Jung e gli indiani Pueblos - Associazione Italiana Psicologi

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Jung e gli indiani Pueblos - Associazione Italiana Psicologi
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Tratto da: Vita e opere di C. G. Jung - di Barbara Hannah
Rusconi Editore, Milano 1980
Jung aveva stretto amicizia con un capo dei Taos Pueblos, col quale riuscì a comunicare
con una facilità assai maggiore che non con la stragrande maggioranza degli europei.
Con questi ultimi, diceva, si finisce sempre per arenarsi su banchi di sabbia fatti di
cose note da un pezzo ma mai comprese, mentre con quell'indiano « la nave filava per
mari profondi, sconosciuti ». Il capo, che si chiamava Ochwiay Biano, che significa "Lago Montano", aveva un atteggiamento fortemente critico nei confronti dei Bianchi, e
Jung restò sbalordito udendolo affermare che gli indiani ritengono gli americani pazzi
perché pensano nelle loro teste. Chiese dove avesse sede il pensiero degli indiani, e la
risposta fu: «Nel cuore».
Jung ne restò assai colpito, e sovente l'ho udito affermare che alcuni dei più gravi errori che commettiamo nei rapporti con altri gruppi etnici sono dovuti al fatto che partiamo dal presupposto che, al pari di noialtri, anche i loro membri pensino "dentro la
testa". Invece, se la sede del pensiero degli indiani è il cuore, molte razze più primitive pensano con zone ancora più basse, a esempio i loro ventri. E soggiungeva che ciò
porta le varie etnie a mutua incomprensione.
Dopo lunghi conversari con Lago Montano, del quale accettò con umiltà le critiche all'uomo bianco, Jung si rese conto che non sarebbe mai riuscito a penetrare i misteri
della religione dei Pueblos col ricorso al metodo delle domande dirette. Poteva cattivarsi la fiducia di Lago Montano soltanto lentamente e gradualmente, e valutò i propri
progressi in questo campo soprattutto alla luce di manifestazioni emozionali che il capo pueblo non poteva evitarsi, come a esempio il fatto che gli occhi gli si imperlassero
di lacrime quando il discorso cadeva sui misteri religiosi, che gli indiani tuttora custodiscono con la stessa cura con cui un tempo si vigilava su quelli di Eleusi. Un giorno,
mentre sedevano insieme al sole sul tetto-terrazza di un pueblo, si misero a parlare
degli americani, argomento nei confronti del quale Lago Montano non mostrava reticenze di sorta, e infatti parlò con grande amarezza dell'atteggiamento che gli yankees
avevano nei confronti della religione indiana. Tacque per un lungo istante, e quindi soggiunse: « Gli americani vogliono cancellare la nostra religione. Ma perché non ci lasciano in pace? Ciò che noi facciamo, non lo facciamo solo per noi, ma anche a beneficio
degli americani, anzi del mondo intero, perché ognuno ne trae vantaggio ».
Dalla crescente emozione di cui il capo era preda, Jung arguì che si stavano avvicinando a un nucleo importante della religione pueblo, probabilmente i misteri stessi. Poiché
si trattava di un terreno particolarmente irto di difficoltà, si limitò a chiedere perché
il mondo intero traeva beneficio da ciò che i Pueblos facevano, e la risposta suonò che
questi erano un popolo che viveva sul tetto del mondo, e pertanto vicinissimo alla divinità e al cielo, sicché erano più di ogni altro « i figli di Padre Sole e con la nostra reli-
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gione ogni giorno noi aiutiamo nostro Padre a percorrere il cielo. E noi questo lo facciamo non solo per noi ma per il mondo intero. Se cessassimo di praticare la nostra religione, nel giro di dieci anni il Sole cesserebbe di levarsi, e la notte regnerebbe eterna ».
Fu quello il momento culminante del soggiorno di Jung presso gli indiani, ed egli scrisse
anzi che lo scambio di idee con Lago Montano gli aveva fatto comprendere « quali fossero i fondamenti della dignità, della tranquilla compostezza del singolo indiano. Essa
deriva dal suo essere un figlio del Sole; la sua vita è cosmologicamente significativa,
perché aiuta il Padre e il Conservatore di ogni vita nella sua quotidiana ascesa e discesa ». Soggiunse che, sebbene gran parte dei Bianchi sorriderebbero di tanta ingenuità
e si sentirebbero illuminati e superiori, siffatta reazione in realtà è promossa da una
segreta, inconfessata invidia per il ben maggior significato che la vita dell'indiano continua ad avere, in pari tempo mirando a mascherare, ai nostri stessi occhi, la povertà
della vita che noi conduciamo. Se si guarda a tale situazione razionalmente (pensando
cioè "dentro la testa"), può sembrare assurdo credere che l'uomo abbia una qualsiasi
influenza sul sole, ma se teniamo presente che per i Pueblos il sole è dio, e che anche
la religione cristiana « è permeata dall'idea che particolari azioni o un determinato tipo di azioni possono esercitare un'influenza su Dio, a esempio mediante certi riti o
preghiere, o con una condotta morale che sia di gradimento alla divinità »,
il quadro ci apparirà assai diverso. A sembrarci strana, non è in particolare l'idea che
l'uomo possa influire su Dio (che per gli indiani, ripeto, è il sole), bensì l'altra, che
l'uomo possa addirittura aiutare Dio. Le nostre preghiere sono tutte indirizzate allo
scopo di impetrare favori da Dio; l'indiano ha molta maggior dignità, perché pensa con
il cuore e desidera dare oltre che ricevere; il suo cuore gli dice, non soltanto che ogni
esistenza necessita del calore e della vita del sole, ma anche che il sole ha bisogno
dell'uomo e delle cerimonie indiane che gli assicurano assistenza durante il suo viaggio
quotidiano. In fin dei conti, si tratta della stessa idea sottesa all'episodio, tanto caro
a Jung, del vecchio mago della pioggia cinese, il quale era del pari certo che soltanto
che l'uomo facesse proprio un giusto atteggiamento, che cioè fosse nel Tao, il tempo
atmosferico potesse essere favorevole alle messi e al benessere dell'umanità.
