria:
155
SELEZIONE DI MOTIVAZIONI
Afghanistan: 2000
(omissis)
“considerato che, malgrado ciò, è stato in grado di muoversi liberamente e ripetutamente tra i due paesi [n.d.r.: Afghanistan
e Pakistan] il lavoro di autotrasportatore per circa 3 anni.”
(omissis)
Albania:
2002
(omissis)
– “atteso che richiama repressioni […] per la sua militanza in
un movimento politico di opposizione”
(omissis)
– “il partito politico cui aderisce partecipa alle consultazioni
elettorali e ha propri rappresentanti in Parlamento.”
Bangladesh:
2000
“malgrado l’interessato si sia impegnato a far pervenire alla
Commissione i documenti relativi alla persecuzione del suo
partito di appartenenza da parte del partito governativo.”
2001
“ritenuto che, alla luce del mutato contesto politico realizzatosi nel suo Paese, le argomentazioni addotte devono essere considerate, oltre che superate e non più attuali, non riconducibili
alle previsioni di cui alla Convenzione di Ginevra.”
Benin:
2003
(omissis)
“contestato che nel movimento in cui militava non rivestiva un
ruolo di particolare rilievo.”
Camerun:
2002
– “rilevato che le contraddizioni e i mutamenti di versione riscontrati durante l’intervista personale, comportano perplessità
in ordine alla veridicità e alla credibilità di quanto asserito e alla fondatezza della richiesta;
– considerato, peraltro che tali contraddizioni e mutamenti di
versione ricadono su alcuni aspetti fondamentali legati, in particolare, alle vicende abitative, rapporti familiari, condizioni di
fuga e, infine, stato di clandestinità.”
2003
“– atteso che richiama repressioni in cui potrebbe incorrere in
caso di ritorno in Patria per la sua militanza in un movimento
sindacale;
– considerato che tale movimento è legalmente costituito e
svolge regolarmente e liberamente le proprie attività;
– constatato che nel movimento in cui militava non rivestiva
un ruolo di particolare rilievo;
– considerato che il partito politico cui aderisce partecipa alle
consultazioni elettorali e ha propri rappresentanti in
Parlamento;
156
– posto che non fornisce argomentazioni sui motivi per i quali, prima di indursi all’espatrio, non abbia cercato protezione
nelle competenti sedi giudiziarie o richiesto l’appoggio del movimento in cui militava;
– preso atto che dichiara di aver lasciato il proprio Paese per
trovare migliori condizioni di vita civile e democratica e possibilità di lavoro, avendo perduto la propria occupazione per discriminazione, a suo dire, politica;
– tenuto conto che si dichiara passibile di subire restrizioni
della propria libertà personale in caso di rimpatrio, che, tuttavia, sarebbero comminate dopo regolare processo e con possibilità di assistenza legale, il che esclude aspetti persecutori nei
sensi di cui all’art. 1 della Convenzione di Ginevra;
– preso atto che afferma di aver partecipato a manifestazioni di
protesta e di aver per questo ricevuto successive minacce;
– tenuto conto che il partito politico cui aderisce partecipa alle
consultazioni elettorali e ha propri rappresentanti in
Parlamento;
– atteso che non fornisce argomentazioni sui motivi per i quali, prima di indursi all’espatrio, non abbia cercato protezione
nelle competenti sedi giudiziarie o richiesto l’appoggio del movimento in cui militava;
– preso atto che afferma di aver partecipato a manifestazioni di
protesta e di aver per questo ricevuto soprusi illegali;
– non fornisce argomentazioni plausibili in ordine alle modalità dell’espatrio e, in particolare, su come abbia potuto, benché
oggetto di ricerca da parte della polizia, superare con regolare
passaporto intestato a suo nome i controlli di frontiera e imbarcarsi su volo internazionale;
– atteso che, alla richiesta di fornire precisazioni su come abbia
potuto senza documenti validi per l’espatrio imbarcarsi su un
volo intercontinentale eludendo i controlli di frontiera sia alla
partenza che all’arrivo in Italia, espone fatti e circostanze di
dubbia credibilità e verosimiglianza.”
Congo
Brazzaville:
2002
(omissis)
“stante che dalle stesse autorità alle quali attribuisce intenti
persecutori ha ottenuto i documenti necessari per lasciare il
paese e che tale circostanza contrasta con la fondatezza della richiesta.”
2003
(omissis)
“infine, ritenuto che trattasi in ogni caso di condizioni di pericolo non provenienti dall’Autorità costituita nel suo Paese e
che come tali non sono riconducibili alle previsioni di cui alla
Convenzione di Ginevra.”
157
Colombia:
2002
“le sue dichiarazioni nel corso dell’intervista comportano perplessità in ordine alla veridicità e alla credibilità di quanto asserito e alla fondatezza della richiesta.”
