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Anno III - Numero 01 Settimanale della Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss Guido Carli Reporter 13 Novembre 2009 nuovo Che politica Due opinionisti: quale Pdl e Pd Dopo Berlino Un mondo retto da muri Obama Il grande procrastinatore Grandi Fratelli Il millennio dei reality LA SFIDA DELLE LOBBY DIBATTITO ALLA LUISS. UNʼATTIVITÀ UTILE DA FAR USCIRE DALLʼOMBRA Politica Sfide, nodi e problematiche delle due principali forze di maggioranza e opposizione Diversi, ma con problemi uguali Pdl e Pd alla ricerca di un equilibrio che non c’è. Un percorso difficile Berlusconi e Bersani, leader dei due principali partiti di maggioranza e opposizione, si trovano a dover gestire situazioni differenti, ma ugualmente imprevedibili. Nel Popolo della libertà sono molti i temi al centro di un dibattito interno non privo di toni decisi e forti prese di posizione: elezioni regionali, giustizia, economia, funzionamento del parlamento e rapporti con le istituzioni, que- stioni etiche, cittadinanza. Al confronto interno tra le varie anime del partito si aggiunge la necessità di mediare con la Lega, alleato agguerrito quanto esigente. Nel Partito Democratico, a due settimane dalle primarie che hanno sancito la vittoria di Bersani, le fonti di preoccupazione restano la scissione guidata da Rutelli, di cui cominciano a definirsi i confini, e una rinnovata questione mo- rale, innescata non solo dal caso Marrazzo, Altre sfide attendono inoltre il nuovo segretario: i rapporti con le minoranze interne, la questione delle alleanze ed il nodo della laicità. Reporter Nuovo ha affrontato questi temi con Stefano Cappellini, vicedirettore del Riformista, e Filippo Ceccarelli, cronista politico della Repubblica. La pace di Fini con il Cavaliere E Pier Luigi Bersani punta aspettando la successione su etica e compattezza Stefano Cappellini, qual è lo stato di salute del Pdl e come legge la situazione all’interno della maggioranza? «C’è grande tensione tra le diverse aree del Pdl. Il funzionamento del partito, il programma, le alleanze, l’immigrazione, il caso Tremonti… A elencare le circostanze che hanno creato tensione nella maggioranza, si arriva a contarne una decina solo negli ultimi tre mesi. Fino ad arrivare, ovviamente, alla giustizia». La giustizia, appunto, è stata oggetto di un atteso incontro fra Berlusconi e Fini. Sembra abbiano trovato un accordo. Questione archiviata o tregua momentanea? «Non mi pare che la situazione sia risolta. Anche perché Berlusconi non è comunque molto soddisfatto: pensa che ci siano strumenti più efficaci per ottenere il suo scopo, a cominciare dalla legge che lo mette a riparo dai processi. Da parte sua Fini ha dato un via libera su questo ddl, ma ha posto dei paletti. Soprattutto ha dato un messaggio politico molto chiaro: non è intenzionato a coprire una legge ad personam. I problemi rimangono: c’è un Berlusconi insoddisfatto e c’è un Fini che si è smarcato platealmente». Queste tensioni produrranno cambiamenti decisivi negli equilibri interni o rientreranno senza causare clamorose modifiche, come successo per esempio con il “discorso del predellino”? «Non ci saranno cambiamenti finché Berlusconi sarà in campo. Questa, però, non è una sfida che si gioca sull’oggi. Fini è convinto di essere il leader più credibile per succedere alla guida del partito e sta creando le condizioni perché ciò avvenga. Non essendo uno stupido, si guarda bene dallo sfidare apertamente oggi 2 13 Novembre 2009 INSIDIE Per Silvio Berlusconi il rischio che gli attacchi arrivino anche dagli alleati la leadership di Berlusconi. Rispetto al precedente del predellino, bisogna considerare che in quella situazione furono determinanti le elezioni anticipate. Fini non aveva, in quel momento, altra arma che far rientrare il suo dissenso. Non è un caso che Berlusconi adesso minacci di tornare alle urne. Sa che questa minaccia è quella che più L’ex leader di An pone le condizioni, ma con cautela fa paura ai suoi oppositori interni, proprio perché nuove elezioni porterebbero molti su una scelta obbligata: ricompattarsi». Regionali: qualcuno parla di dazio, che la maggioranza starebbe pagando, a una Lega in crescita, altri di normale confronto fra alleati. Lei come la pensa? «Non c’è dubbio che sia un dazio. La Lega può chiedere con forza Veneto e Piemonte perché la sua crescita elettorale negli ultimi due anni è stata virtuosa. In politica contano anche i numeri ed è indiscu- tibile che la forza della Lega al nord legittima la richiesta». Le distanze sulle questioni etiche e sulla cittadinanza sono colmabili o sono destinate a creare nuove spaccature? «Su queste questioni non vedo alcuna conciliazione possibile. La mediazione si trova quando è pensabile un incontro a metà strada. Qui siamo di fronte a due visioni completamente opposte di questi temi». Come legge la scelta di affidare la gestione economica a un organo collegiale? «Nel Pdl c’era da tempo chi sosteneva che Tremonti avesse accumulato troppo potere. È un film già visto nel 2004, con la differenza che allora Tremonti era più debole e fu costretto a lasciare il Ministero. Ad ogni modo, aspetterei a pronunciarmi. Si è parlato tante volte di cabine di regia e comitati. A volte sono stati varati, ma non sempre hanno funzionato. Talora si tratta più di fumo negli occhi che di altro, un modo per annunciare che è tutto risolto, ma il ruolo effettivo di questi organi è tutto da dimostrare». Filippo Ceccarelli, qual è lo stato di salute del Pd dell’èra Bersani? «Il Pd non ha più le convulsioni, ma ancora la febbre alta, con in atto infezioni di ordine morale, manifestatesi in tutto il Sud. Nel Lazio c’è stata addirittura necessità di un intervento chirurgico. Una condizione, quindi, leggermente migliorata dopo le primarie, ma comunque abbastanza grave». Quali, in sintesi, le priorità “etiche” del nuovo Pd? «Cominciare a riflettere sui comportamenti adeguati a una forza di opposizione responsabile, stabilire che il potere non è un pretesto per arricchirsi, ma una condizione di servizio da dimostrarsi nei fatti. È stato approvato un codice etico, ma l’importanza sta nei comportamenti. L’etica si pratica, non si proclama». Non basterà, quindi, la commissione sulla riforma del codice etico appena insediata? «Più che di riscrivere il codice, si tratta di imporre dei comportamenti, semmai con atti simbolici e concreti insieme». Al Sud “signori delle tessere” e percentuali bulgare ai congressi, c’è bisogno di un nuovo inizio contro il clientelismo? «Il partito democratico, soprattutto nel Mezzogiorno, ha riunito in sé la disinvoltura clientelare democristiana e la rigidità burocratica comunista. Solo un esame di coscienza strutturale può salvare il progetto. Parlo del Sud perché lì è ancora al potere, ma nel Nord vive addirittura un problema di sopravvivenza». La svolta a sinistra promessa da Bersani può cambiare le cose? «Sono scettico sulla misu- Pagina a cura di Enrico Messina e Davide Maggiore DECISO Il segretario Pd è consapevole dei molti problemi del suo partito razione delle svolte in base a destra e sinistra, parametri del secolo scorso. Bersani ha le spalle larghe, è l’epigono di una illustre tradizione riformista, ma lo attende un lavoro duro: oltre al passo sicuro e prudente dell’uomo appenninico c’è anche la necessità di scatti di fantasia». Dopo Rutelli e gli altri, voci danno tra i partenti anche Vel- Preoccupa anche la distanza tra vertice e base troni, che smentisce: è un’ipotesi realistica o ci sarà ancora un ruolo nel partito per l’ex-segretario? «Il comportamento di Veltroni mi pare quello di chi è offeso, estraneo alle vicende del partito. Non so se questo possa portare a un abbandono. Credo che il partito non rientri tra le sue priorità. Certo, tra la distanza con Prodi, l’abbandono di Rutelli, la solitudine di Veltroni, il Pd non può gioire. Ma la vera distanza è quella di tanti elettori e forse anche iscritti». L’opposizione interna: Ma- rino si dice soddisfatto dalle concessioni ricevute, ma