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prof. arch. Valeria Pezza
Ordinario di Composizione Architettonica e Urbana
Coordinatore del corso di laurea magistrale in architettura
via Toledo 402 Napoli 80134
+39 081 2538829 +39 347 0159980
Arc5UE
quinquennale a ciclo unico
3 ottobre 2014
Lectio magistralis di Antonio Monestiroli: L’architettura e il suo insegnamento
INTRODUZIONE
Di Valeria Pezza
Sono contenta di introdurre Antonio Monestiroli e la sua lectio su l’Architettura e il suo insegnamento, perché
su questi temi continuamente si muove la mia riflessione, e non solo, o ancor più, perché oggi sono
coordinatrice del Corso Magistrale 5UE della “Federico II” di Napoli, ma soprattutto perché la scuola in cui mi
sono formata ha fatto della spinta a riformulare di continuo le domande, prima di trovare, o ribadire, le
risposte, il proprio stile di vita.
E Monestiroli lo sa bene, perché di quella scuola è una delle figure principali.
Poi, forse, per fortuna, useremo qui parole diverse per riformulare la mappa e le coordinate della nostra
disciplina; ma quello che ci spinge è lo stessa attitudine interrogativa sia rispetto al nostro mestiere,
l’architettura, che rispetto al suo insegnamento.
Due settimane fa, accogliendo le matricole appena iscritte al 5UE, dichiaravo loro: questo è un corso
generalista. Ma cosa significa?
Significa che crede poco nelle specializzazioni, nella parcellizzazione del sapere, oggi così diffusamente
vincente.
Per questo in epigrafe del sito del 5UE è posta una frase di Gropius
La nostra meta più alta dovrebbe essere quella di produrre uomini in grado di concepire una totalità,
anziché lasciarsi troppo presto assorbire nei canali angustissimi della specializzazione. Il nostro secolo ha
prodotto il tipo dell’esperto in milioni di esemplari: facciamo posto ora agli uomini di ampia visione.
(Walter Gropius, 1937)
Gropius questa affermazione la faceva già nel 1937: quindi già 80 anni fa si avvertiva la necessità di figure di
ampia visione, già imperversavano gli specialismi, anche se non ancora i master, le specializzazioni, i
perfezionamenti verso cui, oggi, dovrebbe tendere la nostra cosiddetta “offerta didattica” per qualificarsi. In
realtà, soprattutto in questi ultimi decenni, si è andati procedendo nella direzione di un’offerta di sapere, anzi
di titoli di studio che sembra drogata e che altera e distorce compiti, obiettivi e aspettative. Zygmunt
Baumann analizza con spietata lucidità questa situazione e per spiegarne il potenziale inganno, e il vero
fondamento – tutto solo di natura finanziaria e commerciale – fa un’ analogia tra la bolla immobiliare e,
diciamo così, per intenderci, la bolla della formazione; sappiamo come è andata a finire con la bolla
immobiliare e ora, perfino in questo sud dell’Europa, cominciamo a verificare anche cosa può succedere con
una offerta drogata di sapere, anzi di titoli di studio: convinci le famiglie a investire, casomai indebitandosi,
per raggiungere un obiettivo (la casa o il laureato) che alla fine avrà sul mercato un valore più alto. Il gioco
regge finché i primi prodotti, case o laureati, finiscono sul mercato: allora il loro valore presunto non trova
conferma nella realtà delle cose: è un’offerta priva di domanda; quindi comincia a crollare il prezzo di quel
prodotto e, conclude Baumann, ci si trova per la prima volta nella situazione che, in assenza di catastrofi
esterne o guerre, il destino lavorativo ed economico dei figli non è un miglioramento di quello dei padri, anzi.
Quindi se già 80 anni fa si avvertiva la necessità di figure di ampia visione, la dinamica appena descritta di
questa spirale specialistica non risulta essere la risposta giusta: questo specialismo aveva ed ha alternative.
Si tratta di riformulare con maggiore chiarezza i compiti che la società assegna all’Università: la società, non
questo o quel ministro, in questa o quella contingenza.
Significa chiedersi dove, se non nell’Università, la cultura e il sapere di un paese ripensano sé stesse,
trasmettono e rielaborano i propri tratti identitari, indipendentemente dalle contingenze e dagli slogan: questi
rimangono i compiti fondamentali dell’istituzione universitaria, non di trasformarsi in una finta scuola di
formazione professionale, ingannevole e, per giunta, adescatrice, in cui gli studenti diventano clienti,
consumatori. E quanto la civiltà dei consumi incida ed alteri la nostra vita è una cosa che in architettura ha
una triste evidenza, oggi che il suo mandato sembra ridotto a quello di grafica pubblicitaria, semplice
packaging, confezione di rapido consumo per luoghi privi di identità e radicamento.
