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ANNO XXI NUMERO 107 - PAG 2
Lettere rubate
L’abissale vitalità di Franca Valeri,
a cui gli amici chiedono: ti stiamo
annoiando?, e lei risponde: sì
Ma un altro amico meno celebre del mio
Arbasino, e un po’ più agé, continua a fare
lunghi viaggi da solo. Pensando a lui, ho due
timori. Il primo: c’è la notizia di un eccidio o
rapimento di turisti. Chi sono? I nomi? Altro
pensiero: di ritorno verrà a cena, oddio, tutto il racconto del viaggio.
Franca Valeri, “La vacanza dei superstiti
(e la chiamano vecchiaia)” (Einaudi)
I primi a sparire, scrive (a mano, con la
penna) Franca Valeri in questa divagazione sulla vecchiaia, e sul secolo scorso che
le è appartenuto completamente, sono il
DA
ANNALENA
sesso, la villeggiatura e i locali notturni.
Le cose divertenti che non si faranno mai
più, le cose a cui una signora, che improvvisamente ha compiuto molti anni, penserà da una posizione privilegiata, che
spiegata da lei è al tempo stesso divertente e spietata: la posizione del superstite
(“ma se non hai la struttura adatta è meglio morire prima”). Franca Valeri (il cognome glielo scelse un’amica che stava
leggendo le poesie di Paul Valéry) guarda
il mondo e le persone, gli amici giovani e
quelli che non si rassegnano a diventare
vecchi, le vedove incontrate in treno, le
mogli conosciute sulla spiaggia, i giovani
fan che le vanno incontro emozionati al ristorante, con un’attenzione meticolosa, e
con la libertà assoluta di dire tutto quello che pensa, anche che si sta annoiando
mentre gli amici parlano di film che lei
non ha visto, o di lunghi viaggi in oriente,
o di rughe. “Se sono superstite voglio viverla, la vita”, con questi quattro soldi e
molti animali, e un sorrisetto un po’ incredulo e un po’ fiero quando le dicono: sei
un personaggio mitico, quando cercano di
mettere Franca Valeri dentro una cornice,
lassù in alto, mentre lei sempre scrive e
inventa e ha la testa piena di idee che la
tengono sveglia, ma non sempre piena di
benevolenza per ciò che vede, per le signore che superano i sessanta ma indossano i jeans (“Ho delle vecchie amiche in
jeans e questo lo trovo immorale… perché
attaccarsi ai pantaloni?”), per noi così
malvestiti, così insicuri del nostro valore,
così in attesa di un voto e così pieni di
dubbi. “Io anche sotto le bombe non avevo
dubbi. Dipende dal tempo”. Il modo con
cui Franca Valeri guarda questo tempo è
distaccato, come se in fondo non fossero
mai stati affari suoi, ma attento, ed è nostalgico in un modo concreto, piantato nella realtà, saldo nei pensieri e nei ricordi.
“Come dirglielo, a quel ragazzo ventenne,
che ci è bastato essere molto sicuri delle
nostre idee per entrare in quelle degli altri?”, per costruire una lunghissima giovinezza, che secondo lei inizia intorno ai
trent’anni.
La vita viene poi scandita dagli uomini
che si sono amati e per cui ci si è rese indispensabili, anche traditori che importa,
e dagli amici (molti sono morti, adesso ci
sono nuovi amici giovanissimi, e anche invidiabili belle signore settantenni devastate dall’ansia di invecchiare), gli amici
che hanno abbellito le serate, i debutti, le
sciocchezze, i viaggi, gli amici senza i quali è impossibile continuare a vivere e a
muovere i pensieri. “Certo partire con un
uomo amato è stato indimenticabile, ma
che impegno. Anche questo mi ha regalato la vita”. Ma che impegno, amare. E
adesso vorrebbe ricordare l’ultima volta
che ha fatto l’amore, ma non le torna in
mente, le dispiace non avere una data, un
giorno in cui trovare gli estremi di una storia, ma sarebbe assurdo e anche noioso,
dice Franca Valeri, che una caterva di anni ci trovasse sempre allo stesso punto. Così adesso, a novantasei anni, capita di annoiarsi e di ripensare a quell’abissale vitalità che sentiva una volta, senza telefoni,
a quelle discussioni interminabili. “Ricordo che ci sembrava sempre di avere lasciato un racconto a metà. ‘Lo richiamo, in
fondo sono solo le due’”.
