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Anno III - Numero 01
Settimanale della Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss Guido Carli
Reporter
13 Novembre 2009
nuovo
Che politica
Due opinionisti:
quale Pdl e Pd
Dopo Berlino
Un mondo
retto da muri
Obama
Il grande
procrastinatore
Grandi Fratelli
Il millennio
dei reality
LA SFIDA
DELLE LOBBY
DIBATTITO ALLA LUISS. UNʼATTIVITÀ UTILE DA FAR USCIRE DALLʼOMBRA
Politica
Sfide, nodi e problematiche delle due principali forze di maggioranza e opposizione
Diversi, ma con problemi uguali
Pdl e Pd alla ricerca di un equilibrio che non c’è. Un percorso difficile
Berlusconi e Bersani, leader dei due principali partiti di maggioranza e opposizione, si trovano a dover gestire situazioni differenti, ma ugualmente imprevedibili. Nel Popolo della libertà sono
molti i temi al centro di un dibattito interno non
privo di toni decisi e forti prese di posizione: elezioni regionali, giustizia, economia, funzionamento
del parlamento e rapporti con le istituzioni, que-
stioni etiche, cittadinanza. Al confronto interno tra
le varie anime del partito si aggiunge la necessità di mediare con la Lega, alleato agguerrito quanto esigente. Nel Partito Democratico, a due settimane dalle primarie che hanno sancito la vittoria
di Bersani, le fonti di preoccupazione restano la
scissione guidata da Rutelli, di cui cominciano a
definirsi i confini, e una rinnovata questione mo-
rale, innescata non solo dal caso Marrazzo, Altre
sfide attendono inoltre il nuovo segretario: i rapporti con le minoranze interne, la questione delle alleanze ed il nodo della laicità.
Reporter Nuovo ha affrontato questi temi con
Stefano Cappellini, vicedirettore del Riformista,
e Filippo Ceccarelli, cronista politico della Repubblica.
La pace di Fini con il Cavaliere E Pier Luigi Bersani punta
aspettando la successione
su etica e compattezza
Stefano Cappellini, qual è
lo stato di salute del Pdl e
come legge la situazione all’interno della maggioranza?
«C’è grande tensione tra le
diverse aree del Pdl. Il funzionamento del partito, il programma, le alleanze, l’immigrazione, il caso Tremonti… A
elencare le circostanze che
hanno creato tensione nella
maggioranza, si arriva a contarne una decina solo negli ultimi tre mesi. Fino ad arrivare, ovviamente, alla giustizia».
La giustizia, appunto, è
stata oggetto di un atteso incontro fra Berlusconi e Fini.
Sembra abbiano trovato un
accordo. Questione archiviata o tregua momentanea?
«Non mi pare che la situazione sia risolta. Anche perché
Berlusconi non è comunque
molto soddisfatto: pensa che
ci siano strumenti più efficaci per ottenere il suo scopo, a
cominciare dalla legge che lo
mette a riparo dai processi. Da
parte sua Fini ha dato un via
libera su questo ddl, ma ha posto dei paletti. Soprattutto ha
dato un messaggio politico
molto chiaro: non è intenzionato a coprire una legge ad
personam. I problemi rimangono: c’è un Berlusconi insoddisfatto e c’è un Fini che si
è smarcato platealmente».
Queste tensioni produrranno cambiamenti decisivi
negli equilibri interni o rientreranno senza causare clamorose modifiche, come successo per esempio con il “discorso del predellino”?
«Non ci saranno cambiamenti finché Berlusconi sarà
in campo. Questa, però, non
è una sfida che si gioca sull’oggi. Fini è convinto di essere
il leader più credibile per succedere alla guida del partito e
sta creando le condizioni perché ciò avvenga. Non essendo
uno stupido, si guarda bene
dallo sfidare apertamente oggi
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13 Novembre 2009
INSIDIE
Per Silvio
Berlusconi
il rischio che
gli attacchi
arrivino
anche dagli
alleati
la leadership di Berlusconi. Rispetto al precedente del predellino, bisogna considerare
che in quella situazione furono determinanti le elezioni anticipate. Fini non aveva, in
quel momento, altra arma
che far rientrare il suo dissenso. Non è un caso che
Berlusconi adesso minacci di
tornare alle urne. Sa che questa minaccia è quella che più
L’ex leader di An
pone le condizioni,
ma con cautela
fa paura ai suoi oppositori interni, proprio perché nuove
elezioni porterebbero molti
su una scelta obbligata: ricompattarsi».
Regionali: qualcuno parla
di dazio, che la maggioranza
starebbe pagando, a una Lega
in crescita, altri di normale
confronto fra alleati. Lei come
la pensa?
«Non c’è dubbio che sia un
dazio. La Lega può chiedere
con forza Veneto e Piemonte
perché la sua crescita elettorale
negli ultimi due anni è stata
virtuosa. In politica contano
anche i numeri ed è indiscu-
tibile che la forza della Lega al
nord legittima la richiesta».
Le distanze sulle questioni etiche e sulla cittadinanza
sono colmabili o sono destinate a creare nuove spaccature?
«Su queste questioni non
vedo alcuna conciliazione possibile. La mediazione si trova
quando è pensabile un incontro a metà strada. Qui siamo di fronte a due visioni
completamente opposte di
questi temi».
Come legge la scelta di affidare la gestione economica
a un organo collegiale?
«Nel Pdl c’era da tempo chi
sosteneva che Tremonti avesse accumulato troppo potere.
È un film già visto nel 2004,
con la differenza che allora
Tremonti era più debole e fu
costretto a lasciare il Ministero. Ad ogni modo, aspetterei
a pronunciarmi. Si è parlato
tante volte di cabine di regia e
comitati. A volte sono stati varati, ma non sempre hanno
funzionato. Talora si tratta
più di fumo negli occhi che di
altro, un modo per annunciare
che è tutto risolto, ma il ruolo effettivo di questi organi è
tutto da dimostrare».
Filippo Ceccarelli, qual è
lo stato di salute del Pd dell’èra Bersani?
«Il Pd non ha più le convulsioni, ma ancora la febbre
alta, con in atto infezioni di ordine morale, manifestatesi in
tutto il Sud. Nel Lazio c’è stata addirittura necessità di un
intervento chirurgico. Una
condizione, quindi, leggermente migliorata dopo le primarie, ma comunque abbastanza grave».
Quali, in sintesi, le priorità “etiche” del nuovo Pd?
«Cominciare a riflettere sui
comportamenti adeguati a una
forza di opposizione responsabile, stabilire che il potere
non è un pretesto per arricchirsi, ma una condizione di
servizio da dimostrarsi nei
fatti. È stato approvato un codice etico, ma l’importanza
sta nei comportamenti. L’etica
si pratica, non si proclama».
Non basterà, quindi, la
commissione sulla riforma
del codice etico appena insediata?
«Più che di riscrivere il codice, si tratta di imporre dei
comportamenti, semmai con
atti simbolici e concreti insieme».
Al Sud “signori delle tessere” e percentuali bulgare ai
congressi, c’è bisogno di un
nuovo inizio contro il clientelismo?
«Il partito democratico, soprattutto nel Mezzogiorno, ha
riunito in sé la disinvoltura
clientelare democristiana e la
rigidità burocratica comunista.
Solo un esame di coscienza
strutturale può salvare il progetto. Parlo del Sud perché lì
è ancora al potere, ma nel
Nord vive addirittura un problema di sopravvivenza».
La svolta a sinistra promessa da Bersani può cambiare le cose?
«Sono scettico sulla misu-
Pagina a cura di Enrico Messina e Davide Maggiore
DECISO
Il segretario
Pd è
consapevole
dei molti
problemi
del suo
partito
razione delle svolte in base a
destra e sinistra, parametri del
secolo scorso. Bersani ha le
spalle larghe, è l’epigono di
una illustre tradizione riformista, ma lo attende un lavoro duro: oltre al passo sicuro e
prudente dell’uomo appenninico c’è anche la necessità di
scatti di fantasia».
Dopo Rutelli e gli altri, voci
danno tra i partenti anche Vel-
Preoccupa anche
la distanza
tra vertice e base
troni, che smentisce: è un’ipotesi realistica o ci sarà ancora un ruolo nel partito per
l’ex-segretario?
«Il comportamento di Veltroni mi pare quello di chi è offeso, estraneo alle vicende del
partito. Non so se questo possa portare a un abbandono.