L’università non è e non può essere una scuola di formazione professionale, che trasmette un protocollo
tecnico bell’e finito, che garantisce il POSTO, l’impiego, il lavoro, e che possa o debba assicurare la piena
occupazione ai suoi laureati: agenzia di collocamento oltre che scuola professionale?
Sarebbe un inganno, un’illusione volta ad approfittare delle vostre legittime aspettative, senza mettervi in
condizione di comprendere la realtà dei fatti e individuare obiettivi, obiettivi realizzabili: e la crisi attuale
ancora di più lo conferma.
Il paradosso dopo tanto FETICISMO DELLE SPECIALIZZAZIONI è che i dati attuali confermano il diffondersi
di una richiesta da parte di molte aziende di una cultura generalista, più capace di affrontare i cambiamenti
e distinguere, nei cambiamenti, le cose che, per tante ragioni rimangono uguali, da quelle che mutano:
ricordate Tomasi di Lampedusa? bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga tale e quale.
Bisogna disporre di STRUMENTI DI CONOSCENZA, non di SOLUZIONI belle e fatte, inesorabilmente
condannate a rapida obsolescenza, visto il ritmo concitato delle innovazioni tecnologiche. Bisogna costruirsi
quegli strumenti per fronteggiare il modo sempre nuovo con cui si presentano i problemi, gli stessi
problemi. Perché in fondo, per quanto ogni nuova generazione reclami la propria particolare unicità e
resista con tenacia ad ogni confronto con quanto e chi la ha preceduta, tutto sommato il genere umano non
è molto cambiato; ha ancora le stesse fragilità, dipendenze, spinte distruttive o creatrici di 100, 200 anni fa.
È aumentata l’altezza degli individui, si è allungata la vita e migliorano – per alcuni – le condizioni
dell’esistenza; ma continuiamo a dipendere dall’acqua, dall’aria, dal cibo, dai nostri sentimenti e dai nostri
impulsi, tanto difficili da tenere a bada: soprattutto quelli più oscuri, come la violenza e il sadismo, le cui
diffuse manifestazioni ogni volta suscitano stupore senza che si possa ammettere che se non li conosciamo,
anzi non li riconosciamo, se ci limitiamo, in quanto persone colte, moderne ed evolute, a negarli, quegli
impulsi oscuri è molto difficile dominarli.
E per fronteggiare queste dinamiche di fissità e di cambiamento non basta leggere i libri, bisogna farne
esperienza attraverso l’autoconoscenza e la riflessione comune: per questo mi sembrano sempre, ancora,
tanto profonde e vere le parole con cui Aldo Rossi, nell’introdurre il corso 1965-66, si pronunciava anch’egli
«contro l’introduzione nella Università del professionalismo e di tutte quelle questioni contingenti che non
hanno e non possono avere dignità di scienza».
E aggiungeva: «(…) so bene come nel nostro paese la carenza spesso tragica delle scuole professionali, di
arti e mestieri, dell’insegnamento tecnico, sia una grave lacuna: e come renda difficile stare al passo con altri
paesi. E siamo convinti che nel nuovo ordinamento della scuola questo aspetto deve acquistare un grande
rilievo: ma proprio in questo quadro risulta l’autonomia e l’importanza dell’Università. La quale pone le
questioni ad un più alto livello: ed è il suo vanto non la sua umiliazione, non sapere spesso rispondere a tutte
le domande che essa stessa solleva. Quando queste domande sono organizzate all’interno di un sistema
logico esse hanno comunque una loro dignità di scienza. Bisogna introdurre di nuovo nelle Università, o se
volete confermare, quell’unità tra scienza e modo concreto di vivere che presiede all’Università stessa; (…)
Nell’università L’IMPIEGO DEL TEMPO E LO STUDIO È UN MODO DI ESSERE: esso serve all’UMANITÀ
DELL’UOMO. Non accettiamo qui la domanda: a cosa serve? Accettiamo la domanda: che cosa significa? ».
Oggi, l’attuale e forzata irregimentazione dei saperi, fatica a collocare l'architettura, avendo contrapposto e
separato i saperi che la contraddistinguono, quello umanistico e quello scientifico, contrapposizione che
rispecchia l'antagonismo tra aspetto oggettivo e quello soggettivo, tra aspetto espressivo, individuale e
quello logico analitico dell'architettura e del suo progetto; o anche, tra mondo interno e mondo esterno.