Franceschini lavora a una sua corrente. Il progetto di un partito coeso è destinato ad avere vita breve? «Sì. La dimensione correntizia e oligarchica è uno dei sintomi della malattia che affligge il partito fin da quando è nato, un altro riflesso delle peggiori tradizioni democristiana e comunista». Laicità: Marino ha avuto un successo inaspettato, ma i cattolici restano forti. Il segretario potrà mediare? «Forse, se il partito non cercherà di barcamenarsi. Gli elettori chiedono autenticità. Ogni mediazione ”furba” è destinata al disastro». Bersani cerca alleanze vaste ma credibili. Non si rischia di ripetere l’esperienza dell’Unione? «Si rischia di peggio: il quadro politico è in dissolvimento, le grandi novità non stanno avvenendo nel Pd, né nell’estrema sinistra o nell’Udc, ma nel Pdl. Il partito democratico dovrebbe rapportarvisi, agganciare Fini. Penso ad un Pd che sappia intercettare le novità senza pregiudizi e calcoli realisticamente le sue mosse». Reporter nuovo Primo Piano Alla Luiss una tavola rotonda su un’attività da regolamentare. L’obiettivo: più trasparenza Ma la lobby fa bene al mercato Protagonisti a confronto: modificare un provvedimento giova a tutti BERETTA / LEGA CALCIO VELARDI / RETI SPA Così fanno tutti Creare relazioni “Tutti fanno lobby”. Ha esordito così Maurizio Beretta, presidente della Lega Calcio con un passato in Confindustria e Fiat, nel suo intervento. Le lobby, ossia gruppi d’interesse che lavorano al fine di influenzare le decisioni delle istituzioni legislative, sono una realtà che, pur essendo presente nel nostro paese, è ancora legata a pregiudizi e considerata moralmente non giusta. Ma, in un mercato imperfetto, di fatto esistono gruppi di pressione che agiscono per promuovere interessi di parte e alterano i meccanismi di funzionamento del mercato stesso. “Non siamo in presenza di un meccanismo lineare”, sostiene Beretta, e di conseguenza sono auspicabili politiche di riforma che garantiscano trasparenza, comportamenti uniformi e accesso aperto alla professione di lobbista. E’ necessario, ha concluso Beretta, superare il concetto tradizionale di “lobby”, termine spesso usato con accezioni negative, e convincere le aziende italiane a investire nella trasparenza del processo legislativo e delle interazioni tra i livelli decisionali. In questo contesto innovativo, il lobbista non è più una figura ambigua dai contorni poco definiti, ma un professionista riconosciuto e, soprattutto, un costruttore di interessi comuni che lavora per il bene dell’azienda e della collettività. “Avrei avuto diverse ragioni per non partecipare a questo convegno, e una soltanto per venire. Ed è che per fare lobby bisogna essere tra i lobbisti, e quindi esserci”. Claudio Velardi, socio fondatore di Reti Spa, si presenta al pubblico come “un lobbista tra i lobbisti”, ossia come un professionista della comunicazione e delle reti di relazioni. Portando l’esempio di Reti Spa, la prima società italiana di lobbying e public affairs, Velardi richiama l’attenzione su uno degli aspetti più delicati della professione del lobbista, e cioè la necessità di saper creare un sistema di connessioni e mettersi al centro di quello che è il processo decisionale finalizzato alla formazione delle leggi, e si schiera a favore di un intervento che disciplini il mondo delle lobby, ne legittimi l’attività e ne promuova la trasparenza. Il tutto, senza incorrere logiche organizzative di tipo corporativo. In relazione a tale possibilità, Velardi sottolinea l’importanza della formazione del lobbista, figura professionale tradizionalmente poco apprezzata ma di fondamentale importanza nel sistema economico attuale. Secondo Velardi, oltre alla conoscenza del settore nel quale il lobbista svolge la propria attività, è necessario investire sulle capacità personali e relazionali. LUCCHINI / ENI SPA Questa è democrazia Ritorna nella stessa sala in cui discusse la tesi di laurea Stefano Lucchini, Senior Executive Vice President Relazioni istituzionali e comunicazione di Eni Spa, per parlare di lobby. Lo fa citando il primo emendamento della Costituzione americana, con riferimento al diritto riconosciuto a ogni cittadino di riunirsi pacificamente e inoltrare petizioni al governo contro eventuali torti subiti. Un emendamento, sottolinea Lucchini, che legittima l’azione dei lobbisti in quanto portatori di interessi particolari di fronte alle istituzioni governative e legislative, e considera l’attività delle lobby come la forma più alta di espressione della volontà del singolo individuo e, dunque, di democrazia. La figura del lobbista, il cui obiettivo è quello di influenzare il processo decisionale, è tutt’altro che scontata. Secondo Lucchini, il lobbista è un professionista che svolge il suo lavoro in un mix di “arte e scienza”, e necessita di capacità relazionali e professionali, competenze settoriali e conoscenza di tutti gli attori coinvolti nel processo decisionale. Codificare l’attività del lobbista è di per sé una contraddizione, ma anche una sfida al fine di creare professionisti in grado di interfacciarsi con diverse figure, dalla politica alle associazioni dei consumatori. Reporter nuovo FUNZIONA Una delle sedi della Commissione europea dove l’attività di lobbying è ammessa I n tempo di crisi economica, i lobbisti escono allo scoperto e rilanciano: per far ripartire un mercato statico e adagiato sui movimenti dei beni di largo consumo c’è bisogno di loro. È quanto emerso dalla ‘tavola rotonda’ sulle lobby, le imprese e il mercato del lavoro, svoltasi in occasione della presentazione del primo Master Luiss in Relazioni Istituzionali. Un buon motivo, dunque, per parlare di lobby anche a chi non fa dell’economia il suo pane quotidiano, per il quale il termine ‘lobbista’ si traduce in un portavoce ‘partigiano’ di un determinato gruppo di potere che lavora in sede istituzionale per indirizzare provvedimenti in proprio favore. E in tempi di difficile congiuntura economica le lobby puntano sempre più ad inserirsi da protagoniste in un mercato altamente competitivo cogliendone le novità “come un sensore”, secondo quanto affermato da Pier Luigi Celli, direttore generale della Luiss. “Tutti fanno lobbying”, ha esordito Maurizio Beretta, presidente della Lega Calcio, invitato a portare testimonianza della sua esperienza, datata 2003, come direttore delle relazioni istituzionali e internazionali del gruppo Fiat. Al suo intervento sono seguiti quelli di Stefano Luc- chini dell’Eni, del suo collega di Ibm, Giovanni Aliverti, e di Claudio Velardi, socio fondatore di Reti Spa, la prima società italiana di lobbying e public affairs. Tutti hanno evidenziato la necessità di formare nuovi professionisti del settore proprio perché è il mercato stesso a richiederli. Un mercato oramai fortemente orientato oltre confine, dove questa pratica è legittimata. Basti pensare che a Bruxelles si contano oltre tremila gruppi d’interesse spe- Per il prof. Maffettone è fondamentale l’economia delle lobby ciale operanti a viso aperto nelle sedi della Comunità. Da qui la necessità di regolamentare la professione anche in Italia per colmare un vuoto normativo che non si registra in nessuna delle grandi democrazie mondiali. Prima fra tutte gli Stati Uniti, dove il lobbying è oggi visto come prassi costituzionalmente protetta dal Primo emendamento (1791), nel quale è previsto il diritto di petizione al Governo a riparazione di danni subiti per effetto dell’azione della pubblica amministrazione. Tra i molti altri, Harvard e Prin- ceton fanno lobbying per avere più fondi pubblici per la ricerca; la US Catholic Conference, il potente organo dei circa 300 vescovi USA, fa lobbying, come l’organizzazione storica dei neri (National Association for the Advancement of Colored People). C’è quindi una protezione costituzionale che da noi manca, come manca una corretta informazione e formazione sul responsabile coinvolgimento delle parti sociali all’elaborazione delle decisioni pubbliche. Una lacuna che ha portato, negli ultimi anni, a un utilizzo