PREGHIERA
di Camillo Langone
A Londra il popolo sovrano
elegge un sindaco maomettano. A Milano un giudice sovrano obbliga a dare lavoro alle maomettane velate. Eppure ci
sono ancora persone che mangiano cuscus pensando di assaporare un esotismo e sappiano di essere in forte ritardo perché da anni il sabbioso agglomerato è un conformismo da apericena e
un appena mimetizzato esercizio di sottomissione: l’uomo vota ciò che gli hanno dato a bere, o ciò che mangia.
IL FOGLIO QUOTIDIANO
SABATO 7 E DOMENICA 8 MAGGIO 2016
LE FAMIGLIE DEGLI ATLETI ISRAELIANI BOICOTTANO LA PELLICOLA
Tappeto rosso a Cannes per il film che esalta i terroristi di Monaco ’72
Roma. Settembre 1972, villaggio olimpico di Monaco di Baviera, “blocco 31”. Alcuni degli atleti israeliani erano sopravvissuti all’Olocausto. I terroristi palestinesi di Settembre nero che li presero in
ostaggio chiedevano la liberazione di 234
terroristi detenuti nelle carceri israeliane. Ma Settembre nero non cercava lo
scambio o la trattativa, cercava l’uccisione degli ebrei. Volevano i giovani rappresentanti del popolo israeliano ospitati
dalla nazione che un tempo ne pianificò
l’Olocausto (il villaggio olimpico si trovava a pochi chilometri da Dachau). Fu un
sussulto spettacolare della guerra del movimento islamista per spazzare via Israele dalla faccia della terra. Furono i primi
ebrei uccisi in quanto ebrei in Germania
dopo il 1945.
La prossima settimana il Festival del
Cinema di Cannes stenderà un tappeto
rosso a “Munich: A Palestinian Story”, il
film del regista libanese di origine palestinese Narsi Hajjaj. Ilana Romano, vedova del sollevatore di pesi Yossef Romano,
assassinato nel massacro delle Olimpiadi
di Monaco del 1972, ha rifiutato di collaborare a questa pellicola perché il regista
ha insistito nel definire “combattenti per
la libertà” i terroristi di Settembre nero
che uccisero suo marito, mentre gli israeliani assassinati sono “i rappresentanti di
un paese occupante”.
L’anno scorso, il regista Hajjaj aveva
chiesto alla signora Romano di prendere
parte al documentario per aiutarlo a presentare la versione israeliana. La vedova
aveva posto come condizione che il regista definisse “terroristi” e non “combattenti per la libertà” gli assassini degli
atleti israeliani. Hajjaj, cresciuto nel
campo profughi di Ain al Hilweh in Libano e laureato all’Università di Middlesex
a Londra, ha rifiutato. “Otto combattenti
per la libertà palestinesi hanno attaccato
il villaggio olimpico di Monaco di Baviera e hanno preso undici atleti israeliani
in ostaggio”, recita la brochure del film.
Un anno fa è emerso che almeno uno degli atleti, Yossef Romano, venne castrato
dai sequestratori palestinesi sotto gli occhi dei suoi compagni. “I terroristi hanno
sempre sostenuto di voler solo liberare i
loro compagni dalle celle in Israele”, osserva Ankie Spitzer. “Ma, evidentemente,
non venivano in pace”.
Per il regista Hajjaj, la strage di Mona-
Il Leicester spiegato a Beppe Grillo
Roma. Mancava solo Beppe Grillo. “Il
Leicester, una squadra tipo dopolavoro
ferroviario, ha vinto la Premier League.