Eritrea:
2002
“– […] Patria, […] dove si registrano le condizioni e i presupposti per il ritorno a sistemi di vita civile e democratica;
– […] le repressioni subite e l’espatrio non possono essere messi tra loro in relazione immediata e consequenziale;
– atteso che espone fatti e circostanze che attengono alla sfera
personale e che, come tali, non sono riconducibili al concetto di
persecuzione così intesa ai sensi dell’art. 1 della Citata Conv.”
2002
(omissis)
“considerato che, tuttavia, la diserzione militare non è presa, di
per sé sola, in considerazione ai fini del riconoscimento dello
status di rifugiato da nessuna delle Nazioni firmatarie della
Convenzione di Ginevra 28.7.51.”
2002
(omissis)
– “[…] contraddizione e mutamenti di versione […] fanno
emergere dubbi […]”
(omissis)
– “stante che pone a motivo dell’espatrio fatti e circostanze
non riconducibili in alcun modo alle previsioni di cui all’art. 1
della Convenzione e, in particolare, non fornisce argomenti che
possano far ritenere la possibilità di andare incontro a persecuzioni, nei sensi della predetta Convenzione, in caso di eventuale ritorno in patria.”
Etiopia:
158
2003
“tenuto conto che espone fatti e circostanze relative ai suoi familiari attengono alla sfera personale e non sono pertanto riconducibili al concetto di persecuzione”
[n.d.r.: gli è stata riconosciuta protezione umanitaria ai sensi dell’art. 5, comma 6 del D.L.vo nr. 286/1998.]
2000
(omissis)
“– considerato che nella dichiarazione rilasciata in Questura ha
dichiarato che per questo motivo è stato licenziato mentre durante l’audizione ha dichiarato di aver lasciato il lavoro spontaneamente;
– considerato che dopo essersi sottratto al richiamo militare
non è stato ricercato ed ha ottenuto a suo dire senza problemi il
passaporto;
– considerato che ha dichiarato di essere venuto in Italia per
raggiungere parenti.”
2001
– “preso atto che dichiara di aver lasciato il Paese per trovare migliori condizioni di vita civile e democratica e possibilità di lavoro;”
(omissis)
– “considerato che la situazione politica o economica ovvero la
carenza di libertà democratiche del paese di origine non costituiscono motivo sufficiente per il riconoscimento dello status di
rifugiato;”
(omissis)
– “atteso che le temute persecuzioni consisterebbero in restrizioni legislativamente previste come in tutti gli Stati firmatari
della predetta Convenzione, che verrebbero inflitte in sede di
giurisdizione militare e che non vengono apportate a base del
mancato rispetto dell’obbligo militare, ulteriori particolari motivazioni.”
(omissis)
2001
– “atteso che espone la critica situazione di generale insicurezza per il conflitto armato interno che si registra nel suo Paese;
– considerato che tale condizione oggettiva, a carattere generalizzato, non rileva, ai sensi della Convenzione di Ginevra
28.7.51 ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato.”
2002
“ritenuto che la ricerca di migliore occupazione lavorativa deve
ritenersi prevalente e assorbente rispetto agli altri moventi cui
va ricondotto l’espatrio, conferendo a quest’ultimo carattere di
emigrazione ad aspetto prettamente economico.”
2002
“– valutato che per le sue precedenti posizioni politiche avrebbe subito un giusto e illegale licenziamento;”
(omissis)
“– considerato che il riconoscimento dello status di rifugiato
deve fondarsi sull’accertamento di situazioni concrete.”
2002
“– considerato che la commissione ha emanato una deliberazione in data […];
– considerato che l’audizione è avvenuta in lingua italiana e
[…] richiedente ha chiesto di essere risentito nuovamente in
lingua oromo;”
(omissis)
– “ […] pone a motivo del suo espatrio il timore di avere conseguenze perché suo marito non ha risposto per motivi principalmente di ordine familiare, alla chiamata alle armi per andare a combattere al fronte ed è fuggita a Gibuti;
159
– considerato che in tutte le Nazioni dove la prestazione del
servizio militare è obbligatoria trattasi di soggezione generale e
la renitenza senza altra valida ragione, non è presa in considerazione ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato da
nessuno degli Stati firmatari della Convenzione di Ginevra
28.7.51.”
(segue Etiopia)
Giordania
Libia:
2002
2000
2001
“– considerato che ha dichiarato di essere un palestinese, nato
a Jenin, e di essere fuggito per timore di essere nuovamente incarcerato dal governo israeliano per le sue attività nel movimento palestinese Fronte popolare;
– considerato che il richiedente è in possesso di un passaporto
giordano, rilasciato nel maggio 2001, che secondo quanto dichiarato gli consentirebbe la permanenza sul territorio giordano per soli venti giorni e non attesta la nazionalità giordana;
– considerato che dalla documentazione in possesso dalla
Commissione le dichiarazioni dell’interessato non risultano
confermate.”
