101 quanto sarà solida la personalità degli adulti ““facilitatori
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101 quanto sarà solida la personalità degli adulti ““facilitatori
quanto sarà solida la personalità degli adulti “facilitatori”: qualità che si manifesta nel tollerare l’astensione da qualsiasi intervento nel momento stesso in cui si è disponibili a farsi sorprendere (in un modo simile ci si comporta nell’Infant Observation) lasciando libero gioco alle istanze distruttive e ricostruttive, garante dello svolgimento e anche del segreto verso l’esterno. L’importanza di trovare uno spazio per rappresentare, per riavviare processi che possano portare a una maggiore consapevolezza traspare prepotentemente dagli esempi riportati nelle pagine finali, in un intreccio di note ambientali, storiche ed antropologiche. Nell’ambiente dove ci sono presenze umane amorevoli, accudenti ed interessate si può, forse, riparare, ma solo nel caso che sotto il trauma sia sepolta una possibilità di sviluppo che possa fare a meno del rigore e della dedizione della relazione analitica. Il libro, capace di avvincere e interessare un pubblico vasto e non solo specialistico, rende testimonianza a una capacità organizzativa e pratica non comune. Non è difficile immaginare le miriadi di difficoltà, non esibite nel testo, che accompagnano il progetto, tra scoramenti, fatica ed entusiasmi, mai disgiunto da un rigoroso lavoro di supervisione e di formazione degli operatori, garanti e facilitatori di un’auspicabile processo ricostruttivo. Wilma Bosio Blotto Marta Tibaldi (2011). Pratica dell’immaginazione attiva. Dialogare con l’inconscio e vivere meglio. Roma: La Lepre Edizioni. Pagine 176. Euro 18,00. È un libro leggero (nel senso di Italo Calvino, Lezioni americane) a proposito di aspetti psichici intensi: l’immaginazione attiva spaventa gli stessi junghiani, ma qui è descritta come qualcosa di naturale e tendenzialmente quotidiano. L’autrice chiarisce subito che «essa comporta anche una certa dose di rischio» (p. 23), il rischio della «disgregazione psichica» (p. 160), e consiglia di esercitarsi «sotto la supervisione di un/una analista junghiano esperto/a del metodo» che valuti «gli equilibri psicodinamici del futuro immaginante» (p. 50). Tuttavia il resto del libro prosegue con serenità: «questa realtà psichica è molto più vicina di quanto saremmo stati disposti a credere, molto più a portata di mano di quanto avremmo potuto supporre» (p. 34). Dunque non riguarda soltanto Jung e il Libro Rosso, e non ci sono particolari motivi di temerla; del resto «la paura aumenta l’oscurità e toglie le forze» (p. 39). Se ogni realtà psichica è emozione, e se le 101 emozioni possono tradursi in immagini, allora il nostro intero vissuto può divenire immagine, o lo è già senza che ce ne rendiamo conto. Per esempio nel lavoro analitico non soltanto i sogni sono immagini, ma tutto ciò che racconta il paziente è un’immagine e può essere letto non diversamente da un sogno; è un quadro o rappresentazione della sua situazione. Se una persona racconta di quella volta che è rimasta bloccata in un tunnel nel traffico fra clacson e imprecazioni, non c’è grande differenza rispetto al fatto che racconti un sogno in cui era bloccata in un tunnel nel traffico: si può lavorare sull’immagine del sogno, e si può lavorare sull’immagine del racconto. Entrambe possono essere interrogate, entrambe possono rispondere. E probabilmente le risposte emotive non sarebbero molto differenti. Dunque il libro sostiene che tradurre da emozioni a immagini, e viceversa, è più agevole ed estensibile di quanto si creda, e più praticabile dentro e fuori l’ambito terapeutico. Ed è salutare; lo confermano le neuroscienze riguardo l’importanza dell’immagine come forma di