A inizio campionato la sua vittoria era
quotata 5.000 a 1”, scrive sul Fatto quotidiano. S’è detto di tutto sull’impresa di
Claudio Ranieri, ma il capo dei 5 stelle
che parla della squadra inglese come di
una banda di straccioni che vince sul
“mondo del rating” sfonda il muro dello
spasso. “Nella finanza i broker sono
quelli che ti dicono cosa avrà successo,
attribuendo un rating a un’azione o a un
intero paese… fanno gli oroscopi”. La lezione sarebbe che che nello sport come
in economia i rating e le probabilità “sono una cazzata se utilizzate per predire
ciò che ci aspetta”. Innanzitutto il Leicester non è una squadra di “sfigati squattrinati”, ma una società da 137 milioni di
euro di fatturato (il ventiquattresimo
club più ricco al mondo) di proprietà di
Vichai Srivaddhanaprabha, un thailan-
dese con 3 miliardi di dollari di patrimonio che ha investito nella squadra centinaia di milioni. Non ha senso contrapporre il Leicester alle “squadre di sceicchi arabi e petrolieri russi, popolate di
giocatori spagnoli, brasiliani e africani”,
perché anche i Foxes sono di proprietà
di un miliardario thai e hanno tra le loro file africani, giapponesi e danesi. Sono piuttosto un simbolo del dinamismo
della finanza e della competitività al
tempo della globalizzazione. Se Grillo invece è convinto che sia la dimostrazione
che “il mondo del rating” è una cazzata,
può sempre darne conferma investendo
in “titoli spazzatura”. Può puntare, secondo il modello Leicester che ha in
mente, sui bond di qualche repubblica
delle banane che le agenzie di rating
danno per spacciata. Se ci mette tutti i risparmi, con i rendimenti che promettono, magari fa anche un sacco di soldi.
Beppe, scommettiamo? (l.cap.)
co non sarebbe un atto terroristico, ma un
“incidente internazionale”. Ancora meglio. Sul sito web del Fondo arabo per i
Beni e le attività culturali, che ha finanziato il film, si legge che “tutto è finito
quando le forze di sicurezza tedesche
hanno fatto irruzione, uccidendo cinque
palestinesi e undici israeliani”. Si chiama
negazionismo. Secondo Hajjaj, gli eventi
saranno visti attraverso gli occhi degli ultimi due “fedayeen” (in arabo martiri),
che hanno preso parte all’operazione e
che sono ancora vivi. Clamoroso e deplorevole che il Festival di Cannes abbia accettato di ospitare e commercializzare il
film.
A questo punto si potrebbe suggerire di
inserire nella giuria di Cannes Jean-Luc
Godard, Oscar alla carriera, ammirato autore della Nouvelle Vague, che in una intervista del 1991 a Liberation definì Israele “un cancro sulla mappa del medio
oriente” e che nel documentario del 1976
“Ici et Ailleurs” mette a raffronto le vite
di due famiglie, una palestinese e l’altra
francese, alternando immagini di Hitler e
del premier israeliano Golda Meir, come
due tiranni opposti. Nello stesso documentario, Godard parla così del massacro
degli atleti israeliani alle Olimpiadi di
Monaco nel 1972: “Prima di ogni finale
olimpica dovrebbe essere diffusa una immagine dei campi profughi palestinesi”.
E’ quello che avverrà la prossima settimana sulla leggendaria montée des marches
di Cannes.
