Paesaggi agrari. Le sezioni della mostra
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Paesaggi agrari. Le sezioni della mostra
Paesaggi agrari. Il cambiamento. Cento anni di storia in Val di Non Le sezioni della mostra La vite Paesaggio vitato. Paesaggio, cioè, coltivato a vite. Così si presentava un tempo la val di Non. Michelangelo Mariani – veneziano, religioso, celebre cronista del Concilio tridentino e attento osservatore delle dinamiche sociali ed economiche – scrive nel 1673 che “tra i vini nonesi si stimano li neri di Revò, i bianchi sopra Castelthunn, né si san tralasciare per buoni li vini di Castel Nan”. Per secoli l’Anaunia media e bassa è stata coltivata a vigne. La diffusione della vite è notevole già nel ‘600. E, nel 1688, il “libro di casa” della nobile stirpe dei Maffei – una famiglia benestante proprietaria di numerose campagne in valle di Non – riporta che in quell’anno furono prodotte dai soli possedimenti Maffei 800 orne di vino, pressappoco equivalenti a 628 quintali. Tra il ‘700 e l’800 la vite conosce un continuo sviluppo. Il “vino di Revò riesce buono, specialmente il rosso”. Il vino di “Nanno è il migliore della Pieve (di Tassullo)”, si legge in altre testimonianze dell’800, mentre nella “Pieve di Denno il vino è assai migliore che nelle Pievi di Flavon e di Spor”. Ricavato dalle uve di un vitigno autoctono, il vino più pregiato della valle è il Groppello di Revò. Anche i vigneti di Romallo e di Cagnò sono considerati “vigneti modello”. Di minor presenza rispetto al Groppello c’erano poi il Borgogna (Pinot nero) e qualche varietà di uva bianca. Nel 1902 “la ripida pendice che scende al torrente Noce – scrive Ottone Brentari nella sua Guida del Trentino – è tutta un vigneto”. La zona più coltivata è la famosa Terza sponda. Durante l’800 la fortuna della viticoltura è tale da permettere l’esportazione del prodotto nella vicina Austria e da indurre i produttori nonesi a consociarsi. La nascita della Cantina sociale di Revò, nel 1893, è tra i momenti decisivi. Dopo quelle di Riva del Garda e di Borgo Valsugana, la cantina di Revò è la terza più antica del Trentino. Sull’esempio nascono in valle altre cantine a Tuenno, Nanno, Denno, Cloz, Dercolo, Taio, Portolo e altri paesi. Dopo la Grande guerra la viticoltura in val di Non entra irrimediabilmente in crisi. Inverni particolarmente freddi, parassiti come la filossera e la peronospora, eventi come la costruzione dell’invaso di Santa Giustina e la concorrenza dei vini della valle dell’Adige portano all’abbandono quasi totale delle coltivazioni. Nel 1928, in seguito all’affermarsi di altri tipi di frutticoltura, la Cantina sociale di Revò viene trasformata in un magazzino frutticolo. Oggi, colture pregiate di vitigni sopravvivono ancora in val di Non recuperando la tradizione consolidata del Groppello e cercando di ritagliarsi uno spazio nel mercato moderno. Il gelso Coltivazione delle piante di gelso, allevamento dei bachi da seta e trasformazione del bozzolo in filato di seta. La valle di Non era tra i centri più produttivi del Trentino. Un tempo, in val di Non, le filande danno lavoro a decine di persone e la gelsicoltura dà vita a una filiera che garantisce una essenziale fonte di sostentamento per la popolazione. Alla coltivazione del gelso era legato un sistema agrario, artigianale e manufatturiero (piantagioni di alberi di gelso, allevamento dei filugelli da seta, trattura e filanda della seta) che superava il fabbisogno locale e che per l’economia di valle rappresentava la maggiore attività di commercio con le comunità vicine e con i Paesi esteri. La seta viene lavorata ad arte e riesce così bene da essere spedita, nella prima metà dell’800, a Londra in Gran Bretagna e ad Amburgo in Germania. L’attività nelle filande ha inizio nella metà del ’700 mentre le prime coltivazioni di gelsi giungono in val di Non già nel 1600. Alcune famiglie hanno legato la loro storia a quella della bachicoltura in valle di Non: famiglie come i Viesi, originari di Mori, che si stabiliscono a Cles intorno al 1830 avviando una filanda e intraprendendo la lavorazione del ricamo. Verso la metà del 1850 i distretti di Cles e di Fondo producono 206.400 libre annuali di bozzoli, pari a circa 94.000 chilogrammi. Di questi, oltre 92.000 sono prodotti nel distretto di Cles e 2.000 nel distretto di Fondo. Le caldaie per la trattura 8dello stame sono una quarantina (35 delle quali a Cles) e complessivamente danno lavoro a circa 150 persone. Per produzione di bozzoli, intorno alla metà dell’800 il capitanato di Cles (che era composto dai distretti di Cles, Fondo e Malè) è preceduto in Trentino soltanto da Rovereto, Trento e Borgo. In numerosi luoghi della valle si contano filande e forni essiccatoi. Poi, con un declino veloce e inarrestabile, l’industria serica dell’Anaunia entra in crisi e scompare definitivamente nei primi decenni del ‘900. Diversi furono i fattori che determinarono la crisi. Tra questi, una forte epidemia che colpisce i bachi da seta tra il 1856 e il 1857 e, successivamente, la scelta di privilegiare nei primi decenni del ‘900 una economia basata sulla frutticoltura. L’ultima filanda resiste fino al primo dopoguerra, quando l’edificio che la ospitava, appartenuto alla famiglia Viesi, viene trasformato in un magazzino per il deposito della frutta. La mela “La pomologia ha un bell’avvenire in valle di Non”. Si legge così, nel 1873, in una relazione sull’andamento dell’annata agricola per il Trentino. Prima del 1850 non c’è traccia delle coltivazioni di meleti in val di Non. I meli che ci sono crescono perlopiù spontanei oppure si trovano in qualche “brolio”, piccoli giardini recintati a ridosso delle abitazioni dove i benestanti si dedicavano per diletto alla coltivazione delle mele o di altri frutti. Verso la frutticoltura del melo gli agricoltori si orientano nella seconda metà del secolo, in seguito al diffondersi delle malattie che colpiscono i gelsi e la vite. I danni causati da questi parassiti inducono una parte dei contadini a emigrare mentre altri intravedono l’opportunità di piantare alberi di melo e alberi di pero. Nasce così la frutticoltura. L’abbondanza dei raccolti supera presto il fabbisogno della comunità e gli agricoltori della valle dispongono di prodotti sufficienti per l’esportazione. Per il solo distretto di Cles la produzione di frutta nel 1882 è di 1.729 quintali; un numero destinato ad aumentare se si pensa che tre anni dopo, nel 1885, i quintali sono più che raddoppiati e nel 1888 diventano quasi 5.000. Di questi, circa 3.000 sono di mele, 1.500 di pere, 80 di ciliegie, 50 di prugne, 40 di pesche, 10 di albicocche e 40 di cotogni. Ad aprire nuovi sbocchi commerciali contribuiscono anche i riconoscimenti che le mele della val di Non ottengono presso le mostre internazionali del settore. É il caso dell’Esposizione mondiale di Vienna nel 1873 e di altre mostre pomologiche. Nei primi decenni del ‘900, tuttavia, la pratica colturale che ancora prevale in val di Non è la tecnica del prato-frutteto. Una parte del campo viene coltivata con alberi da frutto ad alto fusto (piuttosto distanti tra di loro con anche 100 metri quadrati di terreno per ciascuna pianta) e un’altra parte è coltivata a prato per ottenere il foraggio destinato agli animali. Ciò nonostante, negli anni ’30 la produzione frutticola del Trentino proviene per il 40% dalla val di Non e sempre dall’Anaunia giunge il 70% della massa esportata. Ma è dopo la Seconda guerra mondiale che la frutticoltura si afferma definitivamente. Essa porta ricchezza, lavoro, benessere e cambia il volto alla valle. Giova allo sviluppo dei meleti una serie di fattori tra i quali l’andamento del mercato, la diffusione e il miglioramento dei sistemi di irrigazione, l’incremento di professionalità degli agricoltori, l’affermazione della mentalità e delle strutture cooperative, l’assistenza tecnica garantita dall’Ente per lo sviluppo dell’agricoltura trentina (Esat) e la politica degli incentivi voluta dalla Provincia autonoma di Trento. Le altre coltivazioni Segale, mais, orzo e il “formenton”. Una volta non c’erano le mele in val di Non. Una ricca varietà di specie vegetali cresce spontanea in val di Non e caratterizza il paesaggio nella prima metà dell’800. Gli alberi da frutto sono diffusi ma vengono lasciati alla natura. Crescono l’albicocco, il noce, il fico, il castagno, il ciliegio, il pesco, il pero, il melo e altri. Ci sono le siepi, siepi di campo, perlopiù di crespino o di ligustro, di pruno selvatico, di biancospino, sambuco e rosa di macchina. Al margine del bosco fioriscono le fragole, arbusti di rovo, la camomilla, la malva, l’origano, la primula, la viola, il millefoglio e altre erbe officinali. Nei primi dell’800 si coltivano la segale e il mais, o granturco, che nei mesi invernali impegna tutta la famiglia a “sfoiàr le pannocchie sull’aia”. Si coltivano le rape e il cavolo cappuccio, utilizzati in cucina per una varietà notevole di ricette. E molto diffusa è la coltivazione di vari tipi di legumi come piselli e lenticchie. Una parte del terreno – la sesta parte del terreno coltivato secondo una stima degli anni ’20 e ’30 dell’800 – è occupata dalle patate. La patata viene importata dalla Germania alla fine del ’700 e fino al 1948, quando si verifica un disastroso crollo dei prezzi, è molto frequente nei campi della valle tra i 600 e i 1100 metri. Un ruolo fondamentale è svolto dal grano saraceno, il cosiddetto il formenton. La diffusione del fromenton e la sua importanza nella catena alimentare della popolazione sono riportate in numerose fonti dell’epoca: “Quando nel luglio e nell’agosto fiorisce – si legge in un testo della prima metà del secolo XIX – imbianca un terzo quasi della valle e manda un gratissimo odore di miele”. Le