CAPITOLO 3 Modelli di Meccanica della Frattura per

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CAPITOLO 3 Modelli di Meccanica della Frattura per
CAPITOLO 3
Modelli di Meccanica della Frattura per la Verifica di Stabilità
delle Fessure e loro Implementazione agli Elementi Finiti
3.1
Generalità.
Ogni componente strutturale, nel momento in cui è posto in esercizio, possiede dei difetti
considerati accettabili che durante il periodo di funzionamento possono accrescersi a causa di
meccanismi di degradazione legati alle condizioni di carico o alle proprietà chimico-fisiche
dell’ambiente di lavoro (fatica, tearing, tensocorrosione, ecc). Nel momento in cui il difetto
raggiunge la dimensione critica, viene compromessa la capacità di sostenere i carichi e si ha la
rottura catastrofica dell’elemento strutturale. Carichi affaticanti ed ambienti aggressivi portano ad
una crescita delle fessure presenti in un componente. Più grande è il difetto e più grande è la
concentrazione delle tensioni all’apice di essa, pertanto la velocità di crescita di una cricca risulta
una funzione crescente nel tempo e nei cicli di carico (Figura 3.1(a)).
La resistenza di una struttura diminuisce con l’aumentare delle dimensioni di un difetto e
può raggiungere un valore tale da non essere più in grado di sopportare i carichi massimi gravanti
su di essa arrivando ad una rottura catastrofica. Tale possibilità diviene certezza se la resistenza
assume un valore inferiore a quella necessaria per sopportare i carichi di esercizio (Figura 3.1(b)).
Figura 3.1
The engineering problem of a crack in a structure
59
La Meccanica della Frattura deve fornire dei metodi e criteri per poter dare risposte
quantitative a specifici problemi concernenti la presenza di fessure in componenti strutturali e
determinare le seguenti quantità:
•
la resistenza residua della struttura in funzione delle dimensioni della cricca;
•
le dimensioni critiche di una fessura (quelle corrispondenti ad una resistenza
residua inferiore a quella necessaria per sopportare i carichi di esercizio);
•
il tempo necessario per far crescere una data fessura dalle sue dimensioni originali
a quelle critiche;
•
le dimensioni ammissibili delle cricche ad inizio vita;
•
il tempo che deve intercorrere tra una ispezione e l’altra della struttura.
3.2 Concetti base di meccanica della frattura lineare elastica.
3.2.1 Il criterio energetico.
Nel caso in cui si trascurino i fenomeni dissipativi, il principio di conservazione
dell’energia stabilisce che il lavoro F fatto dai carichi esterni che agiscono su un corpo debba
essere trasformato in energia di deformazione U :
F −U = 0
(3.1)
Il lavoro F compiuto dai carichi esterni vale:
F = ∫ Pds
(3.2)
essendo P l’intensità del carico ed s lo spostamento del suo punto di applicazione. Nel piano P-s,
tale lavoro è fornito dall’area sottesa dalla curva carico-deformazione. L’energia di deformazione
U si calcola effettuando l’integrazione sul volume della densità di energia. Questa ultima grandezza
è nota una volta conosciuto il tensore delle tensioni σ e quello delle deformazioni ε:
(3.3)
∫
Densità di energia di deformazione = σ ⋅ dε
Se il corpo presenta una fessura, possono verificarsi due condizioni:
•
la fessura non avanza;
•
la fessura avanza.
60
Nel primo caso vale ancora l’equazione (2.1). Nel secondo caso, invece, è necessario
correggere l’equazione di bilancio (2.1) introducendo un termine che tenga conto della quantità di
energia spesa nella frattura del materiale. Si supponga che la fessura avanzi di una quantità
infinitesima da. Se si scrive il bilancio di energia facendo riferimento alle variazioni di energia che
si hanno nell’avanzamento della cricca dalla dimensione a a quella a+da , si ottiene la seguente
equazione di bilancio:
d
(F − U − W ) = 0
da
(3.4)
che può essere riscritta nella forma:
d
dW
(F − U ) =
da
da
(3.5)
Il primo membro dell’equazione (3.5) misura, l’energia rilasciata dal sistema quando la fessura
avanza della quantità da; il termine a secondo membro, invece, indica la quantità di energia W
necessaria per fratturare il materiale della quantità da. Questo criterio energetico stabilito da
Griffith nel 1921 afferma che ‘la progazione di una qualsivoglia fessura avrà luogo se l’energia
rilasciata dal sistema a seguito dell’incremento di lunghezza della cricca è sufficiente a fornire
tutta l’energia richiesta perché avvenga tale incremento di fessura’. Si può dimostrare che il primo
termine dell’equazione (3.5) coincide con l’energia di deformazione immagazzinata nel sistema. A
titolo di esempio, si considerino i due seguenti casi:
•
condizioni di controllo di spostamento (displacement control), Figura (3.2 (a));
•
condizioni di controllo di carico (load control), Figura (3.2 (b)).
Si assume che in entrambi i casi il materiale possieda un comportamento elastico lineare.
Nel caso di controllo di spostamento, all’avanzamento della fessura corrisponde una
diminuzione del carico applicato che passa dal valore P1 al valore P2 (Figura 3.3). L’aumento della
semilunghezza della fessura della quantità da, infatti, comporta una diminuzione della rigidezza del
sistema e lo stesso spostamento può essere mantenuto con un carico applicato inferiore. L’energia
elastica immagazzinata nel sistema diminuirà di una quantità pari all’area OAB e sarà rappresentata
dal triangolo OBD. In questo caso i carichi esterni applicati alle estremità fisse non compiono
lavoro, pertanto la propagazione della cricca può avvenire solo a spese di un rilascio di energia
elastica del sistema.
61
Figura 3.2
Cracked plate at a fixed displacement (a) and at a fixed load (b)
Figura 3.3
Fracturing at costant displacement
Figura 3.4
Fracturing at costant load
62
L’equazione (3.5), pertanto, diventa:
(3.6)
−
dU dW
=
da
da
con
dU
<0
da
Nel caso di controllo di carico, invece, l’avanzamento della fessura avviene a carico P1
costante, cui il lavoro F compiuto da tale forza vale P1 ⋅ (δ 2 − δ 1 ) , dato che le estremità della
piastra subiscono lo spostamento δ 2 − δ 1 (Figura 3.4), mentre l’energia di deformazione
1
1

P1δ 1 − P1δ 2  . L’equazione (3.5)
2
2

immagazzinata dal sistema subisce un incremento pari a 
assume pertanto la seguente forma:
(3.7)
1
1
 dW
P1 ⋅ (δ 2 − δ 1 ) −  P1δ 1 − P1δ 2  =
2
2
 da
(3.8)
1
dW
P1 (δ 2 − δ 1 ) =
2
da
oppure,
Ancora una volta, il primo membro della (3.8) rappresenta la variazione dell’energia di
deformazione dU da (in questo caso essa risulta positiva in quanto i carichi esterni compiono
lavoro durante la propagazione della cricca e quindi l’energia elastica del sistema aumenta anziché
diminuire), mentre il secondo membro dell’equazione (3.8) coincide con l’energia richiesta per
avere la frattura del materiale di una quantità da, pari all’area OAE.
Si può quindi concludere che indipendentemente dalle condizioni di carico, l’equazione di
bilancio (3.5) rappresenta il criterio di rottura. Il primo membro è chiamato rateo di rilascio di
energia di deformazione (strain energy release rate) all’apice della fessura o forza motrice della
fessura (dato che ha le dimensioni di una forza per unità di incremento della fessura) e viene
indicato con G. Il secondo membro, invece, esprime l’energia necessaria alla propagazione della
cricca, per questo è chiamato resistenza alla fessurazione (fracture resistance) ed indicato con R. Il
criterio di rottura espresso dall’equazione (3.5), può essere, allora, riscritto in forma sintetica:
(3.9)
G=R
63
Nel caso in cui il materiale abbia comportamento elastico lineare, si può dimostrare che G è
espresso dalla relazione seguente:
G=
(3.10)
Fc 2πσ 2 a
E'
in cui:

