La spiritualità di Cluny
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La spiritualità di Cluny
La spiritualità di Cluny Novalesa, 15 agosto 2010 Introduzione Tramite le informazioni offerteci nel corso delle conferenze scorse abbiamo avuto la possibilità di farci un’idea abbastanza ricca del “fenomeno” Cluny: le linee essenziali dell’evoluzione storica della riforma monastica partita da questo monastero borgognone, l’impianto architettonico che ha disegnato lo spazio sacro entro il quale i suoi monaci vivevano e operavano, l’arte soprattutto scultorea e pittorica che da esso ha preso ispirazione, per finire con la presentazione della figura di Adraldo. Ora vorremmo andare a quello che potremmo chiamare il “cuore” da cui promana tutto ciò che abbiamo enumerato: Cluny non era un centro di studiosi di arte e neanche un gruppo politico di pressione, tendente a orientare la storia. Cluny era anzitutto un luogo in cui abitavano delle persone animate da un forte ideale e che per questo ideale vivevano e che da questo ideale erano spinti a realizzare tutto ciò che hanno potuto fare. Cercheremo dunque di vedere più da vicino questo “ideale” cluniacense, questo cuore pulsante che sta dietro a tutte le diverse manifestazioni della civiltà cluniacense. Man mano che pensavo quanto avrei potuto dire nel corso di questa conferenza e che lo mettevo per iscritto, mi accorgevo che per dare un quadro abbastanza completo avrei dovuto avere a disposizione un corso intero… tante sono le cose interessanti da dire! Quel che posso tentare di fare è offrire solo un saggio, forse meglio un “assaggio”, del nostro argomento. A voi il giudizio, se riuscirò in questo umile intento! Questo saggio lo affronto attraverso tre passaggi, che solo presi insieme possono dare un’idea di quanto vogliamo cercare di comprendere. Mi sono rifatto soprattutto alla vita e all’insegnamento dei grandi abati di Cluny, tutti grandi, anche se ognuno segnato da un particolare carisma: «Se Oddone è degno di nota anzitutto per la santità e l’ardore, Maiolo per il suo vigore e il suo coraggio, Odilone per la sua finezza e la sua energia, Ugo per il senso dell’autorità, Pietro il Venerabile è soprattutto l’uomo della moderazione e della sapienza… del dialogo, aperto agli altri, attento ad ascoltarli e a comprenderli»1. A. Concezione della vita monastica Con l’atto di fondazione Guglielmo, conte di Mâcon e duca di Aquitania, consapevole che il possesso delle ricchezze debba essere volto all’acquisto dei beni eterni, dona un suo possedimento – quello di Cluny appunto – affinché vi abitino dei monaci che vivano secondo la Regola di san Benedetto. E affinché tale istituzione possa davvero essere fedele al suo programma di vita, stabilisce che nessun potere laico o religioso avrà mai l’autorità di intromettersi nelle faccende interne della comunità monastica e di arrecare danno ai beni di cui essa è stata dotata. Cluny è allora, nelle intenzioni del suo fondatore, anzitutto un monastero nel quale dei religiosi vivono secondo la regola benedettina. E proprio affinché un tale intento possa essere raggiunto, affida a Bernone, abate di Gigny e di Baume, l’incarico di guidare la nuova fondazione monastica. Una tale scelta non è casuale: Bernone infatti entrò ancor giovane nel monastero di San Martino di Autun, riformato secondo le indicazioni di Benedetto di Aniane. Più tardi, verso l’885-888, si sposterà con alcuni compagni a Gigny, suo possedimento familiare, in cui stabilisce il medesimo ordinamento regolare. Si tratta dunque di un abate riformatore, ispirato dalle linee guida tracciate nel Capitulare monasticum del 817. Cluny si inserisce in questo movimento di riforma, orientato ulteriormente ad affrontare le problematiche condizioni in cui versava il monachesimo in 1 M. PACAUT, L’Ordre de Cluny, Fayard, Paris 1986, p. 205. quest’epoca di sfaldamento inoltrato dell’impero carolingio (controllo delle abbazie da parte di autorità laiche, adempimento di funzioni di per sé estranee al carisma monastico [come scuole], invasioni normanne, magiare e saracene). 