semina delle campagne a cereali, orzo e segale continua per tutto il secolo e fino ai primi del ‘900. Cles e Fondo sono tra i maggiori produttori. La produzione di cereali nell’anno 1910 a Cles è così ripartita: 9.829 quintali di frumento, 6.196 quintali di segala, 1.267 quintali di orzo, 1.206 quintali di avena, 4.728 quintali di granturco. A Fondo: 3.223 quintali di frumento, 4.608 quintali di segala, 2.045 quintali di orzo, 601 quintali di avena, 4.464 quintali di granturco. La produzione di frumento resta preminente anche nel periodo tra le due guerre. E in questi anni si assiste al tentativo di coltivare tabacco a Denno e Taio mentre nelle zone di Romeno, Malosco, Ronzone e Ruffrè si insiste sui “cavoli cappucci”. Con gli anni ’40 e ’50 del ‘900 la maggior parte delle coltivazioni viene abbandonata per far posto ai pereti e ai meleti. Gli alberi di pere costituiscono una parte importante del raccolto fino ai primi dei ’70. Nel 1968 si stima che la produzione di pere si aggiri intorno al 40% del totale. Poi scomparirà definitivamente. L’allevamento Prima dell’agricoltura, l’allevamento. Prima dei frutteti, la pastorizia. C’erano le pecore in valle di Non e c’erano i pastori con le capre, le vacche, i maiali, i cavalli e i muli. Ovini, bovini, suini ed equini: i bovini ci sono ancora ma le pecore e le capre sono quasi scomparse. Nell’anno 1869 nel distretto capitanale di Cles si contano 19.283 bovini. Undici anni dopo, nel 1890, i bovini sono incrementati fino a 22.768 capi. Negli stessi anni di riferimento (il 1869 e il 1890) le pecore diminuiscono da 12.890 a 2.753 mentre il numero delle capre si dimezza passando da 9.588 a 4.670. All’inizio del secolo successivo il panorama non cambia e conferma le medesime tendenze: la situazione rimane quasi invariata per il bestiame bovino mentre le stime continuano a indicare un decremento nel numero delle capre e delle pecore. Nel 1910 si allevano in tutto il capitanato di Cles 20.529 bovini. Le capre sono solo 5.084 e le pecore 1.404. I cavalli sono 520 e i muli 585. I dati del distretto capitanale di Cles, se pur parziali, sono esemplificativi dell’intera valle. Alle comunità d’Anaunia l’allevamento è legato da lunghe tradizioni. Sono le tradizioni del pastore e del casaro, della vita dei pascoli e delle malghe, della lavorazione del formaggio e in genere dei prodotti lattiero-caseari. Il pastore, un tempo, passava all’alba per le vie del paese, suonava il corno, prendeva in consegna le bestie dai contadini e le portava al pascolo. Nel mese di giugno gli animali vengono condotti in montagna nelle malghe per l’alpeggio. Qui, appositi locali sono adibiti alla lavorazione del latte e alla conservazione dei prodotti caseari. Ma anche nei paesi si lavora il latte. Oltre al maiale (la maggior parte delle famiglie ne possedeva uno), il singolo nucleo familiare dispone spesso di una vacca per il proprio fabbisogno. Poi, con la nascita dei primi caseifici turnari, la lavorazione casalinga del latte viene sostituita dal casaro. Secondo il sistema turnario il singolo produttore consegnava al casaro il latte prodotto e questi attribuiva la caserata “a quel socio che dalla somma delle singole partite risulta in maggior credito di latte e in quel giorno egli è padrone della caserata”. Dal sistema turnario si passa successivamente a quello cooperativo dove l’attività è gestita dalla Direzione del caseificio con l’aiuto del casaro. L’allevamento del bestiame è stata una delle principali attività della popolazione nonesa per tutto l’800 e fino alla prima metà del ‘900. Per l’economia della valle il peso di tale attività appare ancora oggi fondamentale, sebbene inferiore a quello della frutticoltura e legato prevalentemente a zone specifiche di territorio, perlopiù al di sopra dei 900-1000 metri. Verso la fine degli anni ’60 sono ancora presenti in val di Non circa 4.000 aziende che possiedono bestiame. Oggi sono meno di 300, concentrate nell’alta valle. La “volontà di Dio” Tradizione, fede e superstizione. Si combattevano così i capricci del tempo e le calamità climatiche. Ci si affida alla mano di Dio per scongiurare lo spettro della grandine, delle gelate, della siccità, delle inondazioni e ai santi si chiede misericordia. Nei paesi della val di Non si celebrano le cosiddette Rogazioni. Tra i numerosi riti propiziatori, le Rogazioni sono i più importanti. Condotte da un uomo di fede preposto a dirigere la processione e a tenere bene in alto la santa Croce, la cerimonia aveva inizio al mattino presto con un lungo corteo di fedeli che, accompagnato dai chierichetti e dal sacerdote, seguiva ogni volta percorsi diversi attraverso i campi e gli appezzamenti coltivati. Le Rogazioni si tenevano in date prestabilite. Erano fissate nelle giornate di lunedì, martedì e mercoledì antecedenti la Festa dell’Ascensione. Questa ultima cadeva il 40° giorno dopo la Pasqua. Durante