 E

E' = 
 E

1 − ν 2
per stato piano di tensione
per stato piano di deformazione
E : modulo di Young del materiale;
ν : coefficiente di Poisson del materiale;
Fc : è un fattore che dipende dalla geometria considerata e dalle condizioni di carico;
σ : è la sollecitazione applicata al corpo in direzione normale alla superficie di frattura;
a : semilunghezza della frattura.
Sostituendo la (3.10) nella (3.9), tenendo conto che σ E ' = ε (legge di Hook), si ottiene:
(3.11)
Fc 2πσεa = R
L’equazione (3.11), stabilisce il criterio di rottura del materiale. Tale criterio, tuttavia,
fornisce risultati corretti solamente se il materiale mantiene un comportamento elastico lineare
(come nel caso di materiali fragili o ad alta resistenza) nella zona circostante la fessura. Se il
fenomeno di frattura, invece, è accompagnato da notevoli deformazioni plastiche (come avviene
per materiali molto duttili), non è più possibile effettuare un’analisi di tipo elastico e bisogna far
ricorso agli strumenti messi a disposizione dalla meccanica della frattura elasto-plastica (EPFM).
Una rappresentazione grafica del criterio energetico di rottura, si ha ponendo in ordinata le
grandezze G e R e suddividendo l’asse delle ascisse in due parti, a sinistra dell’origine si pone la
lunghezza delle cricche e a destra si pongono gli incrementi di lunghezza delle cricche (Figura 3.5).
Fissando un valore a1 della cricca ed una tensione σ2, il valore di G è rappresentato dal punto F. Per
la cricca a1, al variare della tensione fra 0 e σ2, G varia da O a F. Aumentando la tensione a σ1, G
raggiunge il punto H in cui uguaglia la resistenza a fessurazione, R. La propagazione della fessura
sotto tensione σ1 avviene lungo la linea HK in corrispondenza della quale G risulta sempre
maggiore di R. Una fessura a2>a1, sollecitata da una tensione variabile da 0 a σ2, ha valori di G che
64
variano da 0 a H (le linee LF e MH corrispondenti allo stesso valore di tensione sono parallele); ad
H si ha l’inizio di propagazione della fessura che proseguirà lungo la linea HN.
Figura 3.5
Graphical representation of instability energy criterion
Il tasso di rilascio di energia G assume lo stesso valore sia nel caso di loading control
(estremità libere) sia nel caso di displacement control (estremità fisse), ma solo all’inizio della
propagazione della fessura. Nella fase di ulteriore accrescimento della cricca, l’andamento di G è
lineare solo nel caso di carico costante mentre nel caso di spostamento controllato G può diminuire
all’aumentare di a, in seguito alla diminuzione della tensione (G aumenta in funzione di a con
legge lineare) (Figura 3.6).
Figura 3.6
Difference in G for fixed grip and costant load conditions beyond instability
La resistenza alla fessurazione R nel caso di plane strain risulta indipendente dalla
lunghezza della cricca assumendo così il valore costante di GIC , mentre sperimentalmente è stato
dimostrato che nel caso di plane stress essa varia con legge monotona crescente all’aumentare
dell’incremento del difetto (Figura 3.7).
Ponendoci in condizioni di plane stress, considerando una cricca a1 e una tensione σ1,
l’energia G è rappresentata dal punto B. Con tensione costante all’avanzamento della fessura
l’energia di deformazione varia lungo la retta BH, ma essendo i valori di G sempre inferiori a R,
non si potrà avere propagazione della cricca. La tensione deve aumentare fino a σc, per cui la cricca
aumenta assumendo il valore ac e G assume il valore rappresentato dal punto D, per il quale si ha la
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propagazione instabile della fessura (la retta DF risulta sempre maggiore di R. In D sono verificate
le seguenti relazioni che esprimono il criterio energetico della rottura in condizioni di stato piano di
tensione: ∂GC ∂a = ∂R ∂a e GC = R dove GC è l’energia critica a frattura.
Figura 3.7
Trend of R-curve for plane strain and plain stress
Questo criterio energetico è un ottimo strumento per la valutazione del comportamento alla
fessurazione di un dato materiale e di semplice applicazione. Chiaramente la sua messa in pratica
richiede la conoscenza di una opportuna espressione analitica di R o una sua valutazione per via
sperimentale. Questo metodo di semplice implementazione grafica consente una valutazione del
comportamento post-instabilità di una fessura e del suo possibile arresto.
3.2.2 Stato di Tensione all’apice di una fessura.
Per varie configurazioni di difetti soggetti a carichi esterni è possibile ricavare espressioni
semplici e compatte per descrivere lo stato di sollecitazione nel componente, assumendo un
comportamento del materiale lineare elastico. Definendo un sistema di riferimento polare centrato
nell’apice della fessura (Figura 3.8), si può dimostrare che lo stato di tensione è descritto dalla
seguente espressione:
m
(3.12)
∞
 K 
σ ij =   f ij (θ ) + ∑ Am r 2 g ij(m ) (θ )
 r
m =0
in cui, σ ij è il tensore degli stress, r e θ sono definiti in Figura 3.8, K è una costante e f ij è una
funzione adimensionalizzata. I termini di ordine più elevato dipendono dalla geometria, ma la
soluzione per una qualsiasi configurazione di difetto è pilotata dal termine proporzionale a 1
r.
Per r → 0 , in prossimità dell’apice, il primo termine tenderà all’infinito mentre gli altri termini
saranno trascurabili. L’equazione (3.12) presenta quindi una singolarità in r = 0 .
66
Figura 3.8
Definition of the coordinate axis ahead of a crack tip
Una fessura contenuta in un materiale può essere sollecitata secondo tre differenti tipi di
carico, come illustrato in Figura 3.9:
•
Opening mode (Modo I), sono le tensioni normali al piano della fessura ad
originare gli spostamenti dei lembi;
•
Sliding mode (Modo II), sono le tensioni tangenziali nel piano della fessura stessa
ad originare lo spostamento dei lembi in direzione ortogonale al bordo di attacco;
•
Tearing mode (Modo III), sono le tensioni tangenziali fuori dal piano della fessura
ad originare lo spostamento dei lembi in direzione parallela al bordo di attacco.
La sovrapposizione dei tre modi descrive un qualsiasi problema di fessurazione.
Figura 3.9
The three modes pf loading that cam be applied to a crack
Espressioni dettagliate della singolarità dello stato di sollecitazione per i tre Modi di rottura
sono riportati in Tabella 3.1 e Tabella 3.2, mentre le relazioni sugli spostamenti per i primi due
modi sono riportati in Tabella 3.3.
Mode I
σ xx
σ yy
 θ 
 θ   3θ 
cos  1 − sin   sin  
2πr
 2   2 
 2 
KI
 θ 
 θ   3θ 
cos  1 + sin   sin  
2πr
 2 
 2   2 
KI
 θ   θ   3θ 
cos  sin   cos 
2πr
2 2  2 
τ xy
KI
σ zz
ν (σ xx + σ yy ) (Plane Strain)
τ xz , τ yz
Tabella 3.1
0
(Plane Stress)
Mode II
−
 θ 
 θ   3θ 
sin   2 + cos  cos 
2πr
 2   2 
 2 
K II
 θ   θ   3θ 
sin   cos  cos 
2πr
2 2  2 
K II
 θ 
 θ   3θ 
cos  1 − sin   sin  
2πr
 2 
 2   2 
K II
0
(Plane Stress)
ν (σ xx + σ yy ) (Plane Strain)
0
0
Stress fields ahead of a crack tip for Mode I and Mode II
67
θ 
sin  
2πr
2
K
θ 
τ yz = III cos 
2πr
2
K
r
θ 
u z = − III
sin  
µ 2π
2
τ xz = −
Tabella 3.2
K III
Non-zero stress and displacement components in Mode III
Mode I
Mode II
ux
KI
2µ
r
 θ 
 θ 
cos  κ − 1 + 2 sin 2  
2π
 2 
 2 
uy
KI
2µ
r
 θ 
 θ 
sin   κ + 1 − 2 cos 2  
2π
 2 
 2 
µ
Tabella 3.3
K II
2µ
−
K II
2µ
r
 θ 
 θ 
sin   κ + 1 + 2 cos 2  
2π
 2 
 2 
r
 θ 
 θ 
cos  κ − 1 − 2 sin 2  
2π
 2 
 2 
shear modulus
κ = 3 − 4ν plane strain
κ = (3 − ν ) (1 − ν ) plane stress
Crack tip displacement fields for Mode I and Mode II
Considerando la sola singolarità generata dal Modo I di rottura sul piano contenente la
fessura (θ = 0), le componenti di tensione lungo le direzioni x e y sono identiche come risulta dalla
Tabella 3.1:
(3.13)
σ xx = σ yy =
KI
2πr
In Figura 3.10 è schematicamente rappresentata la componente normale al piano della fessura in
funzione della distanza dall’apice della fessura. L’equazione (3.13) ha validità in prossimità del
difetto in corrispondenza del quale la singolarità 1
r domina il campo di tensioni. Le tensioni
lontane dal difetto sono governate dalle condizioni di carico applicate in posizione remota al punto
di localizzazione della fessura, per cui la tensione tenderà ad un valore finito σ ∞ (per r → ∞
occorre considerare tutti i termini della serie (3.12)). Il fattore KI è noto come fattore di
intensificazione delle tensioni (SIF) per il modo di rottura I. L’intero stato di sollecitazione
all’apice di una fessura è univocamente determinato nel momento in cui risulta noto il fattore
dimensionale KI. che definisce l’ampiezza della singolarità all’apice. Una volta noto questo fattore
è possibile conoscere tensioni, deformazioni e spostamenti come funzione di r e θ.
68
Figura 3.10
Stress normal to the crack plane in Mode I
L’utilizzo di un singolo parametro per caratterizzare gli effetti che una fessura ha su un
dato componente è una delle principali prerogative della meccanica della frattura. La rottura avrà
luogo allorquando KI raggiunge un valore critico KIC, parametro tipico del materiale in esame
ottenute da prove in stato piano di deformazione. In generale il fattore di concentrazione delle
tensioni assumerà la seguente espressione:
(3.14)
K I = FC σ πa
in cui Fc è un fattore che dipende dalla geometria considerata (forma del difetto e sua posizione
nel componente) e dalle condizioni di carico. Tramite l’espressione (3.14) è possibile correlare il
fattore di intensificazione delle tensioni con il tasso di rilascio dell’energia elastica all’apice della
fessura. Sostituendo la (3.14) nella (3.10) si ottiene:
(3.15)