1. Nel nome di san Benedetto Sappiamo che fu sotto i monarchi carolingi e con l’opera riformatrice di Benedetto di Aniane che i numerosissimi monasteri europei furono indotti ad adottare la Regola benedettina. Prima vigevano anche altre osservanze monastiche. Benedetto di Aniane svolse un’azione tanto politica quanto culturale di convincimento della bontà, anzi dell’eminenza del Codice cassinese (vedi la sua Concordia Regularum). Iniziata con Gregorio Magno, la rivalutazione di Benedetto da Norcia giunge proprio in questi secoli al suo compimento. Solo ora i monasteri si gloriano di essere “benedettini”. Cluny è penetrata – e questa costituisce una prima fondamentale caratteristica della sua spiritualità – dal desiderio di vivere la Regola che un così gran santo ha lasciato. Di Odone, successore di Bernone come abate di Cluny (927-942), ci rimane un sermone in onore di san Benedetto in cui traspare l’esaltazione cui venne innalzato il patriarca del monachesimo occidentale agli occhi dei monaci riformatori: egli non è l’unico grande monaco, ma eccelle su tutti gli altri: solo lui è paragonabile a Mosè. Questi «persuade il popolo ebreo oppresso a uscire dall’Egitto; l’altro prende delle falangi che strappa dalle tenebre dei loro desideri carnali, per condurle verso la terra dei viventi. Mosè sottomette alla legge il carattere difficile dei Giudei; san Benedetto si rivolge alla massa dei suoi monaci, costituendo di essi una sola persona poiché formano un cuore solo». Soprattutto però Benedetto viene detto nuovo Mosè in quanto anch’egli è stato legislatore. Ha dettato “norme di vita”, ha consegnato una “disciplina celeste”, cioè discesa dal Cielo che riassume in sé tutto il meglio delle altre Regole. Pietro il Venerabile giungerà a dire che è lo Spirito Santo ad aver ispirato la Regola (Lettera 111 a Bernardo di Chiaravalle). Odone afferma poi che Benedetto, proprio per aver ricondotto innumerevoli religiosi di ambo i sessi all’osservanza della sua Regola, è l’imperator, che guida le schiere dei monaci alla lotta. Cf «Quis unquam rex aut imperator in tantis mundi partibus imperavit, aut ex tam diversis nationibus sibi tantas legiones conduxit, quantas videlicet iste, cujuslibet sexus et aetatis in Christi militia, voluntarie juratas disponit ?» (PL 133,729A). Ma si tratta di un testo da osservarsi sine glossa? Pietro il Venerabile affronterà direttamente questo problema, nel confronto con l’emergere del “nuovo” monachesimo di Cîteaux e specialmente con il suo corifeo Bernardo di Chiaravalle. Egli farà capire che la Regola può e deve essere “interpretata” in funzione della salvezza delle anime e in nome della carità. Si consideri il seguente pregnante suo testo: «Nella Regola non c’è quasi nessun precetto che non abbia una qualche condizione aggiunta e che non preveda il giudizio moderatore dell’abate […] Tali sono infatti precetti mutabili e quando la carità comanda sono da mutare senza alcun timore di trasgressione. Né si deve sospettare in questo caso una violazione della Regola in coloro che la professano, perché la Regola di quel santo padre dipende da quella sublime regola generale della carità, dalla quale e nella quale, secondo le parole della verità, dipendono tutta la legge e i profeti. Che se questa è una legge universale, allora è anche la legge di quella Regola. Il monaco dunque che professa la Regola del padre Benedetto, la osserva davvero quando in qualunque dei suoi capitoli, mantenuti o mutati, conserva ovunque la legge della carità» (Lettera 111 a Bernardo di Chiaravalle). 