Giulio Meotti
UN LIBRO APPENA USCITO TRA TEORIA POLITICA E TEOLOGIA
Simulata, deliberata, avanguardista. La gaffe come antidoto all’ipocrisia
H
ai voglia a salire e ridiscendere tutti i
gradini dell’esprit de l’escalier, ci sono
passi falsi sociali da cui non c’è speranza di
riaversi: si resta a terra azzoppati a ruminare e a maledirsi per l’eternità. Il caso più clamoroso di cui abbia notizia è quello di un
mio amico capitato, molti anni fa, tra i convitati di una festicciola in casa di una semisconosciuta. Orbitava spaesato intorno al tavolo
con le patatine e le bibite, senza trovare un
bandolo, un appiglio, un varco per mescolarsi con la comitiva, quando arrivò una telefonata straziante: un amico della festeggiata
era morto, appena diciottenne, in un incidente stradale. Lui, che se ne stava al margine
della conversazione col suo bicchiere di plastica in mano, forse acquattato dietro una
grande pianta, riuscì a captare qualche brandello di frase, e si persuase non ricordo come
che la vittima dell’incidente fosse il gatto della padrona di casa. Gli parve l’occasione per
uscire dall’ombra. Si accostò alla ragazza in
lacrime e le disse, con le migliori intenzioni
del consolatore: “Non essere triste, in fondo
è vissuto abbastanza. Pensa, il mio gatto è
morto a quindici anni”. Ecco, dopo una sortita così gloriosamente infelice non esiste riabilitazione, perlomeno in terra. Anche perché i tentativi affannosi di riscattarsi da una
gaffe generano di solito gaffe di secondo e
terzo grado, ed è un peccato che non esista un
verbo per descrivere questo inabissarsi nel-
l’inferno sociale, neppure una di quelle parole tedesche composte lunghe come trenini.
“Certe fedine penali non torneranno mai
del tutto pulite”, osserva Giuseppe Manfridi
in un libro pubblicato da La Lepre che si
chiama “Anatomia della gaffe”. L’unica via di
riscatto, a suo dire, è che il gaffeur scelga di
considerarsi come un paladino della verità
che squarcia le ipocrisie dei rituali sociali,
come un eretico nella chiesa del salotto buono. Via tortuosa, ma dalle sottili implicazioni politiche. Una teoria politica della gaffe,
che io sappia, attende ancora di essere scrit-
BORDIN LINE
di Massimo Bordin
In un’intervista a Felice Cavallaro del Corriere della Sera, ieri
il dottore Ingroia, nelle vesti di avvocato
difensore di Pino Maniaci, ha definito le
accuse contro il suo assistito “tutte da
provare”, aggiungendo: “Non vorrei parlare proprio io di accanimento accusatorio, per evitare facili ironie”. E’ effettivamente difficile evitarle quando si legge
come l’ex pm che ha istruito il processo
alla cosiddetta trattativa tenga a distinguere fra azioni deplorevoli e atti penalmente rilevanti. Ed è impossibile non citare la nota della Unione delle camere
ta, e il libro di Manfridi, pieno di aneddoti e
di aforismi e di formulazioni in odore di teologia, può fornire un buon punto d’appoggio.
Molta carne al fuoco viene dai romanzi – è
Proust il grande fenomenologo del faux pas
sociale – ma la migliore intuizione la si rintraccia in una pagina di Manzoni, quella in
cui l’espressione “far l’orecchie da mercante” è pronunciata da un commensale in presenza di Fra Cristoforo, che non vuole sentir
nulla che gli ricordi i suoi trascorsi mercantili, considerati disdicevoli. La descrizione
delle reazioni a questo momento di imbarazpenali che parla di una folgorante conversione da “partigiano della Costituzione (come la intende lui, ndr) a partigiano
della legge”. Ma è anche vero che le vie
facili non si addicono al dottore Ingroia,
che predilige i sentieri tortuosi. Infatti
quando, con più di una ragione, accusa i
carabinieri di aver inserito nei video intercettazioni penalmente irrilevanti volte
a distruggere il suo cliente, tortuosamente scarica sulla polizia giudiziaria la responsabilità di una violazione assai praticata a tutt’oggi da suoi ex colleghi di molte procure e anche da lui a suo tempo,
quando se ne dovette occupare addirittura la Corte costituzionale.
zo abissale è un capolavoro di penetrazione
psicologica e sociologica, ed è qui che Manzoni lascia cadere la definizione perfetta della
gaffe: “piccolo scandolo”.
