mariano x press 4,0 - Sardegna DigitalLibrary

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mariano x press 4,0 - Sardegna DigitalLibrary
aipsa edizioni
A mia sorella Marisa
Nota dell’editore
k
N
on è frequente pubblicare opere che risalgono
al Medioevo sardo. Sembrava che gli storici e
i linguisti avessero scandagliato nell’isola ogni
più recondito anfratto d’archivio. Quando si ha la certezza che tutto è già stato scritto, scoperto, analizzato,
sezionato nei minimi particolari, ecco che appaiono
nuove rivelazioni ad accrescere le scoperte e rafforzare la
convinzione, se ancora ce ne fosse bisogno, che sì abbiamo avuto una età di mezzo in Sardegna non trascurabile.
Escono quindi come nuove, queste memorie, questi
scritti passati prima per la clandestinità e poi caduti nell’oblio.
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La vicenda legata a queste carte è nota solo agli specialisti, giova quindi essere qui ripetuta. Nel 1907, il
ritrovamento del diario segreto di Mariano IV Giudice
d’Arborea da parte di un anziano prete di frontiera votato alla ricerca storica, tale don Giovanni Garau, fece clamore nella sonnolenta cittadina di Oristano. La comunità scientifica sarda, poi continentale e infine internazionale, accolse la notizia sì con entusiasmo, ma anche
con una buona dose di precauzione. Erano ancora troppo cocenti le scottature che gli studiosi sardi e piemontesi del XIX secolo, Martini, Spano, Manno, La
Marmora, Baudi di Vesme, presero con le Carte
d’Arborea. Le “assurdità paleografiche” di quei falsi vennero messe a nudo da un tribunale di specialisti, tra cui
Theodor Mommsen, dell’Accademia di Berlino.
Risolta così definitivamente la questione delle false
Carte, nell’ambito culturale sardo gli studiosi si diedero
delle regole.
Stavolta questo “diario segreto” di Mariano IV era
composto da documentazione originale molto più esile:
carte sparse personali attribuibili al Giudice, e non già
lettere ufficiali o pergamene con canzoni in volgare
sardo. Accanto alle carte, si dava agli studiosi una tra6
scrizione in sardo campidanese “moderno” preceduta da
una avvertenza, curata dallo stesso anziano prelato oristanese, a cui faceva difetto di certo la cultura di ricerca
paleografica, filologica, storica e anche letteraria, ma al
quale era tutt’altro che estranea la catechesi in lingua
sarda, diffusa agli inizi del secolo in tutta l’isola.
Prima di qualsiasi pubblicazione, le carte originali di
Mariano vennero passate al vaglio di diversi eminenti
studiosi di paleografia, tra gli altri il professor H.
Traube, dell’università di Monaco. Nel frattempo, l’anziano prete di Oristano, che aspettava di vedere coronato il suo sforzo, coinvolse direttamente anche i suoi
superiori a Roma della Scuola Vaticana di Paleografia.
L’analisi sulla scrittura e sul materiale condotta dagli
esperti non lasciò adito ad alcun dubbio: si trattava di
un evidente falso. Il Vaticano lasciò cadere la questione,
non emise verdetto di condanna, sperando che il prelato della diocesi di Oristano dedicasse il suo poco tempo
che aveva dinanzi, più alle anime della sua contrada che
alle astruse ricerche storico-filologiche.
Questa volta nei circoli culturali isolani non si fece
scalpore. Il vecchio prete non resistette al verdetto. Fece un
falò delle sue carte e mise fine alla sua povera esistenza.
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Un nipote ritrovò il corpo, alcuni resti del diario di
Mariano ormai in cenere e la trascrizione vergata in
bella grafia di quelle carte, risparmiata miracolosamente
al fuoco.
Era una di quelle “radiose giornate di maggio” del
1915 che chiamavano la gente in guerra. Il nipote seppellì nel silenzio lo zio prete e si tenne quelle maledette
carte e altri oggetti che rinvenne nella casa. Passarono gli
anni, finì la Prima guerra e arrivarono gli ex combattenti, e poi il fascismo; Oristano dimenticò presto la vicenda del vecchio prete bollato come falsario. Arrivò anche
un’altra guerra mondiale e poi di nuovo la pace. Il nipote del prete morì negli anni Settanta lasciando tutto agli
eredi.
Agli inizi del 2000, le carte vengono fortunosamente di nuovo alla ribalta, e questa volta sembra che finiscano nelle mani giuste. Una ragazza della famiglia,
Beatrice Bassu Serrao, laureata in lettere, specializzata in
studi sardi, rinviene infatti, tra i lasciti degli avi, il
manoscritto con la trascrizione e alcuni pezzi delle
“false” carte di Mariano. Incuriosita, e ignara del passato di quei manoscritti, inizia una ricerca che coinvolge
colleghi e insegnanti dell’università cagliaritana.
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Vengono così analizzati i resti bruciati delle carte. Si
compiono ricerche più approfondite a Barcellona, si
confrontano i poveri resti in possesso con i documenti
dell’Archivio della Corona d’Aragona, e si scopre che
quelle carte erano assolutamente vere. Sì, la scrittura è
proprio quella di Mariano IV Giudice d’Arborea, una
“cancelleresca arborense” dovuta a mano incerta. Così la
storia e l’audacia di un povero prete si riprendono una
colossale rivincita.
Si presenta qui per la prima volta il testo di Mariano
trascritto da don Giovanni Garau, mentre la traduzione
in italiano e la revisione del testo sardo è stata curata
dalla stessa pronipote, la dottoressa Beatrice Bassu
Serrao.
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Memorias de Marianu
Su diariu segretu de su Jugi
Marianu IV de s’Arbarea
apparicciau e torrau a iscriri de Giuanni Garau
s’annu 1907
Avvertentzia.
In is urtimus annus, medas bias beccias de Aristanis
ant connotu allichididura. Domus antigas chi no teniant
prus settiu, cun murus chi no serrànt prus peruna pratza,
prenus de giassus, funt stetias sciorrocadas, po fai prus bella
sa bella bidda de Aristanis.
Accabbendu is traballus de sciorrocadura de is murus
beccius e de su prociu de Port’a Mari, - cussa Porta chi
narànt ca fessit attaccada a sa domu de is Jugis de
s’Arbarea, - ant agattau, piccaperderis de sa erenzia mia,
una cascia de linna cun tirieddas de peddi siccorrada, e mi
dd’ant ‘onada, cun sa prumissa ca, chi aintrus ddui fessit
stetiu dinai bonu, ddus ap’essiri arreccumpensaus.
Dinai aintrus de sa cascia, no nd’eus agattau, e is pic10
Memorie di Mariano
Il diario segreto del Giudice
Mariano IV d’Arborea
curato e trascritto da Giovanni Garau
l’anno 1907
Avvertenza.
Negli ultimi anni, molte vecchie strade di Oristano
hanno conosciuto “pulizia”. Vecchie case senza “stile”, con
mura che non chiudevano più nessun cortile, pieni di aperture, sono state demolite, per far più bello il bel paese di
Oristano.