2 2. L’ideale spirituale del monaco Distacco e desiderio del Cielo Vorrei partire da un testo significativo – anche se lungo, composto da uno dei grandi abati cluniacensi, Odone, Epitome dei Moralia di Gregorio Magno: «I santi in questo mondo temono di più la prosperità che l’avversità. Essi sanno in effetti che le angosce che li opprimono li eccitano per ciò stesso a desiderare il cielo, dove troveranno il riposo beato. Quando invece tutto va loro bene, allora si turbano, hanno un dubbio: questo premio terreno li priverà forse delle ricompense interiori? Perciò si allontanano da queste comodità, le considerano nocive, dal momento che sanno perfettamente che i favori terreni li lusingano per distoglierli da quell’altra dolcezza che viene dall’alto. Sanno che quando l’anima è tutta intenta nell’esteriorità si paralizza, senza che si possa neanche accorgere di quanto le sta avvenendo. Tutta la felicità che passa, per quanto possa essere seducente, vale poco a giudizio degli uomini perfetti, proprio perché passeggera, mentre essi tendono verso un’altra gioia, che non avrà mai fine. Si presenta un successo? Non si montano la testa. Una disavventura si abbatte su di loro? Non la temono. Usano dei beni temporali come un viaggiatore approfitta dell’ombra dove stende il suo letto improvvisato: il suo corpo riposa, ma il suo spirito è già in marcia, desiderando partire. Così i santi evitano di fermare il cammino del loro cuore in beni provvisori, temendo che il piacere del percorso non li escluda dalla dimora eterna. Vogliono, sì, essere felici, ma dove è la vera felicità; è per questo che rifiutano di essere felici lungo le tappe del loro pellegrinaggio. Ma ahimé ci sono al contrario che trascurano se stessi, correndo dietro ai beni di questo mondo, non capendo quanto valgano i beni eterni […] Si attardano in questa terra straniera dove sono caduti. Amano come fosse la loro patria questo esilio che non è che inganno Sì, perché la nostra vita presente è un viaggio, che ci porta al Paradiso. Quando vi troviamo riposo e piacere, potremo essere tentati di prolungare il tragitto, piuttosto che di arrivare rapidamente […], di amare la via al posto della patria […]. Come il cacciatore, una volta che ha scorto le tracce, le abbandona per inseguire la preda, senza attardarsi a contemplarle, così anche noi faticheremmo invano, se ci attardassimo troppo in ciò che passa. Tutto quello che dà gioia in questo mondo non è che un segno che ci attira alla felicità del cielo. Non dilettiamoci dunque coi beni della terra, ma con quelli che meritano veramente il nostro ardente desiderio». A partire da questo testo, vorrei evidenziare tre aspetti che ci aiuteranno a comprendere la spiritualità monastica cluniacense: 1) il contesto culturale: la visione antropologica che impregna di sé la cultura religiosa carolingia risulta segnata dalla forte coscienza della inconsistenza e fragilità dei beni terreni, dal senso acuto del peccato e dalla conseguente necessità di affrancarsene con la contrizione e le opere penitenziali. 2) la persuasione che è utile e salutare distaccarsi da questo mondo terreno, un mondo o contrassegnato da violenza e cupidigia (cf riferimento alle condizioni storiche: incursioni e emergenza delle signorie feudali); o considerato pieno di insidie morali, mosso da passioni, e quindi rischioso; allettante e seducente, ma tale da portare al peccato e alla lontananza da Dio. 3) l’anelito al Cielo: il Cielo, oggetto del desiderio del monaco, è la “patria” in cui non ci saranno più “lutto, lamento, dolore e affanno”; la dimora dei santi che di là ci attendono; il “paradiso” delle delizie, in cui poter contemplare e godere di Dio e della sua perenne vicinanza. La gioia di questo Cielo già ora il monaco la pregusta nel corso della liturgia, con la quale ci si associa al coro osannante degli angeli e si partecipa al canto eterno che risuona nelle sedi celesti. 