Credo che il partito non rientri tra le sue priorità. Certo, tra
la distanza con Prodi, l’abbandono di Rutelli, la solitudine di Veltroni, il Pd non può
gioire. Ma la vera distanza è
quella di tanti elettori e forse
anche iscritti».
L’opposizione interna: Ma-
rino si dice soddisfatto dalle
concessioni ricevute, ma Franceschini lavora a una sua
corrente. Il progetto di un partito coeso è destinato ad avere vita breve?
«Sì. La dimensione correntizia e oligarchica è uno dei
sintomi della malattia che affligge il partito fin da quando
è nato, un altro riflesso delle
peggiori tradizioni democristiana e comunista».
Laicità: Marino ha avuto
un successo inaspettato, ma
i cattolici restano forti. Il segretario potrà mediare?
«Forse, se il partito non cercherà di barcamenarsi. Gli
elettori chiedono autenticità.
Ogni mediazione ”furba” è
destinata al disastro».
Bersani cerca alleanze vaste ma credibili. Non si rischia
di ripetere l’esperienza dell’Unione?
«Si rischia di peggio: il
quadro politico è in dissolvimento, le grandi novità non
stanno avvenendo nel Pd, né
nell’estrema sinistra o nell’Udc, ma nel Pdl. Il partito democratico dovrebbe rapportarvisi, agganciare Fini. Penso
ad un Pd che sappia intercettare le novità senza pregiudizi e calcoli realisticamente le
sue mosse».
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Primo Piano
Alla Luiss una tavola rotonda su un’attività da regolamentare. L’obiettivo: più trasparenza
Ma la lobby fa bene al mercato
Protagonisti a confronto: modificare un provvedimento giova a tutti
BERETTA / LEGA CALCIO
VELARDI / RETI SPA
Così fanno tutti
Creare relazioni
“Tutti fanno lobby”. Ha esordito così
Maurizio Beretta, presidente della Lega Calcio con un passato in Confindustria e Fiat, nel
suo intervento. Le lobby, ossia gruppi d’interesse che lavorano al fine di influenzare le
decisioni delle istituzioni legislative, sono una
realtà che, pur essendo presente nel nostro
paese, è ancora legata a pregiudizi e considerata moralmente non giusta. Ma, in un
mercato imperfetto, di fatto esistono gruppi
di pressione che agiscono per promuovere
interessi di parte e alterano i meccanismi di
funzionamento del mercato stesso. “Non siamo in presenza di un meccanismo lineare”,
sostiene Beretta, e di conseguenza sono auspicabili politiche di riforma che garantiscano trasparenza, comportamenti uniformi e accesso aperto alla professione di lobbista.
E’ necessario, ha concluso Beretta, superare il concetto tradizionale di “lobby”, termine spesso usato con accezioni negative,
e convincere le aziende italiane a investire
nella trasparenza del processo legislativo e
delle interazioni tra i livelli decisionali. In questo contesto innovativo, il lobbista non è più
una figura ambigua dai contorni poco definiti, ma un professionista riconosciuto e, soprattutto, un costruttore di interessi comuni
che lavora per il bene dell’azienda e della collettività.
“Avrei avuto diverse ragioni per non
partecipare a questo convegno, e una soltanto per venire. Ed è che per fare lobby bisogna essere tra i lobbisti, e quindi esserci”. Claudio Velardi, socio fondatore di Reti
Spa, si presenta al pubblico come “un lobbista tra i lobbisti”, ossia come un professionista della comunicazione e delle reti di
relazioni.
Portando l’esempio di Reti Spa, la prima
società italiana di lobbying e public affairs,
Velardi richiama l’attenzione su uno degli
aspetti più delicati della professione del lobbista, e cioè la necessità di saper creare un
sistema di connessioni e mettersi al centro
di quello che è il processo decisionale finalizzato alla formazione delle leggi, e si
schiera a favore di un intervento che disciplini il mondo delle lobby, ne legittimi l’attività e ne promuova la trasparenza.
Il tutto, senza incorrere logiche organizzative di tipo corporativo. In relazione a tale
possibilità, Velardi sottolinea l’importanza della formazione del lobbista, figura professionale tradizionalmente poco apprezzata ma
di fondamentale importanza nel sistema economico attuale. Secondo Velardi, oltre alla
conoscenza del settore nel quale il lobbista
svolge la propria attività, è necessario investire sulle capacità personali e relazionali.
LUCCHINI / ENI SPA
Questa è democrazia
Ritorna nella stessa sala in cui discusse la tesi di laurea Stefano Lucchini, Senior
Executive Vice President Relazioni istituzionali e comunicazione di Eni Spa, per parlare di lobby. Lo fa citando il primo emendamento della Costituzione americana,
con riferimento al diritto riconosciuto a ogni
cittadino di riunirsi pacificamente e inoltrare petizioni al governo contro eventuali torti subiti.
Un emendamento, sottolinea Lucchini,
che legittima l’azione dei lobbisti in quanto
portatori di interessi particolari di fronte alle
istituzioni governative e legislative, e considera l’attività delle lobby come la forma più
alta di espressione della volontà del singolo individuo e, dunque, di democrazia.
La figura del lobbista, il cui obiettivo è
quello di influenzare il processo decisionale, è tutt’altro che scontata. Secondo Lucchini, il lobbista è un professionista che svolge il suo lavoro in un mix di “arte e scienza”,
e necessita di capacità relazionali e professionali, competenze settoriali e conoscenza di tutti gli attori coinvolti nel processo decisionale.
Codificare l’attività del lobbista è di per sé
una contraddizione, ma anche una sfida al
fine di creare professionisti in grado di interfacciarsi con diverse figure, dalla politica
alle associazioni dei consumatori.
Reporter
nuovo
FUNZIONA Una delle sedi della Commissione europea dove l’attività di lobbying è ammessa
I
n tempo di crisi economica, i lobbisti escono allo
scoperto e rilanciano: per
far ripartire un mercato statico e adagiato sui movimenti dei beni di largo consumo c’è
bisogno di loro. È quanto
emerso dalla ‘tavola rotonda’
sulle lobby, le imprese e il mercato del lavoro, svoltasi in occasione della presentazione del
primo Master Luiss in Relazioni Istituzionali. Un buon
motivo, dunque, per parlare di
lobby anche a chi non fa dell’economia il suo pane quotidiano, per il quale il termine
‘lobbista’ si traduce in un portavoce ‘partigiano’ di un determinato gruppo di potere che
lavora in sede istituzionale per
indirizzare provvedimenti in
proprio favore. E in tempi di
difficile congiuntura economica le lobby puntano sempre
più ad inserirsi da protagoniste in un mercato altamente
competitivo cogliendone le
novità “come un sensore”, secondo quanto affermato da
Pier Luigi Celli, direttore generale della Luiss.
“Tutti fanno lobbying”, ha
esordito Maurizio Beretta,
presidente della Lega Calcio,
invitato a portare testimonianza della sua esperienza,
datata 2003, come direttore
delle relazioni istituzionali e
internazionali del gruppo
Fiat. Al suo intervento sono
seguiti quelli di Stefano Luc-
chini dell’Eni, del suo collega
di Ibm, Giovanni Aliverti, e di
Claudio Velardi, socio fondatore di Reti Spa, la prima società italiana di lobbying e public affairs. Tutti hanno evidenziato la necessità di formare nuovi professionisti del
settore proprio perché è il
mercato stesso a richiederli.
Un mercato oramai fortemente orientato oltre confine,
dove questa pratica è legittimata. Basti pensare che a
Bruxelles si contano oltre tremila gruppi d’interesse spe-
Per il prof. Maffettone
è fondamentale
l’economia delle lobby
ciale operanti a viso aperto
nelle sedi della Comunità.
Da qui la necessità di regolamentare la professione anche in Italia per colmare un
vuoto normativo che non si registra in nessuna delle grandi
democrazie mondiali. Prima
fra tutte gli Stati Uniti, dove il
lobbying è oggi visto come
prassi costituzionalmente protetta dal Primo emendamento
(1791), nel quale è previsto il
diritto di petizione al Governo
a riparazione di danni subiti
per effetto dell’azione della
pubblica amministrazione. Tra
i molti altri, Harvard e Prin-
ceton fanno lobbying per avere più fondi pubblici per la ricerca; la US Catholic Conference, il potente organo dei circa 300 vescovi USA, fa lobbying, come l’organizzazione
storica dei neri (National Association for the Advancement
of Colored People). C’è quindi una protezione costituzionale che da noi manca, come
manca una corretta informazione e formazione sul responsabile coinvolgimento delle parti sociali all’elaborazione delle decisioni pubbliche.