Finendo i lavori di demolizione delle vecchie mura e
del portico di Port’a Mari, - quella Porta che dicevano fosse
affiancata alla casa dei Giudici d’Arborea, - hanno rinvenuto, tagliapietre del mio parentado, una cassa di legno con
vecchie strisce di cuoio, e me l’hanno consegnata, con la
promessa che, se dentro ci fossero stati dei denari buoni, li
avrei ricompensati.
Denari dentro la cassa, non ne abbiamo trovati, e i
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caperderis m’ant arregallau totu is pagus cosas chene valori
chi eus scabulliu: un’aneddu cun d-una figura de cuaddu,
mi parit de cussus chi portànt is obiscopus, podit essiri unu
sullu; unu calixi de prata, piticu ma beni arremacciau;
una lepa totu prena de arruina; una bibbia scritta in latinu, mali pigada de settiu; un’arrogu de paperi longu longu
chi creu siat pergamena, de anca no si ddui liggit nudda;
paperis spratzinaus, in bella scrittura; e, po urtimu, unu
crucifissu de linna purdiada.
Apu liggiu cun meda sforzu is paperis, funt stetius iscrittus in sardu, ma in d-unu sardu chi no chistionat prus
nisciunus: né in Campidanu e nimancu in Cabesusu, in
peruna parti de Sardigna. Mi parit chi siant spetzias de arregordus, cosas chi funt subenias a chini s’est postu a iscriri.
Apu postu a sa beni e mellus in ordini custus paperis.
Fiant giai totus chene data; sceti cussus chi mi funt patus
su primu e s’urtimu paperi portànt una spetzia de data e
una bella firma cun d-una M manna manna a forma de
coru: Marianu.
De su chi apu potziu cumprendi de sa prima e de s’urtima datatzioni, “dada in Murreali - lampadas - MCCCLXXVI” e “dada in Murreali - treulas”, creu de ai agattau cussas chi narànt fessint propriu is “Memorias de
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muratori mi hanno regalato tutte le poche cose senza valore che abbiamo raccattato: un anello con incisa una figura
di un cavallo, mi sembra di quelli che portavano i vescovi,
può essere un sigillo; un calice d’argento, piccolo ma ben
cesellato; un coltello pieno di ruggine; una bibbia scritta in
latino, mal presa come forma; un pezzo di carta molto
lungo che credo sia pergamena, dove non vi si legge niente;
fogli sparsi, vergati in bella scrittura; e, in ultimo, un crocifisso di legno ormai marcio.
Ho letto con molto sforzo le carte, sono state scritte in
sardo, ma in un sardo che non parla più nessuno: né nel
Campidano e neanche nel Capo di sopra, da nessuna parte
in Sardegna. Mi sembra siano specie di ricordi, cose che
sono tornate in mente a chi si è messo a scrivere.
Ho messo alla bell’e meglio in ordine queste carte.
Erano quasi tutte senza data; solo quelle che mi sono sembrate la prima e l’ultima avevano una sorta di data e una
bella firma con una M grande grande a forma di cuore:
Mariano.
Da quello che ho potuto capire dalla prima e dall’ultima datazione, “datato Monreale - giugno - MCCCLXXVI” e “datato Monreale - luglio”, credo di aver scoperto
quelle che dicevano fossero proprio le “Memorie di
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Marianu”, scrittas cun is manus suas prima de morri, de su
Jugi de s’Arbarea, babbu de sa grandu Leonora nosta.
Apu torrau a iscriri totu in sardu campidanesu, a sa
moda de oi, e lassu custas memorias a chini, cun sa voluntadi sua e sa bontadi de Deus, tenit prexeri de ddas liggi.
Predi Giuanni Garau, su binti de su mes’e ladamini de
s’annu 1907 in Aristanis.
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Mariano”, scritte con le sue stesse mani prima di morire,
dal Giudice di Arborea, padre della nostra grande
Eleonora.
Ho riscritto tutto in sardo campidanese, alla moda di
oggi, e lascio queste memorie a chi, per sua volontà e con la
bontà di Dio, ha piacere di leggerle.
Sacerdote Giovanni Garau, il venti del mese di ottobre
dell’anno 1907 in Oristano.
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S
eu canudu. De candu sa braba m’est crescia, mi
parit ca mi funt crescius pilus colori de cinixu
puru. Ses cumpriu, ses cumpriu, Marianu.
Mi ‘onat fastidiu sceti a bortas custa braba, mi fait
intendi prus mannu, prus omini, prus jugi. Jugi.
Cumenti chi bastessit un’omini a braba manna...
Mi ndi seu accattau sceti imoi ca seu imbeccendi.
Toccat a si firmai Marianu, toccat chi mi firmi.
Assumancu po pensai. Ndi tengu abisongiu de pensai.
A Timbora no ddi praxiat tanti custu logu, preferriat
Bosa, e su Brugu. No, no est berus: ‘eniat cun prexeri po
is aquas; po is aquas sceti perou. Calincuna ‘orta chi dda
cundullia a passillai in custus orus de su castru, mi
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S
ono canuto. Da quando mi è cresciuta la barba,
mi sembra che mi siano cresciuti pure capelli
color cenere. Sei maturo, sei maturo, Mariano.
Mi infastidisce solo a volte, questa barba, mi fa sentire più grande, più uomo, più giudice. Giudice. Come
se bastasse un uomo con la barba lunga...
Mi sono accorto solo adesso che sto invecchiando.
Bisogna fermarsi Mariano, bisogna che mi fermi.
Almeno per pensare. Ho bisogno di pensare.
A Timbora non piaceva tanto questo luogo, preferiva Bosa, e il Borgo. No, non è vero: veniva con piacere
per le acque; solo per le acque però. Qualche volta che
riuscivo a indurla a passeggiare nelle vicinanze del
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nd’accattau ca ‘eniat sceti po mi fai prexeri. Troppu
manna sa bisura ‘e su rennu, bia de custu cuccuru.
Si nd’assiccàt, candu biàt su sartu chi no spacciat
mai.
“Marianu, Jugi meu, firmà”, parit de dda intendi,
struppiendu su chistionai nostu, Timbora. Mulleri,
amiga, mammai de is fillus mius. Timbora, poita ti ndi
ses andada? Poita no ses cun mei, in s’ora de su pasiu?
Mi ‘olit sa manu, no seu abituau a intingi po iscriri;
seu pensendi, e is pensamentus funt andendi in custu
paperi: seu scriendi, ‘eu, su Jugi, seu scriendi. Seu innoi
a Murreali e iscriu cosas chene fundoriu, a sa moda de
is cantadoris chi tenia in Aristanis, is sicilianus... Para
Juanne iat essiri agatau una beridadi in custu scioberu:
una beridadi chi mancu deu iat ap’essi pensau.