scorretto del lobbying come strumento, aperto in linea di principio a tutti, ma orientato di fatto a privilegiare interessi corporativi e settoriali, il che ha posto interrogativi in materia di princìpi democratici. Studiare l’economia e le tecniche del lobbying diventa perciò “banalmente fondamentale”, come ha sottolineato Sebastiano Maffettone, preside della Facoltà di Scienze Politiche che dirigerà il Master. Vista da vicino, dunque, quella del lobbista diventa una professione in grado di rilanciare l’economia attraverso politiche di riforma per ridurre gli elementi di inefficienza del mercato, a patto che sia regolamentata e controllata così da renderla metabolizzabile anche dai più scettici. Pagina a cura di Federica Ionta e Alessio Liverziani ALIVERI / RUSSO Conoscenza e rete E’ superata l’era in cui la carriera del lobbista era appannaggio esclusivo di politici e giornalisti. E’ quanto sostiene GiovanniAliverti, responsabile per le Relazioni istituzionali di Ibm, un passato da businessman più che da comunicatore. Il lobbista di oggi, secondo Aliverti, non può limitarsi ad essere un buon comunicatore ma deve soprattutto avere un bagaglio di conoscenze e competenze adeguato al settore economico nel quale andrà a svolgere la propria attività. Se le lobby possono davvero allargare la base dei processi decisionali, portando interessi privati ai tavoli istituzionali, allora è necessario puntare sulla formazione e sulla preparazione dei lobbisti e sulla loro capacità di orientare le decisioni degli organi istituzionali in maniera efficiente ed efficace. E’ d’accordo su questo aspetto anche Giampaolo Russo, responsabile della direzione Affari istituzionali e regolamentari di Edison, che nel passato ha rivestito prestigiose posizioni direzionali nell’ambito del marketing strategico per grandi aziende multinazionali. Si deve valorizzare il “binomio tra conoscenza e rete”, sostiene Russo, e realizzare un sistema univoco e trasparente nel mondo delle lobby che ne legittimi il ruolo strategico all’interno del sistema economico e politico. 13 Novembre 2009 3 Focus Dopo Berlino, ancora barriere fra le nazioni e nelle città con motivazioni differenti Un mondo che si regge sui muri Evitano conflitti e terrorismo ma spesso causano anche sofferenza BELFAST La fabbrica dell’odio Si chiamano “Peace line”, ma con la pace non hanno nulla a che fare. Sono le barrriere che nell’Ulster separano le comunità protestanti dalle cattoliche; nel cuore di Belfast, capitale della regione nordirlandese, questi muri sono ben visibili a chi percorre le strade cittadine. Edificati a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, sono sorti per separare fisicamente le due comunità cattoliche e protestanti, allora in feroce lotta fra loro. Sono ancora in piedi e, nonostante gli accordi di pace vigenti fra le due comunità, la popolazione li ritiene ancora indispensabili per garantire la tranquillità delle due comunità. La barriera di Cupar Street, nella zona occidentale cittadina, si snoda per più di un chilometro e può essere oltrepassata in un unico check-point che chiude alle 21. Oltre questo, ne esistono degli altri, alcuni “ufficiali” ed altri addirittura spontanei nei diversi quartieri cittadini, compresi i giardini pubblici di Alexandra Park. Le barriere sono diventate anche un’attrazione turistica, grazie ai “Political tours”, organizzati da un’associazione che raggruppa gli ex detenuti politici nord-irlandesi. I muri, però, sono e rimangono il segno di una pace non ancora pienamente realizzata fra le due comunità, che ancora si guardano con sospetto e diffidenza reciproci. USA-MESSICO Immigrati da contenere Nel mondo esiste un’altra barriera di separazione che è stata definita “muro della vergogna”. È la barriera che separa il sud degli Stati Uniti dal confine con il Messico. Edificata a partire dal 1994, la struttura si estende nella zona di confine tra San Diego e Tijuana, e in alcune zone urbane di confine negli stati dell’Arizona, del New Mexico e del Texas. La barriera è dotata di illuminazione ad altissima intensita, una rete di sensori elettronici e di visori notturni e possiede un sistema di vigilanza permanente, che viene effettuata con l’uso di veicoli ed elicotteri armati. Lungo oltre 3.000 km, il muro è stato costruito principalmente per prevenire il fenomeno dell’immigrazione illegale messicana verso gli Stati Uniti e per contrastare anche il traffico di droga e stupefacenti. Da parte messicana, sono piovute molte critiche. L’allora presidente Vicente Fox ebbe a dichiarare: «Questo non è il modo migliore per stabilire relazioni tra amici». L’iter di approvazione della progettazione del muro è sempre stato approvato a larghissimo consenso dal Congresso degli Stati Uniti, a dimostrazione di come il muro è ritenuto necessario da una grossa fetta dell’opinione pubblica statunitense, sebbene dal 1998 al 2004, lungo il confine siano morte, secondo i dati ufficiali, circa 2.000 persone. 4 13 Novembre 2009 N el momento in cui tutto il mondo ricorda i venti anni della caduta di Berlino e le speranze che l’avvenimento ha acceso nei cuori di molti, la domanda è: quanti muri esistono ancora nel mondo? Quante le barriere innalzate per dividere? La più discussa è senza dubbio quella eretta da Israele in Cisgiordania. Costruita per impedire azioni terroristiche palestinesi ai danni dello stato ebraico, ha limitato, se non impedito, gli spostamenti della popolazione che risiede nelle zone limitrofe con grandi sofferenze. Un’altra è quella al confine tra Stati Uniti e Messico. Il governo statunitense l’ha costruita per contrastare il fenomeno dell’immigrazione clandestina, suscitando le forti proteste del governo messicano ma incassando l’approvazione dell’opinione pubblica americana. Esistono barriere anche fra la Corea del Nord e la Corea del Sud, divise sia da una zona demilitarizzata larga oltre quattro chilometri sia da lunghe staccionate fortificate. Un muro di cui invece si parla poco esiste in Africa, nel Sahara occidentale, occupato dal Marocco nel 1975. Qui le autorita marocchine hanno innalzato il bern, come in olandese si dice muro o terrapieno di sabbia o di terra. L’opera venne realizzata per contrastare le azioni del Fronte Polisario, il movimento saharawi che rivendica l’indipendenza di questo territorio dal Marocco. Terminato nel 1987, il muro, alto circa due metri e presidiato da numerose basi poste lungo l’opera di fortificazione, ha di fatto posto fine alle manovre del Fronte, che nel 1991 ha accettato un cessate il fuoco con il Marocco, ma non ha messo la parola fine alle rivendicazioni indipendentiste del movimento saharawi. Un altro muro ha fatto molto discutere l’opinione pubblica europea. È il caso della barriera innalzata fra le due enclave spagnole di Ceuta e Melilla e il Marocco. Realizzata dal governo iberico per impedire i flussi di immigrazione illegale dall’Africa, la barriera è lunga circa venti chilometri e alta fino a sei metri. Questo muro è stato più volte definito il simbolo della distanza esistente tra la disperazione di milioni di persone e il benessere europeo. Le barriere non separano solo gli stati ma possono anche dividere i quartieri cittadini. È il caso di Belfast con le sue “Peace lines” e di Rio de Janeiro e le barriere che circondano alcune favelas. Ma, rimanendo a casa nostra, un muro, edificato per contrastare la criminalità esistente nella zona, separa il quartiere di via Anelli a Padova dal resto della città. RIO DE JANEIRO PADOVA Il pretesto delle foreste Antidroga e crimini Un muro per prevenire il disboscamento della foresta tropicale. Anzi no, un muro per combattere il dilagare della criminalità nelle favelas. Fa discutere il progetto avanzato dalle autorità dello stato brasiliano di Rio de Janeiro, che ha già iniziato i lavori di realizzazione di una barriera all’interno delle favelas cittadine. A lavori ultimati, il muro, assai simile a quello realizzato in Palestina, sarà alto oltre tre metri e lungo quasi 15 chilometri. Nella città brasiliana, la