K I2

E

GI = 
2

2 KI
 1 −ν
E

(
Plane Stress
Plane Strain
)
In letteratura sono disponibili diverse correlazioni del fattore di intensificazione in
relazione alla forma del difetto, alla sua posizione nel componente in esame e alle condizioni di
carico. Per una fessura semiellittica superficiale, che generalmente è presa in considerazione in fase
di progetto nella normativa ASME III per la verifica di un componente alla fessurazione, le
correlazioni più attendibili sono risultate quelle di Raju & Newman. Su risultati ottenuti agli
elementi finiti riuscirono ad ottenere correlazioni empiriche che fossero in grado di descrivere lo
stato di sollecitazione lungo il fronte della fessura semiellittica (APPENDICE B).
69
La determinazione dello Stress Intensification Factor può essere eseguita tramite il metodo
della Weight Function. Tale metodo è basato sul principio di sovrapposizione e vale unicamente
nell’ambito della meccanica della frattura lineare elastica. Il metodo deriva dall’osservazione che
differenti condizioni di carico possono determinare lo stesso SIF.
Se le equazioni sono lineari possiamo immaginare lo schema di sovrapposizione degli effetti
evidenziato nella precedente Figura. Come si nota nella immagine (b) la cricca può essere
virtualmente eliminata applicando ai lembi il carico di compressione s; tale carico (nella zona in cui
si trova il difetto) è uguale e di segno opposto al carico applicato alla piastra senza cricca
(immagine (a)); quest’ultimo carico è detto “carico o tensione nominale”. Si noti che per le due
piastre le condizioni al contorno sono le stesse. Il metodo prevede quindi che il valore del KI possa
essere determinato con una relazione del tipo indicato:
(3.16)
K I = ∫ H ( x, a ) ⋅ σ ( x)dx
2a
0
Nella relazione integrale σ ( x ) è la tensione nominale e H ( x, a ) è una opportuna funzione della
sola geometria del difetto (in particolare della lunghezza a della cricca) denominata Weight
Function (WF). Anche in questo caso esistono varie correlazioni in letteratura che consentono di
definire lo stato di tensione all’apice di un difetto partendo dalla distribuzione effettiva della
tensione nel componente integro, privo di fessure.
3.2.3 Plasticizzazione all’apice di una fessura.
La soluzione elastica dello stato di tensione nella zona adiacente alla fessura mostra una
discontinuità all’apice di essa. Le tensioni tendono all’infinito per r tendente a zero ma in realtà la
tensione sarà limitata dalla tensione di snervamento del materiale. Pertanto si svilupperanno
deformazioni plastiche all’apice della fessura tali da generare una completa ridistribuzione delle
tensioni. E’ possibile arrivare ad una stima delle dimensioni di tale zona plastica considerando i
70
casi di stato piano di tensione e quello di deformazione prendendo a riferimento lo stato di tensione
generato in direzione normale al piano contenente la fessura descritto dall’espressione (3.13).
Figura 3.11
A first approximation to the crack tip plastic zone
In condizioni di plane stress la condizione di snervamento si verifica nel momento in cui la
tensione uniassiale di snervamento del materiale uguaglia la componente normale, σ y = σ YS .
Sostituendo la σ YS nell’equazione (3.13) è possibile arrivare alla stima della distanza ry dall’apice
della fessura in cui la σ y supera la tensione di snervamento.
(3.17)
1
ry =
2π
 KI

 σ YS



2
Se sono trascurabili gli effetti di incrudimento del materiale (comportamento elastico perfettamente
plastico) la distribuzione delle tensioni per r ≤ ry può essere rappresentata da una linea orizzontale
in corrispondenza allo snervamento come illustrato in Figura 3.11. Dalla Figura si evince
chiaramente che la procedura adottata non è rigorosamente corretta perché si fonda sull’assunzione
di una soluzione elastica. Nel momento in cui si ha lo snervamento, le tensioni dovranno subire una
ridistribuzione per soddisfare l’equazione dell’equilibrio globale sul componente. A seguito do ciò
è chiaro che l’effettiva zona plastica dovrà essere più grande di ry dal momento che il carico
rappresentato dall’area tratteggiata in Figura 3.11. deve essere in qualche modo equilibrato. Questo
può essere realizzato se si estende la zona plastica in corrispondenza dell’apice della fessura come
mostrato in Figura 3.12. Un semplice bilancio di force porta alla stima dell’effettiva dimensione
della regione plastica assunta di forma circolare in prima approssimazione:
(3.18)
ry
ry
0
0
σ YS r p = ∫ σ y dr = ∫
KI
2πr
dr
71
da cui:
(3.19)
Figura 3.12
1 K
r p =  I
π  σ YS