Parit de ddu intendi: “Jugi meu, sas cantones puru
piaghene a su Sennori meu? Gasi dae iscriere cun sas
manus suas?”.
Para Juanne, de candu est mortu su parisceddu miu,
mi toccat a fai totu a solu. Timu? Timu a fai scriri is
cosas mias a is atrus? Timu, ddu deppu nai. No timu po
mei, ca seu arribau a is lacanas de sa vida, a su tremini
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castello, mi accorgevo che veniva solo per farmi piacere.
Troppo grande la vista del regno, vista da questo colle.
Si spaventava, quando vedeva che la campagna non
finiva mai.
“Marianu, Jugi meu, firmà”, sembra di sentirla, storpiando il nostro parlare, Timbora. Moglie, amica,
madre dei miei figli. Timbora, perché te ne sei andata?
Perché non sei con me, nell’ora del riposo?
Mi duole la mano, non sono abituato a intingere per
scrivere; penso, e i pensieri stanno andando in questa
carta: sto scrivendo, io, il Giudice, sto scrivendo. Sono
qui a Monreale e scrivo cose senza senso, alla moda dei
cantori che avevo ad Oristano, i siciliani... Frate
Giovanni avrebbe trovato una verità in questa scelta:
una verità che neanch’io avrei pensato di trovare.
Sembra di sentirlo: “Giudice mio, pure le canzoni
piacciono al mio Signore? Così da scriverle lui stesso
con le sue mani?”.
Frate Giovanni, da quando è morto il mio fraticello,
mi tocca fare tutto da solo. Ho paura? Ho paura di far
scrivere le mie cose agli altri? Ho paura, devo dirlo. Non
ho paura per me, che sono arrivato ai confini della vita,
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chi mi seberat de su camminu faci a su celu... Oh Deus,
oh Deus perdonaimì!, cantu cosas trevessas seu pensendu. Sceti tui, Babbu de is ominis in sa terra, podis ordinai chini podit e chini no podit sartai su tremini po arribai in su celu. Deus onnipotenti, Babbu nostu: Pater
noster - qui es in caelis - sanctificètur nomen tuum adveniat regnum tuum - fiat voluntas tua, sicut in caelo
et in terra.
Fai su prexeri tuu, seu fillu imploranti.
No sciu poita m’intenda custu amori po Deus in su
corpus, no ddu depia intendi chi sighia is cosas de sa
terra. Sceti chini at fattu beni, sceti chini at traballau po
sa paxi de is ominis, - aici naràt cussu dimoniu de para
miu de Guilcier, in su celu siat, - sceti cussus de bonu
intendimentu podint crei, “in unum Deum”, naràt su
para. No ddu naràt po mei, ma po cussus chi fiant abarraus agoa, cussus fradis sardus chi no iant connotu
s’Evangeliu, su fueddu de Deus. Ma a su para miu no
ddi praxiant nemancu is brebus mius, po nai sa beridadi, totu sa beridadi. Cantu ‘ortas m’arregordàt ca no esistiant atras mexinas bonas po sanai su chi portaus aintrus, in fundu a totu is intragnas, prus in fundu du su
coru puru.
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al termine che mi separa dal cammino verso il cielo...
Oh Dio, oh Dio perdonatemi!, quante cose sbagliate sto
pensando. Solo tu, Padre degli uomini sulla terra, puoi
ordinare chi può e chi non può saltare il termine per
arrivare in cielo. Dio onnipotente, Padre nostro: Pater
noster - qui es in caelis - sanctificètur nomen tuum adveniat regnum tuum - fiat voluntas tua, sicut in caelo
et in terra.
Fai il tuo piacere, sono figlio implorante.
Non so perché senta nel corpo quest’amore per Dio,
non dovrei sentirlo se seguissi le cose della terra. Solo
chi ha fatto del bene, solo chi ha lavorato per la pace
degli uomini, - così diceva quel demonio del mio frate
del Guilcier, nel cielo sia, - solo quelli di buone intenzioni possono credere, “in unum deum”, diceva il frate.
Non lo diceva per me, ma per quelli che restarono
indietro, quei fratelli sardi che non avevano conosciuto
il Vangelo, la parola di Dio. Ma al mio frate non piacevano neanche le mie formule, per dire la verità, tutta la
verità. Quante volte mi ricordava che non esistevano
altre medicine buone per guarire quel che ci portiamo
dentro, in fondo a tutte le viscere, più in fondo anche
del cuore.
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“Fezzat cumenti a santu Franciscu: ‘Pax et bonum’”,
naràt Juanne. Cali paxi? Cali beni? Su para miu mi ddu
spiegàt a modu suu, candu mi liggiat s’Evangeliu. E deu,
- ah poita dd’apu disconnotu!, - liggia is iscritturas
cument’a unu asuriu, unu giudeu imbriagu de sardesch
spuntu e chene sabori.
Para Juanne de Guilcier, poita m’as lassau tui puru?
De Aristanis m’ant fattu sciri ca is cosas funt andendi beni. Chini m’at lassau sa cummessioni est speranzosu: deu no. Deu no tengu prus gana. A is dimonius
Castel di Cagliari e s’Alguer e totu is catalanus chi ddui
bivint!
Seu dromendi mali, giai de unu pagu de tempus no
arrennesciu a m’arreposai is ciorbeddus. Andu e torru,
andu e torru cumenti chi fessi unu furittu. Mancu is
aquas mi faint beni. Is ominis de sa chita no scint ita fai;
fortzis pensant chi su jugi insoru siat maladiu, maccu:
pensant chi sia maccu. E cument’a unu maccu passillu,
cument’a unu maccu… no: a unu furittu, no: a unu
maccu. Ddu sciu ‘eu poita no dromu, ddu sciu ‘eu poita
fazzu cussus bisus, ddu sciu ‘eu poita mi intendu is
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“Faccia come san Francesco: ‘Pax et bonum’”, diceva Giovanni. Quale pace? Quale bene? Il mio frate lo
spiegava a modo suo, quando mi leggeva il Vangelo. Ed
io, - ah perché non l’ho riconosciuto!, - leggevo le scritture come un avaro, un giudeo ubriaco di sardesch inacidito e senza sapore.
Frate Giovanni del Guilcier, perché mi hai lasciato
anche tu?
Da Oristano mi hanno fatto sapere che le cose stanno andando bene. Chi mi ha riferito il messaggio è speranzoso: io no. Non ho più voglia. Al diavolo Castel di
Cagliari e l’Alguer e tutti i catalani che ci abitano!
Sto dormendo male, già da un po’ di tempo non riesco a far riposare il cervello. Vado e vengo, vado e vengo
come fossi un furetto. Neanche le acque mi fanno bene.
Gli uomini della guardia non sanno cosa fare; forse pensano che il loro giudice sia malato, matto: pensano che
sia matto. E come un matto passeggio, come un
matto… no: un furetto, no: un matto. Lo so perché non
dormo, so io perché faccio quei sogni, so perché mi
sento le viscere in ebollizione. Oh!, Dio, lo so, lo so!