Una lacuna che ha portato, negli ultimi anni, a un utilizzo
scorretto del lobbying come
strumento, aperto in linea di
principio a tutti, ma orientato
di fatto a privilegiare interessi corporativi e settoriali, il che
ha posto interrogativi in materia di princìpi democratici.
Studiare l’economia e le
tecniche del lobbying diventa
perciò “banalmente fondamentale”, come ha sottolineato Sebastiano Maffettone, preside della Facoltà di Scienze
Politiche che dirigerà il Master.
Vista da vicino, dunque,
quella del lobbista diventa
una professione in grado di rilanciare l’economia attraverso politiche di riforma per ridurre gli elementi di inefficienza del mercato, a patto che
sia regolamentata e controllata così da renderla metabolizzabile anche dai più scettici.
Pagina a cura di Federica Ionta e Alessio Liverziani
ALIVERI / RUSSO
Conoscenza e rete
E’ superata l’era in cui la carriera del lobbista era appannaggio esclusivo di politici e
giornalisti. E’ quanto sostiene GiovanniAliverti,
responsabile per le Relazioni istituzionali di
Ibm, un passato da businessman più che da
comunicatore. Il lobbista di oggi, secondo Aliverti, non può limitarsi ad essere un buon comunicatore ma deve soprattutto avere un bagaglio di conoscenze e competenze adeguato
al settore economico nel quale andrà a
svolgere la propria attività.
Se le lobby possono davvero allargare la
base dei processi decisionali, portando interessi privati ai tavoli istituzionali, allora è necessario puntare sulla formazione e sulla preparazione dei lobbisti e sulla loro capacità di
orientare le decisioni degli organi istituzionali
in maniera efficiente ed efficace.
E’ d’accordo su questo aspetto anche
Giampaolo Russo, responsabile della direzione Affari istituzionali e regolamentari di
Edison, che nel passato ha rivestito prestigiose posizioni direzionali nell’ambito del
marketing strategico per grandi aziende multinazionali.
Si deve valorizzare il “binomio tra conoscenza e rete”, sostiene Russo, e realizzare
un sistema univoco e trasparente nel mondo delle lobby che ne legittimi il ruolo strategico all’interno del sistema economico e
politico.
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Focus
Dopo Berlino, ancora barriere fra le nazioni e nelle città con motivazioni differenti
Un mondo che si regge sui muri
Evitano conflitti e terrorismo ma spesso causano anche sofferenza
BELFAST
La fabbrica dell’odio
Si chiamano “Peace line”, ma con la pace
non hanno nulla a che fare. Sono le barrriere che nell’Ulster separano le comunità protestanti dalle cattoliche; nel cuore di Belfast,
capitale della regione nordirlandese, questi
muri sono ben visibili a chi percorre le strade cittadine.
Edificati a partire dagli anni Settanta del
secolo scorso, sono sorti per separare fisicamente le due comunità cattoliche e protestanti, allora in feroce lotta fra loro. Sono ancora in piedi e, nonostante gli accordi di pace
vigenti fra le due comunità, la popolazione li
ritiene ancora indispensabili per garantire la
tranquillità delle due comunità. La barriera di
Cupar Street, nella zona occidentale cittadina, si snoda per più di un chilometro e può
essere oltrepassata in un unico check-point
che chiude alle 21. Oltre questo, ne esistono degli altri, alcuni “ufficiali” ed altri addirittura spontanei nei diversi quartieri cittadini,
compresi i giardini pubblici di Alexandra
Park. Le barriere sono diventate anche
un’attrazione turistica, grazie ai “Political
tours”, organizzati da un’associazione che raggruppa gli ex detenuti politici nord-irlandesi.
I muri, però, sono e rimangono il segno di
una pace non ancora pienamente realizzata fra le due comunità, che ancora si guardano
con sospetto e diffidenza reciproci.
USA-MESSICO
Immigrati da contenere
Nel mondo esiste un’altra barriera di separazione che è stata definita “muro della vergogna”. È la barriera che separa il sud degli
Stati Uniti dal confine con il Messico.
Edificata a partire dal 1994, la struttura si
estende nella zona di confine tra San Diego
e Tijuana, e in alcune zone urbane di confine negli stati dell’Arizona, del New Mexico e
del Texas. La barriera è dotata di illuminazione
ad altissima intensita, una rete di sensori elettronici e di visori notturni e possiede un sistema di vigilanza permanente, che viene effettuata con l’uso di veicoli ed elicotteri armati.
Lungo oltre 3.000 km, il muro è stato costruito principalmente per prevenire il fenomeno dell’immigrazione illegale messicana
verso gli Stati Uniti e per contrastare anche
il traffico di droga e stupefacenti.
Da parte messicana, sono piovute molte
critiche. L’allora presidente Vicente Fox ebbe
a dichiarare: «Questo non è il modo migliore per stabilire relazioni tra amici».
L’iter di approvazione della progettazione
del muro è sempre stato approvato a larghissimo consenso dal Congresso degli
Stati Uniti, a dimostrazione di come il
muro è ritenuto necessario da una grossa
fetta dell’opinione pubblica statunitense,
sebbene dal 1998 al 2004, lungo il confine
siano morte, secondo i dati ufficiali, circa
2.000 persone.
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N
el momento in cui tutto il mondo ricorda i venti anni della caduta di Berlino e le speranze
che l’avvenimento ha acceso nei cuori di molti, la domanda è: quanti muri esistono ancora nel mondo? Quante le barriere innalzate per dividere?
La più discussa è senza dubbio quella eretta da Israele in Cisgiordania. Costruita per impedire azioni terroristiche palestinesi ai danni dello stato ebraico, ha limitato, se non impedito, gli
spostamenti della popolazione che risiede nelle zone limitrofe con grandi sofferenze.
Un’altra è quella al confine tra Stati Uniti e Messico. Il governo statunitense l’ha costruita per
contrastare il fenomeno dell’immigrazione clandestina, suscitando le forti proteste del governo messicano ma incassando l’approvazione dell’opinione pubblica americana.
Esistono barriere anche fra la Corea del Nord e la Corea del Sud, divise sia da una zona demilitarizzata larga oltre quattro chilometri sia da lunghe staccionate fortificate.
Un muro di cui invece si parla poco esiste in Africa, nel Sahara occidentale, occupato dal Marocco nel 1975. Qui le autorita marocchine hanno innalzato il bern, come in olandese si dice muro
o terrapieno di sabbia o di terra.
L’opera venne realizzata per contrastare le azioni del Fronte Polisario, il movimento saharawi che rivendica l’indipendenza di questo territorio dal Marocco. Terminato nel 1987, il muro,
alto circa due metri e presidiato da numerose basi poste lungo l’opera di fortificazione, ha di fatto posto fine alle manovre del Fronte, che nel 1991 ha accettato un cessate il fuoco con il Marocco,
ma non ha messo la parola fine alle rivendicazioni indipendentiste del movimento saharawi.
Un altro muro ha fatto molto discutere l’opinione pubblica europea. È il caso della barriera
innalzata fra le due enclave spagnole di Ceuta e Melilla e il Marocco. Realizzata dal governo iberico per impedire i flussi di immigrazione illegale dall’Africa, la barriera è lunga circa venti chilometri e alta fino a sei metri. Questo muro è stato più volte definito il simbolo della distanza esistente tra la disperazione di milioni di persone e il benessere europeo.
Le barriere non separano solo gli stati ma possono anche dividere i quartieri cittadini. È il caso
di Belfast con le sue “Peace lines” e di Rio de Janeiro e le barriere che circondano alcune favelas.
Ma, rimanendo a casa nostra, un muro, edificato per contrastare la criminalità esistente nella zona, separa il quartiere di via Anelli a Padova dal resto della città.
RIO DE JANEIRO
PADOVA
Il pretesto delle foreste
Antidroga e crimini
Un muro per prevenire il disboscamento
della foresta tropicale. Anzi no, un muro per
combattere il dilagare della criminalità nelle favelas. Fa discutere il progetto avanzato dalle autorità dello stato brasiliano di Rio de Janeiro, che ha già iniziato i lavori di realizzazione
di una barriera all’interno delle favelas cittadine. A lavori ultimati, il muro, assai simile a
quello realizzato in Palestina, sarà alto oltre
tre metri e lungo quasi 15 chilometri.
