PIER VINCENZO COVA VIRGILIO E LEOPARDI DI FRONTE AI

Transcript

PIER VINCENZO COVA VIRGILIO E LEOPARDI DI FRONTE AI
PIER VINCENZO COVA
VIRGILIO E LEOPARDI DI FRONTE AI DISASTRI NATURALI 1
L’area mediterranea non conosce i disastrosi fenomeni naturali, come il terremoto-maremoto che ha
funestato recentemente il Sud-est asiatico. Tuttavia qualche cosa di simile, in scala ridottissima, è stata
osservata anche da noi pochi anni fa, in seguito all’eruzione di uno dei vulcani minori, dai quali è
purtroppo caratterizzata l’Italia del basso Tirreno. Probabilmente un fenomeno dello stesso tipo, ma di
qualche dimensione, si è verificato secoli fa in occasione della più disastrosa eruzione, che la nostra
storia ricordi, quella del Vesuvio dell’anno 79 d.C. Anche allora si trattò dell’eruzione di un vulcano
vicino al mare, preceduta, accompagnata e seguita da violente scosse telluriche in un’area abbastanza
vasta, epicentro fra Ercolano e Pompei. Delle conseguenze in termini di vittime danno testimonianza le
risultanze archeologiche. Dei danni materiali suggeriscono indizi anche le notizie sugli interventi
dell’imperatore Tito, il quale nominò una snella commissione di due ex consoli per gli aiuti alle
popolazioni colpite e la ricostruzione. Meno informazioni si hanno sullo stato del mare, in mancanza di
testimoni diretti o di storici affidabili. Il più ampio di questi ultimi è Cassio Dione, vissuto un secolo dopo
l’evento. Il suo racconto è viziato da leggende e comunque centrato quasi esclusivamente sull’eruzione.
Un limite analogo a questo secondo si riscontra nelle due lettere vesuviane di Plinio il Giovane a Tacito,
che è l’unico testimonio oculare, sia pure periferico (da Miseno), ma che raccolse anche notizie di prima
mano sulla morte dello zio, Plinio il Vecchio, dovuta proprio, benché indirettamente, alle esalazioni del
Vesuvio. Tuttavia in queste lettere si sorprende qualche indizio intorno alle conseguenze, sul mare,
dell’eruzione e dei terremoti connessi. Lo scrittore ha osservato che il mare si era ritirato, senza precisare
se era poi tornato verso terra con maggior vigore. La costa risultò alterata per lungo tratto, in seguito
all’azione combinata dei materiali eruttati, del sisma e delle onde. Lo zio, che era il comandante della
base navale di Miseno, con la sua grossa quadriremi fu spinto a Stabia con vento favorevolissimo, dice il
nipote. Ma di lì non poté ripartire con lo stesso mezzo a causa delle condizioni del mare. Eppure anche
Stabia si trovava alla periferia del fenomeno, dal lato opposto di Miseno. A parte le reazioni individuali,
in questo drammatico racconto non appaiono riflessioni generali, che superino la cronaca, cioè sulla
condizione umana di fronte a certe manifestazioni della natura. Salvo una: si trovano ragioni di conforto,
se non addirittura di gloria, morendo nel contesto di una catastrofe, che travolge terre bellissime e intere
città e popolazioni. Invece proprio a considerazioni filosofiche diciassette secoli più tardi Giacomo
Leopardi dedica La Ginestra, una delle sue poesie meno lette anche a scuola, non solo per il suo radicale
pessimismo, ma anche per la sua lunghezza. Frequentando, nel suo ultimo soggiorno napoletano, la zona
«del formidabil monte / sterminator Vesevo», il poeta non osserva la manifestazione di ostinata volontà
di sopravvivenza, che ha ripopolato le adiacenze del monte fin dai primi tempi e nonostante le eruzioni
succedutesi fino ai suoi giorni, nota invece la desolazione dei luoghi, nei quali può fiorire solo la ginestra
, che si accontenta del deserto. Eppure, se si riesce a superare l’inaccettabile concezione della natura
come «matrigna» empia e crudele, dovuta alla eccezionale sensibilità e alla dolorosa esperienza
esistenziale di Leopardi, si possono cogliere nella poesia accenti di valore positivo. Se è vero che il
genere umano può essere schiacciato da «un’onda di mar commossa», l’uomo «grande e forte» non è
colui che si esalta per le «magnifiche sorti e progressive» (citazione polemica), ma colui che non
aumenta le miserie «con gli odi e le ire / fraterne» e «tutti abbraccia con vero amor». Risuona dunque
l’invito ai mortali a sentirsi solidali, «confederati». È una lezione ben giusta, se intesa entro i suoi corretti
confini. Tanti secoli prima di Leopardi Virgilio aveva appunto limitato lo stesso ammonimento di fronte
alle manifestazioni anomale e ingovernabili della natura. Anche per lui l’occasione è l’incontro
drammatico con un vulcano in attività. Nell’ultimo episodio del terzo libro l’Eneide racconta l’arrivo
1
Giornale di Brescia, 22.1.2005.
delle navi di Enea sulle coste sicule orientali. È già buio e i Troiani passano una notte angosciosa alle
pendici dell’Etna, turbati da lampi sinistri, tremori della terra, spaventosi boati, non sapendo neanche che
si tratta di un vulcano. Il poeta epico, da buon narratore, traduce le sue concezioni in atti di personaggi.
Nei pressi localizza Polifemo, il gigante monocolo e mostruoso di omerica memoria. Ma il Ciclope
virgiliano è ben diverso da quello omerico, come Enea, che evita piamente lo scontro con le forze ignote,
è diverso da Ulisse, che le affronta gratuitamente con arroganza. Il Polifemo virgiliano incarna l’aspetto
mostruoso, che nella natura è eccezionale, esattamente come il vulcano: come il vulcano rumoreggia ma
non sa parlare, scuote la terra, erutta (il sangue delle sue vittime). La paura di una notte dei Troiani è stata
anche, per mesi, l’angoscia di Achemenide, un greco lì dimenticato da Ulisse e i suoi compagni. La prima
parte dell’episodio dell’incontro dei Troiani con costui è costruita esattamente come quello col greco
Sinone sulla spiaggia di Troia nel libro secondo, per rimarcare la differenza. Sinone si finge nemico
personale di Ulisse per rendersi credibile ai Troiani e convincerli a introdurre entro le mura il fatale
cavallo di legno, l’inganno preparato dal principe dei fraudolenti per la rovina della città. Achemenide
non nega di essere compagno dell’Itacense, ma fa appello alla comune natura umana e alla sofferenza,
che lo unisce ai nemici. Per questo i Troiani lo accolgono prontamente e insieme si salveranno. Quelli,
che fino allora erano andati fuggendo i greci distruttori della loro patria, incominciano qui la loro
riconciliazione con i nemici, la cultura dei quali costituirà nei secoli una delle componenti della civiltà
romana.