il cammino il corteo si fermava a ogni crocevia, il prete leggeva le preghiere e volgendosi verso i quattro punti cardinali dispensava la benedizione alle campagne. Insieme alle Rogazioni è assai diffuso il triduo per la pioggia. Il triduo consisteva in un ciclo di preghiere della durata di tre giorni che precedeva la festa per impetrare la grazia. In valle di Non il triduo per la pioggia veniva rivolto alla Madonna, che si riteneva avesse un potere miracoloso per scongiurare la siccità. Per tre giorni, in primavera e in estate, la processione veniva ripetuta per le viuzze di campagna e intorno al paese. Recandosi appresso la statua della Madonna si recitavano canti e litanie agli altari della Vergine e si invocava l’acqua dal cielo. Usanze come queste sono frequenti durante l’800 e interessano direttamente la vita delle famiglie della valle. Coinvolgono ogni membro del nucleo familiare e scandiscono ritmi e tradizioni della comunità. Sono forme di cultura religiosa e di sociale convivenza. Alcune di esse si legano fortemente alle stagioni, al calendario, agli usi e ai costumi della popolazione, segnano l’incedere delle mensilità o indicano l’arrivo della primavera. Durante il ‘900 e in particolare con gli anni ’40 e ’50 sia le Rogazioni sia le altre processioni propiziatorie cadono lentamente in disuso fino quasi a scomparire. In diversi paesi si possono osservare ancora oggi nelle rievocazioni di carattere storico oscillanti tra il folklore e la religione. La “disgrazia” Le gelate, la grandine, la siccità, le malattie delle piante e i parassiti. Sono i grandi nemici del contadino e del raccolto. Di “smisurata grandine” si ha notizia il 25 agosto 1806 nelle campagne di Romallo per un danno di 400.000 fiorini. Il Regio Bavaro Giudizio Provinciale, poiché i contadini furono ridotti allo stremo, indisse con decreto una questua che interessò, tra gli altri, anche il distretto di Trento. Un’altra eccezionale grandinata si registra la sera del 5 luglio 1867. Questa ultima “tolse una buona parte della vendemmia – si apprende dalle cronache del tempo – in tutta la sponda da Scanna a Romallo e guastò più o meno il resto. Ma il male non si può prevenire, se lo deve portare con rassegnazione”. In tempi più recenti si ha memoria di eventi simili nel 1988 e nel 1993. Danni al raccolto sono causati anche dalle gelate. Fanno storia le gelate dell’inverno e della primavera 1892-’93, quando si verifica in valle di Non una stagione dal clima rigido e senza neve, e quelle degli anni ’50 del ‘900. Ma a flagellare i contadini della valle sono anche i parassiti: insetti come la filossera e la diaspis pentagona, e funghi come la peronospora. Nel Trentino i parassiti si diffondono agli inizi del ‘900 ma la lotta contro la peronospora comincia per i nonesi già nel 1884. Il parassita, che colpisce varie piante e la vite in particolare, agisce con una muffa di colore bianco che provoca l’essiccamento delle foglie e fa marcire il frutto. A partire dal 1888 lo si combatte anche in valle di Non con l’uso della poltiglia bordolese. Gli sforzi continuano per anni. “Quanto sia stata accanita la lotta contro la peronospora – si legge nell’Almanacco Agrario nel 1912 – ce lo dimostra il consumo di solfato di rame che raggiunse la cifra di 155 vagoni, cifra non mai raggiunta fino ad ora”. La fillossera, invece, insiste soprattutto negli anni ’10 e ’20 mentre sul baco da seta si accaniscono la diaspis pentagona e la pebrina. Parassiti, gelate, grandine e siccità rappresentano la disgrazia e la calamità, causano carestie, portano la miseria, piegano la comunità dell’intera valle con conseguenze che si trascinano per anni. Ma insieme a questi “tormenti” altri eventi nefasti rallentano la produzione agricola in valle di Non. Eventi naturali e non solo: le carestie (“l’an de la fam” nel 1816); gli incendi dei paesi (alcuni di enormi proporzioni); le frane e le alluvioni (in particolare l’alluvione del 1882); le epidemie (la peste nel 1809 causa 39 morti nella sola Cles e il colera nel 1836 e nel 1855 provoca decine di vittime in tutti i centri della valle); le crisi economiche (su tutte quella del 1929); eventi di carattere sociale come l’emigrazione (che priva le famiglie delle braccia più forti e delle più giovani); eventi di carattere politico come le guerre mondiali (con danni enormi nelle campagne e alla popolazione); e le modificazioni dei confini (nel 1859 il distacco dalla Lombardia e nel 1866 il distacco dal Veneto, che interferiscono sui legami e i rapporti commerciali). La cooperazione Uno sviluppo fulmineo, voluto, in val di Non, principalmente dalle forze cattoliche ma non solo. Cresce in Anaunia il movimento cooperativo. Il cooperativismo si diffonde in Trentino agli inizi degli anni ’80 dell’800 sulla base delle esperienze dei vicini paesi tedeschi. In valle di Non mette radici subito dopo, a partire dagli anni ’90. Dopo i tentativi nel basso Trentino – quando, nel Bleggio, nasce la prima Famiglia cooperativa nel 1890 – viene fondata anche in val di Non una Cassa rurale. Siamo a Tuenno. É il 26 dicembre 1894. Recita così il primo verbale della prima riunione della prima cassa rurale della valle di Non: “Radunatisi gli iniziatori nella Cassa rurale nei locali della scuola dietro l’invito del curato Don Panizza (don Giovanni Battista Panizza, parroco a Tuenno) il giorno 24 dicembre 1894, consapevoli delle disposizioni dello Statuto (..), stabilita la tassa di impegno a fiorino uno e la quota sociale di fiorini 3, passarono alla pertrattazione dei punti portati dall’invito odierno e così, confirmata a completata la Direzione, tennero la prima adunanza generale della Cassa rurale di prestiti e risparmio di Tuenno, il giorno 26 dicembre 1894”. All’esperienza di Tuenno ne seguono subito altre. Nel 1895 nasce a Romallo la Famiglia cooperativa e nel 1898 la Cassa rurale. Nel 1900 viene fondata la Cassa rurale di Revò, l’anno successivo quella di Flavon e nel 1904 la Cassa rurale di Sanzeno. Nei primi decenni del ‘900 il panorama si arricchisce al punto che, nell’anno 1912, la Casse della valle risultano una trentina e contano oltre 3.400 soci. Tra le altre, ci sono per l’alta Anaunia le Casse rurali di Castelfondo, Malosco, Cavareno e Romeno. Per la parte di valle che da Castelfondo digrada verso la Terza sponda si trovano quelle di Brez, Cloz e Romallo. Per la zona della Predaia quelle di Coredo, Sfruz e Tres. Nella media valle le Casse di Taio e di Segno. Nella bassa quelle di Termon, Spormaggiore e Sporminore. La nascita delle cooperative in val di Non si inscrive nel più ampio contesto del Trentino della fine del secolo XIX. Negli anni ’80 dell’800 si registrano alcuni episodi chiave che preparano il clima entro cui, anche in Anaunia, può svilupparsi il cooperativismo con le sue strutture. Tra questi episodi, si ricorda nel 1881 l’istituzione della sezione di Trento del Consiglio provinciale dell’agricoltura. Alle dipendenze della sezione vi erano i Consorzi agrari del Trentino, tra cui quelli di Cles e Fondo. A far data dal 1883, inoltre, il Consiglio provinciale dell’agricoltura pubblica l’Almanacco agrario attraverso il quale don Lorenzo Guetti, fondatore del movimento cooperativo in Trentino, diffonde l’idea del cooperativismo. L’acqua Centinaia di chilometri di canalizzazioni e decine di opere per la raccolta e la distribuzione dell’acqua. La storia dell’agricoltura e del paesaggio agrario in val di Non è anche la storia degli acquedotti irrigui e della loro costruzione. Precipitazioni atmosferiche scarse, irregolari e lunghi intervalli di siccità si alternano in valle di Non a periodi molto piovosi. Nei mesi primaverili la piovosità è sufficiente ma nei mesi estivi, a partire da giugno, la scarsità di acqua è tale da impedire qualsiasi coltivazione. Per un adeguato sviluppo vegetativo i frutteti hanno bisogno di un terreno costantemente umido. E per consentire alla frutticoltura di espandersi i contadini nonesi hanno dovuto portare l’acqua alle campagne. Una tabella del 1930 elenca nel numero di 33 gli acquedotti irrigui presenti nella valle fino a quel momento. Il primo, quello di Rumo, fu costruito addirittura nell’anno 1700 sfruttando le acque del torrente Lavacé. Altri 8 acquedotti, tra cui quelli di Fondo e di Revò, vengono costruiti nel corso del ‘700 ma è durante l’800 che la maggior parte dei paesi si dota di un proprio acquedotto. Il periodo di massima attività per quanto riguarda i lavori di costruzione di opere di raccolta e canalizzazione dell’acqua ad uso agricolo si registra tra gli anni ’50 dell’800 e gli anni ’30 del ‘900. Nell’arco di questi ottant’anni entrano in funzione 22 acquedotti. Nel 1930 si stima che in valle di Non i 33 acquedotti in funzione siano in grado di coprire una superficie irrigata pari a 2.930 ettari (superficie equivalente a circa la metà degli ettari attualmente coltivati da tutte le 16 cooperative che oggi fanno parte del Consorzio Melinda). Alcuni degli acquedotti segnano profondamente la vita della comunità della valle, sia per gli enormi sacrifici (non solo economici) che i lavori di costruzione comportano, sia per gli effetti positivi del loro utilizzo. Una “grandiosa impresa” viene definito nel 1854 l’acquedotto di Tovel, realizzato nel ’52 per servire quella che è oggi una delle zone più fertili e coltivate dell’Anaunia, la plaga dei Comuni di Cles, Nanno, Tassullo, Tuenno. Un tempo non esistevano istituti di credito e per la fabbricazione degli acquedotti le famiglie degli agricoltori si esponevano pesantemente. Come per quello di Tovel, in grado di servire nella seconda metà dell’800 circa 600 ettari di campagna, altri grandi acquedotti segnano il passo nello sviluppo dell’agricoltura. Tra i principali, quelli di Banco-Malgolo-Casez (1787), Revò (1790), Lover-Denno-Campo Denno (1855), Terres-Flavon-Cunevo (1905), Taio-Dermulo (1922), Romallo-Cloz (del 1922). Le macchine Chimica, fisica e biotecnologie, motori agricoli possenti, irrigazione programmata e atomizzatori supertecnologici. Oggi è cambiato il lavoro del contadino. Una volta c’erano le braccia e gli animali. Nel 1936 in tutto il Trentino operano solo 15 trattrici e 26 motocarri per uso agricolo. Nel 1996 si contano 12.000 mezzi solo in val di Non fra trattori, motofalciatrici, motoagricole e altro. Fino agli anni ’10 e ’20 del ‘900 le campagne non conoscono la meccanizzazione. Il lavoro è frutto della forza umana e dell’utilizzo del bestiame. Poi, nell’arco di mezzo secolo, tra gli anni ’40 e gli anni ’90 scienza e tecnologia trasformano la vita nei campi. L’innovazione interessa ogni ambito del lavoro dell’agricoltore nei frutteti della val di Non. Compaiono le prime macchine agricole, i trattori a tre ruote. Alcuni sono costruiti da ditte locali. A questi fanno seguito i modelli a quattro ruote e i grossi mezzi capaci di trainare bilici lunghi e pesanti. Di pari passo cambiano le tecniche di concimazione, le macchine per irrorare e i sistemi di irrigazione. Inizia la pratica della concimazione con fertilizzanti minerali e di sintesi. Gli strumenti irroratrici a spalla vengono sostituiti dalla pompa a carriola con la botte la quale, a sua volta, lascia il posto ai più recenti atomizzatori. Per portare l’acqua ai meleti e nelle campagne l’antico sistema di irrigazione a scorrimento viene sostituito dagli impianti a pioggia e infine dal sistema a goccia. In valle sorgono i primi magazzini, là dove, un tempo, la frutta veniva depositata nei somasi. Alcuni sono realizzati già nei primi del ‘900 ma tra le due guerre e dopo la Seconda guerra mondiale essi crescono a dismisura, con dimensioni che superano quelle dei castelli del passato. Per il confezionamento della frutta vengono usate dapprima cassette di legno di fabbricazione locale. Piccole fabbriche di cassette di imballaggio nascono a Romeno, Revò, Sanzeno e Tasullo. Poi il legno viene sostituito da materiali più recenti. Anche la pianta del melo e le coltivazioni dei meleti modificano il loro aspetto. Per ottimizzare la produzione e per agevolare la lavorazione, verso la metà del ‘900 si procede a un riordino fondiario al fine di ottenere appezzamenti di maggiore dimensioni riducendo le particelle più piccole. I meleti si elevano fino a 1.000 metri di altitudine oltre il paese di Malgolo e fino ai piedi di Fondo. Gli alberi ad alto fusto, piantati a diversi metri di distanza gli uni dagli altri, vengono sostituiti da quelli a basso fusto. Questi ultimi sono messi a dimora nei moderni impianti a distanza molto ravvicinata (fino a 3,30 metri tra una fila e l’altra e 50-80 centimetri tra una pianta e l’altra) e sono in grado di fruttificare già al secondo anno di vita. Le piante ad alto fusto, invece, richiedevano per fruttificare 5 o 6 anni dalla messa a dimora. L’emigrazione Emigrazione e agricoltura. Quando il lavoro della terra non bastava si partiva per cercare altrove quello che mancava. Il territorio della valle si estende per una superficie complessiva di 596 chilometri quadrati ed è abitato da 38.000 persone governate da 38 differenti amministrazioni comunali. É la più estesa e popolosa valle del Trentino. Il numero di abitanti è cambiato negli ultimi 150 anni in ragione di alcune cause che lo hanno influenzato. Oltre alle epidemie, alle carestie, alle guerre, all’industrializzazione, allo spopolamento delle montagne e alla natalità, tra queste cause ci sono altri due fattori fondamentali. Strettamente collegati fra di loro, essi sono l’agricoltura e l’emigrazione. Come per altre zone del Trentino, il fenomeno dell’emigrazione in valle di Non nasce in risposta alla mancanza di lavoro e all’insufficienza del reddito e dei prodotti della terra. Viceversa, momenti di rallentamento dell’emigrazione fanno seguito a fasi di crescita dell’agricoltura. Le partenze dalla valle di Non cessano solo con il secondo dopoguerra, quando il boom delle mele porta lavoro e ricchezza. Ma in passato, quando il raccolto era insufficiente per sfamare l’intero nucleo familiare, si registrano in Anaunia tutti e tre i tipi di emigrazione: quella stagionale, quella continentale e quella transoceanica. L’emigrazione stagionale vede gli adulti e i giovani partire per i vicini paesi della valle dell’Adige in cerca di lavoro specializzato. Sono nonesi arrotini, paroloti, muratori, segantini e spazzacamini soprattutto. Negli anni ’40 e ’50 le donne lavorano nei magazzini delle mele dell’Alto Adige, dove la frutticoltura si era già sviluppata, mentre negli anni ‘30 molti operai trovano lavoro alla costruzione della strada delle Palade. L’emigrazione continentale si verifica invece a ondate massicce nella seconda metà dell’800. Si parte per la