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intragnas buddi buddi. Oh!, Deus... ddu sciu ‘eu, ddu
sciu ‘eu!
Ma no est curpa mia, no est stetia curpa mia.
Giuanni, Giuanni e su fillu. Poita Giuanni tui puru?
Poita fradi miu mi ‘oliast aici mali? Poita t’apu depiu
impresonai po no mi noci? Giuanni in Bosa, Giuanni a
Lula, a Telti e in logu de Terranoa, in dognia logu... si
ndi fiat scaresciu is doveris de unu sardu, de unu fillu de
s’Arbarea.
Sa mulleri si fiat fuia, a Casteddu si ndi fiat andanda, e dd’iat lassau a solu. Ma d’apu depiu fai, Giuanni,
mi iast essiri bocciu, tui, a mei, a fradi tu, sanguni de sa
propria zenìa.
Su majori de sa chita ariseru mi ‘oliat cundulli a bandai a cassa. “Bengat su Jugi, bengat cun nosu, andaus
faci a Bonorzuli a cassai sirbonis. Sa chita de berruda s’aspettat in su padenti de Arcuentu.” Apu nau ca no
andau, fortzis apu sbagliau. Mi fai mali su abarrai
castiendi totu su rennu de custu cuccuru. Casteddu no
ddu biu, Aristanis no dda biu, no biu is cosas chi m’iat
a praxi a biri. Poita castiu? A bortas m’intendu unu
cerbu, anzis unu cuaddu, e mi ‘enit gana de sartai, curri
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Ma non è colpa mia, non è stata colpa mia.
Giovanni, Giovanni e il figlio. Perché Giovanni anche
tu? Perché fratello mio mi volevi così male? Perché ti ho
dovuto imprigionare per non nuocermi? Giovanni a
Bosa, Giovanni a Lula, a Telti e nella zona di Terranova,
dappertutto… si era dimenticato i doveri di un sardo, di
un figlio dell’Arborea.
La moglie scappò, a Cagliari se n’era andata, e l’aveva lasciato solo. Ma l’ho dovuto fare, Giovanni, mi avresti ucciso, tu, a me, a tuo fratello, sangue della propria
stirpe.
Il maggiore delle guardie di palazzo ieri mi voleva
convincere ad andare a caccia. “Venga Giudice, venga
con noi, andiamo verso Bonorzuli a caccia di cinghiali.
La guardia a cavallo ci aspetta nel bosco di Arcuentu.”
Ho detto che non andavo, forse ho sbagliato. Mi fa male
rimanere a guardare tutto il regno da questo cocuzzolo.
Cagliari non la vedo, Oristano non la vedo, non vedo le
cose che mi piacerebbe vedere. Perché guardo? Alle volte
mi sento un cervo, anzi un cavallo, e mi viene voglia di
saltare, correre e andare, andare andare, andare senza
fermarmi, senza riprendere fiato. Mi verrebbe da saltare
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e andai, andai andai, andai chene mi firmai, chene torrai sulidu. Ia a cerri de sartai su mari, de imperrai totu
is navis de Ugoneddu, de partiri faci a is morus, e de
andai ancora prus a basciu, a basciu finzas a sa fini de su
mundu. Ma seu innoi, firmu, solu, maladiu.
Chi podia curri, curria sceti a Casteddu.
M’arrechedit a biri cussu mari, a m’affacciai de cussas
turris, a bivi in su logu chi apu sempri disigiau.
Timbora ndi fiat istetia cuntenta s’orta chi ddi fiat
beniu amarolla de ddu andai. Mi fu pata prexada.
“Casteddu est unu bisu, Jugi meu, est aspettendi su
rei cosa sua. Casteddu, Marianu, est aspettendudì; sa
genti sarda de cussus orus est aspettendudì. Tots lo
vasalls per lo sennior Rey d’Arbarè.”
Mi ddu naràt stringendumì is manus, Timbora mia,
totu su Casteddu po mei, totu sa Sardigna po mei, po
nosu sardus, po s’Arbarea. Timbora, t’apu tenta che
mulleri, ma tui fiast una santa.
A bortas pensu a is cosas de su mundu, a is doveris
de una mulleri, de unu maridu. A candu mi seu lassau
andai in is palatzius de Aristanis. A is giogus chi apu
fattu fai, ma seu stetiu omini, e Timbora at sempri cum26
il mare, cavalcare tutte le navi di Ugoneddu, partire
verso i mori, e andare ancora più giù, giù fino alla fine
del mondo. Ma sono qui, fermo, solo, malato.
Se potessi correre, correrei solo verso Cagliari. Ho
voglia di vedere quel mare, affacciarmi da quelle torri,
vivere nel luogo che ho sempre desiderato.
Timbora era rimasta contenta quella volta che era
dovuta andarvi per forza. Mi era parsa contenta.
“Cagliari è un sogno, Giudice mio, aspetta il suo re.
Cagliari, Mariano, ti sta aspettando; la gente sarda di
quelle parti ti sta aspettando. Tots lo vasalls per lo sennior Rey d’Arbarè.”
Me lo diceva stringendomi le mani, Timbora mia,
tutta Cagliari per me, tutta la Sardegna per me, per noi
sardi, per l’Arborea. Timbora, ti ho avuta come moglie,
ma tu eri una santa.
Certe volte penso alle cose del mondo, ai doveri di
una moglie, di un marito. A quando mi sono lasciato
andare nei palazzi di Oristano. Ai giochi che ho fatto
fare, ma sono stato uomo, e Timbora ha sempre capito.
I giochi, per accontentare tutti, per essere principi e re
in casa nostra. Correre, correre a cavallo ad infilzare stel27
prendiu. Is giogus, po accuntentai a totus, po essiri principis e reis in domu nosta. Curri, curri a cuaddu a infrissiri isteddus... ma is isteddus mius, cussus chi cantant in
celu, no si podint infrissiri.
Su tempus est prus senzeru. Cun sa chita de is buiachesus seus andaus a Seddori, sa cresia est ‘essendi bella.
Apu pregau, no m’arregodu cantu oras fia preghendi,
ma apu pregau sinzillu. Is cresias mi ponint allerghia,
finzas in su corpus. M’intendu accanta de su Sennori
miu. Deus onnipotenti, creu in d-unu Deus sceti,
Babbu de totus, faidori de su celu e de sa terra.
Mi ‘enit gana de cantai, candu seu accanta de un’altari. Cantai, a sa manera de su cuncordu, de is boxis chi
apu intendiu in is partis de su Goceanu. Poita no ant
postu is sonus de is cantoris nostus in su cartulaiu de sa
musica de Santa Crara? Nodas sacras, nodas sinzillas,
nodas de Sardigna, cantadas de is pastoris golleanus.
Candu fiat minoreddu, prima de partiri po sa
Catalunia, provau a cantai, a iscusi de Jugi Ugoni. No
‘oliat babbai, no ‘oliat, pensàt chi fessit prus bellu su
cantigu catalanu. Ma a chini nociat su birimbò sardu?,
e is sonus de cannas de Aristanis?, mancu cussus
praxiant a su Jugi babbai.