3 Emerge dunque una concezione del monachesimo – ma direi ancor prima della vita cristiana – come segnata dalle dimensioni del distacco dal mondo e dal desiderio del Cielo. Pietro il Venerabile parlerà di «disprezzo del mondo e amore delle cose celesti» (Lettera 58 a Pietro di Poitiers). Lotta In testo poco sopra citato, paragona la fugacità dei beni terreni con l’eternità di quelli celesti, e quindi spinge a compiere una scelta appropriata: non fermarsi sui primi, correre col desiderio e la vita santa verso i secondi. Eppure i monaci cluniacensi sapevano bene, una volta compiuta questa scelta, quanto fosse difficile rimanervi fedeli: i beni di quaggiù, sebbene perituri e fragili e, anzi, pericolosi in rapporto alla salvezza eterna dell’uomo, attirano così tanto! Ecco allora che si disegna il cammino del monaco non solo come un pellegrinaggio dalla terra al Cielo, ma anche come un combattimento. È un tema caro alla tradizione cluniacense. Cito un testo tra tutti, tratto dall’epistolario di Pietro il Venerabile: «Irrompe a capofitto sul monaco [eremita] la schiera di molteplici tentazioni, e correndo qua e là come in una casa vuota e non occupata, la folla dei vizi viene a turbare con grida confuse ogni cosa. Nella piccola cella viene a rinchiudersi il mondo intero e un recinto capace appena di contenere un uomo abbraccia le città e i regni di molte terre. Una tranquillissima quiete diventa un tumulto turbolento, e poiché i sensi del corpo non incontrano se non solitudine, il mondo si offre agli occhi dell’anima con tutte le sue cose» (Lettera 20 a Gilberto, recluso). Il vero monaco Nonostante il pericolo di soccombere e quindi di essere un monaco mediocre, sempre ancora all’inizio del suo percorso di conversione, l’ideale che nutrono i Cluniacensi di questo genere di vita che essi hanno abbracciato è davvero altissimo: essere monaco – dicono le consuetudini cluniacensi, redatte su iniziativa dell’abate Odilone – «è vivere sempre con il Signore e appartenere a lui; vivere con un corpo casto, per cui sarà sempre amato dal Signore, essere silenzioso, umile, dolce e benevolo, paziente, sobrio, prudente e pio, ardente e docile, saggio e pieno di timore e di compunzione». Le virtù monastiche per eccellenza Questo il quadro generale del monaco ideale. Permettetemi adesso di mettere a fuoco alcuni dettagli; contribuiranno a cogliere ancora meglio l’ideale che animò la riforma borgognona. Odone, su invito di Ugo il Grande, duca dei Franchi, intraprende la riforma del famoso monastero di Saint-Benoît-sur-Loire (Fleury). L’accoglienza da parte dei monaci non fu conforme certamente alle regole dell’ospitalità: chiusero le porte – come riferisce la vita del santo abate redatta da Giovanni di Salerno, si appostarono sui tetti, armati di pietre per respingere il nuovo arrivato. Conquistati infine con la mitezza, Odone propose loro il suo piano riformatore. Prosegue il suo biografo: «Cominciò a consigliare di rinunciare all’assunzione di carne, di vivere moderatamente e di non possedere nulla in proprio: alla maniera degli apostoli, dovevano rinunciare davanti a tutti a quei beni che possedevano di nascosto»2. Notiamo in particolare l’insistenza su alcuni punti: o la povertà, considerata come la modalità attraverso la quale i monaci possono vivere “alla maniera degli Apostoli”, cioè secondo il modello offerto dalla prima comunità cristiana, dove i fratelli mettevano ogni cosa in comune e avevano un cuor solo ed un’anima sola. I monaci si rifanno e desiderano imitare questa prima e fervorosa comunità apostolica, nata agli albori della diffusione del Vangelo; costituiscono la cellula più pura della Chiesa; 2 GIOVANNI DI SALERNO , Vita Odonis, III,9. 