popolazione e le autorità cittadine sono nettamente divise sull’efficacia dell’operazione. Secondo alcuni abitanti, l’opera non avrà alcuna efficacia, in quanto il muro verrà quasi certamente scavalcato in qualche modo. Nelle favelas, invece, monta la protesta. Qui piovono accuse alle autorità di voler discriminare tutte le persone che ci vivono; ancora peggio si accusano i costruttori di voler introdurre un regime di apartheid. E in realtà, sono in molti in Brasile a sostenere che le autorità vogliano nascondere il vero intento del progetto. Non si capisce, infatti, come mai, se davvero si vuole prevenire il disboscamento delle foreste tropicali, il muro non riguardi i quartieri bene della città, anch’essi più volte accusati di contribuire al fenomeno del disboscamento. A loro giudizio, la barriera in realtà è stata pensata esclusivamente per contrastare il fenomeno della criminalità dilagante all’interno delle favelas e per stroncare il traffico di stupefacenti che frutta 40 milioni di euro all’anno. Ma in pochi sono disposti a scommettere che la barriera possa davvero estirpare questo fenomeno all’interno delle baraccopoli. L’ultimo “muro” di Italia non è stato smantellato a Gorizia nel 2004. Si trova a Padova ed è stato costruito nel 2006 dall’amministrazione comunale nel quartiere periferico di via Anelli. La barriera è stata edificata per separare la zona, ritrovo di spacciatori e extracomunitari, dalle abitazioni dei residenti di via De Besi. Prima dell’edificazione del muro, i residenti hanno più volte lamentato numerosi disagi; e sono stati loro, esasperati dalla situazione, a invocarne la realizzazione. L’amministrazione comunale, per agevolare i controlli delle forze dell’ordine e per impedire l’ingresso nella zona di trasgressori, ha provveduto a chiudere al traffico non residenziale la zona ed ha istituito due posti di blocco per l’identificazione. Sull’opera, sono piovute numerose critiche. La struttura viene infatti giudicata come un monumento all’intolleranza e alla discriminazione. C’è chi ha avanzato paragoni con la situazione di Belfast, dove da oltre trent’anni diversi muri dividono i quartieri protestanti dai quartieri cattolici. E chi ha di fatto definito la zona come un nuovo centro di permanenza temporanea, vista la serie di controlli a cui sono sottoposti i residenti nel quartiere. Dal canto loro, l’amministrazione comunale e i sostenitori della costruzione respingono le critiche. Sottolineano infatti come la realizzazione del muro sia stata dettata solamente da ragioni di pubblica sicurezza e la richiesta di realizzazione avanzata esplicitamente dagli stessi residenti nel quartiere. Pagina a cura di Andrea Pala CISGIORDANIA Separa anche i giudizi Muro della vergogna per gli arabi, barriera anti terrorista per gli israeliani; così le due popolazioni definiscono la muraglia che separa la Cisgiordania da Israele. Lunga circa 700 km, separa i due territori partendo dalla città palestinese di Tulkarem, nel nord, attraversando poi Gerusalemme e fermandosi a circa 20 km dal Mar Morto. Ufficialmente la barriera è sorta per motivi di sicurezza per contrastare le azioni terroristiche ai danni dello stato ebraico, ma, per le autorità palestinesi, l’opera ha complicato e reso difficili gli spostamenti della popolazione, che, a causa della barriera, devono chiedere continui permessi alle autorità israeliane. Sul muro pende la condanna della Corte internazionale di Giustizia dell’Aia, che ha ritenuto l’opera come «contraria al diritto internazionale». In seguito, anche l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha preso atto del parere espresso dalla Corte e ha adottato una risoluzione con la quale «esige che Israele, potenza occupante, rispetti i suoi obblighi giuridici come essi sono enunciati nel parere consultivo». Nonostante la condanna internazionale, però, il muro è ancora lì a dividere palestinesi ed israeliani che, dopo più di sessant’anni, ancora sono lontani dall’essere in pace. COREE Per evitare invasioni È il “muro” più longevo del mondo; divide la Corea del Nord dalla Corea del Sud dal 1953, quando, dopo la guerra, le due parti firmarono l’armistizio, ma non giunsero mai a un accordo di pace. Da quel momento, le due nazioni, ancora formalmente in stato di guerra, sono separate da una zona demilitarizzata, ampia 4 km, che corre lungo il 38° parallelo. Sia i nordcoreani che i sudcoreani hanno edificato, nei rispettivi confini, delle barriere difensive che hanno lo scopo di proteggere le due nazioni da reciproche invasioni. Sul lato nord, la barriera segue la conformazione del paesaggio ed è composta da numerose casematte, vedette e fortezze militari. Sul lato sud, invece un muro è stato edificato a partire dal 1977; si trova a ridosso della zona demilitarizzata che sorge all’altezza del 38° parallelo e si estende per 240 km. Costruita congiuntamente dai militari sudcoreani e americani, ufficialmente la barriera è stata edificata per contrastare un’eventuale invasione militare nordcoreana; secondo un alto ufficiale militare sudcoreano, però, il muro sarebbe stato costruito per scongiurare ogni tentativo di pacificazione e di riunificazione fra le due comunità. Nonostante alcuni timidi tentativi, la strada verso la pacificazione è ancora lontana dal traguardo e, dunque, questo muro continuerà a lungo a dividere i coreani del Nord da quelli del Sud. Reporter nuovo Mondo Dal grande sogno al grande procrastinatore. Ripresa economica, ritiro delle truppe e sanità L’America delle promesse rimandate Afghanistan, sanità e discriminazioni sessuali i grandi nodi da sciogliere Federica Ionta E’ già finito il tempo in cui l’America e il mondo intero sognavano sulle note di Beyoncé, mentre il neo presidente degli Stati Uniti d’America, fresco di giuramento, inaugurava il palco del ballo presidenziale di Washington al fianco della first lady? Si è forse già conclusa la luna di miele mediatica tra l’opinione pubblica americana (e non) e uno tra i maggiori comunicatori della politica degli ultimi 30 anni, l’uomo che ha convinto milioni di elettori a tornare alle urne, perchè si può cambiare, “yes, we can”? Difficile da dirsi. Certo è che Barack H. Obama, 44° presidente americano e primo afroamericano alla Casa Bianca, si trova, a un anno dalla sua spettacolare elezione, con una serie di gatte da pelare. Passato il peggio della crisi economica, ma non del tutto superato lo choc degli americani di fronte alla sua decisa linea di intervento nel settore economico e in particolare automobilistico, rimangono grossi punti interrogativi sulla sicurezza interna ed esterna, la politica internazionale, la riforma sanitaria e l’emergenza dell’influenza A/H1N1. A un anno da quella sera di novembre in cui l’America gli ha regalato oltre 69 milioni di voti, le risposte del presidente sembrano non piacere più a un elettorato impaziente e abituato a ottenere tutto e subito, e il messia della politica nazionale e internaziona- SOTTO SCACCO Per Obama l’euforia della luna di miele si va spegnendo le si è trasformato nel “grande procrastinatore”, cioè colui che rimanda le decisioni sui grandi temi d’interesse del paese scontentando i suoi stessi elettori. Non hanno fatto, forse, tanto eco le prime dichiarazioni con cui Obama, nei numero addirittura più alto di un punto percentuale rispetto al consenso realizzato alle elezioni, il livello di popolarità è calato del 24 per cento rispetto al momento dell’insediamento alla Casa Bianca, nel gennaio scorso. Sono molteplici i fattori cui il generale McChrystal ne ha chiesti altri 40 mila è ormai di dominio pubblico. Anche per questo è proprio in politica estera che Obama realizza il più basso dato di consenso, nonostante l’avvio di una politica distensiva nei confronti di Cuba e Venezue- L’America di Obama compie un anno. Una ricorrenza tutt’altro che rosa per un paese in bilico tra crisi finanziaria e ripresa economica, missioni di guerra e un Nobel per la pace giorni della sua elezione, aveva sottolineato le debolezze ormai strutturali del paese