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le… ma le mie stelle, quelle che cantano in cielo, non si
possono infilzare.
Il tempo è migliorato. Con le guardie di palazzo
siamo andati a Sanluri, la chiesa sta venendo bella. Ho
pregato, non ricordo quante ore stavo pregando, ma ho
pregato sincero. Le chiese mi mettono allegria, anche
nel corpo. Mi sento accanto al mio Signore. Dio onnipotente, credo in un unico Dio, Padre di tutti, creatore
del cielo e della terra.
Mi viene voglia di cantare, quando sono vicino ad
un altare. Cantare, alla maniera del cuncordu, delle voci
che ho sentito dalle parti del Goceano. Perché non
hanno messo i suoni dei nostri cantori nel cartolaio
della musica di Santa Chiara? Note sacre, note sincere,
note di Sardegna, cantate dai soci pastori.
Quando ero piccolo, prima di partire per la
Catalogna, provavo a cantare, di nascosto dal Giudice
Ugone. Non voleva mio padre, non voleva, pensava che
fosse più bello il canto catalano. Ma a chi nuoceva il
birimbò sardo?, e i suoni di canna di Oristano?, neanche
quelli piacevano al Giudice padre.
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Sposada Timboredda, seus torraus in Sardigna, e
insaras, e insaras... eia! In is terras de Guilcier, ‘eu
Bisconti de Goceanu e de Marmilla, no mi perdia festas
e dis nodias. Un’annu, po santu Giuanni m’arregodu,
mi fia imbriagau. Imbriagau po tres o cuattru dis. Festus
cun sa chita de berruda a Santu Serafinu in Guilcier. Su
populu sanu fiat preparendi po messai. E totus baddànt,
e ci fiant is sonadoris. Timboredda, in su celu siast, perdona custu poburu peccadori, perdonamì: fia imbriagu
e m’iant intremessau in su ballu, che a brebei in sa cotti,
Timboredda, - ma deu no m’intendia angioni, o pegus
de macellu: fia in mesu de su ballu unu mascu attumbendi, - cument’a bestias a sa fini s’iant accorrau. In
s’accorru una bella arrosa frisca m’at attendiu, e po duas
dis eus fattu su chi sa natura cumandat. Dis bellas, cun
is ballus e is cantus, baddendi a lugori ‘e luna, cussas dis
m’intendia forti, rei de totu su mundu connotu, liveru
chene reis, serbidori de mei e totu e de su sennori Deus.
Is rajus de su soli nant adiosu, e mi scuriga su coru.
Passillu e passillu ancora e ancora passillu, incrarau a
Casteddu. Casteddu est aillargu, Casteddu est probianu,
Casteddu est unu tesoru. Casteddu mi parit de dd’a30
Sposata Timboretta, siamo tornati in Sardegna, e
allora, e allora... sì! Nelle terre del Guilcier, io Visconte
del Goceano e della Marmilla, non mi perdevo feste e
giorni solenni. Un anno, per san Giovanni ricordo, mi
ero ubriacato. Ubriacato per tre o quattro giorni.
Eravamo con la guardia a cavallo a San Serafino nel
Guilcier. Il popolo sano preparava per mietere. E tutti
ballavano, e c’erano i suonatori. Piccola Timbora, nel
cielo tu sia, perdona questo povero peccatore, perdonami: ero ubriaco e mi avevano messo in mezzo al ballo,
come pecora nell’ovile, Timboretta, - ma io non mi sentivo agnello, o bestia da macello: ero in mezzo al ballo
un montone cozzante, - come bestie alla fine ci avevano
rinchiuso. Nella corte una bella rosa fresca mi ha accudito, e per due giorni abbiamo fatto ciò che natura
comanda. Giorni belli, con i balli e i canti, ballando a
luce di luna, quei giorni mi sentivo forte, re di tutto il
mondo conosciuto, libero senza re, servitore di me stesso e del signore Dio.
I raggi del sole dicono addio, e mi si rabbuia il cuore.
Passeggio e passeggio ancora e ancora passeggio, con lo
sguardo a Cagliari. Cagliari è lontana, Cagliari è vicina,
31
guantai strintu in is manus. Ti portu in sa manu ’e
manca, ti stringiu a forti finzas a ti fai nai: “Pigamindi
su rey d’Aragò, beni tui a m’imprassai”.
Sa dì at arribbai: e is follas de s’arburi birdi ant a
intingi Stampaxi, Santu Miali, Bonari, Lapola e is stanis
de Quartu giossu. Sa dì at arribbai, Marianu, ma tui no
ddas a biri. Fillus tuus, is fillus de fillus tuus, chini,
Ugoneddu? Is fillus de Leonora? De Beatrici? Marianu,
pensa a morri chene essiri ferenau.
Is mudas andant e benint. Is armas funt a postu.
Contu is ballestreris, mi fidu sceti de is sardus, e mi
parint pagus. Totu su trigu de Sardigna, est arricca de
messaius sa terra mia, iat a depi capi in d-una bidda, po
ddu tenni beni tentu, atesu de is anemigus. Ma su rennu
est arriccu e is terras funt prenas: su trigu e s’orxu prenint Murreali, Aristanis, Bosa e Burgos. Perdu Rey, no
ndi pappas de pani de s‘Arbarea; torrainci in is lacanas
de s’oremari de Catalunia, sennoris Carròz, Canelles,
Cespujades, Meschal... e totus is atrus meris de
Sardigna, a mari, a is piscis, atru che feu, a presoni!
Is molas girant, is feminas cantant. Is ominis andant
32
Cagliari è un tesoro. Cagliari mi sembra di tenerla stretta nelle mani. Ti porto nella mano sinistra, ti stringo
forte fino a farti dire: “Portami via il re d’Aragona, vieni
tu ad abbracciarmi”.
Quel giorno arriverà: e le foglie dell’albero verde tingeranno Stampace, San Michele, Bonaria, Lapola e gli
stagni di Quartu di sotto. Quel giorno arriverà,
Mariano, ma tu non lo vedrai. I tuoi figli, i figli dei tuoi
figli, chi, Ugoneddu? I figli di Eleonora? Di Beatrice?
Mariano, pensa a morire senza essere incollerito.
Le mute vanno e vengono. Le armi sono a posto.
Conto i balestrieri, ho fiducia solo nei sardi, e mi sembrano pochi. Tutto il grano della Sardegna, è ricca di
massai la mia terra, dovrebbe starci in un villaggio, per
tenerlo ben curato, lontano dai nemici. Ma il regno è
ricco e le terre son piene: il grano e l’orzo riempiono
Monreale, Oristano, Bosa e Burgos. Pietro Rey, non ne
mangi pane dell’Arborea; tornatevene nei confini delle
coste di Catalogna, signori Carròz, Canelles,
Cespujades, Meschal… e tutti gli altri padroni della
Sardegna, a mare, ai pesci, altro che diritto, in prigione!