2
quindi r p = 2ry
First-order and second-order estimates of plastic zone size
Riferendoci alla Figura 3.12, si può notare che la ridistribuzione della tensione nella zona elastica è
più alta di quella predetta dall’equazione (3.13), richiedendo un più alto fattore di concentrazione
delle tensioni, Keff. Irwin dimostrò che la plasticizzazione può essere considerata come un
incremento fittizio delle dimensioni della cricca, Figura 3.13. La plasticizzazione all’apice della
cricca determina deformazioni maggiori e rigidezza minori rispetto al caso elastico, il componente
strutturale si comporta come se essa contenesse una fessura di dimensioni maggiori rispetto a
quelle reali. Irwin dimostrò che una buona approssimazione del Keff è ottenuta ponendo l’apice
dell’effettiva fessura considerata nel centro della regione di plasticizzazione. In definitiva la
lunghezza effettiva della cricca risulta:
(3.20)
aeff = a + ry
il valore dell’effettivo fattore di intensificazione degli sforzi è ottenuto inserendo la dimensione
effettiva della fessura nell’espressione generale (3.14):
(3.21)
( )
K eff = FC aeff σ πaeff
un processo iterativo sarà necessario per ottenere il valore esatto partendo dal SIF calcolato in
assenza di plasticizzazione; tramite le equazioni (3.17) e (3.20) sarà possibile riaggiornale le
dimensioni del difetto e continuare ad iterare per arrivare a convergenza.
72
Figura 3.13
The Irwin plastic zone correction
In condizioni di stato piano di deformazione lo snervamento è raggiunto con uno stato
triassiale di tensione e in definitiva la correzione della zona di plasticizzazione sarà più piccola di
un fattore pari a tre:
1
ry =
6π
(3.22)
 KI

 σ YS



2
Per stimare la dimensione della zona in cui si ha la plasticizzazione del materiale all’apice
del difetto si è considerato solo lo stato di tensione che si ha per θ = 0, lungo il piano della fessura.
E’ possibile stimare l’estensione della regione plasticizzata per tutti i valori di angolo di
inclinazione applicando un opportuno criterio di snervamento unito alle equazioni riportate nelle
Tabelle 3.1-3.2. Consideriamo il classico criterio di Von Mises per definire i limiti della regione di
snervamento:
(3.23)
σe =
[(σ
2
1
2
2
2
1 − σ 2 ) + (σ 1 − σ 3 ) + (σ 2 − σ 3 )
]
1
2
dove, σ e è la tensione equivalente e σ 1 , σ 2 , σ 3 sono le tre componenti principali del tensore degli
sforzi. Secondo il criterio di Von Mises, lo snervamento ha inizio nel momento in cui è verificata
l’uguaglianza tra σ e = σ YS . Sostituendo, per esempio, lo stato di tensione del Modo I di rottura,
riportato in Tabella 3.1, nell’equazione precedente e risolvendo in r, si ottiene la stima del raggio
della zona snervata in funzione dell’angolo θ.
(3.24)
1
ry (θ ) =
4π
 KI

 σ YS



2
3 2 

1 + cos θ + 2 sin θ 


per plane stress
73
(3.25)
1
ry (θ ) =
4π
 KI

 σ YS
2
 
3
 (1 − 2ν )2 (1 + cos θ ) + sin 2 θ 
2

 
per plane strain
Le equazioni (3.24) e (3.25), rappresentate in Figura 3.14 e Figura 3.15, definiscono
approssimativamente il confine tra il comportamento elastico e quello plastico del materiale. Le
precedenti equazioni non sono tuttavia rigorosamente corrette perché si fondano su un’analisi
puramente elastica non considerando la ridistribuzione delle tensioni.
Figura 3.14
Effect of thickness on plastic zone shape
Figura 3.15
Dimensionless plastic zone shapes from the Von Mises yield criterion
74
3.3 Concetti base di meccanica della frattura elasto-plastica.
3.3.1 Il criterio energetico.
Per i materiali duttili è presente una deformazione plastica all’apice della fessura. Per
questi materiali la propagazione di un difetto richiede la formazione di una zona plastica al nuovo
apice. L’energia associata a tale plasticizzazione può essere considerata l’energia necessaria per la
propagazione della fessura. Per questi motivi la resistenza alla fessurazione R è essenzialmente
l’energia di deformazione plastica mentre il contributo di energia per la formazione delle superfici
di frattura risulta praticamente trascurabile.
Se il fenomeno di frattura, invece, è accompagnato da notevoli deformazioni plastiche
(come avviene per materiali molto duttili), non è più possibile effettuare un’ analisi di tipo elastico
e bisogna far ricorso agli strumenti messi a disposizione dalla meccanica della frattura elastoplastica (EPFM). In EPFM, il criterio di rottura del materiale è fornito da una relazione
formalmente simile alla (3.11):
(3.26)
Hσεa = J R
2
dove H è un fattore (detto funzione di influenza) che riveste lo stesso ruolo del termine Fc π
nell’equazione (3.11) (e dipende oltre che dalla geometria e dalle condizioni di carico anche dalle
proprietà del materiale) e JR rappresenta la resistenza alla frattura del materiale. In EPFM, inoltre,
la forza motrice della fessura si indica con J anziché con G, per cui la relazione (3.26) può
assumere la forma equivalente riportata di seguito:
(3.27)
J = JR
l’equazione (3.27) riveste lo stesso ruolo della (3.9).
Per poter impiegare l’equazione (3.27) in analisi di meccanica della frattura elasto-plastica,
è necessario conoscere il legame esistente tra σ ed ε per il materiale in esame. In linea di principio,
tale legame può essere descritto da qualsiasi relazione in grado di rappresentare l’andamento della
curva sperimentale tensione-deformazione del materiale. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, si
effettua il fit della curva sperimentale ricorrendo ad una legge di potenza nota come legge di
Ramberg-Osgood (R-O), (cfr. Paragrafo 3.3.3).
(3.28)
ε=
σ
E
+
σn
F
75
A questo punto, sfruttando il legame tra tensioni e deformazioni fornito dalla relazione di R-O, è
possibile riformulare il criterio di rottura fornito dall’equazione (3.26) nel modo seguente:
(3.29)
Hσεa = H
σ2
E
a+H
σ n+1
F
a = JR
Il primo termine a primo membro dell’equazione (3.29), rappresenta il contributo alla variazione di
energia di deformazione dovuto alla parte lineare della curva tensione-deformazione (il confronto
con l’espressione di G fornita dal primo membro della equazione (3.10), indica che nel caso
elastico n=1, F=E’ e H = πFC2 ), mentre il secondo termine a primo membro dell’equazione (3.29)
rappresenta il contributo alla variazione di energia di deformazione dovuto alla parte non-lineare
della curva tensione-deformazione. Tenendo conto della (3.10), la (3.29) diventa:
(3.30)
Fc 2πσ 2 a
E'
+
Hσ n +1a
= JR
F
In EPFM, il secondo termine a primo membro della (3.30) viene indicato con Jpl, dove pl sta ad
indicare la componente plastica del J, per cui la relazione precedente può essere riscritta nella
forma seguente:
G + J pl = J R
(3.31)
Inoltre, è uso comune porre G=Jel, dove el sta ad indicare la componente elastica del J per cui
l’equazione (3.31) diventa:
(3.32)
J el + J pl = J R
Generalmente si pone J=Jel+Jpl. La relazione (3.31) costituisce il criterio di frattura impiegato in
EPFM. Tuttavia, per risolvere la (3.30), è necessario disporre di una relazione che descriva la
tenacità alla frattura del materiale determinata generalmente per via sperimentale. Nel caso in cui
Jel sia molto più piccolo di Jpl il primo termine dell’equazione (3.30) può essere trascurato e la
tensione di frattura può essere calcolata direttamente:
1
(3.33)
σf
 FJ  (n +1)
= R 
 Ha 
76
mentre nel caso elastico risulta:
(3.34)
σf
 E' R 
=  2 
 πFC a 
1
2
in accordo al criterio energetico per materiale a comportamento puramente lineare (cfr. Paragrafo
3.3.1). I fattori geometrici FC e H, indispensabili per poter risolvere qualsiasi problema di
meccanica della frattura, si possono calcolare utilizzando opportune relazioni disponibili in
letteratura. Il fattore geometrico elastico FC è stato calcolato per varie geometrie e condizioni di
carico e su espressioni sono riportate in vari manuali. Il fattore geometrico plastico dipende oltre
che dalla geometria in esame e dalle condizioni di carico, dall’esponente n dell’equazione di R-O.
Per i materiali molto duttili, la resistenza alla frattura JR tende a crescere durante l’evolversi
del processo di frattura (Figura 3.16). Questo fatto consente l’avvio di fenomeni di frattura stabile,
dato che la fessura è costretta ad arrestare la sua avanzata nel momento in cui la forza motrice
diventa più piccola dell’energia necessaria alla frattura JR. La frattura può, quindi, crescere
lentamente e stabilmente fino al raggiungimento di una condizione critica in cui si verifica una
propagazione rapidissima ed incontrollabile. Il fenomeno di crescita della frattura ha inizio nel
momento in cui J = J R . Perfino in EPFM il criterio energetico può essere opportunamente
rappresentato per via grafica. Fissata la dimensione della fessura, è possibile disegnare una famiglia
di curve variando la tensione σ nell’equazione (3.30), come illustrato nella seguente Figura.
Figura 3.16
J-curves for different stresses and typical trend of JR-curve
77
Alla tensione σa il valore di J(a) è quello corrispondente al punto A. Quest’ultimo si trova più in
basso del punto B e quindi J risulta minore di JR. La frattura non può avanzare. Un innalzamento
della tensione al valore σi, porta J(a) al punto B. Adesso J=JR e la cricca può propagare. Ma essa è
stabile, dato che, se la tensione rimane pari al valore σi, J si porta in C e JR in D e l’avanzamento
della fessura deve arrestarsi. Affinché la frattura possa avanzare è necessario portare la
sollecitazione a σb , in modo da spostare il valore di J(a) nel punto D. In questa fase la cricca cresce
stabilmente da a ad a+∆ab . Ulteriori incrementi di tensione comportano una crescita stabile della
cricca, per cui il processo di frattura risulta ancora sotto controllo. In questa fase è sufficiente
mantenere la sollecitazione costante per scongiurare una rottura catastrofica del componente. Nel
caso in cui, però, la sollecitazione raggiunga σfr , J(a) si porta in E e la frattura può propagarsi in
maniera instabile. Ad un ulteriore incremento della cricca, infatti, J continua a mantenersi più
elevato di JR. La condizione di instabilità, quindi, si verifica nel momento in cui si raggiunge una
condizione di tangenza tra la curva J(a) e la curva JR :
(3.35)
 J (ai ) = J R (ai )
 dJ 
  =  dJ R 
 da  a  da  a
i
i