Nella città brasiliana, la popolazione e le
autorità cittadine sono nettamente divise sull’efficacia dell’operazione. Secondo alcuni
abitanti, l’opera non avrà alcuna efficacia, in
quanto il muro verrà quasi certamente scavalcato in qualche modo. Nelle favelas, invece,
monta la protesta. Qui piovono accuse alle autorità di voler discriminare tutte le persone che
ci vivono; ancora peggio si accusano i costruttori di voler introdurre un regime di apartheid. E in realtà, sono in molti in Brasile a sostenere che le autorità vogliano nascondere
il vero intento del progetto. Non si capisce, infatti, come mai, se davvero si vuole prevenire il disboscamento delle foreste tropicali, il
muro non riguardi i quartieri bene della città,
anch’essi più volte accusati di contribuire al fenomeno del disboscamento. A loro giudizio,
la barriera in realtà è stata pensata esclusivamente per contrastare il fenomeno della criminalità dilagante all’interno delle favelas e per
stroncare il traffico di stupefacenti che frutta
40 milioni di euro all’anno. Ma in pochi sono
disposti a scommettere che la barriera possa davvero estirpare questo fenomeno all’interno delle baraccopoli.
L’ultimo “muro” di Italia non è stato smantellato a Gorizia nel 2004. Si trova a Padova
ed è stato costruito nel 2006 dall’amministrazione comunale nel quartiere periferico di
via Anelli.
La barriera è stata edificata per separare
la zona, ritrovo di spacciatori e extracomunitari, dalle abitazioni dei residenti di via De
Besi.
Prima dell’edificazione del muro, i residenti
hanno più volte lamentato numerosi disagi;
e sono stati loro, esasperati dalla situazione,
a invocarne la realizzazione.
L’amministrazione comunale, per agevolare i controlli delle forze dell’ordine e per impedire l’ingresso nella zona di trasgressori, ha
provveduto a chiudere al traffico non residenziale la zona ed ha istituito due posti di
blocco per l’identificazione.
Sull’opera, sono piovute numerose critiche.
La struttura viene infatti giudicata come un
monumento all’intolleranza e alla discriminazione. C’è chi ha avanzato paragoni con
la situazione di Belfast, dove da oltre trent’anni
diversi muri dividono i quartieri protestanti dai
quartieri cattolici. E chi ha di fatto definito la
zona come un nuovo centro di permanenza
temporanea, vista la serie di controlli a cui
sono sottoposti i residenti nel quartiere.
Dal canto loro, l’amministrazione comunale
e i sostenitori della costruzione respingono le
critiche. Sottolineano infatti come la realizzazione del muro sia stata dettata solamente da ragioni di pubblica sicurezza e la richiesta di realizzazione avanzata esplicitamente dagli stessi residenti nel quartiere.
Pagina a cura di Andrea Pala
CISGIORDANIA
Separa anche i giudizi
Muro della vergogna per gli arabi, barriera anti terrorista per gli israeliani; così le due
popolazioni definiscono la muraglia che separa la Cisgiordania da Israele.
Lunga circa 700 km, separa i due territori partendo dalla città palestinese di Tulkarem,
nel nord, attraversando poi Gerusalemme e
fermandosi a circa 20 km dal Mar Morto.
Ufficialmente la barriera è sorta per motivi di sicurezza per contrastare le azioni terroristiche ai danni dello stato ebraico, ma, per
le autorità palestinesi, l’opera ha complicato
e reso difficili gli spostamenti della popolazione, che, a causa della barriera, devono
chiedere continui permessi alle autorità israeliane.
Sul muro pende la condanna della Corte
internazionale di Giustizia dell’Aia, che ha ritenuto l’opera come «contraria al diritto internazionale». In seguito, anche l’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite ha preso atto del
parere espresso dalla Corte e ha adottato una
risoluzione con la quale «esige che Israele,
potenza occupante, rispetti i suoi obblighi giuridici come essi sono enunciati nel parere consultivo».
Nonostante la condanna internazionale,
però, il muro è ancora lì a dividere palestinesi
ed israeliani che, dopo più di sessant’anni, ancora sono lontani dall’essere in pace.
COREE
Per evitare invasioni
È il “muro” più longevo del mondo; divide
la Corea del Nord dalla Corea del Sud dal
1953, quando, dopo la guerra, le due parti firmarono l’armistizio, ma non giunsero mai a
un accordo di pace. Da quel momento, le due
nazioni, ancora formalmente in stato di guerra, sono separate da una zona demilitarizzata,
ampia 4 km, che corre lungo il 38° parallelo.
Sia i nordcoreani che i sudcoreani hanno
edificato, nei rispettivi confini, delle barriere
difensive che hanno lo scopo di proteggere
le due nazioni da reciproche invasioni. Sul lato
nord, la barriera segue la conformazione del
paesaggio ed è composta da numerose casematte, vedette e fortezze militari.
Sul lato sud, invece un muro è stato edificato a partire dal 1977; si trova a ridosso della zona demilitarizzata che sorge all’altezza
del 38° parallelo e si estende per 240 km. Costruita congiuntamente dai militari sudcoreani
e americani, ufficialmente la barriera è stata
edificata per contrastare un’eventuale invasione militare nordcoreana; secondo un alto
ufficiale militare sudcoreano, però, il muro sarebbe stato costruito per scongiurare ogni tentativo di pacificazione e di riunificazione fra le
due comunità. Nonostante alcuni timidi tentativi, la strada verso la pacificazione è ancora
lontana dal traguardo e, dunque, questo muro
continuerà a lungo a dividere i coreani del
Nord da quelli del Sud.
Reporter
nuovo
Mondo
Dal grande sogno al grande procrastinatore. Ripresa economica, ritiro delle truppe e sanità
L’America delle promesse rimandate
Afghanistan, sanità e discriminazioni sessuali i grandi nodi da sciogliere
Federica Ionta
E’ già finito il tempo in cui
l’America e il mondo intero sognavano sulle note di Beyoncé, mentre il neo presidente
degli Stati Uniti d’America, fresco di giuramento, inaugurava il palco del ballo presidenziale di Washington al fianco
della first lady? Si è forse già
conclusa la luna di miele mediatica tra l’opinione pubblica americana (e non) e uno tra
i maggiori comunicatori della politica degli ultimi 30
anni, l’uomo che ha convinto
milioni di elettori a tornare alle
urne, perchè si può cambiare,
“yes, we can”?
Difficile da dirsi. Certo è
che Barack H. Obama, 44° presidente americano e primo
afroamericano alla Casa Bianca, si trova, a un anno dalla sua
spettacolare elezione, con una
serie di gatte da pelare. Passato
il peggio della crisi economica, ma non del tutto superato lo choc degli americani di
fronte alla sua decisa linea di
intervento nel settore economico e in particolare automobilistico, rimangono grossi punti interrogativi sulla sicurezza interna ed esterna, la
politica internazionale, la riforma sanitaria e l’emergenza
dell’influenza A/H1N1. A un
anno da quella sera di novembre in cui l’America gli ha
regalato oltre 69 milioni di
voti, le risposte del presidente sembrano non piacere più
a un elettorato impaziente e
abituato a ottenere tutto e
subito, e il messia della politica nazionale e internaziona-
SOTTO SCACCO Per Obama l’euforia della luna di miele si va spegnendo
le si è trasformato nel “grande procrastinatore”, cioè colui
che rimanda le decisioni sui
grandi temi d’interesse del
paese scontentando i suoi
stessi elettori.
Non hanno fatto, forse,
tanto eco le prime dichiarazioni con cui Obama, nei
numero addirittura più alto di
un punto percentuale rispetto al consenso realizzato alle
elezioni, il livello di popolarità è calato del 24 per cento rispetto al momento dell’insediamento alla Casa Bianca,
nel gennaio scorso.