Le mole girano, le donne cantano. Gli uomini
33
e benint: is mudas funt stancas. Cun sa chita andu a is
aquas, sa basca est bincendi a totus. Candu fait basca
meda, sa morti parit chi siat in su castiu. Mi giru apetotu, ma morti no ndi biu: po oi seu ancora Marianu,
po sa gratzia de Deus.
Ia a podi andai a Serravalle, su castru de Bosa, a cambiai airi. Bagnus salius. Su celu perou mi parit diversu.
Custus isteddus imprassant totu su rennu, is astrus...
candu castiu is astrus mi parint steddus chi siant arruendinci a mari: andant faci a is terras de su Rey, a portai
lugori. Ndi tenit abisongiu.
Mi intendiai forti, cussas dis, in is terras de
Catalunia, aguantendi su murrali de su cuaddu de
Pedru. Cussu puru apu fattu: su murrali de su cuaddu
tuu, Perdu sennori de is terras de is atrus.
No fia sanu, insaras. No m’intendia beni, e fia po
morri. Morri in logu allenu, e ita dannu po su coru miu.
Morri e morri in logu allenu. Annogratzias, torru gratzias a is dottoris sardus, torru gratzias a Tui, su Sennori
chi mi castias de ingunis, in mesu de is isteddus. Oh
Deus, Deus, poita m’intendu is sentidus sbuidus? Poita
seu de mala cara?
34
vanno e vengono: le mute sono stanche. Con la guardia
di palazzo vado alle acque, il caldo sta sopraffacendo
tutti. Quando fa molto caldo, la morte sembra che sia
di guardia. Mi giro dappertutto, ma morte non ne vedo:
per oggi sono ancora Mariano, per grazia di Dio.
Potrei andare a Serravalle, il castello di Bosa, per
cambiare aria. Bagni salati. Il cielo però mi sembra
diverso. Queste stelle abbracciano tutto il regno, gli
astri… quando guardo gli astri mi sembrano stelle che
stanno per cadere in mare: vanno verso le terre del Rey,
a portare luce. Ne ha bisogno.
Mi sentivo forte, quei giorni, nelle terre di
Catalogna, tenendo le redini del cavallo di Pietro.
Anche quello ho fatto: il morso del tuo cavallo, Pietro
signore delle terre altrui.
Non ero sano, allora. Non mi sentivo bene, e stavo
per morire. Morire in un posto straniero, e che danno
per il mio cuore. Morire e morire in luogo straniero.
Grazie, ringrazio i dottori sardi, ringrazio Te, Signore
che mi guardi da lì, in mezzo alle stelle. Oh Dio, Dio,
perché i miei sentimenti sono vuoti? Perché sono
inquieto?
35
Apu postu a menti a su serbidori miu. Pregai m’at a
fai beni. Torru a bandai cun sa chita a Seddori, sa cresia
est giai acabada. Pregu. Pregu po mei, po Giuanni e po
Perdu nostu. Tui puru Perdu nostu m’as ‘offiu lassai.
Cument’a babbu tuu, cument’a mamma tua. Perdu de
is Bas e de is Serras, in su celu siast.
Candu ‘oliat fai su rennu mannu, Perdu de Aragò
t’iat cundulliu. In Casteddu ti ddui praxiat, ma ‘oliast
torrai meri in domu mia, Perdu nostu, e no ddu sciast
ca Marianu est serbidori de Deus e ‘olit essiri sennori de
Sardigna. Su rei miu est camminendu in pari cun su
fillu e su spiridu santu. Connosciu sceti cussu de rei.
Su cuaddu no ddu supportu prus.
“Atzit, d’aggiudu ‘eu. No timat su Jugi miu, imperrit, s’egua est maseda.”
Is serbidoris funt sa cosa prus preziosa chi teneus.
S’assimbillant totus. Custu assimbillat a Giuanni de
Uda, tanti est premurosu. S’Arbarea, sa domu nosta, at
tentu sempri bonus serbidoris, siat sardus che foresus.
“D’aggiudu ‘eu, no timat”, mi narat passenziosu.
Fortzis si ddu pensant ca seu maladiu, eppuru sperant
chi m’aderezzi. Seu andendimindi, e custu dispraxit a
36
Ho dato retta al mio servitore. Pregare mi farà bene.
Rivado con la guardia di palazzo a Sanluri, la chiesa è già
finita. Prego. Prego per me, per Giovanni e per il nostro
Pietro. Anche tu Pietro nostro mi hai voluto lasciare.
Come tuo padre, come tua madre. Pietro dei Bas e dei
Serra, nel cielo tu sia.
Quando voleva fare grande il regno, Pietro d’Aragò
ti convinse. A Cagliari ti piaceva starci, ma volevi tornare padrone in casa mia, Pietro nostro, e non sapevi
che Mariano è servitore di Dio e vuole essere signore
della Sardegna. Il mio re sta camminando con il figlio e
lo spirito santo. Conosco solo quello di re.
Il cavallo non lo sopporto più.
“Monti, l’aiuto io. Non abbia timore Giudice mio,
sieda, la cavalla è mansueta.”
I servitori sono la cosa più preziosa che abbiamo. Si
assomigliano tutti. Questo assomiglia a Giovanni di
Uta, tanto è premuroso. L’Arborea, la nostra casa, ha
avuto sempre buoni servitori, sia sardi che forestieri.
“L’aiuto io, non abbia paura”, mi dice con pazienza.
Forse immaginano che sono malato, eppure sperano che
mi raddrizzi. Me ne sto andando, e questo dispiace a
37
totus is fradis mius sardus. Mi dd’auguru, Marianu, mi
dd’auguru.
Seu stetiu pesau in mesu de appariccius de reis, ma
‘eu a cussas cosas no nc’apu mai tentu tanti. Mi toccàt a
ddu fai, po s’amarolla (cumenti a is Ordinamentus
iscrittus po su bonu stadu de sa genti nosta), ma sa cosa
prus bella chi m’est capitada est stetia sa fuidura. Candu
lassau sa pratza de sa Majoria e mi nd’andau, cun is amigus prus carus. Stia beni sceti candu is cuaddus lassànt
Porta a Pontis agoa de una scantu terras. A curri, a curri
faci a su burgu, a su boscu, cussu mi praxiat diaderus de
sa vida mia de Jugi.
Nottesta s’intendint cuccumeus, ma parint dimonius. Mi parit de torrai a is nottis leggias de Aristanis.
Ugoni fiat aillargu e su gubernadori pensàt de podi
intrai in domu mia. Ndi ddus eus sperdius, Aristanis no
si toccat, Perdu: Casteddu si podit toccai. Scrillitus de
animas pendias a deì, attitidus de animas mortas a
denotti.
No ddu sciu poita no m’aggradesant custus sonus de
sa natura, eppuru funt sonus de Deus, pretziosus de
santu Franciscu, naràt su para miu...