Il sistema di equazioni (3.35) è frequentemente riportato in letteratura in una forma diversa.
2
Moltiplicando ambo i membri della seconda equazione per E σ YS
, dove E è il modulo di Young
del materiale e σ YS è la tensione di snervamento, si ottiene:
(3.36)
E dJ
E dJ R
= 2
2
σ YS da σ YS da
in cui, il primo membro viene comunemente indicato con Tapp, applied tearing modulus, mentre il
secondo con TR, dove il pedice R indica il valore di J sulla curva di resistenza alla fessurazione. In
Figura 3.17 viene schematicamente illustrata una tipica curva JR per materiali a comportamento non
lineare. Nei primi istanti della deformazione all’apice di un difetto, la curva R è pressoché verticale.
Come aumenta il valore di J, il materiale all’apice inizia localmente a fessurarsi e il difetto avanza.
Dal momento che l’andamento di R è monotono crescente, l’iniziale avanzamento del difetto è
stabile ma condizioni di instabilità possono essere incontrati con incrementi di carico. L’indice di
misura della tenacità a frattura, JIC, è definito in prossimità del punto di inizio crescita della
frattura. Questo indice ci fornisce alcune informazioni sul comportamento a frattura di un materiale
duttile. La pendenza della curva ad un dato valore dell’estensione del difetto è un indice della
relativa stabilità del fenomeno di avanzamento; in un materiale con una ripida curva risulterà meno
78
probabile una propagazione instabile della cricca. E’ proprio il fattore dimensionale TR a
quantificare la pendenza della curva di resistenza alla fessurazione.
Figura 3.17
Schematic J resistance curve for a ductile material
Le condizioni che governano la stabilità nei materiali elasto-plastici sono virtualmente
identici al caso elastico presentato nel paragrafo 3.3.1. La instabilità si verifica nel momento in cui
l’andamento della driving force J risulta tangente alla R-curve. La condizione di load control (la
sollecitazione non diminuisce una volta che la frattura inizia a propagarsi) generalmente risulta
meno stabile della condizione displacement control, dal momento che in quest’ultima situazione
una crescita della fessura è accompagnata da una diminuzione dello stato di tensione e quindi può
accadere che la forza motrice diventi minore della forza resistente JR causando l’arresto
dell’accrescimento della fessura.. In controllo di spostamento, quindi, il fenomeno di instabilità è
influenzato anche dalle proprietà del sistema in esame. In definitiva la condizione di una
propagazione stabile è espressa dalle seguenti relazioni:
(3.37)
J = JR
e
Tapp ≤ TR
La propagazione instabile si verifica quando:
(3.38)
Tapp > TR
La curva JR è solitamente ricavata sottoponendo campioni del materiale in esame a prove di
Compact Tension. Essa può essere convenientemente schematizzata utilizzando la legge di potenza
seguente:
79
(3.39)
J R (∆a ) = J IC
 ∆a 
+ C

 r 
m
dove:
∆a è la variazione di lunghezza della cricca durante la fase di accrescimento;
J IC è la tenacità di inizio frattura;
C, m sono parametri ricavati da un fit dei dati sperimentali;
r è un parametro di normalizzazione.
3.3.2 Il J-Integral.
Il tasso di rilascio di energia di deformazione in materiali a comportamento non lineare può
essere univocamente identificato da un integrale di linea lungo un percorso qualsiasi che racchiude
l’apice di una fessura. Rice fu il primo ad applicare il metodo di integrazione su un contorno a
problemi di meccanica della frattura e giunse a dimostrare che quell’integrale, chiamato J, era per
l'appunto il tasso di rilascio di energia in componenti ad elasticità non lineare contenenti difetti.
Come vedremo nel seguente paragrafo il J è anche un parametro che caratterizza univocamente lo
stato di tensione e deformazione, comportandosi come parametro di concentrazione delle tensioni.
Consideriamo il seguente integrale:
(3.40)
∂u