Sono molteplici i fattori
cui il generale McChrystal ne
ha chiesti altri 40 mila è ormai
di dominio pubblico. Anche
per questo è proprio in politica estera che Obama realizza il più basso dato di consenso, nonostante l’avvio di
una politica distensiva nei
confronti di Cuba e Venezue-
L’America di Obama compie un anno. Una ricorrenza tutt’altro che rosa
per un paese in bilico tra crisi finanziaria
e ripresa economica, missioni di guerra e un Nobel per la pace
giorni della sua elezione, aveva sottolineato le debolezze ormai strutturali del paese e la
difficoltà di risolverle in un
unico mandato. E a un anno
dalle elezioni, come al traguardo dei primi 100 giorni,
si parla di consenso ed ecco
che i numeri cominciano a calare. Anche se il 54 per cento
degli americani intervistati
dalla CNN si dice soddisfatto
dell’operato del presidente,
che incidono sul calo di consenso. La scelta di continuare
la missione in Iraq e di aumentare il contingente in Afghanistan ha certamente deluso l’America che aveva riposto in un presidente democratico le speranze di una
politica estera diversa dal passato. Si stima che, entro la fine
dell’anno, saranno circa 68
mila i soldati americani in
Afghanistan, e il rapporto con
la, con la revoca delle restrizioni ai viaggi verso l’isola
caraibica e la stretta di mano
con Chavez al vertice sulle
Americhe.
Non sono più semplici le
problematiche da affrontare in
politica interna. Alla comunità omosessuale non è bastata
la fine della prassi “non chiedere, non dire”, che consentiva
ai gay di arruolarsi nell’esercito
a patto di non dichiarare il
proprio orientamento sessuale, e migliaia di gay e lesbiche
hanno sfilato a Washington
per chiedere politiche più
concrete contro la discriminazione sessuale. Persino gli
innegabili risultati in materia
di sanità, è di questi giorni il
sì della Camera alla riforma
che prevede di realizzare la copertura sanitaria per il 96 per
cento della popolazione, mettono in discussione la popolarità del presidente con quella fetta di americani contrari
alla cultura dell’assistenzialismo o legati agli interessi delle grandi lobby del settore
medico e farmaceutico. La riforma, con un investimento di
1.200 miliardi di dollari, prevede infatti di estendere l’assistenza sanitaria a 36 milioni di americani e introduce misure di controllo, tra cui l’obbligo per i datori di lavoro di
assicurare i dipendenti e il divieto alle assicurazioni di aumentare il premio ad anziani
o persone affette da patologie
preesistenti all’acquisto della
polizza.
L’America di Obama, dunque, compie un anno. Una ricorrenza tutt’altro che rosa
per un paese in bilico tra crisi finanziaria e ripresa economica, assistenza sanitaria e
lobby del settore medico, missioni di guerra e un Nobel per
la pace. Certo è che, se gli Stati Uniti hanno avuto la pazienza di osservare un paese
che sprofondava in una crisi
senza precedenti, speriamo
ne abbiano altrettanta per
consentire allo stesso paese di
risollevarsi.
LA CASA BIANCA
Al passo
coi tempi
La capacità di interpretare il suo tempo è il
punto di forza dell’amministrazione Obama per
avvicinarsi e soprattutto
avvicinare a sé il maggior
numero di cittadini. Dalle foto della quotidianità
presidenziale sul portale
flickr.com, al restyling del
sito della Casa bianca in
open source, sulla falsa
riga dei blog dei teenagers
americani, fino allo ‘sbarco’ sui principali social
networks a quarant’anni
esatti da quello lunare. La
politica tecnologica del
presidente Usa segna una
svolta nei rapporti tra
utenti e pubblica amministrazione, all’insegna
della semplificazione della comunicazione ‘top
down’, quella cioè che
parte dalle Istituzioni rivolta alla cittadinanza. I
numeri, in costante ascesa, decretano il successo
dell’iniziativa: centottantamila iscritti al profilo
Facebook, altrettanti al
MySpace, mentre quarantunomila persone hanno scelto Twitter per ricevere gli aggiornamenti sul
lavoro della Casa Bianca
direttamente sul proprio
telefono cellulare.
A. L.
Camera dei rappresentanti, interprete del pensiero comune Organo di controllo super partes sull’operato del governo
Una garanzia per il popolo
I Senatori: la spina nel fianco
A differenza del Senato, dove tutti gli stati
hanno uguale rappresentanza, alla Camera ogni
Stato elegge un numero di rappresentanti proporzionale alla popolazione. Le elezioni si tengono ogni biennio nell’election Day, cioè il primo martedì dopo il primo lunedì di novembre
degli anni pari. I seggi sono attualmente quattrocentotrontacinque.
La Camera dei rappresentanti è detta anche
“camera del popolo”, intesa come fedele rappresentante e interprete dell’opinione pubblica. Per questo motivo è generalmente considerata un’assemblea in cui le contrapposizioni politiche, rispetto al Senato, sono più accentuate.
La Camera condivide con il Senato il potere legislativo, tuttavia soltanto i suoi membri
possono proporre leggi tributari. Alla Camera
spetta la facoltà di avviare il procedimento di
Il Senato americano rappresenta in maniera egualitaria tutti gli Stati, per ognuno dei quali due rappresentanti sono eletti dal popolo per
un totale di cento senatori. Condivide con la
Camera il potere legislativo e le funzioni di controllo sull’esecutivo, ma possiede anche alcuni poteri esclusivi, tra cui la ratifica dei trattati internazionali e l’approvazione delle nomine di molti funzionari e dei giudici federali.
I senatori restano in carica per sei anni, con
scadenze dei mandati distribuite nel tempo in
modo che un terzo sia rinnovato ogni biennio.
Questo consente un’atmosfera più collegiale e
meno partigiana, poco influenzabile dall’opinione pubblica e soprattutto dai poteri forti.
Comprende sedici commissioni permanenti, ciascuna delle quali competente per una
determinata materia: affari dei veterani; agricoltura, nutrizione e foreste; ambiente e lavo-
Reporter
nuovo
impeachment del presidente degli Stati Uniti
e la rimozione dalla carica di un funzionario o
di un giudice federale.
La Costituzione prevede che la Camera elegga autonomamente il proprio presidente, detto Speaker, carica ricoperta attualmente da Nancy Pelosi. Il portavoce proviene dal partito di
maggioranza, presiede le sedute, assegna le proposte di legge alle varie commissioni, nomina
i membri di alcune commissioni, e ha una notevole influenza sull’orientamento del gruppo
parlamentare del suo partito e sui lavori dell’assemblea. Per questo motivo la Camera si trova spesso in linea con l’operato del governo.
Una decisione clamorosa fu la bocciatura del
piano anti-crisi proposto dall’amministrazione
Bush alla fine del mandato, appoggiato persino dai democratici di Barack Obama.
A. L.
ri pubblici; attività bancarie, alloggi e affari urbani; bilancio; commercio, scienza e trasporti; energia e risorse naturali; finanze; forze armate; piccole aziende e imprenditoria; rapporti
con l’estero; regolamento e amministrazione;
sanità, istruzione, lavoro e pensioni; sicurezza
interna e affari governativi; sistema giudiziario;
stanziamenti.
Durante il primo anno di amministrazione
Obama, il Senato ha fatto la voce grossa facendo
valere, in molte occasioni, il suo ruolo di controllore: dal piano salvaauto alla chiusura della prigione di Guantanamo, fino all’ultima bocciatura della commissione finanza della prima
proposta di legge sulla riforma del sistema sanitario nazionale, approvata nella seconda
versione dalla Camera e tutt’ora in attesa di un
sì definitivo da parte del Senato.
A. L.
13 Novembre 2009
5
Cronaca
Dopo la strage nella base militare di Fort Hood ci si interroga sulle cause di fenomeni diffusi
Vittime di un disagio inascoltato
Numerosi casi di doppia identità, mobbing, difficoltà ad integrarsi
Marco Maimeri
Gli ultimi sviluppi delle indagini sulla strage di Fort
Hood per mano di Nidal Malik Hasan, medico militare
specializzato in malattie mentali da stress, riaccendono il
dibattito sulle cause che portano persone apparentemente normali a trasformarsi in
pericolosi cecchini. Stavolta,
però, non si tratta del classico problema del libero possesso e uso indiscriminato
delle armi leggere in America.