4 o Odone poi invita all’astensione dalle carni. Ora un tale uso, oltre al significato penitenziale che racchiude, rimanda al proposito di rinunciare al mondo, specialmente quello dei ricchi e dei potenti, i quali potevano soddisfare la loro fame con prelibate vivande, dove primeggiava per importanza la carne. Inoltre, come indica la ripresa da parte di Odone dell’esegesi di san Girolamo (Collationes, II,18: PL 133,564-565), il non mangiare carne simboleggia la condizione paradisiaca, allorché l’uomo si nutriva solo di vegetali. Nel paradiso terrestre egli soprattutto viveva in amicizia con Dio. Astenersi dalle carni allude pertanto a questa condizione beata di intimità col Signore, che il monaco mira a vivere. Odone in tal modo induce a identificare il monaco con Adamo prima del peccato, oltre che ad accostarlo alla prima comunità dei cristiani nata dall’atto con cui il Salvatore ha cancellato il peccato del mondo. Pietro il Venerabile ricorda come sia importante, più che l’osservanza materiale dei precetti o dei doveri monastici, lo spirito con cui la si compie. Riguardo della povertà, per esempio, scrive: «Prendi la via della povertà per la quale si va alla beatitudine del regno dei cieli. Prendi la via della povertà, non tanto del corpo, quanto dello spirito, non tanto delle cose, quanto dell’umiltà, non tanto della carne, quanto della mente» (Lettera 9). Ricorda poi che la povertà è così utile e così meritoria perché è una strada che per primo ha percorso Gesù stesso, e afferma – un’espressione che sarà cara alla spiritualità cistercense – che occorre «seguire da poveri Cristo povero» (cf Lettera 20; 143). Sarà proprio questa insistenza sull’osservanza “sostanziale” delle prescrizioni della Regola e non tanto su quella “letterale” a opporre le concezioni monastiche dell’Ordine di Cluny e del monachesimo cistercense. 3. I monaci cluniacensi e il mondo Il monaco, nuovo Adamo, che insieme ai confratelli forma una comunità, la più vicina all’ideale apostolico della Chiesa nata a Pentecoste. Non c’è dubbio che per i Cluniacensi – ma possiamo dire senza dubbio per tutti i monaci medievali – il monaco realizza meglio di qualunque altro cristiano il programma di vita dettato da Gesù nel Vangelo. E gli altri? In altre parole, come questi monaci consideravano le altre forme di vita cristiana? Quale era il compito che essi potevano e dovevano svolgere nei loro confronti? Si apre, a questo punto, il tema interessantissimo della ripartizione della società medievale. Considereremo solo alcuni elementi. Posizione dei monaci all’interno della società I monaci cluniacensi abbracciano e approfondiscono la visione “tripartita” della civiltà cristiana, già abbozzata da Gregorio Magno. In una sua predica, per esempio, Odilone disse: «Gli uni combattono, gli altri lavorano la terra; voi formate il terzo ordine che Dio si è scelto come sua eredità propria e particolare. E quanto più siete liberi da attività esteriori, tanto più dovete essere impegnati al suo servizio. Gli altri sopportano per voi le dure condizioni del combattimento e del lavoro. Allo stesso modo voi rimanete a loro servizio per accompagnarli con la vostra insistente preghiera» (bellatores, laboratores, oratores). Ruolo dei monaci nella società Soprattutto allorché Cluny espande con successo la sua opera riformatrice e diventa un punto di riferimento essenziale nella scacchiera del potere religioso e politico, i suoi monaci e il suo abate sono sempre più animati dalla convinzione di dovere, con la loro azione, aiutare la società intera allo scopo di mettere in pratica le riforme religiose e morali necessarie. o Ispirano ai chierici