Germania, per la Svizzera, l’Austria, la Francia e il Belgio per lavorare alla realizzazione di ponti e strade o più spesso per fare i minatori. Con l’emigrazione transoceanica, infine, i nonesi lasciano a centinaia le loro case diretti negli Stati Uniti, in Canada, in Messico, in Brasile, in Argentina, in Cile o in Australia. Paesi interi si svuotano. Tra il 1870 e il 1890 dai soli territori di Cles e Fondo partono per il Nord e per il Sud America 2.395 persone. Successivamente, nel decennio 1900-1910 si registra una emigrazione annua pari a 1.650 unità, il 5,7% della popolazione. I flussi migratori in val di Non sono legati a doppio nodo con l’alto grado di ruralità della popolazione. La comunità della valle appare fortemente dedita al lavoro nelle campagne. Tra le due guerre il 60% circa della forza lavoro dell’Anaunia è occupato nei campi. Si tratta del maggior tasso di ruralità del Trentino. Negli anni ’90 un altro censimento indica nel 15% la forza lavoro addetta all’agricoltura in val di Non contro il 4% della media provinciale e l’8% circa della vicina val di Sole. Il paesaggio Il paesaggio come testimonianza storica, come memoria, come ambiente naturale e come spazio fisico da progettare. Sul tema del paesaggio – il paesaggio agrario come elemento della trasformazione – si misurano in valle di Non gruppi di persone titolari di interessi differenti e non di rado contrapposti. Per la valle di Non il tema del paesaggio agricolo è fondamentale sotto i profili paesistico, naturale, architettonico, storico, economico, turistico e insediativo. In questo senso il paesaggio è un patrimonio e un diritto per la comunità della val di Non. É un bene che il politico deve sapere responsabilmente amministrare e di cui il cittadino deve poter godere. Porre l’accento sui temi della responsabilità e della partecipazione è indispensabile quando si parla di paesaggi in trasformazione: paesaggi come quello dell’Anaunia, dove la trasformazione è legata prevalentemente all’evoluzione del paesaggio agrario. La Convenzione europea del paesaggio, approvata a Firenze nell’ottobre del 2000, ha introdotto una visione più ampia di paesaggio; una visione che guarda ai paesaggi della trasformazione e che cerca di capire fino a che punto gli esiti del mutamento – il cambiamento del paesaggio agricolo nel caso della val di Non – possano essere guidati e controllati consapevolmente. Il tentativo è quello di governare i segni della trasformazione in una prospettiva virtuosa che sia volta non solo al dato estetico o economico ma anche alla necessità di promuovere modelli di sviluppo sostenibile e di consentire alla popolazione di riappropriarsi del paesaggio. Nella sua complessità, paesaggio è tante cose. Paesaggio sono i segni dell’agricoltura. Paesaggio è un patrimonio, un bene, un diritto delle persone e delle genti che lo abitano. Paesaggio è elemento che riflette l’identità di un luogo e delle sue popolazioni. Paesaggio è uno spazio fisico da pianificare, una risorsa per il turismo e un oggetto sensibile di tutela. Paesaggio, in fondo, è ciò che vediamo. La natura è paesaggio. Le infrastrutture lo sono come pure l’uomo e le sue attività agricole. Il paesaggio agrario d’Anaunia non ha nulla di esclusivamente naturale poiché è un paesaggio antropico, letteralmente costruito e trasformato dall’uomo. Esso si caratterizza come elemento di confronto per i nonesi, per il turismo, per le attività agricole ed economiche che lì vi prosperano e per gli aspetti legati agli insediamenti abitativi. Riuscire a contemperare queste spinte diverse – spesso in contrasto fra di loro – individuando modelli di sviluppo sostenibile e governando le forme future del paesaggio è la scommessa più grande che ci attende. I raccoglitori Sono quasi la metà della forza lavoro. Arrivano e ripartono ogni autunno. Qualcuno di loro si ferma tutto l’anno. Svolgono i lavori che gli abitanti della zona non sempre desiderano fare e sono indispensabili per l’economia della valle. Con una media di 4.000/6.000 all’anno, sono i raccoglitori. Sono gli immigrati, la manodopera straniera. Sono una componente fondamentale di tutta la filiera della frutticoltura in valle di Non. Emigrano in Anaunia attirati dalla prospettiva di guadagno. Talvolta sono extracomunitari che da tempo si trovano nel nostro Paese, i vu cumprà d’Italia. Più spesso sono persone che non hanno mai visto la nostra nazione. I primi immigrati giungono in val di Non per la raccolta delle mele dalla ex Jugoslavia negli anni ’80. Successivamente, con l’intensificarsi dei flussi migratori, provengono più in generale dalla zona dei Balcani, dai paesi dell’Est Europa e poi da ogni dove. Dall’Arabia, dall’Africa, dall’America Latina. Nel 2009 i dati relativi agli avviamenti di lavoratori immigrati nel solo comparto agricolo del Comprensorio della val di Non indicano un totale di 8.492 persone (6.618 