(omissis)
“– ritenuto che la carenza di idonee possibilità di lavoro nel
Paese di origine non configura ipotesi persecutoria nei sensi
della citata Convenzione.”
2002
(omissis)
“– posto che non fornisce argomentazioni sui motivi per i quali, prima d’indursi all’espatrio, non abbia cercato protezione
nelle competenti sedi giudiziarie.”
Nigeria:
2002
“preso atto che dichiara di aver lasciato il proprio Paese per la
crisi economica e occupazionale in atto e per trovare migliori
possibilità di lavoro.”
160
2003
(omissis)
“considerato inoltre che dalla documentazione in possesso della
Commissione non risulta quanto dichiarato dal richiedente.”
(omissis)
“ritenuto che l’obbligo internazionale assunto dallo Stato italiano con la ratifica della Convenzione di Ginevra non comporti anche la facoltà per il richiedente lo status di rifugiato di scegliere quando e dove chiedere protezione, dovendosi piuttosto
presumere che gli stranieri soggetti a possibili persecuzioni
esercitino tale possibilità con immediatezza e non appena si trovino in uno Stato che possa garantire loro una tale sicurezza.”
Pakistan:
2001
“considerato che le dichiarazioni rese appaiono inficiate nella
credibilità, poiché il documento prodotto in visione a sostegno
della domanda fa emergere dubbi sulla veridicità (è scritto in
inglese, apparentemente dall’interessato nonostante la sua scarsa conoscenza di quella lingua, non riporta data, ha un numero di passaporto depennato).”
Rep. Dem.
del Congo
2003
“atteso che nel periodo in cui asserisce aver incontrato difficoltà con le Autorità del suo Paese ha regolarmente ottenuto
dalle stesse i documenti necessari per l’espatrio e che ciò contrasta con la fondatezza della richiesta.”
Russia:
2002
“– atteso che le avversità denunciate dallo straniero, di cui peraltro non ha fornito alcun elemento di prova alla Commissione, sono riconducibili a presunta violazione, da parte sua e dei
componenti della sua organizzazione culturale giovanile, di
norma del codice penale del suo paese, per partecipazione a rissa aggravata;
“– considerato che ha presentato domanda di riconoscimento
dello status di rifugiato con notevole ritardo rispetto alla data
d’ingresso in Italia;”
(omissis)
“– tenuto conto che nel periodo che era ricercato dalla Polizia è
regolarmente uscito dal paese;
– considerato che malgrado le asserite persecuzioni temute da
parte delle Autorità del suo Paese, si è più volte rivolto presso
l’Ambasciata libica.”
Moldavia:
2002
Palestina
– considerato che l’interessato prima di venire in Italia, ha soggiornato, nei due anni precedenti in altri Paesi Europei, ove veramente in pericolo, avrebbe potuto ottenere lo status di rifugiato;
– considerato che le eventuali conseguenze penali del reato di
cui dovrebbe disporre al suo Paese non sostanziano alcuna ingiusta persecuzione di quelle autorità nei suoi confronti, come
richiesto dalla Convenzione di Ginevra per l’ottenimento della
sua tutela, come riconosciuto da un consolidato orientamento
giurisprudenziale al riguardo, sanzioni normativamente previste dalla locale legge penale.”
Siria:
2002
“– considerato che le avversità denunciate risalgono al […]”
(omissis)
“– atteso che dal […] è espatriato ed è vissuto in altri Paesi
(Libano, Russia e Ucraina) ove avrebbe potuto chiedere asilo se
effettivamente in pericolo;
161
– atteso che dei problemi che dichiara di aver incontrato in
Ucraina, ove peraltro ha soggiornato per 7 anni, conseguendo
anche una laurea, […] limitandosi ad affermare che riteneva di
essere spiato dai servizi segreti siriani;
– atteso che nel […] ha ottenuto dalle autorità siriane un passaporto ancora valido (scadenza 2005).
– atteso che un eventuale suo arresto in caso di rientro in Siria
appare poco probabile in quanto né nel […] né in seguito, nessun procedimento è stato avviato a suo carico.
– considerato che il nuovo presidente della Siria nel novembre
del 2000 ha disposto un’amnistia a favore di centinaia di detenuti politici, allentando nel contempo in qualche misura le limitazioni alla libertà di espressione.”
(segue Siria)
Sudan:
2002
“– constatato che nel movimento in cui militava non rivestiva
un ruolo di particolare rilievo;
– ritenuto che la ricerca di migliore occupazione lavorativa deve ritenersi prevalente e assorbente rispetto agli altri moventi
cui va ricondotto l’espatrio, conferendo a quest’ultimo il carattere di emigrazione ad aspetto prettamente economico,”
(omissis)
“– peraltro ritiene che sussiste […] l’esigenza di protezione
umanitaria ai sensi dell’art. 5 comma 6 del D. Lvo n.