e la difficoltà di risolverle in un unico mandato. E a un anno dalle elezioni, come al traguardo dei primi 100 giorni, si parla di consenso ed ecco che i numeri cominciano a calare. Anche se il 54 per cento degli americani intervistati dalla CNN si dice soddisfatto dell’operato del presidente, che incidono sul calo di consenso. La scelta di continuare la missione in Iraq e di aumentare il contingente in Afghanistan ha certamente deluso l’America che aveva riposto in un presidente democratico le speranze di una politica estera diversa dal passato. Si stima che, entro la fine dell’anno, saranno circa 68 mila i soldati americani in Afghanistan, e il rapporto con la, con la revoca delle restrizioni ai viaggi verso l’isola caraibica e la stretta di mano con Chavez al vertice sulle Americhe. Non sono più semplici le problematiche da affrontare in politica interna. Alla comunità omosessuale non è bastata la fine della prassi “non chiedere, non dire”, che consentiva ai gay di arruolarsi nell’esercito a patto di non dichiarare il proprio orientamento sessuale, e migliaia di gay e lesbiche hanno sfilato a Washington per chiedere politiche più concrete contro la discriminazione sessuale. Persino gli innegabili risultati in materia di sanità, è di questi giorni il sì della Camera alla riforma che prevede di realizzare la copertura sanitaria per il 96 per cento della popolazione, mettono in discussione la popolarità del presidente con quella fetta di americani contrari alla cultura dell’assistenzialismo o legati agli interessi delle grandi lobby del settore medico e farmaceutico. La riforma, con un investimento di 1.200 miliardi di dollari, prevede infatti di estendere l’assistenza sanitaria a 36 milioni di americani e introduce misure di controllo, tra cui l’obbligo per i datori di lavoro di assicurare i dipendenti e il divieto alle assicurazioni di aumentare il premio ad anziani o persone affette da patologie preesistenti all’acquisto della polizza. L’America di Obama, dunque, compie un anno. Una ricorrenza tutt’altro che rosa per un paese in bilico tra crisi finanziaria e ripresa economica, assistenza sanitaria e lobby del settore medico, missioni di guerra e un Nobel per la pace. Certo è che, se gli Stati Uniti hanno avuto la pazienza di osservare un paese che sprofondava in una crisi senza precedenti, speriamo ne abbiano altrettanta per consentire allo stesso paese di risollevarsi. LA CASA BIANCA Al passo coi tempi La capacità di interpretare il suo tempo è il punto di forza dell’amministrazione Obama per avvicinarsi e soprattutto avvicinare a sé il maggior numero di cittadini. Dalle foto della quotidianità presidenziale sul portale flickr.com, al restyling del sito della Casa bianca in open source, sulla falsa riga dei blog dei teenagers americani, fino allo ‘sbarco’ sui principali social networks a quarant’anni esatti da quello lunare. La politica tecnologica del presidente Usa segna una svolta nei rapporti tra utenti e pubblica amministrazione, all’insegna della semplificazione della comunicazione ‘top down’, quella cioè che parte dalle Istituzioni rivolta alla cittadinanza. I numeri, in costante ascesa, decretano il successo dell’iniziativa: centottantamila iscritti al profilo Facebook, altrettanti al MySpace, mentre quarantunomila persone hanno scelto Twitter per ricevere gli aggiornamenti sul lavoro della Casa Bianca direttamente sul proprio telefono cellulare. A. L. Camera dei rappresentanti, interprete del pensiero comune Organo di controllo super partes sull’operato del governo Una garanzia per il popolo I Senatori: la spina nel fianco A differenza del Senato, dove tutti gli stati hanno uguale rappresentanza, alla Camera ogni Stato elegge un numero di rappresentanti proporzionale alla popolazione. Le elezioni si tengono ogni biennio nell’election Day, cioè il primo martedì dopo il primo lunedì di novembre degli anni pari. I seggi sono attualmente quattrocentotrontacinque. La Camera dei rappresentanti è detta anche “camera del popolo”, intesa come fedele rappresentante e interprete dell’opinione pubblica. Per questo motivo è generalmente considerata un’assemblea in cui le contrapposizioni politiche, rispetto al Senato, sono più accentuate. La Camera condivide con il Senato il potere legislativo, tuttavia soltanto i suoi membri possono proporre leggi tributari. Alla Camera spetta la facoltà di avviare il procedimento di Il Senato americano rappresenta in maniera egualitaria tutti gli Stati, per ognuno dei quali due rappresentanti sono eletti dal popolo per un totale di cento senatori. Condivide con la Camera il potere legislativo e le funzioni di controllo sull’esecutivo, ma possiede anche alcuni poteri esclusivi, tra cui la ratifica dei trattati internazionali e l’approvazione delle nomine di molti funzionari e dei giudici federali. I senatori restano in carica per sei anni, con scadenze dei mandati distribuite nel tempo in modo che un terzo sia rinnovato ogni biennio. Questo consente un’atmosfera più collegiale e meno partigiana, poco influenzabile dall’opinione pubblica e soprattutto dai poteri forti. Comprende sedici commissioni permanenti, ciascuna delle quali competente per una determinata materia: affari dei veterani; agricoltura, nutrizione e foreste; ambiente e lavo- Reporter nuovo impeachment del presidente degli Stati Uniti e la rimozione dalla carica di un funzionario o di un giudice federale. La Costituzione prevede che la Camera elegga autonomamente il proprio presidente, detto Speaker, carica ricoperta attualmente da Nancy Pelosi. Il portavoce proviene dal partito di maggioranza, presiede le sedute, assegna le proposte di legge alle varie commissioni, nomina i membri di alcune commissioni, e ha una notevole influenza sull’orientamento del gruppo parlamentare del suo partito e sui lavori dell’assemblea. Per questo motivo la Camera si trova spesso in linea con l’operato del governo. Una decisione clamorosa fu la bocciatura del piano anti-crisi proposto dall’amministrazione Bush alla fine del mandato, appoggiato persino dai democratici di Barack Obama. A. L. ri pubblici; attività bancarie, alloggi e affari urbani; bilancio; commercio, scienza e trasporti; energia e risorse naturali; finanze; forze armate; piccole aziende e imprenditoria; rapporti con l’estero; regolamento e amministrazione; sanità, istruzione, lavoro e pensioni; sicurezza interna e affari governativi; sistema giudiziario; stanziamenti. Durante il primo anno di amministrazione Obama, il Senato ha fatto la voce grossa facendo valere, in molte occasioni, il suo ruolo di controllore: dal piano salvaauto alla chiusura della prigione di Guantanamo, fino all’ultima bocciatura della commissione finanza della prima proposta di legge sulla riforma del sistema sanitario nazionale, approvata nella seconda versione dalla Camera e tutt’ora in attesa di un sì definitivo da parte del Senato. A. L. 13 Novembre 2009 5 Cronaca Dopo la strage nella base militare di Fort Hood ci si interroga sulle cause di fenomeni diffusi Vittime di un disagio inascoltato Numerosi casi di doppia identità, mobbing, difficoltà ad integrarsi Marco Maimeri Gli ultimi sviluppi delle indagini sulla strage di Fort Hood per mano di Nidal Malik Hasan, medico militare specializzato in malattie mentali da stress, riaccendono il dibattito sulle cause che portano persone apparentemente normali a trasformarsi in pericolosi cecchini. Stavolta, però, non si tratta del classico problema del libero possesso e uso indiscriminato delle armi leggere in America. In questo caso, l’omicida ha fatto fuoco con armi civili in un contesto militare. La causa principale pare sia stata la sua repulsione a partire per l’Afghanistan o l’Iraq. Malik Hassan era psichiatra e si occupava di curare i disagi provocati dallo stress post-traumatico in seguito a missioni di guerra. Essendo musulmano, poi, aveva, per motivi religiosi, ritrosia a combattere contro altri “fratelli islamici”. La sua fede, però, c’entra poco: non ha ucciso perché spinto dal Corano o da Al Qaeda. Ha ucciso