Scandalo, ossia occasione di rivelazione
ed evangelica pietra d’inciampo. E c’è chi si
diverte a cospargere con simulata svagatezza il proprio cammino di questi sassolini, come Pollicino. Il nostro massimo gaffeur politico non c’è neppure bisogno di nominarlo,
ma ha avuto tra i suoi dipendenti un glorioso antesignano, come scrive Manfridi: “Mike
Bongiorno sta ai suoi innumerevoli e sconsiderati epigoni così come un primigenio tempio greco sta ai suoi tardi rifacimenti romani”. La gaffe deliberata travestita da inciampo casuale è il miglior modo per ravvivare il
fuoco spento della provocazione avanguardistica e spargerlo sulla materia infiammabile
dei social network, ora che non c’è più una
borghesia da épater. Da qui sorge il teatrino
del politicamente corretto e del politicamente scorretto, ossia del simmetricamente imbecille. Anche questo meccanismo si logorerà, c’è da scommetterci, ma intanto l’ascesa di Donald Trump riveste, in una storia della gaffe interpretata come storia sacra, l’importanza di un Secondo Avvento, o meglio
l’affermarsi della Grande Bestia apocalittica.
Segno che non ci sono buoni esorcisti in circolazione.
Guido Vitiello
“FOTTUTA CAMPAGNA”, OVVERO IL LIBRO PER RIPENSARCI
Beata ingenuità, di quelli che vagheggiano dell’eden campagnolo
Q
uando nel 1995 Toto Cutugno, interpretando al meglio il ruolo dell’italiano vero, cantava a Sanremo “Voglio andare a vivere in campagna”, è probabile che nessuno
degli altri italiani veri, e inurbati, all’ascolto lo abbia preso come un serio e motivato
proponimento di ritorno nell’Arcadia felice
e perduta della sua giovinezza (“rivoglio il
mio paese, quella gente che respira amore
/ e quello stagno che per noi bambini sembrava il mare”), bensì per quello che era, ed
è stato sempre nell’Italia post boom economico: un nostalgismo patetico e artefatto, un
retoricissimo inno al buon tempo andato. E
trascorso, naturalmente, in campagna (quale poi, non si specifica mai: mica son tutte
uguali, le campagne), l’Itaca degli Ulissi moderni sperduti nel cemento della metropoli (e Celentano ne fu il profeta, come noto).
Oggi invece c’è il serissimo rischio che
quel grido di libertà non resti più nei recinti delle figure retoriche, ma rappresenti un’aspirazione realmente condivisa: e
non ironicamente, condivisa, per altro. Oggi, negli ultimi anni, diciamo, esiste gente
che davvero dice che vivrebbe in campagna, che davvero nutre questo dolcissimo
desiderio, un desiderio confusamente irrorato di bio e di green e di eco e di sostenibilità e di marmellate fatte in case e di orti biodinamici e di autosussistenza manco
fossimo nel Pleistocene – e insomma di tutte quelle parole vuote e alla moda (endiadi sinonimica) che hanno infestato le menti più deboli. Di questa tontissima volontà
di ritorno al verde, totalmente inconsapevole e dalle insopportabili venature hipster o fighette o shabby chic, trattano due
recenti libri: l’arguto Contromano Laterza
di Antonio Leotti, “Nella Valle senza nome” (ne ha già parlato sul Foglio David Allegranti) e ora quello di Arianna Porcelli
Safonov, “Fottuta campagna” (Fazi, 234 pp.,
16 euro), l’esilarante e non scontato racconto di una giovane donna che l’apparente corbelleria di trasferirsi in campagna
l’ha fatta davvero, prendendo casa (e fienile) in un piccolo borgo dell’Oltrepò pavese – non propriamente campagna, va detto, bensì collina pura (ma “Fottuta collina”
avrebbe reso meno bene, ne convengo),
che nulla avrebbe da invidiare in bellezza
a quelle senesi, per fare un esempio glamour a caso, se solo gli autoctoni non fos-
sero come sono. Ma questo è un altro discorso.