elaborazione del vissuto (Tibaldi usa Damasio, Schore, Siegel). È una sorta di meditazione e Jung ne spiega il fondamento teorico: «Con la nostra mente cosciente possiamo produrre ben poco. Dobbiamo sempre affidarci a quel che letteralmente cade nella nostra coscienza» (p. 45, citato da Fondamenti della psicologia analitica). Il tunnel sognato o raccontato cade (einfällt) nella nostra coscienza, nel senso in cui anche le fantasie volontarie sono involontarie, ovvero dicono inevitabilmente ciò che noi inevitabilmente siamo, in quel momento e in generale. Jung ha sempre affermato la costanza del sottofondo psichico, non soltanto archetipico ma complessuale. Ciò non vuol dire che i dettagli di un’immagine siano insignificanti, ma piuttosto che l’intera estensione immaginifica di una persona può essere trattata allo stesso modo. Le emozioni si traducono in immagini, le immagini in emozioni. Così se cammino per strada e sono angosciato, da questa angoscia può nascere un’immagine, e questa immagine può essere interrogata. Già di per sé l’immagine aggiunge significato all’angoscia; ma l’immaginazione attiva sviluppa ulteriormente questo significato: «quando vi concentrate su un’immagine interiore, essa comincia a muoversi, ad arricchirsi di particolari, a dispiegarsi» (p. 45, sempre dai Fondamenti). È il dialogo con l’immagine la cui struttura è dettagliata alle pagine 37-38. Il libro è una guida pratica, ma non mi fermo su quest’aspetto. Piuttosto ne sviluppo una conseguenza. L’immaginazione attiva rende possibile «il contatto diretto, attivo e consapevole con il nostro daimon, focalizza la coscienza sulla nostra vocazione» (p. 27). Senza dubbio Socrate pensava che ciascuno potesse raggiungere il proprio daimon; però ciascuno ad Atene significava cittadini liberi e agiati. Comunque liberi dal lavoro, che non era considerato un valore ma una disgrazia. Ossia un genere di persone non 102 incatenate alla necessità, al senso comune, e all’estroversione; libere invece di darsi all’otium e di apprezzarlo. Mi domando allora per quanti l’immaginazione attiva rappresenti una via, proprio perché Jung si domandava per quanti potesse esserlo la vocazione. A leggere il Divenire della personalità (Jung, 1932), daimon e vocazione riguardano pochi individui: «la stragrande maggioranza degli esseri umani sceglie di seguire non la propria strada, ma le convenzioni» (Jung, Opere, vol. 17, p. 169). Jung stava con Eraclito, più che con Marx. Infatti, nel 1925 (L’inconscio nell’educazione individuale) scrive: «credo [ …] che moltissimi rappresentino una combinazione ereditaria di così scarso valore che, sia per la società, sia per loro stessi, farebbero meglio a rinunciare a qualsiasi indole individuale» (Jung, Opere, vol. 17, p. 147). Questo significa che l’immaginazione attiva non è tanto pericolosa, quanto inadatta ai più, perché implica un’attitudine riflessiva, introvertita, e diciamo pure gratuita, che i più non hanno, forse non possono avere, e soprattutto non vogliono. «Il detto “molti sono i chiamati, e pochi gli eletti”, è particolarmente vero in questo caso; perché lo sviluppo della personalità, dalle sue tendenze in nuce fino alla completa consapevolezza, è al tempo stesso un dono e una disgrazia: la sua prima conseguenza è il consapevole e inevitabile distacco dell’individuo dalla dimensione indifferenziata e inconsapevole della massa. Ciò significa isolamento, e non c’è parola più confortante per definire questa condizione. Neanche il più riuscito adattamento, neanche il più felice inserimento nel proprio ambiente, né la famiglia, né la società, né la posizione possono salvare da questo destino. Lo sviluppo della personalità è una fortuna che si può pagare solo a caro prezzo. Chi parla tanto dello sviluppo della personalità, pensa