perché stressato dal fatto di essere, allo stesso tempo, un musulmano praticante e un soldato americano, fedele sia all’Islam sia alla patria. Il suo disagio era noto: ne aveva parlato con pa- SCAMPATI Nella base militare di Fort Hood i colleghi del killer sopravissuti alla strage renti, amici e conoscenti, ma non riusciva a farsi ascoltare dall’esercito. L’US Army gli aveva sempre negato qualsiasi possibilità di uscire dai ranghi. Era stressato: non voleva vivere una condizione che, da una parte, lo poneva di fronte a pazienti ossessionati dallo stesso suo dilemma – come conciliare religione e patriottismo – e, dall’altra, lo esponeva ad azioni fisiche e verbali di “mobbing” da par- te di colleghi che lo discriminavano a causa del suo nome e della sua fede. Una condizione diffusa all’interno del sistema militare americano che lui conosceva bene sia da vittima sia da psichiatra. Per questo si era rivolto a un avvocato: voleva far causa ai vertici delle forze armate per ottenere la rescissione del contratto oppure la concessione di un congedo anticipato. Questo tipo di disagio, un aggravamento del cosiddetto “stress combat” o “sindrome da Vietnam”, collega la strage a quelle di stampo giovanile-scolastico commesse da “school shooters”, pistoleri della scuola. Anche in quei casi, ragazzi timidi e riservati uccidono coetanei e persone dello stesso ambiente, per problematiche varie – mancanza di integrazione, gelosia, umiliazione, noia, scontento ideologico – ma tutte legate al desiderio di liberarsi dalle frustrazioni. Un caso emblematico avvenne in Virginia, nel campus del politecnico di Blacksburg, nel 2007. Cho Seung Hui, studente sudcoreano, uccise 32 persone, la maggior parte suoi colleghi. La causa pare sia stata gelosia nei confronti di una ragazza, ricca, che lo aveva rifiutato. Il ragazzo, però, era già disturbato. Alcuni insegnanti avevano notato e denunciato alle autorità del campus i suoi strani comportamenti: aveva dato segnali della sua follia anche attraverso scritti finiti poi nelle mani dei docenti. Ma nulla era stato fatto: il suo disagio era rimasto inascoltato. Era un giovane depresso, ombroso, uno studente, prossimo alla laurea, che sfoggiava fantasie morbose, comportamenti violenti e risentimenti contro le classi ricche e privilegiate. Tutti campanelli d’allarme per chi avrebbe dovuto capire. Un po’ come per i due giovani della Columbine High School affascinati da un’ideologia gotico-nazista. Lì una morale deviata ebbe il sopravvento ma alla base c’era sempre un aspetto: la mancanza di attenzioni e di valori derivati da una famiglia che, pur valida, era affettivamente assente. Con una frase ambigua il diritto degli americani a “portare armi” è sancito dalla Costituzione E c’è anche chi ne vorrebbe avere di più Eloisa Moretti Clementi Il diritto di possedere armi è sancito dalla Costituzione americana all’interno della Dichiarazione dei Diritti, ovvero i dieci emendamenti al testo costituzionale approvati nel 1791. In particolare, è il secondo emendamento a parlare del diritto delle persone di detenere e portare armi. La sua interpretazione ha suscitato nel tempo molti più contrasti e dibattiti di ogni altro passaggio della Dichiarazione, soprattutto rispetto alla corretta comprensione dell’espressione “the right to keep and bear Arms”, frase che può avere un duplice significato: il primo, ormai anacronistico, fa riferimento alla partecipazione dei cittadini alla milizia che aveva combattuto durante la rivo- 6 13 Novembre 2009 luzione americana, mentre il cana è spaccata tra due vi- trolli, piuttosto che di varasecondo sancisce il diritto di sioni opposte: c’è chi ritiene re leggi più restrittive. Seogni individuo a possedere che la libera detenzione del- condo Larry Pratt, direttore armi. Solo di recente si è ar- le armi determini un rischio esecutivo della lobby prorivati a un punto fermo in troppo alto per la sicurezza armi Gun Owners of Amerimateria, nel 2008, quando la collettiva, e chi al contrario ca, dopo le ultime stragi avCorte Suprema ha ricono- suggerisce di ampliarne la venute nel Paese, è necessasciuto il diritto inalienabile vendita e il possesso per con- rio «abrogare immediatadei cittadini di mente la possederle. Non legge sulle Tra i motivi del boom di acquisti l’aumento tutti però hanno zone libedeciso di adere dalle della microcriminalità e il timore guarsi, come ad armi, che esempio la città che Obama possa restringere il possesso di armi lascia le di New York, scuole che ha condidella nazionato a una licenza l’ac- sentire a chiunque di difen- zione alla mercè dei pazzi». quisto di armi da parte dei dersi in caso di aggressione e Il numero di armi da fuoco privati. addirittura per prevenire le legalmente detenute è stiCome dimostrano i fatti, si stragi. I sostenitori delle armi mato intorno ai 250 milioni tratta di un principio gravi- libere invocano il diritto dei e i media americani rilanciado di conseguenze: nel 2005, cittadini alla legittima difesa no continuamente l’emerper esempio, sono stati oltre e considerano il massacro genza sicurezza spingendo i 30mila i morti per ferite da avvenuto nel 2007 al Virginia cittadini a difendersi da soli. arma da fuoco. Ancora oggi Tech come una prova della Tuttavia, solo il dieci per l’opinione pubblica ameri- necessità di alleggerire i con- cento delle morti per arma da fuoco è il risultato di furti, rapine o aggressioni, mentre nel 55 per cento dei casi si tratta di suicidi. La possibilità di detenere armi rappresenta inoltre un’importante fonte di entrate per lo Stato americano: secondo i dati diffusi dal Dipartimento del Tesoro Usa, infatti, l’erario ha incassato ben 121 milioni di dollari nella prima metà del 2009, grazie alle percentuali sulle vendite di armi e munizioni. Negli ultimi 12 mesi si è avuto un boom di acquisti, che Wayne LaPierre, vicepresidente della National Rifle Association, spiega con la convergenza di due paure collettive: l’aumento della microcriminalità a seguito della crisi e il timore che Obama possa restringere il diritto al porto d’armi. LE PIÙ CRUENTE Binghamton 13 vittime in un centro Il 3 aprile 2009, Jiverly Wong, vietnamita 41enne, apre il fuoco in un centro ricreativo per immigrati a Binghamton, New York, uccidendo 13 persone, fra cui due impiegati. Appena la polizia giunge sul posto, il killer, ex-studente del centro, si uccide. In Alabama i morti furono dieci Il 10 marzo 2009, un giovane di 28 anni, Michael McLendon, uccide dieci persone, inclusa sua madre, la fidanzata, alcuni parenti e la moglie e il bambino di un vice-sceriffo locale, seminando il panico in tre cittadine fra Alabama e Florida. Infine, si uccide. Illinois, fuoco in una sala di lettura Il 14 febbraio 2008, un ex-studente di 27 anni, Steven Kazmierczak, entra armato di pistola in una sala di lettura della Northern Illinois University a DeKalb, Illinois, uccidendo cinque persone e ferendone altre 18. Dopodiché, con la stessa arma, si toglie la vita. In Nebraska omicida in un negozio Il 5 dicembre 2007, un 19enne, Robert A. Hawkins, imbraccia un fucile e fa fuoco in un negozio Von Maur all’interno del grande magazzino Westroads Mall di Omaha, Nebraska, uccidendo otto persone e ferendone cinque, di cui due gravemente. Poi, si toglie la vita. Reporter nuovo Cronaca Grandi magazzini e negozi allestiscono gli addobbi e propongono offerte che anticipano la stagione dei saldi. Preoccupazioni dei negozianti per le poche disponibilità della clientela IL RITO Statuette a San Gregorio Armeno, festoni natalizi nelle strade del centro di Roma In molte vetrine è già Natale Si vuole evitare un nuovo flop dei consumi. Novità in arrivo Jacopo Matano Babbo Natale è ancora in volo, ma i suoi regali sono già atterrati nelle vetrine e negli scaffali dei negozi. Nella capitale, infatti, la festività più importante è in anticipo: a più di quaranta giorni da Natale, i negozianti fanno la scorta di prodotti di consumo e allestiscono le vetrine sperando nell’assalto dei romani, stretti quest’anno tra la voglia di riprendersi