L’autrice, qui al suo esordio, incarna in
effetti il prototipo ideale di chi in campagna
non potrebbe mai farcela: donna, giovane,
cittadina, di Roma per giunta e per giuntissima da anni residente a Madrid, laureata,
attrice comica, piena dei migliori e più moderni cliché, ahimè pure amante degli animali (ne possiede in numero superiore a
uno, Dio la perdoni). Una che ha vissuto
“per ventidue anni in un centro residenziale pieno di aiuole, cacche di cane raccolte
nelle bustine di plastica, vigilanza notturna
e tennisti educati, pensando che quella fosse campagna, sicura che la campagna fosse
dove c’è verde, aria buona e dove c’è il labrador che corre con la pallina in bocca”;
una che “arriva in campagna col cestino di
vimini e pensa davvero che le caprette gli
facciano ‘ciao!’”. Ma viene invece salvata (e
con lei il suo sapido libro) dalla capacità di
adattamento alle durezze collinari, raccontato senza edulcorati apologhi, dal liberatorio superamento dei luoghi comuni (come
quando sbeffeggia il “dio bio. Se non diventa una religione diventa una malattia”) e da
una robustissima dose di autoironia (“sui
social ho postato foto da National Geographic, facendo finta di avere giornate frizzanti in mezzo alla natura anche quando, in
realtà, le passavo abbracciata al Bonarda di
Bruno a piangere, oppure in giardino a spalare via il fango dalle fogne”), che mi inducono a consigliare questo volume a tutti gli
ingenui vagheggiatori dell’eden campagnolo. Sperando però che così non gli venga voglia di venire qui a rompere le balle.
Il punto forte di “Fottuta campagna” – accanto agli spassosi ritratti umani e ai quadretti di vita oltrepadana – sta senz’altro
nella piena consapevolezza della Porcelli
Safonov di quello che ha fatto scegliendo di
lasciare la città, di come andrebbe e va fatto, e di quello che per gli altri (amici, parenti, potenziali amanti che si inerpicano sulle
colline pavesi inesorabilmente perdendosi
e così dilapidando punti-virilità) significa. O
non significa. O falsamente significa. E che
per fortuna li tiene di solito alla larga da
queste parti: “Perché solo coi piedi ben radicati a terra e la vanga in mano ce la potrete fare”. Quindi possiamo stare tranquilli.
Mirko Volpi
UN ISTITUTO NA TO BALUARDO DELLA CIVILT A’ GIURIDICA
Quanta confusione sotto il cielo, se “prescrizione” diventa una parolaccia
D
el conflitto tra magistratura e politica
ai tempi di Berlusconi ci portiamo
dietro molti nodi irrisolti o mal risolti del
giusto processo. Tra essi, anche quello relativo alla prescrizione dei reati. L’idea
che la prescrizione oltraggi la funzione
della pena e irrida a tutti quelli che si
comportano correttamente non viene solo
da quegli anni di conflitto. La dottrina penalistica ha ragionato a lungo sui due poli del valore della certezza della punibilità da un lato e della sua indeterminatezza temporale, dall’altro. E di questa altalena ne ha risentito il diritto positivo, fin dal
codice Zanardelli e Rocco. Tuttavia la veemenza con cui, negli ultimi anni, opinione
pubblica e rappresentanti politici e della
magistratura ritengono una ferita alla civiltà giuridica un istituto che, dai tempi
del diritto romano, ne è stato invece baluardo, ha origini mediocri, come quella
della polemica sulla legge ex Cirielli e sulla sua applicazione ad personam, come si
diceva fino a poco tempo fa. Ridurre la riflessione sulla prescrizione alla solita
chiacchiera tra buoni e cattivi non rende
giustizia alla complessità dell’istituto. Soprattutto, non aiuta a focalizzare l’attenzione sulle vere esigenze di efficienza dell’amministrazione della giustizia. Il dato
da cui partire non è, come dice il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Piercamillo Davigo, che ci sono tante inchieste e poche sentenze perché c’è la
prescrizione. Piuttosto, il dato da cui partire è perché i tempi dei procedimenti penali sono così spesso più lunghi dei termini di prescrizione e perché ci sono tante
inchieste che si risolvono in nulla.