pochissimo alle conseguenze, che bastano a destare il più profondo sgomento in spiriti indubbiamente più deboli» (Ibidem, p. 168). In altri termini, «nessuno [ …] sviluppa la propria personalità perché qualcuno gli ha detto che sarebbe utile o raccomandabile farlo» (Ibidem). Qui non si tratta di razzismo, ma del coraggio di affermare che lo sviluppo della personalità è «un’impresa impopolare» (Ibidem, p. 169). Mi sembra che Tibaldi non si nasconda il problema – si può essere ottimisti o pessimisti su questo punto, forse mai realisti – e risponde con un cauto ottimismo nel capitolo 5, che inizia rispondendo all’annosa questione: «La psicoanalisi è una pratica per ricchi annoiati o è un efficace strumento di terapia e di crescita per tutti?» (p. 133). La risposta è che le persone medie «oggi giungono nella stanza d’analisi con una sorta di incompetenza e di disorientamento psicologici di fondo. Un’“inconsceità di ritorno”» (p. 139). Questo darebbe ragione al pessimismo di Jung, perché i pazienti di una volta provenivano dalle classi elevate, e la condizione attuale dipende anche dall’allargamento dell’utenza: una volta accedevano soltanto i pochi, 103 adatti e selezionati (hoi polloi di Eraclito). Ma se è data una risorsa naturale dell’essere umano alla crescita personale, una vitalità psichica di fondo, le difficoltà poste dagli ostacoli sociali, economici, e culturali non sono insormontabili. Si può essere teoricamente pessimisti e pragmaticamente ottimisti: si fa quello che si può, quando si può. Certo non avendo più a che fare con l’élite ci si adatta a chi si ha di fronte, nel senso migliore. Ciò significa, secondo Tibaldi, il lavoro su «setting multipli» (p. 101) e l’importanza di modalità cliniche «che apparentemente possono sembrare “non analitiche”» (p. 142). In questo contesto allargato è importante non comportarsi come sacerdoti o «burocrati della psiche» (p. 138), ancorché più faticoso. Adriano Bugliani Maria Cristina Barducci (20122). Specchio delle mie brame. Narcisismo femminile e passione amorosa. Roma: Magi. Pagine 168. Euro 15,00. Questa ultima fatica di Maria Cristina Barducci Specchio delle mie brame. Narcisismo femminile e passione amorosa si pone come un’ulteriore tappa nello studio della soggettività femminile che l’analista junghiana ha percorso con suo pensiero e il suo lavoro clinico. Nell’introduzione al precedente scritto della Barducci, Il velo e il coltello (Vivarium 2006), Elena Pulcini ne riconosceva la peculiarità: «Giocando dunque sul nesso identità/differenza Barducci rende esplicita la sua proposta interpretativa che è quella di tornare al mito [ …] attraverso una lettura simbolica e psicologica che assuma e integri il punto di vita della teoria della differenza di genere la quale, è bene ricordarlo, ha agito e continua ad agire, da qualche decennio a questa parte, come potente leva decostruttiva delle interpretazioni tradizionali, capace di smontare certezze, rovesciare prospettive, rivelare verità rimosse o semplicemente sgradite» (p. 12). In quel lavoro, infatti, Barducci analizzava la passione di sé che spesso muove le donne: Tamar, Giuditta Lilith e ancora Penelope, Medea, Niobe venivano intese come donne che «lottano per affermare la loro dignità e la loro soggettività e reinterpretano al femminile – tutte, ognuna a modo suo, anche fallendo – le tappe fondamentali della loro esistenza: sessualità, matrimonio, maternità, rapporti col mondo e rapporti col divino» (p. 43). La ricerca della Barducci si è successivamente soffermata sulla maternità con una raccolta di saggi di diverse autrici, Paradossi di Maternità (Vivarium 2008) in cui, di questo momento centrale dell’identità femminile, viene rilevata la caratteristica di agire simbolicamente come identità rela104