In questo caso, l’omicida ha
fatto fuoco con armi civili in
un contesto militare. La causa principale pare sia stata la
sua repulsione a partire per
l’Afghanistan o l’Iraq. Malik
Hassan era psichiatra e si occupava di curare i disagi provocati dallo stress post-traumatico in seguito a missioni
di guerra. Essendo musulmano, poi, aveva, per motivi
religiosi, ritrosia a combattere contro altri “fratelli islamici”. La sua fede, però, c’entra poco: non ha ucciso perché spinto dal Corano o da Al
Qaeda. Ha ucciso perché stressato dal fatto di essere, allo
stesso tempo, un musulmano
praticante e un soldato americano, fedele sia all’Islam sia
alla patria. Il suo disagio era
noto: ne aveva parlato con pa-
SCAMPATI Nella base militare di Fort Hood i colleghi del killer sopravissuti alla strage
renti, amici e conoscenti, ma
non riusciva a farsi ascoltare
dall’esercito. L’US Army gli
aveva sempre negato qualsiasi possibilità di uscire dai
ranghi. Era stressato: non voleva vivere una condizione
che, da una parte, lo poneva
di fronte a pazienti ossessionati dallo stesso suo dilemma
– come conciliare religione e
patriottismo – e, dall’altra, lo
esponeva ad azioni fisiche e
verbali di “mobbing” da par-
te di colleghi che lo discriminavano a causa del suo nome
e della sua fede. Una condizione diffusa all’interno del sistema militare americano che
lui conosceva bene sia da vittima sia da psichiatra. Per
questo si era rivolto a un avvocato: voleva far causa ai vertici delle forze armate per ottenere la rescissione del contratto oppure la concessione
di un congedo anticipato.
Questo tipo di disagio, un
aggravamento del cosiddetto
“stress combat” o “sindrome
da Vietnam”, collega la strage a quelle di stampo giovanile-scolastico commesse da
“school shooters”, pistoleri
della scuola. Anche in quei
casi, ragazzi timidi e riservati uccidono coetanei e persone dello stesso ambiente, per
problematiche varie – mancanza di integrazione, gelosia,
umiliazione, noia, scontento
ideologico – ma tutte legate al
desiderio di liberarsi dalle
frustrazioni. Un caso emblematico avvenne in Virginia,
nel campus del politecnico di
Blacksburg, nel 2007. Cho
Seung Hui, studente sudcoreano, uccise 32 persone, la
maggior parte suoi colleghi.
La causa pare sia stata gelosia
nei confronti di una ragazza,
ricca, che lo aveva rifiutato. Il
ragazzo, però, era già disturbato. Alcuni insegnanti avevano notato e denunciato alle
autorità del campus i suoi
strani comportamenti: aveva
dato segnali della sua follia anche attraverso scritti finiti poi
nelle mani dei docenti. Ma
nulla era stato fatto: il suo disagio era rimasto inascoltato.
Era un giovane depresso, ombroso, uno studente, prossimo
alla laurea, che sfoggiava fantasie morbose, comportamenti violenti e risentimenti
contro le classi ricche e privilegiate. Tutti campanelli
d’allarme per chi avrebbe dovuto capire. Un po’ come per
i due giovani della Columbine High School affascinati da
un’ideologia gotico-nazista.
Lì una morale deviata ebbe il
sopravvento ma alla base c’era
sempre un aspetto: la mancanza di attenzioni e di valori derivati da una famiglia
che, pur valida, era affettivamente assente.
Con una frase ambigua il diritto degli americani a “portare armi” è sancito dalla Costituzione
E c’è anche chi ne vorrebbe avere di più
Eloisa Moretti Clementi
Il diritto di possedere armi
è sancito dalla Costituzione
americana all’interno della
Dichiarazione dei Diritti, ovvero i dieci emendamenti al
testo costituzionale approvati
nel 1791. In particolare, è il
secondo emendamento a parlare del diritto delle persone
di detenere e portare armi. La
sua interpretazione ha suscitato nel tempo molti più
contrasti e dibattiti di ogni altro passaggio della Dichiarazione, soprattutto rispetto
alla corretta comprensione
dell’espressione “the right to
keep and bear Arms”, frase
che può avere un duplice significato: il primo, ormai
anacronistico, fa riferimento
alla partecipazione dei cittadini alla milizia che aveva
combattuto durante la rivo-
6
13 Novembre 2009
luzione americana, mentre il cana è spaccata tra due vi- trolli, piuttosto che di varasecondo sancisce il diritto di sioni opposte: c’è chi ritiene re leggi più restrittive. Seogni individuo a possedere che la libera detenzione del- condo Larry Pratt, direttore
armi. Solo di recente si è ar- le armi determini un rischio esecutivo della lobby prorivati a un punto fermo in troppo alto per la sicurezza armi Gun Owners of Amerimateria, nel 2008, quando la collettiva, e chi al contrario ca, dopo le ultime stragi avCorte Suprema ha ricono- suggerisce di ampliarne la venute nel Paese, è necessasciuto il diritto inalienabile vendita e il possesso per con- rio «abrogare immediatadei cittadini di
mente la
possederle. Non
legge sulle
Tra i motivi del boom di acquisti l’aumento
tutti però hanno
zone libedeciso di adere dalle
della microcriminalità e il timore
guarsi, come ad
armi, che
esempio la città che Obama possa restringere il possesso di armi lascia le
di New York,
scuole
che ha condidella nazionato a una licenza l’ac- sentire a chiunque di difen- zione alla mercè dei pazzi».
quisto di armi da parte dei dersi in caso di aggressione e Il numero di armi da fuoco
privati.
addirittura per prevenire le legalmente detenute è stiCome dimostrano i fatti, si stragi. I sostenitori delle armi mato intorno ai 250 milioni
tratta di un principio gravi- libere invocano il diritto dei e i media americani rilanciado di conseguenze: nel 2005, cittadini alla legittima difesa no continuamente l’emerper esempio, sono stati oltre e considerano il massacro genza sicurezza spingendo i
30mila i morti per ferite da avvenuto nel 2007 al Virginia cittadini a difendersi da soli.
arma da fuoco. Ancora oggi Tech come una prova della Tuttavia, solo il dieci per
l’opinione pubblica ameri- necessità di alleggerire i con- cento delle morti per arma da
fuoco è il risultato di furti, rapine o aggressioni, mentre
nel 55 per cento dei casi si
tratta di suicidi.
La possibilità di detenere
armi rappresenta inoltre
un’importante fonte di entrate per lo Stato americano:
secondo i dati diffusi dal Dipartimento del Tesoro Usa,
infatti, l’erario ha incassato
ben 121 milioni di dollari
nella prima metà del 2009,
grazie alle percentuali sulle
vendite di armi e munizioni.
Negli ultimi 12 mesi si è
avuto un boom di acquisti,
che Wayne LaPierre, vicepresidente della National Rifle Association, spiega con la
convergenza di due paure
collettive: l’aumento della
microcriminalità a seguito
della crisi e il timore che
Obama possa restringere il
diritto al porto d’armi.
LE PIÙ CRUENTE
Binghamton
13 vittime
in un centro
Il 3 aprile 2009, Jiverly
Wong, vietnamita 41enne,
apre il fuoco in un centro ricreativo per immigrati a Binghamton, New York, uccidendo 13 persone, fra cui
due impiegati. Appena la
polizia giunge sul posto, il killer, ex-studente del centro, si
uccide.
In Alabama
i morti
furono dieci
Il 10 marzo 2009, un
giovane di 28 anni, Michael
McLendon, uccide dieci persone, inclusa sua madre, la
fidanzata, alcuni parenti e la
moglie e il bambino di un
vice-sceriffo locale, seminando il panico in tre cittadine fra Alabama e Florida.
Infine, si uccide.
Illinois, fuoco
in una
sala di lettura
Il 14 febbraio 2008, un
ex-studente di 27 anni, Steven Kazmierczak, entra armato di pistola in una sala di
lettura della Northern Illinois University a DeKalb, Illinois, uccidendo cinque persone e ferendone altre 18.
Dopodiché, con la stessa
arma, si toglie la vita.
In Nebraska
omicida
in un negozio
Il 5 dicembre 2007, un
19enne, Robert A. Hawkins, imbraccia un fucile e fa
fuoco in un negozio Von
Maur all’interno del grande
magazzino Westroads Mall
di Omaha, Nebraska, uccidendo otto persone e ferendone cinque, di cui due
gravemente. Poi, si toglie la
vita.
Reporter
nuovo
Cronaca
Grandi magazzini
e negozi
allestiscono gli
addobbi e
propongono offerte
che anticipano la
stagione dei saldi.
Preoccupazioni dei
negozianti per le
poche disponibilità
della clientela
IL RITO Statuette a San Gregorio Armeno, festoni natalizi nelle strade del centro di Roma
In molte vetrine è già Natale
Si vuole evitare un nuovo flop dei consumi. Novità in arrivo
Jacopo Matano
Babbo Natale è ancora in
volo, ma i suoi regali sono già
atterrati nelle vetrine e negli
scaffali dei negozi. Nella capitale, infatti, la festività più
importante è in anticipo: a più
di quaranta giorni da Natale,
i negozianti fanno la scorta di
prodotti di consumo e allestiscono le vetrine sperando nell’assalto dei romani, stretti
quest’anno tra la voglia di riprendersi dalla crisi e una più
prudente attesa nel tirare fuori il portafogli.