J = ∫ Wdy − Ti i ds 
Γ
∂x 

essendo:
Γ tracciato chiuso percorso in senso antiorario che racchiude l’apice della cricca (Figura 3.18 (A));
Ti = σ ij n j la componente i-esima del tensore degli sforzi diretto secondo la normale esterna;
u i la componente i-esima del vettore spostamento;
ds un elemento infinitesimo del tracciato Γ;
ε ij
W = ∫ σ ij dε ij l’energia di deformazione per unità di volume.
0
Rice arrivò a dimostrare che il valore del J integral è indipendente dal tracciato di integrazione
scelto attorno all’apice, basandosi sulla proprietà di J di essere nullo per ogni contorno chiuso Γ.
80
Figura 3.18
Contour integrals. (A) Elastic body; (B) Body with crack; (C) Path
independence contour
Consideriamo un contorno chiuso ABCDEFA intorno all’apice di una fessura (Figura 3.18
(B)). Sui lati CD e FA, che costituiscono i lembi della cricca, il tensore T è nullo e dy=0 (il difetti si
considerano appuntiti), pertanto il contributo di queste parti all’integrale risulta nullo. Il contributo
di ABC=Γ1 deve essere uguale e contrario al contributo di FED=Γ2 ,per la proprietà suddetta
dell’integrale J. Ciò significa che se l’integrale J è calcolato su Γ1, il suo valore è identico a quello
ottenibile calcolandolo su Γ2 con direzione antioraria. Ossia J Γ1 = J Γ2 , l’integrale è indipendente
dal percorso, perché le estremità sono sui lembi della cricca (Figura 3.18 (C).
Nel caso di materiale a comportamento lineare elastico, il J integral può essere valutato
considerando la soluzione elastica del campo di tensione all’apice della fessura. Rice dimostrò che
il suddetto integrale è uguale al tasso di rilascio di energia elastica G.
(3.41)
J =G=−
dU
da
per il caso elastico il J può essere messo in relazione al fattore di intensificazione delle tensioni
come nelle (3.15) per il Modo I di carico:
(3.42)

K I2

E

J =
2

2 KI
 1 −ν
E

(
)
Plane Stress
Plane Strain
81
L’integrale J è pertanto una relazione generalizzata del rilascio di energia dovuta alla
propagazione della cricca ed è valido anche se c’è una apprezzabile plasticizzazione all’apice di
essa. Infatti essendo J indipendente dal percorso di integrazione, questo può essere scelto
convenientemente (ad esempio lungo gli spigoli del provino) in zone in cui la soluzione è
certamente elastica. L’integrale J è uno strumento relativamente semplice per caratterizzare
univocamente il comportamento di un materiale duttile in presenza di difetti e permette di definire
in tal modo un criterio di stabilità o meno alla propagazione.
3.3.3 Stato di Tensione all’apice di una fessura.
Il parametro energetico J può essere usato anche per caratterizzare lo stato di tensione in
prossimità di una fessura nei materiali elasto-plastici. L’utilizzo di questo parametro come un
fattore di concentrazione delle tensioni è da attribuire a Hutchinson, Rice e Rosengren.
Per descrivere il comportamento non lineare dei materiali duttili assunsero una legge di
potenza tra tensioni e deformazioni plastiche simile a quella mostrata nell’equazione (3.28) dove il
primo termine a secondo membro rappresenta la componente elastica di deformazione ε el
(contributo elastico dovuto alla legge di Hook), mentre il secondo termine a secondo membro
rappresenta la componente plastica ε pl di deformazione. L’impiego dell’equazione (3.28)
permette di ottenere dei fits accurati della curva sperimentale tensione-deformazione per materiali
incrudenti. La legge di Ramberg-Osgood (R-O) costituisce un’estensione di tale legge che permette
di modellare anche la regione plastica della curva tensione-deformazione. Nella legge R-O, la
deformazione plastica del materiale è espressa dalla relazione seguente:
(3.43)
ε pl =
σn
F
in cui il termine n è chiamato “strain hardening exponent”, F prende il nome di modulo plastico.
L’equazione R-O è stata sviluppata per descrivere il legame esistente tra tensioni e
deformazioni effettive del materiale; tuttavia tale relazione può essere utilizzata anche per
descrivere il legame tra tensioni e deformazioni ingegneristiche purchè il campo di validità rientri
nei limiti del valore massimo della tensione ingegneristica. In letteratura è possibile trovare forme
diverse per l’equazione (3.28) di R-O [28]; di seguito si riporta l’espressione più comunemente
utilizzata per descrivere il campo di tensione:
(3.44)
 σ 
ε
σ

=
+ α 
εO σO
σ
 O
n
82
in cui, σ O è la tensione presa a riferimento che di solito è assunta pari a quella di snervamento,
σ YS ; ε O = σ O E ; α è una costante adimensionale; n è l’esponente di deformazione plastica.
Hutchinson, Rice e Rosengren dimostrarono che sia le tensioni che le deformazioni devono
avere un andamento 1 r in prossimità dell’apice di una fessura per garantire l’indipendenza dal
tracciato considerato per il J-integral. Nelle vicinanze di un difetto, ben all’interno della regione
plastica, le deformazioni elastiche sono trascurabili dato che il loro contributo alla deformazione
totale è piccolo, in tal modo la relazione tra tensioni e deformazioni si riduce ad una semplice legge
di potenza come la (3.44). Queste due condizioni implicano la seguente formulazione per tensioni e
deformazioni all’apice:
σ
ij
(3.45)
ε
ij
 J 
= k1 

 r 
 J 
= k2

 r 
1
n +1
n
n +1
dove, k1 e k2 sono costanti di proporzionalità. Per materiali a comportamento lineare elastico (n=1),
le equazioni (3.45) predicono la singolarità 1
r , le formulazioni risultano pertanto consistenti
con la teoria LEFM (cfr. Paragrafo 3.2.2).
La distribuzione effettiva delle tensioni e delle deformazioni è ottenuta applicando
opportune condizioni al contorno. Le seguenti equazioni descrivono lo stato di sollecitazione e
rappresentano il cosiddetto modello HRR:
1
(3.46)
 EJ  n +1 ~
 σ ij (n,θ )
σ ij = σ O 
2