Se compiamo lo sforzo di tentare di pensare "dentro il cuore", anziché razionalizzare
nelle nostre teste, ci avvedremo subito quanto vicino alla verità fosse Lago Montano, il
capo indiano, affermando che l'americano, che sta per l'uomo bianco in generale, è
pazzo perché vuole sempre pensare "dentro la testa", pretendendo di razionalizzare
ogni cosa, di vivere sempre e soltanto secondo intelletto e ragione. Gli indiani, che
pensano "dentro i loro cuori", parlano un linguaggio mitologico, ma quanto più vicini sono al mondo archetipico dell'inconscio, e quanto maggiori sono il significato e la dignità
delle loro esistenze! Nel capitolo dei Ricordi intitolato « Sulla vita dopo la morte »,
scritto più di trent'anni dopo il viaggio del Nuovo Messico, Jung osservava: «La do-
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manda cruciale per l'uomo è: "Sono o meno correlato a qualcosa di infinito?". È questa
la questione fondamentale di tutta la sua vita ». Indubbiamente, per l'indiano tale
rapporto esiste, ed egli ha la dignità e la tranquillità d'animo che ciò comporta. Ma per
l'uomo bianco d'oggi è un problema puramente individuale, e che troppi di noi mai neppure si pongono.
Le mordaci critiche rivolte dal capo indiano all'uomo bianco portarono Jung a « sprofondare in una lunga meditazione », non soltanto sul fatto che Lago Montano dichiarasse gli americani pazzi perché dicono di pensare "dentro la testa", ma anche sull'aria crudele che, sempre secondo il capo, tutti gli uomini bianchi avrebbero. « Le loro
labbra » diceva Lago Montano « sono sottili, i loro nasi grifagni, le loro facce rugose e
deformate da pieghe. I loro occhi hanno un'espressione fissa; sono sempre in cerca di
alcunché. Ma che cosa stanno cercando? I Bianchi vogliono sempre qualcosa; sono sempre a disagio e inquieti. Noi non sappiamo che cosa vogliano. Noi non li comprendiamo.»
Jung aveva trovato ciò di cui era andato in cerca così a lungo: un punto di vista completamente esterno dal quale contemplare l'uomo bianco. Riusciva adesso a considerare tutta la nostra storia alla luce di ciò che aveva appreso: quell'indiano « colpiva il nostro tallone d'Achille, metteva a nudo una verità alla quale siamo ciechi ». Nel corso
della sua lunga riflessione sulle parole di Lago Montano, Jung ebbe l'impressione di
avere davanti agli occhi « le legioni romane che s'avventano sulle città della Gallia e i
tratti marcati di Giulio Cesare, di Scipione l'Africano, di Pompeo ». Scorgeva « l'aquila
romana sulle rive del Mare del Nord e su quelle del Nilo Bianco... E le schiere degli eserciti crociati intenti al saccheggio e al massacro... e la vuotaggine di tutto il vecchio
romanticume sulle crociate ». Più tardi, si rese conto di tutto il male fatto dai nostri
missionari, pure armati di così buone intenzioni, ma tutti tesi a imporre il cristianesimo, la presunta religione dell'amore, a «quei remoti Pueblos che sognano pacificamente alla luce del Sole, loro Padre », e del male fatto alle pacifiche popolazioni
delle isole dei Mari del Sud mediante l'introduzione « dell'acqua di fuoco, della sifilide
e della scarlattina ».
Quella meditazione, a detta di Jung, fu sufficiente per fargli apparire un altro sembiante dietro alle nostre bene intenzionate missioni e a ciò che definiamo "diffusione
della civiltà", ed erano « le fattezze di un uccello da preda che guata con crudele intensità una vittima distante - un grifo degno di una razza di pirati e di briganti ». E si
rese allora conto che « tutte le aquile e gli altri animali da preda che ornano i nostri
stemmi » sono « adeguate rappresentazioni psicologiche della nostra vera natura ».