una riforma ispirata alla vita monastica; o ai laici viene proposta – si pensi alle Storie di Rodolfo il Glabro, monaco di Cluny – una vita morigerata, con l’impegno alla castità e alla fedeltà coniugale, e agli uomini di armi l’ideale 5 della protezione degli inermi e dell’impegno a difesa della cristianità. Un ruolo – quello di Cluny – quindi di animazione spirituale, ma anche temporale, della società. Il laico come si salva? In particolare, un laico può aspirare alla santità? Certamente. E come? Odone, nella Vita di san Geraldo d’Aurillac (un laico facoltoso e santo), scrive: «Ad un laico sono permesse tante cose che non lo sono al monaco. Ma lo si può dire confessore della fede se porta la sua croce resistendo ai vizi e se glorifica Dio con una buona amministrazione dei suoi beni». L’uomo potente deve considerare le persone a lui soggette come degli uguali e sapere di renderne conto a Dio3. Limiti imposti dalla vocazione monastica I monaci pertanto ci appaiono in quest’epoca come il fermento evangelico della società, come il suo traino; ma non devono dimenticare che la vocazione divina li ha chiamati ad agire normalmente non in maniera diretta nel consorzio civile. Interessante al riguardo il monito di Pietro il Venerabile, in verità non raro nelle sue opere, a fuggire la tentazione di voler adempiere incarichi e di assumere uno stile di vita che non sono i loro: «Non è affare della nostra solitudine essere presenti nei tribunali, non tocca a chi appare come morto al mondo agire da accusatore o da difensore in affari pubblici. La nostra semplicità non ha nulla a che fare con le furbizie del mondo, né conviene che noi, che abbiamo scelto nel mondo di abitare la solitudine, ora usciamo dalla solitudine per ritornare nel mondo» (Lettera 158 al papa Eugenio III). Eppure l’abate di Cluny era costantemente in viaggio, non solo per visitare e riformare monasteri, ma anche per partecipare a Sinodi, incontrare Papi e imperatori, ricevere donazioni di appezzamenti terrieri. 4. Il monastero Allaghiamo ora lo sguardo dal singolo monaco al luogo in cui egli, insieme con i suoi fratelli, trascorre l’esistenza. Il monastero è lo spazio – e insieme il contesto materiale e umano – entro il quale è possibile mettere in pratica questo ideale religioso di consacrazione esclusiva a Dio. È per questo motivo che: o in esso tutto deve contribuire a portare il cuore del monaco verso Dio: l’orario della giornata, le attività svolte, la disposizione e la forma delle cose che quotidianamente vengono usate e del monastero stesso. Ogni cosa porta a Dio; o l’atmosfera che vi regna è fatta di silenzio e quiete, così da facilitare il raccoglimento interiore. Odone al riguardo tende a estendere il silenzio a tutta la giornata monastica e mette a punto un sistema di segni al fine di permettere le comunicazioni necessarie alla vita comunitaria; L’edificio materiale stesso viene progettato e costruito non a caso, ma con parametri ben precisi. Il monastero edificato da Odilone, il quale trasformò il chiostro ligneo in un elegante chiostro marmoreo, aveva in tal senso delle caratteristiche molto significative: o dava anzitutto un’impressione di misura e di equilibrio, con proporzioni armoniose, né troppo grande, né angusto; o grande importanza vi aveva la luce, e per questo motivo il Consuetudinario ha cura di precisare il numero di finestre necessarie, la loro disposizione, come pure le loro dimensioni; o un altro aspetto rilevante è l’abbondanza dell’acqua, incanalata prevedendo la duplice modalità di impiego: acqua fresca, da una parte, e acqua “nera” diremmo oggi. Questo dice la cura per la proprietà e la pulizia, che connota lo stile cluniacense4. 