papua: riprende la lotta per l`indipendenza

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papua: riprende la lotta per l`indipendenza
PAPUA: RIPRENDE LA LOTTA PER L'INDIPENDENZA
Sabato 21 Marzo 2009 01:06
di Eugenio Roscini Vitali
Di solito la Papua occidentale si associa all’immagine di luoghi remoti e selvaggi, aspre
montagne ricoperte da una giungla fitta e rigogliosa e grandi isole circondate da straordinari
arcipelaghi. Una diversità sopravvissuta all’evoluzione dei tempi, un mondo a parte ricco di
simboli e tradizioni, dove la cultura si mescola con la magia e gli spiriti degli antenati
influenzano le sorti dell’uomo. In realtà i 421 mila chilometri quadrati che costituiscono il settore
occidentale dell’isola della Nuova Guinea, quello diviso nella provincia autonoma di Irian Jaya
Barat e nella Papua occidentale, la parte conosciuta come provincia indonesiana di Irian Jaya,
sono un territorio prevalentemente montuoso, in gran parte coperto da una folta foresta pluviale
che in molte zone arriva addirittura ad essere impenetrabile: habitat ideale per una
sorprendente varietà di specie vegetali ed animali ma anche rifugio dei gruppi indipendentisti
che da quasi mezzo secolo lottano contro Jakarta per il diritto all’autodeterminazione. Colonia
olandese dal 1895, la Papua occidentale viene invasa dall’esercito indonesiano nel 1962:
Jakarta, che non si arrende neanche di fronte al risultato elettorale che l’anno precedente a
Jayapura ha sancito il successo dei partiti indipendentisti, chiede da tempo l'annessione della
parte ovest dell’isola e per questo è disposta a sfidare l’autorità coloniale della regina Giuliana
d’Olanda. Il 1° ottobre 1962 gli olandesi sono costretti a lasciare la Papua occidentale che dal
1° maggio 1963, dopo un periodo di transizione durante il quale viene amministrata dall’ONU,
passa sotto il controllo di Jakarta. Per raggiungere il suo scopo il presidente indonesiano Haji
Mohammad Suharto promette libere elezioni ed un referendum che permetta ai nativi di definire
il futuro status della provincia.
Considerati dal regime indonesiano troppo primitivi per partecipare ad un referendum, gli
800.000 indigene che abitano la regione vengono esclusi dal voto; al loro posto
l'amministrazione chiama 1.025 persone che sotto la minaccia e le intimidazione delle forze
speciali di Suharto, il 2 agosto 1969, sono costrette ad esprimersi unanimemente in favore
dell’annessione; una consultazione che lo stesso rappresentante dell’ONU, Ortiz Sanz, definirà
una farsa. Non tutti gli abitanti della Nuova Guinea occidentale si piegano però all’occupazione
e molti di loro, forti del fatto che gran parte dei membri delle Nazioni Unite non riconoscono la
validità del controverso “Act of Free Choice”, il documento con il quale il governo di Jakarta
prende possesso dell’ex colonia olandese, fondano l’Organizzazione Papua Libera (Organisasi
Papua Merdeka - OPM), un movimento indipendentista che si oppone all’invasione indonesiana
e rivendica il diritto all’autodeterminazione.
Tra il 1966 al 1998 il presidente indonesiano Suharto risponde alle richieste dell’OPM con una
politica fortemente repressiva: arresti ingiustificati, soprusi e crudeltà di ogni genere causano la
morte o la sparizione di oltre 100 mila persone; una violenta campagna di pulizia etnica che
provoga la fuga di migliaia di civili e che porta gli indigeni delle otre 300 tribù al rischio di
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diventare una minoranza etnica. Tra il 1967 e 1970 i bombardamenti e le operazioni militari
colpiscono le montagne di Arfak, il distretto del lago di Wissel e le aree di Ayamaru,
Teminabuan, Inanuatan, Paniai ed Enarotali: massacri e rapimenti, sevizie e torture, stupri ed
amputazioni ai danni di donne e bambini. Tra il 1974 e il 1978 l’esercito indonesiano attacca
quasi 150 villaggi e massacra tutti coloro che vengono sospettati di collaborare con la guerriglia:
migliaia i cadaveri rinvenuti nella giungla; colpiti i centri abitati di Arwam, Babuma, Jayawijaya,
Rumbin, le comunità a nord di Biak, le regioni di Jayapura e Paniai, i distretti di Dosai, Lereh e
Kelila, la zona mineraria di Akimuga, la valle di Baliem e l'area di Merauke. Tra il giugno e
l’agosto del 1981 le truppe di Suharto lanciano l’operazione Clean Swee; a dicembre si contano
quasi 15.000 vittime. Nel luglio del 1984 Jakarta da il via ad una campagna aero-navale contro i
villaggi di Kecil, Taronta, Takar e Masi-Masi. Nel 1985 i distretti di Wissel, Panai, Monemane e
Obano diventano teatro di nuovi massacri: in poche settimane quasi 3.000 morti.