La “fabbrica del Natale”
ha dunque già aperto i battenti.
Per contrastare la contrazione
dei consumi, che l’anno scorso sotto le feste si sono ridotti del 20 per cento, la grande
distribuzione organizzata ha
provveduto già dai primi di ottobre a rinforzare gli stock di
torroni e pandori nei bar e supermercati, attirandosi le critiche delle associazioni dei
consumatori, per le quali non
è rispolverando i panettoni con
due mesi di anticipo ma abbassando i prezzi che si attiEloisa Moretti Clementi
Festa religiosa per eccellenza, sposatasi alla perfezione con il consumismo dei
nostri tempi, il Natale è ormai sinonimo di acquisti,
consumi, abbuffate, giocate a
tombola e tante altre attività
molto più profane che sacre.
Ed esistono luoghi capaci di
coniugare al meglio sacralità e tradizione con l’umorismo, l’attualità, il gusto tutto napoletano per il gioco. Un
esempio è San Gregorio Armeno, la celebre via dei presepi nel centro di Napoli,
dove ogni anno gli artigiani
prendono ispirazione dai fatti e dai personaggi dell’attualità per creare con abilità
e ironia nuove statuine da
mettere in un presepe sin-
Reporter
nuovo
Le passioni per la tavola e per lo scambio dei regali
Cibi nostrani Doni online
Secondo un’indagine commissionata dalla
Confederazione Italiana Agricoltori, nove famiglie su dieci utilizzeranno alimenti italiani
per preparare il prossimo pranzo di Natale.
Niente acquisti esotici, quindi, a beneficio dei
prodotti della tradizione enogastronomia nostrana, meglio ancora se a denominazione di origine. La Cia invita a scegliere i mercati diretti
per i propri acquisti alimentari, dove si può risparmiare fino al 20 per cento comprando cibi
di qualità. Inoltre, dopo anni di crisi, sono tornati in voga anche lo zampone e il cotechino,
per i quali – sottolinea la Cia – è prevedibile che
quest’anno si registri un’ulteriore crescita nei
consumi, intorno all’1,5-2 per cento.
E. Mo. C.
vano i consumi. Anche il commercio medio e piccolo si attrezza all’arrivo del 25 dicembre: renne, babbi, alberi e
neve rigorosamente finta cominciano a spuntare nelle vetrine dei negozi dopo le ultime piogge dell’autunno, soppiantando zucche e streghe di
un Halloween un po’ magro.
Regali meno cari, priorità alla famiglia e grande ricorso alle occasioni online: è quanto
emerge da uno studio commissionato da e-Bay
sulle scelte degli italiani per i regali del Natale 2009. In media in Italia si spenderanno solo
174 euro a persona, contro i 190 del 2008. Nonostante la crisi, gli italiani sono generosi: nella classifica europea siamo al quarto posto per
numero di regali fatti. Per quanto riguarda il
commercio online, viene scelto soprattutto per
la convenienza e la semplicità, mentre il cliente “tipo” sembra più previdente di quello tradizionale: secondo eBay, infatti, nel 2008 è stata il 17 novembre la giornata di picco per gli acquisti.
“Da noi a Natale va sempre
bene, Halloween invece non
ha funzionato”, dice Debora,
commessa di Lush a via del
Corso, che ha già allestito la
vetrina e ci mostra l’offerta “Fai
il regalo prima di tua zia”, un
modo per risparmiare anticipando le compere natalizie.
Tra i regali per un 25 dicem-
E. Mo. C.
bre cheap c’è anche Morellato, punto di riferimento dello
struscio giovanile: “Pensierini,
piccoli oggetti, spendono la paghetta”, afferma Manuela che
lavora nel negozio. Il Natale
più magro sarà comunque
alla Rinascente di largo Chigi,
dove l’allestimento è incominciato già ai primi di otto-
bre, ma l’atmosfera è tutt’altro
che festosa. La storica sede del
marchio, infatti, chiuderà il 31
dicembre lasciando il posto a
Zara. Riaprirà, tra due anni, in
via del Tritone: una pausa di riflessione per far passare la
crisi, ristrutturare la nuova
sede e rilanciare il gruppo
con 15mila metri quadrati di
shopping. Al momento però denuncia la Uil - l’unico regalo natalizio per i 59 dipendenti
è la mobilità.
In questo Natale anticipato anche i saldi arrivano prima:
il 2 gennaio, secondo quanto
concordato tra le associazioni
di categoria e il comune. Nel
braccio di ferro tra i clienti che
sperano nei regali calmierati,
e i negozianti che non vogliono soccombere ai prezzi bassi, giunge una leggera, ottimistica previsione di aumento dei consumi, che per Confcommercio potrebbero non
calare oltre il -1,8 per cento rispetto a prima della crisi. Ma
a spaventare i negozianti è,
come nel racconto di Dickens, il fantasma del Natale
passato.
L’attualità rivisitata nelle statuette del presepe di San Gregorio Armeno
Silvio in ginocchio chiede perdono
cretico, in cui tradizione e innovazione si mescolano. Per
la prossima festività sono già
stati inaugurati nuovi personaggi, dal neo-allenatore del
Napoli Walter Mazzarri all’ex-presidente della Regione
Lazio Piero Marrazzo, raffigurato accanto a un transessuale; non mancano, poi, alcuni defunti illustri come
Michael Jackson e Mike Bongiorno, e nemmeno la raffigurazione della separazione
dell’anno, con Silvio Berlusconi in ginocchio che chiede perdono a Veronica Lario.
Persino i personaggi più tra-
dizionali del presepe si attualizzano, attraverso lo
sguardo ironico degli artigiani di San Gregorio Armeno, ed ecco dunque spuntare la mascherina anti-contagio sui volti di Maria e Giuseppe, mentre al posto dei
noti doni i Re Magi offrono
dosi di vaccino contro l’influenza A. Secolarizzazione e
consumismo, dunque, non
spengono il presepe, anzi:
simbolo inscindibile della
tradizione natalizia, funziona bene anche dal punto di
vista concretamente commerciale, come dimostrano le
vetrine dei centri commerciali in cui molto spesso fa
bella mostra la raffigurazione della natività.
Come ogni anno, è già
partita la caccia al regalo
perfetto, che secondo il Financial Times si chiama “criceto parlante”: un animaletto elettronico che squittisce
e che sembra stia andando a
ruba nei negozi inglesi e statunitensi. E se la Chiesa tuona contro la paganizzazione
della festa cristiana e se la
prende con l’antagonismo
delle feste importate dagli
Usa come la popolare Hallo-
ween, c‘è anche chi al Natale lancia una sfida senza precedenti. La casa editrice Marcos y Marcos pubblica, infatti,
in questi giorni “La lega antiNatale”, di Michael Curtin,
che racconta la storia di cinque bizzarri personaggi che
si alleano per preparare un
piano di sabotaggio della festa delle feste. Ambientato
nella cattolicissima Irlanda, il
romanzo descrive in modo
dissacrante “i lati più tragicamente appiccicosi, ‘pallosamente’ accascianti e scontatamente consumistici del
25 dicembre”.
ABETI NATALIZI
Ma l’albero
si può
adottare
Perché addobbare un
albero quando si può
piantare un bosco e far respirare il pianeta? L’idea è
venuta tre anni fa a Legambiente, si chiama BosCO2, e torna alla ribalta
in vista di questo Natale:
rinunciare al tradizionale tannenbaum di plastica o, peggio ancora, vivo
e vegeto da esibire durante le feste per far nascere un albero in un parco, che diventerà il primo
Bosco di Natale anti-emissioni. L’iniziativa, coordinata da Azzero CO2, la
società che fa capo a Legambiente e che aiuta le
aziende a migliorarsi sul
tema della sensibilità, ha
avviato un progetto di riforestazione nel Parco
Fluviale del Po e dell’Orba, in Piemonte. Con
venti alberi –secondo Azzero CO2 - si risparmiano all’ambiente 14 tonnellate di anidride carbonica, equivalenti al consumo annuo di elettricità in un ufficio con dieci
dipendenti. L’albero di
BosCO2 è dunque una
buona azione, ma soprattutto un’idea regalo da
40 euro che dà un’impronta eco-friendly e originale al classico dono
di Natale. Ma la corsa all’azzeramento delle emissioni di anidride carbonica non coinvolge soltanto i cittadini più sensibili. Molte, infatti, sono
le aziende che hanno deciso di regalare ai propri
dipendenti un albero da
piantare nel BosCO2. Un
dono concreto e sostenibile al posto del solito regalo aziendale, che in
tempi di crisi si rivela
spesso il vero “pacco” di
Natale.