Contrapposizione che ci danneggia innanzitutto come persone e come cittadini, e danneggia la nostra
cultura come paese, come paese che nella lenta e graduale costruzione di quella materia, che chiamiamo
architettura, ha avuto un ruolo principale. Poiché in Italia si trova molta parte di quella materia che in tutto il
mondo è messa fondamento di questa disciplina.
Eppure non siamo più capaci di considerarla una materia da cui apprendere: o va salvaguardata –relegata
dunque nei meccanismi della pura conservazione, ovvero disarmata nella sua potenza chiarificatrice- o va
ignorata, perché siamo moderni, alla moda, e cerchiamo il nuovo; una modernità troppo spesso ridotta ad
arbitrario individualismo spettacolare che liquida, dichiarando morto e superato un mondo che forse non è
neanche più in grado di raggiungere, né di vedere.
Sono grata a Monestiroli che invece ha rivendicato con fermezza e semplicità una ragione ed un compito per
l’architettura, una ragione e un compito CIVILE: dare forma e misura, senso e ragione alla costruzione dei
luoghi, a quei manufatti destinati a durare oltre il tempo della nostra vita, in grado di rappresentare un dato di
GENERALITÀ capace di confrontarsi, e alla fine di appartenere, a quelle OSSA DEL TEMPO che sono le
città in cui viviamo, i luoghi che percorriamo: e con semplicità, sottraendosi quanto più possibile alla tirannia
delle mode, imparare a distinguere quei luoghi e quelle architetture che ci fanno sentire a casa da quelle
che no, vogliono sovrastarci o confonderci o annichilirci.
Ricordando, come sostiene Agamben, che la parola GENERALITA' ha la stessa radice di genius e di
genialità: e che la genialità è la capacità, tutta individuale e personale, di trattare, rielaborare ed esprimere il
dato generale e impersonale della condizione umana.
Quello che serve alla nostra cultura è il contrario di quello che avviene: non separare la conoscenza del
mondo interno da quella del mondo esterno. E su questo campo, l’architettura, ha un primato tutto ancora da
esplorare, per la sua particolare caratteristica di porsi tra scienza e arte, natura e cultura: OPERA umana,
fabbricata secondo scopi e materiali contingenti (Vitruvio) ma capace di perdurare oltre il tempo e le ragioni
della sua costruzione, ed essere abitata da una umanità che vi dimora come se fosse fatto naturale, senza
più percepirne il carattere interamente artificiale: OPERA UMANA che col tempo diventa una SECONDA
NATURA.
Se noi la consideriamo da questo punto di vista, innegabile, capiamo che a ragione possiamo usare le
tecniche delle scienze del mondo fisico per studiare i fenomeni dell’architettura, le sue fabbriche, il luogo per
eccellenza, le città; ma non possiamo accontentarci di questo, perché non stiamo studiando un fiore o una
medusa, ma stiamo studiando un fatto, fabbricato da altri per loro volontà e necessità, ma capace di essere
utile anche a noi, che ancora lo abitiamo: in cui possono esserci ancora risposte ai nostri bisogni
Il nostro lavoro sull’architettura ha bisogno da una parte di fermare con chiarezza l’oggetto dello sguardo,
che è un oggetto fisico, materiale, le architetture appunto, – e quindi allenare all’osservazione della realtà
dell’architettura (la città, lo spazio urbano, lo spazio interno) come fatto oggettivo – e dall’altra, di sviluppare
la consapevolezza che in quel mondo di esempi che studiamo e da cui estraiamo costanti, principi e regole,
vi è un contenuto umano, di aspirazioni, volontà, sapienza, gioco, appartenenza, che non si esaurisce con
la padronanza delle tecniche di descrizione e di rielaborazione degli esempi. Un “contenuto umano” che
chiama in causa altri piani, che riguardano la nostra umanità, la nostra sensibilità, la ricchezza e la creatività
del nostro mondo interiore, la capacità di mettere in una relazione fertile, responsabile e intellegibile la nostra
spinta espressiva, individuale con quella logico analitica: la genialità appunto, di cui si parlava prima.
Abbiamo un punto fermo in questo semplice ma difficile lavoro, l’architettura stessa, che come un capitale
paziente ancora ci accoglie e sa aspettare, nonostante tutto…