I
r
ασ
 O n 
(3.47)
ασ O  EJ  n+1 ~
ε ij (n,θ )
ε ij =
E  ασ O2 I n r 
n
in cui, In è una coctante di integrazione che dipende da n (Figura 3.19); σ~ij e ε~ij sono funzioni
dimensionali in n e θ (Figura 3.20).Questi parametri dipendono anche dallo stato di sollecitazione
(es. plane stress o plane strain ). Le due equazioni precedenti descrivono la cosiddetta singolarità
HRR. L’integrale J definisce l’ampiezza di questa singolarità caratterizzando completamente le
condizioni all’interno della regione plastica, come il fattore di intensificazione delle tensioni per la
83
LEFM. Un componente strutturale con una piccola zona snervata presenta due zone a diverse
andamento: uno nella regione elastica dove le tensioni variano come 1
r e uno nella regione
plastica dove le tensioni variano come r −1 (n +1) .
Figura 3.19
Effect of the strain hardening exponent on the HRR integration constant
Figure 3.20
Angular variation of dimensionless stress for n=3 and n=13
La singolarità HRR presenta la stessa apparente anomalia della singolarità LEFM: le
tensioni tendono all’infinito per r tendente a zero. Le macroscopiche deformazioni all’apice della
fessura provocano l’arrotondamento del difetto che riduce localmente lo stato di tensione triassiale.
L’apice arrotondato della fessura è una superficie libera, per cui la componente x della tensione
deve annullarsi. L’analisi che porta alla singolarità HRR si fonda sulla teoria delle piccole
deformazioni e cade in difetto per deformazioni più grandi del 10%. La componente normale alla
superficie contenente la fessura raggiunge il suo picco quando xσ O J è approssimativamente pari
all’unità e diminuisce per x → 0 ; la singolarità HRR non è più valida all’interno di questa regione
dove il campo di tensione è influenzato dalle deformazioni macroscopiche e dall’arrotondamento
84
della fessura (Figura 3.21). In Figura 3.22 vengono schematicamente illustrati gli effetti della
plasticizzazione sulle tensioni in prossimità dell’apice.
Figura 3.21
Blunting causes the stresses to deviate from the HRR solution
Figura 3.22
Effect of plasticity on the crack tip stress fields
85
3.4 Implementazione agli Elementi Finiti.
3.4.1 Cenni sul codice strutturale MSC.Marc.
Nel presente lavoro di Tesi la modellazione agli elementi finiti dei problemi di meccanica
della frattura è stata condotta con il codice strutturale MSC.Marc2001.
Il codice MSC.Marc, sviluppato dalla MSC.Software Corporation (Santa Ana, California, USA), è
un codice tridimensionale che utilizza la tecnica degli elementi finiti per discretizzare un dominio
solido di forma qualsiasi. Il metodo degli elementi finiti (FEM = Finite Element Method) consente
di determinare la soluzione numerica approssimata di un sistema di equazioni differenziali
mediante la risoluzione di un sistema di equazioni algebriche, solitamente lineari, equivalenti. Il
metodo rappresenta un potente strumento di analisi strutturale che consente lo studio di strutture
complesse comunque vincolate e caricate. Nel caso di un mezzo elastico, che occupa un
determinato dominio, le incognite sono rappresentate dalle componenti di spostamento del generico
punto del continuo, che devono soddisfare opportune equazioni differenziali all'interno del dominio
(equazioni di equilibrio indefinite, equazioni di congruenza, legame costitutivo) e sul contorno
(condizioni al contorno sugli spostamenti o sulle tensioni). Il dominio è suddiviso in un numero
finito di sottodomini detti elementi finiti. Gli spostamenti incogniti sono calcolati in alcuni punti
degli elementi (nodi) e approssimati in tutti gli altri mediante prefissate funzioni (di interpolazione
o di forma).
Il programma MSC.Marc consente di effettuare varie tipologie di analisi, dalle più semplici (di tipo
statico in campo elastico-lineare) alle più complesse (transitori dinamici non lineari, analisi di
scambio termico o anaòisi accoppiatte termo-meccaniche). La tipica procedura da seguire per
compiere un’analisi strutturale con il codice sono le seguenti:
- costruzione del modello solido;
- applicazione dei carichi, esecuzione del calcolo e ottenimento della soluzione;
- analisi dei risultati.
Il Sistema Marc contiene una serie di programmi integrati che facilitano l’analisi di problemi in
campo ingegneristico. Il codice si compone dei due seguenti programmi:
•
Mentat
•
Marc
Questi programmi lavorano insieme per generare le informazioni geometriche che definiscono la
nostra struttura, eseguire l’analisi richiesta e rappresentare graficamente i risultati ottenuti (Figura
3.23).
86
Figura 3.23
The Marc System
3.4.2 Valutazione del J-Integral con il codice MSC.Marc.
Il codice MSC.Marc consente la valutazione del J-Integral attraverso due differenti
procedure. Il primo metodo valuta l’integrale J proposto da Rice usando il metodo di Parks. Il
secondo metodo propone una versione estesa del J-Integral formulata da Kishimoto e DeLorenzi.
MARC valuta l’integrale J calcolando la variazione di deformazione plastica dovuta allo
spostamento nodale che accade nel corso dell’analisi numerica. Diversi valori di questo parametro
possono essere ottenuti scegliendo opportunamente diversi tracciati. Anche le deformazioni
plastiche sono incluse nella valutazione della variazione di energia di deformazione in un analisi
elasto-plastica, ciò permette di calcolare il J-Integral per un materiale a comportamento non
lineare. Un alto livello di accuratezza nei risultati può essere raggiunto con una modellizzazione ad
elementi finiti piuttosto grossolane in quanto il modello implementato nel codice si fonda
sull’energia di deformazione degli elementi e non sui valori locali di tensioni e spostamenti. In
un’analisi elasto-plastica il J-Integral sarà valutato al di fuori della regione di plasticizzazione e
coinciderà con il tasso di energia liberata nella propagazione della fessura.
Il calcolo del J-Integral nel codice MARC si fonda sullo spostamento nodale e sulla
differenziazione numerica per valutare la variazione di energia potenziale come funzione della
posizione dei singoli nodi. Viene assunto che i carichi non cambiano durante lo spostamento
nodale, quindi l’energia di deformazione risulta:
t
(3.48)
E=
∑ ∫ ∫ σ ijε&ije dvdt
elemets
0 Vn + 1
t
t
dβijN u N
dE
d dv
(3.49)
= ∑ ∫ ∫ σ ij
dv + ∑ ∫ ∫ σ ijε ije
dV
dl elements 0 V
dl
dl dV
elements 0 V
n +1
n +1
87
Questa densità di energia è valutata tramite una differenziazione numerica a ciascun incremento per
ogni spostamento nodale con l’obiettivo di ricavare il tasso di rilascio di energia dopo ogni passo
temporale come:
 dE   dE 
 dE 
∆
−
=


 d l   d l  t + ∆ t  dl  t
(3.50)
il valore così ottenuto viene divise per la variazione dell’area di superficie della fessura, ottenendo
in tal modo il valore del J-Integral.
Figura 3.24
Closed Contour Used in the Evaluation of the J-Integral
La formulazione classica del J-Integral proposta da Rice rappresenta un integrale
curvilineo indipendente dal percorso di integrazione ed è equivalente, come sopra menzionato, al
tasso di energia rilasciata in materiali a comportamento lineare elastico. In due dimensioni è così
definito (Figura 3.24):
(3.51)
∂u j 

 dΓ
J = ∫  (W + T )n1 − σ ij ni
∂x1 
Γ
dove, W è la densità di energia di deformazione, T è la densità di energia cinetica, σ ij è il tensore
delle tensioni e u1 è il vettore spostamento.
Una formulazione estesa del J-Integral è stata proposta da vari autori, in particolare
Kishimoto e DeLorenzi, con lo scopo di includere nell’espressione classica alcuni effetti come la
deformazione plastica, le forze di volume, i carichi termici, le forze inerziali, gli spostamenti e le
deformazioni macroscopiche. La tipica espressione estesa dell’integrale J, implementata nel codice
MARC, è la seguente (Figura 3.25):
(3.52) J =

∂ε ij0 
∂u
∂u j
∂u j 

 (t − ρu&& ) j − σ


da
−
da
t
−
Wn
t
−
∫  1 i ∂x1 
∫ i ∂x1
∫  i i ∂x1 ij ∂x1 dv
Γp
ΓS1i
Ωi 

88
Figura 3.25
Numerical Evaluation for J-Integral (Virtual crack advance)
La valutazione di questo integrale J in MSC.Marc [29] è basata sul metodo del dominio di
integrazione. Una valutazione diretta dell’equazione (3.52) non è affatto semplice in un’analisi agli
elementi finiti per le difficoltà nel definire il tracciato Γ di integrazione. Nel metodo del dominio di
integrazione, caso bidimensionale, l’integrale di linea è convertito in un integrale superficiale
sull’area racchiusa dal tracciato. In due dimensioni, la formulazione del J-Integral assumerà la
seguente forma:
(3.53)
(3.54)
J =−
∂u j 
1 ∂δx1 
dv