J. M.
13 Novembre 2009
7
Spettacoli & Costume
In televisione impazzano programmi basati sullo scontro tra finti attori in cerca di credibilità
Un millennio nel segno del reality
Obiettivo, massima audience. Ma si registra anche qualche flop inatteso
Vito Miraglia
Reality e talent show rappresentano ormai il terreno di
scontro su cui si gioca la
guerra dell’audience tra Rai e
Mediaset. Con la nuova stagione televisiva, Amici su
Canale 5 e X Factor su Rai 2
hanno dato il via alla colonizzazione del palinsesto inzeppandolo di questi programmi, ma l’attesa era tutta
per lei, la decima edizione del
Grande Fratello partita lo
scorso 26 ottobre sempre su
Canale 5. Per celebrare l’anniversario, gli autori hanno
ideato una versione extralarge dello storico reality: 40
concorrenti per cinque mesi
di reclusione – Natale e Capodanno compresi – contro
i canonici cento giorni. Alla
base di questa scelta, come
hanno spiegato gli autori,
c’è la volontà di accontentare i fan che, dopo la fine dell’ultima edizione, hanno continuato a seguire la storia
del vincitore su tanti altri
programmi sia Mediaset che
Rai. L’obiettivo è bissare il
successo della scorsa edizione, quella che ha superato lo
speciale di Porta a Porta nel
giorno della morte di Eluana
Englaro.
E subito la prima puntata
ha battuto ogni record
d’ascolto: più di sei milioni di
spettatori con il 33,73 per
cento di share, il miglior risultato per la puntata d’esordio nelle ultime quattro edizioni. Non così bene sta andando al reality di punta della Rai, il talent show X Factor che ha fatto registrare un
calo di ascolti rispetto alla
scorsa edizione.
Ma la grande abbuffata di
reality ha probabilmente stancato il pubblico: nelle scorse
stagioni televisive, molte trasmissioni sono state cancellate dopo essersi rivelate clamorosi flop. I suoi fan più accaniti possono comunque
star tranquilli: c’è un nocciolo
duro di programmi che difficilmente andrà in soffitta.
Oltre al Grande Fratello e ai
talent show di Amici e X
Factor, anche L’isola dei famosi ha mantenuto negli
anni un successo costante. La
settima edizione dello show
è in arrivo e ha già fatto parlare di sé per le indiscrezioni sulla partecipazione dell’ex
bandito sardo Graziano Mesina. Su Canale 5 partirà in-
8
13 Novembre 2009
L’ASSALTO
Aspiranti
concorrenti in fila
davanti a un
punto Endemol
in attesa del
sospirato
provino.
Selezioni per i
reality
avvengono in
tutte le città
d’Italia
vece l’ennesimo programma
scova-talenti a cui sta lavorando Maria De Filippi, basato sul format americano
America’s got a talent.
Che il reality sia oggi il genere di programma più redditizio della tv italiana lo dimostra il suo approdo sui ca-
nali satellitari. E infatti nel
processo di ibridazione tra tv
generalista e canali tematici,
il fenomeno ha interessato
anche Sky: il talent show
Italia’s next top model, in
onda su Sky Uno è giunto alla
terza edizione, mentre a giugno si è concluso, sempre sul-
lo stesso canale, Vuoi ballare
con me?, talent show intergenerazionale che vedeva sfidarsi dei ragazzi in coppia
con i propri genitori. Sky
Uno è nato per intaccare il
duopolio della tv in chiaro e,
pertanto, non poteva non
inserire dei reality nel suo pa-
Sindrome dell’isola dei non famosi: il parere del neurologo
Labileconfinetrarealtàefinzione:
non c’è vita fuori dagli schermi tv
Ilaria Del Prete
Dieci anni sono passati da quando l’occhio
vigile del Grande Fratello ha fatto la prima apparizione sui teleschermi degli italiani. Ben diverso dalla tv verità della Rai 3 di Guglielmi, il
format importato dall’Olanda ha presto invaso i palinsesti nazionali, tra polemiche, consensi
e dissensi.
“Programma basato su situazioni reali che
coinvolgono persone comuni, presentate in un
contesto narrativo (e quindi strutturate in storie), che si avvale solitamente di contributi filmati, siano essi collegamenti in diretta o contributi chiusi pre-registrati”. La definizione dell’esperto Aldo Grasso, non manca di suscitare
dubbi circa la spontaneità di individui sottoposti
all’innaturale circostanza di vivere circondati da
microfoni, telecamere e situazioni abitative delle più insolite, sull’effettiva realtà del reale proposto. Tutto comincia con i casting. In fila anche per pochi minuti di celebrità, alla ricerca
di uno spazio in cui raccontarsi, nella speranza di poter rappresentare un pezzetto d’Italia.
Negli anni, la scelta dei reclusi dei più svariati reality ha però subito una trasformazione: dalla scelta di tipi umani - vedi il piacione, il simpatico, la disinibita - a uno sguardo più attento anche ai risvolti sociali e di attualità.
Un esempio è fornito dalle ultime due edizioni del programma di Canale 5. Nella passata
edizione, partecipa e vince un montenegrino,
in tempi d’isteria collettiva sulla questione Rom;
ad oggi, tra i concorrenti c’è una donna diventata
uomo, in giorni in cui ogni programma in lotta per gli ascolti cerca di accaparrarsi il suo trans.
Realtà rappresentata, da un lato, realtà
scimmiottata, dall’altro. Realtà che va in diretta, televisione che influenza la realtà.
Difatti, tutti vogliono fare reality, per esibizionismo, ma anche nella speranza che la subitanea notorietà si trasformi in duraturo successo. E di reality ci si ammala, anche. “Sindrome dell’isola dei non famosi”, così la chiama il neurologo Rosario Sorrentino, membro
dell’Accademia Americana di Neurologia, che
ne riconosce i sintomi specialmente nelle personalità meno formate di giovani e giovanissimi.
Insicurezza, ridotta autostima e finanche disturbi alimentari, frustrazione indotta dal senso di inadeguatezza nei confronti di miti che
seppure persone comuni, restano irraggiungibili, unici ammessi all’Olimpo della vita vera,
quella della tv. Oppure ci si inventa un’abilità,
e si tenta la fortuna nei talent show, nella convinzione che la gloria sia a portata di mano.
Con buona pace di impegno, dedizione e spirito di sacrificio.
linsesto. Ormai si sa: il reality show è diventato l’emblema televisivo del nuovo millennio. Il Grande Fratello è
partito proprio nel 2000, anche se all’estero le prime sperimentazioni risalgono ai decenni precedenti.
In Italia, i reality hanno
trovato terreno fertile perché
in passato sono state molte le
trasmissioni incentrate sulle
vicende personali di vip o
gente comune che solleticavano il voyeurismo e la curiosità del pubblico. Come
poter non considerare Specchio segreto, lo storico programma di candid camera
della Rai, ideato nel 1965
dal genio di Nanni Loy, il primo - e forse unico - vero reality show della tv italiana?
LA CASSAZIONE
Con licenza
di insultare
Chi partecipa ad un
reality è libero di insultare,
ma, soprattutto, chi è insultato non può sentirsi diffamato. Così ha deciso la
Corte di Cassazione con la
sentenza n. 37105 del 2009
in cui ha rigettato il ricorso di un concorrente di
Survivor, che era stato
chiamato “pedofilo” da un
altro partecipante. Per la
Corte, l’epiteto non è un insulto perché pronunciato
nel “contesto di una trasmissione volutamente indirizzata alla rissa verbale
tra i partecipanti”. Così
risulta solo una “impropria
e scherzosa iperbole”.
Così i giudici, non solo
hanno legittimato l’uso di
parole offensive all’interno
dei reality, ma ne hanno anche smascherato la vera natura. Un reality è un programma che ha come missione quella di sollecitare il
contrasto verbale tra i protagonisti, di provocare zuffe e liti anche violente.
Come dire: se vuoi partecipare ad un reality, tieniti pronto ad essere schernito dagli altri concorrenti secondo copione; non
puoi difenderti in alcun
modo, se non partecipando agli insulti.
V. M.
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