L’uno e l’altro punto mettono sul banco
degli imputati non la prescrizione, ma due
elementi essenziali per una giustizia degna di tale nome: la sua efficienza e la volontà dei suoi operatori di distinguere l’utile dall’inutile. Dovremmo chiederci se i
reati vanno in prescrizione non perché la
prescrizione è troppo breve, ma perché il
procedimento penale è troppo lungo. E’
uso, ad esempio, allungare la fase delle indagini, che dovrebbe avere tempi molto
stretti e possibilità di proroga solo in via
eccezionale. E le indagini sono lunghe an-
che perché sono tante. E sono tante anche
perché la legge penale lascia sempre più
discrezionalità nell’individuare le fattispecie di reato, mentre l’impunità della
condotta dei magistrati e il feticcio dell’obbligatorietà dell’azione penale rendono, in definitiva, tutto perseguibile. In un
ambiente culturale in cui i giudici, pm in
testa, sono portati a sentirsi indipendenti
da tutto tranne che dall’opinione pubblica, come si può pensare che l’inefficienza
della giustizia si possa riparare riconoscendo al processo o a una parte di esso
efficacia interruttiva della prescrizione,
così da introdurre “nella giustizia pratica
la più abominevole signoria dell’arbitrio”,
come scrisse Francesco Carrara nel suo
“Programma del corso di diritto criminale” del 1860?
Il problema della giustizia penale è che
molte indagini non dovrebbero iniziare,
non che dovrebbero concludersi con una
sentenza di merito (si veda l’assoluzione di
questi giorni di tutti gli imputati del caso
“Centurione” al ministero dell’Agricoltura, in cui il procuratore aggiunto di Roma
fece una conferenza stampa nei minuti in
cui gli indagati venivano condotti in custodia cautelare); che le ordinanze di rinvio
o di custodia cautelare sembrano sempre
più sganciate dal lessico e dalla riflessione giuridici (si legga la recente ordinanza
a carico del sindaco di Lodi); che l’obbligatorietà dell’azione penale, davanti a reati che vogliono dire tutto e nulla come abuso di ufficio o traffico di influenze, si trasforma in un esercizio potenzialmente inutile dell’azione penale a carico non solo
dell’indagato, ma della società e delle sue
istituzioni; che i magistrati, a partire dai
pubblici ministeri, possono essere superiori a tutto tranne che alle proprie vanità,
come ogni essere umano, e che per questo
la loro autonomia non può diventare, come
è da noi, autocrazia e irresponsabilità.
E’ da un’accusa sollecita che si ha la
guarentigia della sua sincerità, scriveva
Giovanni Carmignani. E la sollecitudine
dell’accusa non può che passare anche
dalla debita considerazione che si ha dell’istituto della prescrizione.
Serena Sileoni
Ancora patate!
Le sacre salme si rianimano ed
è tutto un disconoscere allievi.
Johnny abbandonato da Gramsci
Si scopron le tombe, si levano i morti. Ma le
sacre salme disconoscono i loro allievi.
Gianni & Riotto detto Johnny umilia ogni
volta la misera fantasia di questa povera ru-
NOVE COLONNE
brica. Salman Rushdie ricorda Umberto
Eco all’Istituto italiano di cultura a New
York e non cita Gianni Riotta come “allievo
di Eco”.
Si scopron le tombe, si levano i morti. Il
fantasma di Eco appare all’Istituto italiano
di cultura, rinnova l’appello a non consentire convegni sulla sua opera dopo di che,
chiamando a raccolta i rappresentanti della stampa internazionale, disconosce Riotto:
“Ma quale allievo? Io non l’ho mai visto. Al
più cotonava i capelli a Gianni Agnelli”.
Si scopron le tombe, si levano i morti. Indro
Montanelli da par suo risorge e disconosce
il sedicente figlioccio Joe Servegnini: “Piuttosto Roberto Gervaso”, tuona Cilindro, “lui
sì che può considerarsi erede ma Servegnini proprio no”. Adirato come il Commendatore del Don Giovanni, Montanelli rincara
contro Joe: “Mi avete mai visto con una frezza bianca da suora laica?”.