W
δ
σ
−
1
j
ij
∆a Ω∫ ∂x j 
∂x1 
Formulazione classica
Formulazione estesa
∂u j 
∂u j
∂u j
∂ε ij0 
∂x1 
1 ∂δx1 
dv − ∂x1 t
Wδ1 j − σ ij
dv − ∫
(
J = −∫
f i − ρu&&i )
− σ ij
∫ ∆a i ∂x1 da
∆a ∂x j 
∆a 
∂x1 
∂x1
∂x1 
Ω
Ω
ΓS
In tre dimensioni l’integrale di linea diventa un integrale di superficie mentre quello di area
diventa un integrale di volume valutato su tutti gli elementi finiti racchiusi all’interno del dominio.
Il codice MARC richiede la definizione delle regioni rigide per eseguire il calcolo del J-Integral.
Tali regioni sono definiti dai set di nodi che contengono una parte del fronte della fessura e il
contributo all’integrale sarà dato da tutti quegli elementi che hanno almeno un nodo in queste
regioni.
89
3.4.3 Caratteristiche della Mesh da impiegare in FEM.
La principale difficoltà nell’analisi agli elementi finiti di problemi di meccanica della
frattura è la capacità di ottenere una soluzione attendibile in prossimità dell’apice di una fessura. La
mesh in questa zona deve essere opportunamente modellata in maniera tale da approssimare con
sufficiente accuratezza le singolarità ivi presenti sulle tensioni e le deformazioni. Le singolarità
all’apice devono essere ricavare a seguito di un’analisi “small-strain”. Sono stati concepiti molti
metodi per ottenere una buona approssimazione ma comunque il metodo più diffusamente usato
nelle modellazioni agli elementi finiti è il cosiddetto “1/4 point node technique” [31]. Se r è la
distanza dall’apice di un difetto, le singolarità sulle deformazioni ottenute da un’analisi alle piccole
deformazioni sono:
-
ε ∝ r −1 2 per materiale a comportamento lineare elastico;
-
ε ∝ r −1 per materiale a comportamento elastico perfettamente plastico;
-
ε ∝r
−
n
n +1
per materiale incrudente con opportuna legge di potenza.
In due dimensioni le singolarità possono essere costruite agli elementi finiti usando
elementi isoparametrici quadrilateri collassati all’apice a formare una specie di anello intorno alla
fessura. Uno spigolo dell’elemento isoparametrico ad 8 nodi sarà collassato in maniera che tutti i
suoi tre nodi –a,d,c- abbiano la stessa posizione geometrica all’apice mentre in nodi in mezzeria
sugli spigoli connessi all’apice devono essere mossi ad 1/4 verso lo spigolo (Figura 3.26).
Questa procedura consente di ottenere una singolarità sulle deformazioni così espressa:
ε→
(3.55)
La singolarità r
−
n
n +1
A B
+
per r → 0
r r1 2
non può essere ricreata esattamente ma un’opportuna combinazione dei due
termini r −1 e r −1 2 può portare ad una sua buona approssimazione.
La prima singolarità
r si ottiene imponendo che i tre nodi sopra citati abbiano gli stessi
spostamenti ed adottando la tecnica del “quarter point” (A=0) (Figura 3.27 (a)).
La seconda singolarità 1 r si ottiene lasciando i nodi nella posizione di mezzeria e
consentendo un movimento indipendente dei tre nodi collassati all’apice (B=0) (Figura 3.27 (b)).
La terza singolarità, come già definito in precedenza, può essere ottenuta con buona
approssimazione utilizzando la tecnica del “quarter point” e permettendo ai nodi all’apice un
movimento indipendente. In combinazione a questa tipologia di schematizzazione agli elementi
finiti deve essere impiegata un’opportuna legge di potenza per descrivere il comportamento
incrudente del materiale (in genere si utilizza la relazione di Ramberg-Osgood).
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Figura 3.26
Collapsed two-dimensional element
Figura 3.27
Crack tip elements for elastic and elastic-plastic analysis
In tre dimensioni vengono generalmente utilizzati elementi isoparametrici tetraedrici a 20 nodi con
una faccia collassata sul fronte della fessura (Figura 3.28). Le procedure per ottenere le singolarità
in prossimità del difetto sono del tutto simili a quelle già viste per il caso bidimensionale. La mesh
lungo il fronte della fessura è tipicamente creato a partire da una mesh piana con una tipica forma a
ragnatela concentrata sull’apppice del difetto che viene estrusa lungo il fronte stesso. Questa
procedura di modellizzazione agli elementi finiti consente di creare una regione rigida regolare che
garantisce una buona accuratezza dei risultati ottenuti.
Figura 3.28
Collapsed three-dimensional element
Le dimensioni degli elementi focalizzati all’apice di una cricca influenzano l’accuratezza
delle soluzioni che si possono ottenere. In linea di principio una più piccola dimensione radiale
degli elementi porterà ad avere sempre più buoni risultati. Un’analisi di sensitività della mesh,
infittendo opportunamente il modello agli elementi finiti in prossimità del difetto, dovrà essere
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quindi condotta per capire quanto le soluzioni siano dipendenti dalla mesh impiegata. Un più alto
ordine di elementi porta inevitabilmente a più lunghi tempi di calcolo, è pertanto necessario
effettuare una scelta di compromesso. L’indipendenza dal tracciato svelto nella valutazione del Jintegral da parte del codice di calcolo è sicuramente un idoneo indice per valutare se la mesh
impiegata è opportunamente raffinata nella zona considerata. Comunque buoni risultati sul Jintegral si possono ottenere anche con mesh a maglie relativamente larghe ma per ottenere una
buona valutazione delle deformazioni e delle tensioni all’apice, gli elementi finiti devono essere
opportunamente raffinati. Va in ogni caso sottolineato il fatto che la non per fetta indipendenza dei
valori stimati del J-Integral dal tracciato considerato è da imputare alla natura approssimata di una
soluzione agli elementi finiti.
3.5 Verifiche previste dalla norma ASME XI.
I metodi di verifica stabiliti nell’Appendice A delle ASME XI sono simili a quelle delle
ASME III presi a riferimento in fase di progetto. Sono utilizzati i metodi della meccanica della
frattura lineare elastica per la verifica alla frattura fragile però nelle ASME XI si fa riferimento a
difetti reali rilevati nelle ispezioni in esercizio (Inservice Inspection) [32].
La normativa consente di calcolare i fattori di intensificazione degli sforzi, KI ,
corrispondenti alle tensioni membranali e flessionali determinate mediante l’analisi delle
sollecitazioni sul componente considerato. Le tensioni, in corrispondenza delle fessure, devono
essere suddivise in tensioni membranali e flessionali, effettuando una linearizzazione come indicato
in Figura 3.29. Nell’analisi delle sollecitazioni devono essere tenute in considerazione anche le
tensioni residue e le tensioni dovute a tutti i carichi applicati (pressione, tensioni termiche, tensioni
dovute alle discontinuità, tensioni indotte dalla placcatura,…).
Figura 3.29
Linearization of stresses
92
Il fattore di intensificazione degli sforzi è calcolato tramite la seguente formula,
espressione del tutto simile alla (3.14) per lo stato di tensione all’apice nella LEFM:
(3.56)
K I = σ mM m
πa
Q
+ σ bM b
πa
Q
dove,
σ m e σ b sono rispettivamente le tensioni membranali e flessionali;
a il semiasse più piccolo di un difetto sub-superficiale o la profondità di uno superficiale;
Q un fattore di forma del difetto (Figura 3.30);
M m il fattore di correzione delle tensioni membranali (Figura 3.31 e 3.32)
M b il fattore di correzione delle tensioni flessionali (Figura 3.33 e 3.34)
Figura 3.30
Determination of crack shape factor Q
Figura 3.31
Corrective factor for membrane stress for internal cracks
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Figura 3.32
Corrective factor for membrane stress for edge cracks
Figura 3.33
Corrective factor for bending stress for internal cracks
Figura 3.34
Corrective factor for bending stress for edge cracks
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