286/1998.”
Tunisia:
2003
“preso atto che il movimento al quale aderisce non è legalmente riconosciuto e che le repressioni delle Autorità verso i componenti di tale gruppo non costituiscono conseguentemente
persecuzioni nei senti di cui alla predetta Convenzione.”
Turchia:
2000
“atteso che ha potuto reinserirsi regolarmente nella vita quotidiana, pure con i problemi comuni a quelli incontrati dalla generalità degli appartenenti alla sua etnia pur dichiarandosi ‘ricercato’.”
2000
“tenuto conto delle dichiarazioni rese a verbale presso l’ufficio
della Polizia di Stato competente per il territorio, ai sensi dell’art. 1 del D.P.R. 15.5.1990, n. 136, sulle quali si basa la presente decisione, in quanto, malgrado l’invito fatto pervenire all’ultimo domicilio eletto, deve constatarsi l’attuale stato di irreperibilità.”
(omissis)
2001
162
“– considerato che dichiara di aver lasciato il suo Paese in
quanto afferma di essere discriminato in quanto ateo;
– considerato che la Turchia è un paese laico;
– considerato inoltre che afferma di essere ricercato in quanto
renitente alla leva;
– considerato che anche se renitente alla leva ma ha vissuto fino all’età di 31 anni senza mai essere arrestato per questo motivo.”
(omissis)
2002
(omissis)
“considerato che non emergono altri argomenti rilevanti ai fini
dell’applicazione dell’art. 1, se non difficoltà, che senz’altro caratterizzano la condizione socio-economica tipica nel suo paese,
ma che devono comunque essere ritenute non riferibili specificatamente in via diretta e immediata.”
2002
“– considerato che lamenta le difficili condizioni di vita in cui
versano le popolazioni della sua etnia in conseguenza dell’atteggiamento che definisce oppressivo e discriminatorio, delle
autorità governative;
– considerato che tale condizione oggettiva, a carattere generalizzato, non rileva, ai sensi della Convenzione di Ginevra del
28.7.1951, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato,
non potendosi individuare motivi di persecuzione riferibili in
via diretta e personale secondo la nozione contenuta nell’art. 1
della predetta Convenzione.”
2002
“– atteso che l’interessato adduce a sostegno della sua istanza
di rifugio il timore di subire persecuzioni da parte della polizia
militare turca a cui ha rifiutato di collaborare facendo il guardiano del villaggio;
– considerato che tale circostanza non comporta particolari
sanzioni per gli interessati ma solo controlli più frequenti nella loro condotta;”
(omissis)
“– considerato che non è iscritto ad alcun partito politico, non
ha mai svolto attività ad opera di qualche partito;
– atteso che non è mai stato fermato o arrestato dalla polizia,
no riscontrando i presupposti della Convenzione di Ginevra del
1951.”
2002 “atteso che espone la critica situazione di generale insicurezza
marzo per conflitti armati che si registravano in talune zone del suo
Paese;”
(omissis)
163
(segue Turchia)
164
2002
sett.
“considerato che il nuovo Governo del suo paese ha dato prova
di aver intrapreso – sia pure con gradualità per le residue tensioni che ancora possono talora persistere – linee politiche di
evoluzione verso una più completa democratizzazione e che tale circostanza rende non fondato il timore di incorrere in persecuzioni nei sensi all’art. 1 della Convenzione di Ginevra
28.7.1951.”
(omissis)
2002
“considerato che le motivazioni addotte per la richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato sono strettamente legate a
quelle esposte dal marito che sono state ritenute non credibili.”
2003
“– atteso che richiama repressioni in cui potrebbe incorrere in
caso di ritorno in Patria per il dissenso verso la politica perseguita dal suo Governo;
– ritenuto che trattasi in ogni caso di condizioni di pericolo che
investono la generalità dei suoi connazionali e che come tali, in
assenza di aspetti persecutori diretti e personali, non sono riconducibili alle previsioni di cui alla Convenzione di Ginevra;
– tenuto conto che lamenta, quale persecuzione subita, restrizioni della propria libertà subite in passato, che riconduce alle
proprie opinioni personali […];
– atteso che, […], conseguentemente, le repressioni subite e l’espatrio non possono essere messi tra loro in relazione immediata e consequenziale;
– atteso che ha potuto reinserirsi regolarmente nella vita quotidiana, pur se con i problemi comuni a quelli incontrati dalla generalità dei suoi connazionali, e che, conseguentemente le repressioni subite e l’espatrio non possono essere messi tra loro in
relazione immediata e consequenziale.”