Il cosiddetto periodo delle Riforme, che ha seguito il ritiro di Suharto dalla scena politica
indonesiana (21 maggio 1998), garantisce alla regione occidentale della seconda isola più
grande al mondo uno status di “autonomia speciale” che per molti aspetti non verrà mai
pienamente applicato. Basti pensare alla spartizione del territorio in province, decisione che
crea una situazione di forti squilibri socio-economici e che in molti casi da vita ad una forte
opposizione. Alla ricerca di presunti militanti indipendentisti e ricorrendo ad un uso eccessivo e
spesso brutale della forza, le truppe indonesiane continuano i rastrellamenti indiscriminati nei
villaggi: nel 2001 viene rapito e assassinato Theys Eluay, presidente dell’OPM, ucciso dai
membri del Kopassus (Komando Pasukan Khusus), unità delle forze speciali addestrate dagli
Australiani che nel sud-est asiatico sono conosciute per le azioni di repressione e i massacri
perseguiti nella Nuova Guinea Occidentale, in Malaysia e Timor Est. Il mandante dell’omicidio
rimane oscuro ma la connivenza del governo è palese: arrestati e processati, nel 2002 i
presunti responsabili dell’omicidio verranno condannati a due anni di carcere.
Per Jakarta la provincia separatista rappresenta quello che per il Marocco è il Sahara
Occidentale o per la Russia è il Caucaso o per la Cina sono le regioni Himalayane: un enorme
bacino di ricchezza. Immense miniere di oro, rame e nickel che l’Indonesia ha dato in
concessione alle multinazionali anglo-americane, giacimenti controllati a vista dall’esercito che
fa della Papua occidentale una delle zone più militarizzate del mondo. Favolosi profitti che
hanno visto Suharto dividere la fetta con il gota del capitalismo mondiale: compagnie
statunitensi, giapponesi ed europee che si sono spartite miniere e foreste in cambio di appoggi
politici, come il caso dell’invasione di Timor Est, autorizzata da Segretario di Stato americano
Henry Kissinger che, guarda caso, ha fatto parte consiglio di amministrazione della compagnia
mineraria Freeport-McMoran.
Lontana dall’ottenere un accordo politico, la guerriglia indipendentista ha cercato per più di
quarant’anni di fermare con archi, frecce e vecchi fucili, gli abusi e le violenze delle famigerate
Brigate Mobili (Brimob) della polizia indonesiana, armate insieme all’esercito dai governi
occidentali. Mezzo secolo di lotte che, nonostante gli scarsi risultati e l’indifferenza di gran parte
della comunità internazionale, non hanno portato i separatisti a demordere. Dopo alcuni anni di
flebile attività, nel 2009 gli attacchi organizzati dall’OPM sono infatti ripresi e dall’inizio dell’anno
si sono contate numerose azioni, l’ultima delle quali ha visto i ribelli uccidere un soldato del
754° battaglione durante un agguato sferrato contro un’unità dell’esercito che stava svolgendo
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un servizio di pattugliamento nell’area di Tigginambut, distretto di Puncak Jaya.
La polizia, che a chiesto l’applicazione del coprifuoco, ritiene che i separatisti siano anche
responsabili della morte di due autisti di microtaxi (motocarrozzelle a tre ruote) e dell’attacco
avvenuto a gennaio contro un distaccamento delle forze di sicurezza nel quale è rimasta ferita
la moglie di un ufficiale e sono state rubate alcune armi e munizioni. Il governo indonesiano è
certo che gli attivisti vogliono boicottare le prossime elezioni politiche di aprile e che il leader del
movimento, Goliath Tabuni, stia cercando di creare le condizioni per una rivolta. Quello che è
certo è che a 3.200 chilometri a sud-est di Jakarta c’è ancora qualcuno che lotta perché le tribù
della Papua occidentale possano opporsi alle devastazioni delle loro terre e perché possano
decidere liberamente del loro futuro.
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