38
tutti i miei fratelli sardi. Me lo auguro, Mariano, me lo
auguro.
Sono stato allevato in mezzo ai fasti regali, ma io a
quelle cose non ho mai tenuto molto. Mi toccava farlo,
per forza (come gli Ordinamenti scritti per il buono
stato della nostra gente), ma la cosa più bella che mi è
capitata è scappare. Quando lasciavo piazza de sa
Majoria e me ne andavo, con gli amici più cari. Stavo
bene solo quando i cavalli lasciavano Port’a Pontis
indietro di alcune terre. Correre, correre verso il borgo,
nel bosco, quello mi piaceva veramente della mia vita di
Giudice.
Stanotte si sentono civette, ma sembrano demoni.
Mi sembra di tornare alle brutte notti di Oristano.
Ugone era lontano e il governatore pensava di poter
entrare in casa mia. Li abbiamo annientati, Oristano
non si tocca, Pietro: Cagliari si può toccare. Strilli di
anime sospese di giorno, nenie di anime morte di notte.
Non so perché non gradisca questi suoni della natura, eppure sono suoni di Dio, preziosi a san Francesco,
diceva il mio frate…
39
Totu mi ‘onat fastidiu: is animalis, is ominis, is
cosas, is isteddus, is iscritturas... s‘Evangeliu...
s’Evangeliu… No ddu supportu chi su Sennori nostu
siat mortu aici, po nudda, po nosu peccadoris: e nosu
no dd’eus arrecumpensau; nosu no dd’eus aggradesiu.
Chi ia pozziu, ap’essiri ‘onau su coru, po Gesusu.
Gruxiadas? Centu, milli! A sa Sennora lodada terramannesa si dd’apu fattu sciri: ia a donai totu su chi tengu,
po sa domu de Gesusu. Seu unu rei, seu Marianu su
sardu, devotu de Maria, de Gesusu, de s’Evangeliu.
Sa cresia de Seddori est unu gosu. Ddui seu torrau
cun san chita a pasiu. Seddori, m’arregodat is ominis chi
iant giurau po su rennu de s’Arbarea. Seddori, sa furca,
s’omini impiccau... no, no, no: a foras is pantasimas!
Sa cappella de Sant’Aingiu est incumenzada. M’iat a
praxi chi is sardus adorantis s’arregodesint de sa famillia
de is Serras, de s’Arbarea, castiendu sa bovida, faci a su
celu. Assumancu is facis nostas in sa cappella ddui
dexint. Deu e su fedu cosa mia, candu unu crasi ant a
cumandai issus. Deu no dd’ap’a connosci de siguru, su
traballu accabau. Ugoneddu, fortzis, Ugoni, su donnikellu cosa mia. At essiri Jugi bonu che a su nonnu?,
che a su tziu?, che a su babbu?
40
Tutto mi infastidisce: gli animali, gli uomini, le cose,
le stelle, le scritture… il Vangelo… il Vangelo. Non sopporto che il nostro Signore sia morto così, per niente,
per noi peccatori: e noi non l’abbiamo ricompensato;
noi non l’abbiamo gradito.
Se avessi potuto, avrei dato il cuore, per Gesù.
Crociate? Cento, mille! Alla Signora lodata continentale gliel’ho fatto sapere: darei tutto quello che ho, per la
casa di Gesù. Sono un re, sono Mariano il sardo, devoto di Maria, di Gesù, del Vangelo.
La chiesa di Sanluri è una delizia. Ci sono tornato
comodamente con la guardia di palazzo. Sanluri, mi
ricorda gli uomini che hanno giurato per il regno
dell’Arborea. Sanluri, la forca, l’uomo impiccato… no,
no, no: fuori i fantasmi!
La cappella di San Gavino è iniziata. Mi piacerebbe
che i sardi credenti si ricordassero della famiglia dei
Serra, dell’Arborea, guardando il soffitto, verso il cielo.
Almeno i nostri volti nella cappella ci stanno bene. Io e
i miei figli, quando un domani comanderanno loro.
Non lo conoscerò di sicuro, il lavoro finito. Ugoneddu,
forse, Ugone, il mio donnicello. Sarà buon Giudice
come il nonno?, come lo zio?, come il babbo?
41
Is aquas de Santa Maria mi faint beni. Casteddu e su
mari suu funt aillargu, ‘eu m’intendu beni innoi. Mi seu
arregodau de candu, giovoneddu, mi sciundia in is
arrius in giru po su Goceanu. Fia su meri, insaras, e mi
pariat de intendi totu is terras cumenti chi fessint mantas sterrias po mi ddui croccai.
Mi biu ingenugau in is peis de sa Madonna santissima: deu donnikellu, cun sa spada vicicomitali... preghendu, preghendidda a Maria. Bellu retaulu! Su maiustu terramannesu iat pintau con is manus cumandadas
de Deus!
Su tempus est passendi, mi nd’accattu castiendi sa
genti chi m’aggiriat: mi parint fadiaus, no scint
cument’est su Jugi insoru. Pensai a Casteddu mi stancat... eccus, ddui torru: Casteddu. Medas cosas apu
fattu giustas in sa vida mia. Medas e no pagus. Custa iat
essiri una de is prus mannas: Casteddu ‘olit nai
Sardigna, Marianu, ‘olit nai su chi as sempri pensau in
is intragnas tuas: sa natzioni sarda. Marianu aguanta
imoi, aguanta, aguanta.
Oi seu a sa perdia. Mi parit de portai unu bungiu in
su zugu, asutta ‘e s’origa: no narat nudda de bonu.
42
Le acque di Santa Maria mi fanno bene. Cagliari e il
suo mare sono lontani, io mi sento bene qui. Mi sono
ricordato di quando, giovincello, mi bagnavo nei fiumi
in giro per il Goceano. Ero il padrone, allora, e mi sembrava di sentire tutte le terre come se fossero coperte
stese per coricarmici.
Mi vedo inginocchiato ai piedi della Madonna santissima: io donnicello, con la spada vicecomitale… pregando, pregandola Maria. Bel retablo! Il maestro continentale dipinse con le mani guidate da Dio!
Il tempo sta passando, me ne accorgo guardando la
gente che mi attornia: mi sembrano stanchi, non sanno
com’è il loro giudice. Pensare a Cagliari mi stanca…
ecco, di nuovo: Cagliari. Molte cose ho fatto giuste nella
mia vita. Molte, non poche. Questa sarebbe una delle
più grandi: Cagliari vuol dire Sardegna, Mariano, vuol
dire quel che hai sempre pensato nel tuo intimo: la
nazione sarda. Mariano tieni duro adesso, tieni, tieni.
Oggi sono distrutto. Mi sembra di avere un bozzo
nel collo, sotto l’orecchio: non dice niente di buono.
43
Marianu Jugi de s’Arbarea, ballestreris po binci sa maladia chi connoscis, no ndi tenis.
Sa basca, sa basca, est ‘occendimì. Triulas de fogu!