maschi e 1.874 femmine). Dapprincipio si presentano i giovani italiani. Emigrano stagionalmente dalle città e dalle altre regioni del Paese per guadagnare qualche soldo con la raccolta delle mele nel mese di settembre. Ma oggi la maggior parte dei raccoglitori è straniera. Sono sloveni, rumeni, polacchi, arabi, terzomondiali, senegalesi e via dicendo. Giungono per la raccolta ma a volte si fermano tutto l’anno o si stabiliscono definitivamente nella zona. Durante i mesi invernali trovano lavoro presso altre strutture. Si spostano nella vicina val di Sole per seguire la domanda di lavoro legata alla stagione turistica invernale. Trovano occupazione nelle strutture alberghiere oppure presso le stazioni sciistiche. Prendono impiego nelle stalle o nelle malghe andando a costituire una voce importante della forza lavoro anche nel settore zootecnico. Ma è soprattutto nel comparto della frutticoltura che la presenza degli immigrati è diventata insostituibile e che il loro numero si è imposto all’economia e alle amministrazioni locali come un problema e come una risorsa. Negli anni ’80, quando al boom delle mele segue il “boom dei raccoglitori”, nascono in val di Non i primi centri di accoglienza per soddisfare i bisogni primari degli immigrati e assicurare loro cibo, un letto, una doccia e i servizi igienici. Centri di prima accoglienza sorgono a Taio, a Cloz, a Denno, a Cles e a Tassullo. Oggi i centri sono chiusi e gli immigrati trovano alloggio in altre strutture. L’Agenzia del Lavoro della Provincia autonoma di Trento interviene a loro sostegno per il collocamento e per la tutela delle garanzie. I fitofarmaci Prodotti fitosanitari: tutti quei prodotti, di sintesi o naturali, che vengono usati per combattere le malattie delle piante. È l’altra faccia del comparto agricolo in valle di Non. Casi come questi sono accaduti realmente: arseniato di piombo confuso con la farina e usato come cibo per il bestiame; antiparassitari stoccati in comuni bottiglie per le bibite e bevuti per errore come birra; il bestiame che stramazza negli alpeggi dopo aver mangiato il foraggio ottenuto dai campi coltivati con alberi da frutto. In misura industriale i fitofarmaci compaiono in val di Non negli anni ‘50 e ‘60. Da allora, il loro utilizzo ha seguito una duplice linea di sviluppo. Attraverso la ricerca scientifica, con l’ausilio di nuove tecnologie e per mezzo della regolamentazione normativa si è cercato, da un lato, di utilizzare il minor numero possibile di prodotti nella minor quantità possibile, e dall’altro, di eliminare ogni forma di rischio per il contadino, per la popolazione e per l’ambiente. Prima in forma privata, poi da parte delle associazioni di categoria e quindi ad opera dell’ente pubblico è cresciuta di pari passo l’assistenza al contadino nelle attività di acquisto, conservazione e utilizzo del prodotto. L’introduzione delle vasche (contenitori comuni dove il prodotto viene acquistato e miscelato collettivamente) ha sgravato l’agricoltore dall’impegno di conservare privatamente i singoli prodotti e di miscelarli. Gli atomizzatori (gli strumenti per irrorare la pianta) hanno subito una forte evoluzione limitando la dispersione del principio attivo, utilizzando ventole più veloci e più precise, dotandosi di torrette, dispositivi di antigocciolamento, dispositivi elettronici per il monitoraggio della miscela e altro. Negli anni ’90 è stato introdotto l’obbligo di un controllo periodico sugli atomizzatori (ce ne sono circa 3.500 in val di Non con altrettanti operatori) per verificarne efficienza e funzionalità e agli agricoltori che li usano è stato imposto il superamento di un esame per il conseguimento di apposito patentino. Il passaggio alla cosiddetta lotta integrata (l’utilizzo esclusivo di trattamenti mirati e necessari invece di quelli cadenzati e preventivi) ha consentito di ridurre enormemente la quantità di prodotti utilizzati. Il loro numero è stato pesantemente ridotto ed è ora soggetto a discipline europee. Gli stessi Comuni della valle hanno adottato regolamenti con misure di prevenzione che dettano orari, spazi e modalità da rispettare durante l’irrorazione. La moderna irrigazione a goccia, a differenza di quella a pioggia, è più precisa e calibrata, non dilava la pianta e riduce la necessità di ripetere il trattamento. I meleti moderni, infine, sono costituiti di piante piccole e molto più basse rispetto al passato con la conseguente diminuzione della superficie da irrorare. Il rischio legato all’utilizzo degli antiparassitari grava sull’operatore agricolo, poiché il contadino è colui che maggiormente è esposto ai pericoli connessi all’uso degli insetticidi, e grava sulla comunità degli abitanti della zona, poiché tutta la popolazione condivide con i titolari degli interessi agricoli ed economici un identico diritto alla salubrità dell’ambiente. Testi a cura di Alessandro de Bertolini