dalla crisi e una più prudente attesa nel tirare fuori il portafogli. La “fabbrica del Natale” ha dunque già aperto i battenti. Per contrastare la contrazione dei consumi, che l’anno scorso sotto le feste si sono ridotti del 20 per cento, la grande distribuzione organizzata ha provveduto già dai primi di ottobre a rinforzare gli stock di torroni e pandori nei bar e supermercati, attirandosi le critiche delle associazioni dei consumatori, per le quali non è rispolverando i panettoni con due mesi di anticipo ma abbassando i prezzi che si attiEloisa Moretti Clementi Festa religiosa per eccellenza, sposatasi alla perfezione con il consumismo dei nostri tempi, il Natale è ormai sinonimo di acquisti, consumi, abbuffate, giocate a tombola e tante altre attività molto più profane che sacre. Ed esistono luoghi capaci di coniugare al meglio sacralità e tradizione con l’umorismo, l’attualità, il gusto tutto napoletano per il gioco. Un esempio è San Gregorio Armeno, la celebre via dei presepi nel centro di Napoli, dove ogni anno gli artigiani prendono ispirazione dai fatti e dai personaggi dell’attualità per creare con abilità e ironia nuove statuine da mettere in un presepe sin- Reporter nuovo Le passioni per la tavola e per lo scambio dei regali Cibi nostrani Doni online Secondo un’indagine commissionata dalla Confederazione Italiana Agricoltori, nove famiglie su dieci utilizzeranno alimenti italiani per preparare il prossimo pranzo di Natale. Niente acquisti esotici, quindi, a beneficio dei prodotti della tradizione enogastronomia nostrana, meglio ancora se a denominazione di origine. La Cia invita a scegliere i mercati diretti per i propri acquisti alimentari, dove si può risparmiare fino al 20 per cento comprando cibi di qualità. Inoltre, dopo anni di crisi, sono tornati in voga anche lo zampone e il cotechino, per i quali – sottolinea la Cia – è prevedibile che quest’anno si registri un’ulteriore crescita nei consumi, intorno all’1,5-2 per cento. E. Mo. C. vano i consumi. Anche il commercio medio e piccolo si attrezza all’arrivo del 25 dicembre: renne, babbi, alberi e neve rigorosamente finta cominciano a spuntare nelle vetrine dei negozi dopo le ultime piogge dell’autunno, soppiantando zucche e streghe di un Halloween un po’ magro. Regali meno cari, priorità alla famiglia e grande ricorso alle occasioni online: è quanto emerge da uno studio commissionato da e-Bay sulle scelte degli italiani per i regali del Natale 2009. In media in Italia si spenderanno solo 174 euro a persona, contro i 190 del 2008. Nonostante la crisi, gli italiani sono generosi: nella classifica europea siamo al quarto posto per numero di regali fatti. Per quanto riguarda il commercio online, viene scelto soprattutto per la convenienza e la semplicità, mentre il cliente “tipo” sembra più previdente di quello tradizionale: secondo eBay, infatti, nel 2008 è stata il 17 novembre la giornata di picco per gli acquisti. “Da noi a Natale va sempre bene, Halloween invece non ha funzionato”, dice Debora, commessa di Lush a via del Corso, che ha già allestito la vetrina e ci mostra l’offerta “Fai il regalo prima di tua zia”, un modo per risparmiare anticipando le compere natalizie. Tra i regali per un 25 dicem- E. Mo. C. bre cheap c’è anche Morellato, punto di riferimento dello struscio giovanile: “Pensierini, piccoli oggetti, spendono la paghetta”, afferma Manuela che lavora nel negozio. Il Natale più magro sarà comunque alla Rinascente di largo Chigi, dove l’allestimento è incominciato già ai primi di otto- bre, ma l’atmosfera è tutt’altro che festosa. La storica sede del marchio, infatti, chiuderà il 31 dicembre lasciando il posto a Zara. Riaprirà, tra due anni, in via del Tritone: una pausa di riflessione per far passare la crisi, ristrutturare la nuova sede e rilanciare il gruppo con 15mila metri quadrati di shopping. Al momento però denuncia la Uil - l’unico regalo natalizio per i 59 dipendenti è la mobilità. In questo Natale anticipato anche i saldi arrivano prima: il 2 gennaio, secondo quanto concordato tra le associazioni di categoria e il comune. Nel braccio di ferro tra i clienti che sperano nei regali calmierati, e i negozianti che non vogliono soccombere ai prezzi bassi, giunge una leggera, ottimistica previsione di aumento dei consumi, che per Confcommercio potrebbero non calare oltre il -1,8 per cento rispetto a prima della crisi. Ma a spaventare i negozianti è, come nel racconto di Dickens, il fantasma del Natale passato. L’attualità rivisitata nelle statuette del presepe di San Gregorio Armeno Silvio in ginocchio chiede perdono cretico, in cui tradizione e innovazione si mescolano. Per la prossima festività sono già stati inaugurati nuovi personaggi, dal neo-allenatore del Napoli Walter Mazzarri all’ex-presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo, raffigurato accanto a un transessuale; non mancano, poi, alcuni defunti illustri come Michael Jackson e Mike Bongiorno, e nemmeno la raffigurazione della separazione dell’anno, con Silvio Berlusconi in ginocchio che chiede perdono a Veronica Lario. Persino i personaggi più tra- dizionali del presepe si attualizzano, attraverso lo sguardo ironico degli artigiani di San Gregorio Armeno, ed ecco dunque spuntare la mascherina anti-contagio sui volti di Maria e Giuseppe, mentre al posto dei noti doni i Re Magi offrono dosi di vaccino contro l’influenza A. Secolarizzazione e consumismo, dunque, non spengono il presepe, anzi: simbolo inscindibile della tradizione natalizia, funziona bene anche dal punto di vista concretamente commerciale, come dimostrano le vetrine dei centri commerciali in cui molto spesso fa bella mostra la raffigurazione della natività. Come ogni anno, è già partita la caccia al regalo perfetto, che secondo il Financial Times si chiama “criceto parlante”: un animaletto elettronico che squittisce e che sembra stia andando a ruba nei negozi inglesi e statunitensi. E se la Chiesa tuona contro la paganizzazione della festa cristiana e se la prende con l’antagonismo delle feste importate dagli Usa come la popolare Hallo- ween, c‘è anche chi al Natale lancia una sfida senza precedenti. La casa editrice Marcos y Marcos pubblica, infatti, in questi giorni “La lega antiNatale”, di Michael Curtin, che racconta la storia di cinque bizzarri personaggi che si alleano per preparare un piano di sabotaggio della festa delle feste. Ambientato nella cattolicissima Irlanda, il romanzo descrive in modo dissacrante “i lati più tragicamente appiccicosi, ‘pallosamente’ accascianti e scontatamente consumistici del 25 dicembre”. ABETI NATALIZI Ma l’albero si può adottare Perché addobbare un albero quando si può piantare un bosco e far respirare il pianeta? L’idea è venuta tre anni fa a Legambiente, si chiama BosCO2, e torna alla ribalta in vista di questo Natale: rinunciare al tradizionale tannenbaum di plastica o, peggio ancora, vivo e vegeto da esibire durante le feste per far nascere un albero in un parco, che diventerà il primo Bosco di Natale anti-emissioni. L’iniziativa, coordinata da Azzero CO2, la società che fa capo a Legambiente e che aiuta le aziende a migliorarsi sul tema della sensibilità, ha avviato un progetto di riforestazione nel Parco Fluviale del Po e dell’Orba, in Piemonte. Con venti alberi –secondo Azzero CO2 - si risparmiano all’ambiente 14 tonnellate di anidride carbonica, equivalenti al consumo annuo di elettricità in un ufficio con dieci dipendenti. L’albero di BosCO2 è dunque una buona azione, ma soprattutto un’idea regalo da 40 euro che dà un’impronta eco-friendly e originale al classico dono di Natale. Ma la corsa all’azzeramento delle emissioni di anidride carbonica non coinvolge soltanto i cittadini più sensibili. Molte, infatti, sono le aziende che hanno deciso di regalare ai propri dipendenti un albero da piantare nel BosCO2. Un dono concreto e sostenibile al posto del solito regalo aziendale, che in tempi di crisi si rivela spesso il vero “pacco” di Natale. J. M. 13 Novembre 2009 7 Spettacoli & Costume In televisione impazzano programmi