No pozzu giai giai mancu scriri. Ita doloris funt?
Poita is aquas chi primas mi fiant beni imoi no mi
sanant? Depu torrai a is cosas mias... su cerbu, su leoni...
sa pregadoria a brebus... no! Seu sanu, seu sanu, depu
essiri sanu!
Nottesta apu bisau. Fia pascendi brebeis, crabas e
cuaddus. Fia pascendi in d-unu monti chene erba,
chene materiu, chene vida, de unu bellu colori de prata.
Ma is animalis pappànt. Portau unu leoni cumenti chi
fessit unu cani: mi passillàt accanta. Un’atra bestia, chi
assimbillàt a unu boi, mi spingiàt faci a unu logu deanca ddui fiat unu padenti mannu mannu. Poi, is brebeis funt sparessias, ingurtias de sa terra, totu is animalis funt sparessius, seu abarrau a solu.
Una boxi de su padenti mi zerriàt: “Marianu,
Marianu, est s’ora, est s’ora, lassa is terras de Sardigna,
beni a ti pasiai asutta de custas mattas”. Intendia ancora
sa boxi, ma fiat su serbidori chi ‘oliat sciri cumenti stia.
44
Mariano Giudice dell’Arborea, balestrieri per vincere la
malattia che conosci, non ne hai.
Il caldo, il caldo, mi sta uccidendo. Luglio di fuoco!
Non posso quasi quasi neanche scrivere. Che dolori
sono? Perché le acque che prima mi facevano bene adesso non mi guariscono? Devo tornare alle mie cose… il
cervo, il leone… le preghiere con le formule… no! Sono
sano, sono sano, devo essere sano!
Stanotte ho sognato. Stavo pascolando pecore, capre
e cavalli. Pascolavo in un monte senza erba, senza piante, senza vita, di un bel color argento. Ma gli animali
mangiavano. Avevo un leone come fosse un cane: mi
passeggiava accanto. Un’altra bestia, che assomigliava ad
un bue, mi spingeva verso un luogo dove c’era un bosco
grande grande. Poi, le pecore sono sparite, inghiottite
dalla terra, tutti gli animali sono spariti, sono rimasto
solo.
Una voce dal bosco mi chiamava: “Mariano,
Mariano, è l’ora, è l’ora, lascia le terre della Sardegna,
vieni a riposare sotto questi alberi”. Sentivo ancora la
voce, ma era il servitore che voleva sapere come stavo.
45
Custas erbas… custas erbas de su stani saliu, custas
erbas ferenadas po fai torrai cinixu su chi est stetiu
omini biu. E custu calixi benedittu po torrai s’anima a
su Babbai de totus, po mi torrai a ponni in is manus de
Deus.
M’intendu unu fugadoni aintrus, ma imoi mi ‘ollu
torrai a dromiri, bai e cica chi no ap’a sonnai su padenti, s’arburi birdi…
S’arburi birdi... s’arburi birdi… Marianu, adiosu.
46
Queste erbe… queste erbe dello stagno salato, queste erbe velenose per far ridiventare cenere quello che è
stato uomo vivente E questo calice benedetto per restituire l’anima al Padre di tutti, per rimettermi nelle mani
di Dio.
Mi sento un grande fuoco dentro, ma adesso voglio
riaddormentarmi, chissà che non sogni il bosco, l’albero verde…
L’albero verde… l’albero verde… Mariano, addio.
47
Postilla dell’autore
k
P
rima o poi si fanno i conti con il proprio passato,
così spesso si dice. Forse è vero, o almeno è in
parte vero per quel che mi riguarda.
Di Mariano IV d’Arborea conosco quel che in genere si conosce. Ho seguito le poche tracce rimaste di questo giudice nelle lettere, nei dipinti e nei volti scolpiti
delle chiese, nel silenzio e nei panorami mozzafiato dei
castelli. Così ho girato in lungo e in largo per l’isola a
cercare i luoghi di Mariano: immaginare il giudice nelle
terme di Sardara, nel castello di Monreale e nella campagna di Sanluri; scrutare i peducci raffiguranti
Mariano IV, Eleonora e gli altri regnanti dell’Arborea
nella cappella palatina di San Gavino martire a San
Gavino Monreale; visitare il monastero e la chiesa di
49
Santa Chiara ad Oristano con i resti del suo affresco,
dove Mariano, ancora donnikellu, mostra il figlio Ugo;
andare in cerca dell’effige di Mariano IV nella chiesa di
San Serafino a Ghilarza (un luogo così caro anche a
Gramsci!); ammirare i colori del polittico di scuola giottesca della chiesa di Ottana; salire entusiasta verso i
castelli di Burgos e di Serravalle a Bosa; incantarmi,
quasi quotidianamente, allo sky line cagliaritano di
Castello; girovagare più volte, infine, nell’affascinante
barri gòtic dell’Alguer.
Ho messo insieme, quindi, una personale documentazione fatta di suggestioni sinestetiche, che ho tentato
di trasportare nella pagina scritta. La Sardegna sembra
sconfinata, vista da certe angolazioni; sembra senza
tempo, se si ascoltano con attenzione i suoni che la circondano. E tra questi suoni e i silenzi non meno significativi della terra, ho pensato che una morte socratica
restituisse una certa “regalità” al giudice malato.
La lingua sarda che ho usato è il campidanese che
viene direttamente dagli insegnamenti avuti nella mia
Dolianova, nonché da quelli dei nostri scrittori sardi più
significativi: Benvenuto Lobina per tutti. Ma se oggi
50
dovessi riscrivere il racconto, probabilmente opterei per
la lingua sarda unificata. Il sardo usato da Mariano nelle
sue lettere e nei suoi ordinamenti era infatti un sardo
unificante. E non è poco se si pensa che una nazione
nasce prima linguisticamente anzi che politicamente.
Nelle lettere di Mariano c’è anche questo lascito linguistico straordinario. Un monito per i sardi, che a
tutt’oggi, dopo quasi settecento anni, non è stato
ancora accolto.
“Memorias de Marianu” ha ricevuto nel 1998 il premio Alziator di letteratura sarda nella sezione Contus.
Della giuria facevano parte, tra gli altri, Faustino Onnis,
Giulio Paulis e Aquilino Cannas. Rispetto a quel testo
premiato, ho apportato solo poche, insignificanti modifiche.
L’ultimo sforzo è stato, finalmente, quello di tradurre
il racconto in italiano, e di preparare la nota dell’editore.
51
Indice
k
5
Nota dell’editore
10
Memorias de Marianu
11
Memorie di Mariano
49
Postilla dell’autore
© 2004
Aip s a E d i z i o n i
via dei Colombi 31
09126 Cagliari
tel. 070306954
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Progetto editoriale, copertina, grafica e impaginazione
Aip s a E d i z i o n i
Finito di stampare nel mese di luglio dell’anno 2004
I S B N 8 8 -8 7 6 3 6 - 58 - 3