Si scopron le tombe, si levano i morti. Ed
è tutto un disconoscere allievi. Torquato Accetto, autore del trattato sulla dissimulazione, disconosce Marione Calabresi: “Altro
che dissimulare, questo sa solo aspettare.
Attende di sapere chi vince per schierarsi.
E’ solo un Johnny di successo. Succede a lui
quello che a Riotto non capita mai.
Si scopron le tombe, si levano i morti. L’ombra di Eco, intanto, aleggia su Riotto. Come
Samuele su Saul. Anche lo spirito di Sciascia si appalesa: “Siamo nati in Sicilia, come
altri milioni di cristiani, ma non abbiamo
punti di contatto”. Luigi Pintor si associa:
“Già al Manifesto lo chiamavamo Johnny”.
Si aprono le cataratte del cielo e piovono su
Riotto tutti i disconoscimenti.
Si scopron le tombe, si levano i morti. Anche Antonio Gramsci deve risorgere per disconoscere Johnny che per farsi dare la direzione dell’Unità, del sardo si proclama allievo non senza mettere in cattiva luce i concorrenti sulla strada dell’attesa promozione.
Nel dubbio possa esserci tra i candidati
MaryMely – peggio di Jago – versa all’orecchio dello spettro un pettegolezzo: “S’è fatta
promettere da Maria Elena Boschi il Tg3”.
Si scopron le tombe, si levano i morti.
Johnny va al rilancio su tutto. Suo è il motto: vantaggio manco agli sciancati. Convinto
che anche Moiro Orfeo detto Orfei, prossimo
a essere giubilato dal Tg1, possa essere interessato al giornale che fu di Walter Veltroni e Massimo D’Alema, gli si scaglia contro
dicendo a Gramsci quanto segue: “Moiro sta
facendo votare per Mara Carfagna, capito
spettro? Per la Car-fa-gna! Non è un sincero
democratico”.
Si scopron le tombe, si levano i morti.
“Chiamalo fesso!”, dice di rimando Gramsci
infastidito del comportamento doppio di
Johnny pronto a sacrificare i giornalisti più
fedeli al renzismo pur di accaparrarsi lui i
galloni di direttore e quando Johnny crede
di avere calato l’asso: “Io posso dire di aver
militato nel comunismo rivoluzionario!”, ecco che accanto a Gramsci discendono dal
cielo – o ascendono dalle tenebre, non è
chiaro – la Kulisciov, la Balabanov e Margherita Sarfatti.
Si scopron le tombe, si levano i morti. Le
tre Grazie del Paradiso dei lavoratori, non
disconoscono, anzi: riconoscono un’unica
erede. Si decidono dunque di reclamare per
Lucy, ossia Lucia Annunziata, la direzione
dell’Unità. Gramsci sembra acconsentire,
con la capoccia fa segno che sì, si può fare
ma Lucy, saputa la lieta novella, non la prende bene: “Ma per chi mi avete preso, per
Riotto? Mettete lui!”
Si scopron le tombe, si levano i morti. Musica per le orecchie di Johnny, finalmente si
vede alla guida del giornale caro al cuore
del pur più caro leader; sogna di commissionare interviste a Lapo Pistelli, reportage a
Laterina, inchieste sulla felicità dei correntisti di Banca Etruria.
Si scopron le tombe, si levano i morti. Sogna
qualcosa di più della pur beata stagione veltroniana delle videocassette in omaggio, lui
farà recapitare agli abbonati bustine con la
forfora di Luca Lotti; sempre di più osa e immagina di indire un concorso presso i lettori sulla più bella riforma della vita; immagina anche di prendersi la giusta rivincita anche sul suo potente cognato, Michele Anzaldi, ma ecco, si scopron le tombe, si levano i
morti e Gramsci dice no: “Il mio erede è solo uno, è Fabrizio Rondolino. Lui sì che è nazionalpopolare. Per te, Johnny, patate!”.
PICCOLA POSTA
di Adriano Sofri
“Mourir? Plutôt crever!”.
Ieri è crepato Siné. Dice che si
reincarnerà in un bonobo.