Il velo islamico e il principio paritario: la giurisprudenza di merito si

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Il velo islamico e il principio paritario: la giurisprudenza di merito si
Il velo islamico e il principio paritario: la giurisprudenza di merito
si confronta con i divieti di discriminazione
di E. Tarquini - 23 luglio 2016
Con la pronuncia in commento la Corte d’appello di Milano, in riforma della decisione di
primo grado, ha ritenuto che integrasse una discriminazione diretta in ragione
dell’appartenenza religiosa la determinazione di una società di selezione del personale di
escludere da una selezione per lo svolgimento della prestazione di hostess/distributrice di
volantini presso una fiera della calzatura una lavoratrice a causa della sua decisione di non
togliere il velo (hijab) da lei indossato per motivi religiosi e che le copriva i capelli,
lasciando scoperto il viso.
La sentenza si segnala in primis per l’affermazione (conforme alla più recente
giurisprudenza di legittimità, cfr. Cass., 5 aprile 2016, n. 6575 del carattere oggettivo e
funzionale dei divieti di discriminazione, destinati ad operare indipendentemente
dall’intenzione soggettiva dell’agente, così che è vietato un effetto (il trattamento deteriore
causalmente connesso al fattore protetto), non un motivo.
Data questa condivisibile premessa, la Corte milanese ritiene poi dimostrato che
lo hijab abbia una connotazione religiosa, rientrando nelle pratiche consigliate dal Corano, e
pacifico che l’esclusione della ricorrente dalla selezione sia avvenuta in conseguenza della
sua decisione di non togliere il velo.
Ne deduce che, essendo il hijab un abbigliamento che connota l’appartenenza alla religione
musulmana, l’esclusione da un posto di lavoro a causa del hijab costituisca una
discriminazione diretta in ragione dell’appartenenza religiosa.
La Corte esamina quindi l’esistenza di una deroga al divieto di discriminazione secondo la
previsione dell’art. 4 della dir. 2000/78/CE (che in tema di «requisiti per lo svolgimento
dell’attività lavorativa», attribuisce agli Stati membri la possibilità di «stabilire che una
differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi
di cui all’art. 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un’attività
lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un
requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la
finalità sia legittima e il requisito proporzionato») ed esclude che nella specie la capigliatura
(e quindi il capo scoperto) costituisse un elemento essenziale della prestazione, come
richiesta dalla committente della società di selezione.
La sentenza quindi riforma la decisione di primo grado proprio in relazione all’argomento
più controvertibile di quella pronuncia, che aveva affermato l’inesistenza della
discriminazione sul presupposto che il capo scoperto fosse requisito indispensabile della
prestazione quale richiesta dal committente.
Tuttavia, poiché la Corte milanese motiva il decisum in punto di fatto, resta sullo sfondo
della vicenda il tema teorico – ricostruttivo di maggior interesse generale: il criterio di
apprezzamento dell’essenzialità del requisito, se esso cioè sia obiettivo ed attenga quindi alla
natura della prestazione, ovvero dipenda dalla determinazione del datore di lavoro che
domandi quella prestazione.
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Sul punto non può dubitarsi che, diversamente da quanto aveva finito per affermare il
Tribunale, un tale criterio debba essere obiettivo, così come obiettivi sono i divieti di
discriminazione, e attenga quindi alla natura della prestazione ex se e sia in più soggetto al
limite della proporzionalità.
E senza che rilevi in contrario il fatto che in tal modo i divieti di discriminazione siano
idonei a pregiudicare gli interessi del datore di lavoro, giacché corrisponde alla funzione
protettiva propria del principio paritario la sua attitudine ad operare anche (se non
necessariamente) in maniera disfunzionale rispetto alle logiche del mercato e dell’impresa.
Elisabetta Tarquini, consigliera presso la Corte d’appello di Firenze
Visualizza il documento: A. Milano, 4 maggio 2016
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