basati sullo scontro tra finti attori in cerca di credibilità Un millennio nel segno del reality Obiettivo, massima audience. Ma si registra anche qualche flop inatteso Vito Miraglia Reality e talent show rappresentano ormai il terreno di scontro su cui si gioca la guerra dell’audience tra Rai e Mediaset. Con la nuova stagione televisiva, Amici su Canale 5 e X Factor su Rai 2 hanno dato il via alla colonizzazione del palinsesto inzeppandolo di questi programmi, ma l’attesa era tutta per lei, la decima edizione del Grande Fratello partita lo scorso 26 ottobre sempre su Canale 5. Per celebrare l’anniversario, gli autori hanno ideato una versione extralarge dello storico reality: 40 concorrenti per cinque mesi di reclusione – Natale e Capodanno compresi – contro i canonici cento giorni. Alla base di questa scelta, come hanno spiegato gli autori, c’è la volontà di accontentare i fan che, dopo la fine dell’ultima edizione, hanno continuato a seguire la storia del vincitore su tanti altri programmi sia Mediaset che Rai. L’obiettivo è bissare il successo della scorsa edizione, quella che ha superato lo speciale di Porta a Porta nel giorno della morte di Eluana Englaro. E subito la prima puntata ha battuto ogni record d’ascolto: più di sei milioni di spettatori con il 33,73 per cento di share, il miglior risultato per la puntata d’esordio nelle ultime quattro edizioni. Non così bene sta andando al reality di punta della Rai, il talent show X Factor che ha fatto registrare un calo di ascolti rispetto alla scorsa edizione. Ma la grande abbuffata di reality ha probabilmente stancato il pubblico: nelle scorse stagioni televisive, molte trasmissioni sono state cancellate dopo essersi rivelate clamorosi flop. I suoi fan più accaniti possono comunque star tranquilli: c’è un nocciolo duro di programmi che difficilmente andrà in soffitta. Oltre al Grande Fratello e ai talent show di Amici e X Factor, anche L’isola dei famosi ha mantenuto negli anni un successo costante. La settima edizione dello show è in arrivo e ha già fatto parlare di sé per le indiscrezioni sulla partecipazione dell’ex bandito sardo Graziano Mesina. Su Canale 5 partirà in- 8 13 Novembre 2009 L’ASSALTO Aspiranti concorrenti in fila davanti a un punto Endemol in attesa del sospirato provino. Selezioni per i reality avvengono in tutte le città d’Italia vece l’ennesimo programma scova-talenti a cui sta lavorando Maria De Filippi, basato sul format americano America’s got a talent. Che il reality sia oggi il genere di programma più redditizio della tv italiana lo dimostra il suo approdo sui ca- nali satellitari. E infatti nel processo di ibridazione tra tv generalista e canali tematici, il fenomeno ha interessato anche Sky: il talent show Italia’s next top model, in onda su Sky Uno è giunto alla terza edizione, mentre a giugno si è concluso, sempre sul- lo stesso canale, Vuoi ballare con me?, talent show intergenerazionale che vedeva sfidarsi dei ragazzi in coppia con i propri genitori. Sky Uno è nato per intaccare il duopolio della tv in chiaro e, pertanto, non poteva non inserire dei reality nel suo pa- Sindrome dell’isola dei non famosi: il parere del neurologo Labileconfinetrarealtàefinzione: non c’è vita fuori dagli schermi tv Ilaria Del Prete Dieci anni sono passati da quando l’occhio vigile del Grande Fratello ha fatto la prima apparizione sui teleschermi degli italiani. Ben diverso dalla tv verità della Rai 3 di Guglielmi, il format importato dall’Olanda ha presto invaso i palinsesti nazionali, tra polemiche, consensi e dissensi. “Programma basato su situazioni reali che coinvolgono persone comuni, presentate in un contesto narrativo (e quindi strutturate in storie), che si avvale solitamente di contributi filmati, siano essi collegamenti in diretta o contributi chiusi pre-registrati”. La definizione dell’esperto Aldo Grasso, non manca di suscitare dubbi circa la spontaneità di individui sottoposti all’innaturale circostanza di vivere circondati da microfoni, telecamere e situazioni abitative delle più insolite, sull’effettiva realtà del reale proposto. Tutto comincia con i casting. In fila anche per pochi minuti di celebrità, alla ricerca di uno spazio in cui raccontarsi, nella speranza di poter rappresentare un pezzetto d’Italia. Negli anni, la scelta dei reclusi dei più svariati reality ha però subito una trasformazione: dalla scelta di tipi umani - vedi il piacione, il simpatico, la disinibita - a uno sguardo più attento anche ai risvolti sociali e di attualità. Un esempio è fornito dalle ultime due edizioni del programma di Canale 5. Nella passata edizione, partecipa e vince un montenegrino, in tempi d’isteria collettiva sulla questione Rom; ad oggi, tra i concorrenti c’è una donna diventata uomo, in giorni in cui ogni programma in lotta per gli ascolti cerca di accaparrarsi il suo trans. Realtà rappresentata, da un lato, realtà scimmiottata, dall’altro. Realtà che va in diretta, televisione che influenza la realtà. Difatti, tutti vogliono fare reality, per esibizionismo, ma anche nella speranza che la subitanea notorietà si trasformi in duraturo successo. E di reality ci si ammala, anche. “Sindrome dell’isola dei non famosi”, così la chiama il neurologo Rosario Sorrentino, membro dell’Accademia Americana di Neurologia, che ne riconosce i sintomi specialmente nelle personalità meno formate di giovani e giovanissimi. Insicurezza, ridotta autostima e finanche disturbi alimentari, frustrazione indotta dal senso di inadeguatezza nei confronti di miti che seppure persone comuni, restano irraggiungibili, unici ammessi all’Olimpo della vita vera, quella della tv. Oppure ci si inventa un’abilità, e si tenta la fortuna nei talent show, nella convinzione che la gloria sia a portata di mano. Con buona pace di impegno, dedizione e spirito di sacrificio. linsesto. Ormai si sa: il reality show è diventato l’emblema televisivo del nuovo millennio. Il Grande Fratello è partito proprio nel 2000, anche se all’estero le prime sperimentazioni risalgono ai decenni precedenti. In Italia, i reality hanno trovato terreno fertile perché in passato sono state molte le trasmissioni incentrate sulle vicende personali di vip o gente comune che solleticavano il voyeurismo e la curiosità del pubblico. Come poter non considerare Specchio segreto, lo storico programma di candid camera della Rai, ideato nel 1965 dal genio di Nanni Loy, il primo - e forse unico - vero reality show della tv italiana? LA CASSAZIONE Con licenza di insultare Chi partecipa ad un reality è libero di insultare, ma, soprattutto, chi è insultato non può sentirsi diffamato. Così ha deciso la Corte di Cassazione con la sentenza n. 37105 del 2009 in cui ha rigettato il ricorso di un concorrente di Survivor, che era stato chiamato “pedofilo” da un altro partecipante. Per la Corte, l’epiteto non è un insulto perché pronunciato nel “contesto di una trasmissione volutamente indirizzata alla rissa verbale tra i partecipanti”. Così risulta solo una “impropria e scherzosa iperbole”. Così i giudici, non solo hanno legittimato l’uso di parole offensive all’interno dei reality, ma ne hanno anche smascherato la vera natura. Un reality è un programma che ha come missione quella di sollecitare il contrasto verbale tra i protagonisti, di provocare zuffe e liti anche violente. Come dire: se vuoi partecipare ad un reality, tieniti pronto ad essere schernito dagli altri concorrenti secondo copione; non puoi difenderti in alcun modo, se non partecipando agli insulti. V. M. Reporter nuovo Settimanale della Scuola Superiore di giornalismo “Massimo Baldini” della LUISS Guido Carli Direttore responsabile Roberto Cotroneo Comitato di direzione Sandro Acciari, Alberto Giuliani, Sandro Marucci Direzione e redazione Viale Pola, 12 - 00198 Roma tel. 0685225558 - 0685225544 fax 0685225515 Stampa Centro riproduzione dell’Università Amministrazione Università LUISS Guido Carli viale Pola, 12 - 00198 Roma Reg. Tribunale di Roma n. 15/08 del 21 gennaio 2008 [email protected] ! www.luiss.it/giornalismo Reporter nuovo