3 Questa accentuazione della spiritualità laicale può accostarsi anche al fatto che la nonna del fondatore di Cluny era quella Dhuoda che scrisse un’opera sull’educazione religiosa. 6 Il monastero, luogo così concepito e dove si celebra l’ufficio divino, appare come un’anticipazione quaggiù sulla terra del Paradiso celeste. B. Liturgia Forse fino a questo punto non abbiamo ancora colto il proprium di Cluny: in effetti l’alto ideale monastico descritto è in fondo comune con le varie esperienza monastiche, sebbene a Cluny abbia ricevuto un’impronta caratteristica; la considerazione della precarietà dei beni terreni e il conseguente monito a volgersi alla ricerca di quelli imperituri è tipica di tutta una mentalità, sebbene il cristianesimo dia ad essa una motivazione e l’inserisca in un orizzonte del tutto originali. C’è però qualcosa, insieme di concreto e di ideale, che rende Cluny unica. Cosa? Lo dice in maniera chiara ancora Pietro il Venerabile: la prima e più importante occupazione del monaco è la celebrazione solenne dell’ufficio divino – «opera celeste e di tutte la più utile» (Statuta, PL 189, I, 1026). L’atto di fondazione da parte di Guglielmo di Aquitania dopo aver affidato il suo dominio di Cluny ai monaci, raccomanda loro: «sia stabilito in questo luogo un asilo di preghiere, dove si adempiano fedelmente i voti e le preghiere. Che sia in tal modo cercato e perseguito, con forte determinazione e con ardore immenso, il dialogo con il cielo». Prestiamo attenzione a questo elogio dell’abate Ugo: egli «costruì per la gloria di Dio una basilica così grande e così bella che se ne può difficilmente trovare un’altra più vasta e più ammirabile. Questa è di un tale splendore, di una tale gloria che, se per assurdo, gli abitanti del cielo potessero compiacersi di abitare nelle case terrene, si potrebbe dire che essa è il sagrato degli angeli. […] Egli vigilava scrupolosamente sulla perfezione del culto divino e nessuno era a lui uguale quanto alla coscienza con cui si accostava al compito della lode divina. Nel corso dei divini uffici era sacro, solenne. Celebrava con una tale dignità, una tale maestà, che era uno spettacolo per gli angeli e gli uomini. Si sarebbe potuto dire che attraeva a sé tutti i cuori per convogliarli nel dinamismo di omaggio a Dio. Al di sopra di qualsiasi bene presente in questa terra d’esilio, pensava che il bene supremo fosse quello di glorificare Dio con un culto solenne nel suo santuario». 1. Pratiche: Liturgia delle Ore e salmodia (quantità) o La salmodia occupa nel monastero cluniacense un posto molto ampio: mentre la regola di san Benedetto chiede ai monaci di recitare l’intero salterio nel corso della settimana, a Cluny in pratica lo si recita ogni giorno. In effetti, oltre agli otto uffici previsti dalla Regola cassinese, il monaco cluniacense del XI secolo celebra ogni giorno l’ufficio del Capitolo dopo Prima (d’estate) o dopo Terza (d’inverno), come pure tre Uffici di devozione: quello di Tutti i Santi, quello dei Defunti e quello della Beata Vergine Maria. o Inoltre ci sono almeno due Messe cantate al giorno: quella mattutina e la grande Messa; vi si aggiungono le Messe private o “basse”, celebrate di primo mattino, spesso in memoria dei defunti. o Il monaco cluniacense poi è tenuto ad un certo numero di preghiere private obbligatorie, come la trina oratio, che consiste in 15 salmi (30 in inverno) che il monaco recita tre volte al giorno, prima dell’ufficio notturno, prima di Terza e dopo Compieta. Il Miserere si recita sette volte al giorno, mentre ogni Ora canonica ha come supplemento la recita individuale di quattro salmi. o Due volte al giorno si svolgono delle processioni tra la chiesa abbaziale e Santa Maria, mentre la domenica e in altre circostanze festive esse assumono un carattere molto solenne. Drastica diminuzione del tempo accordato al lavoro manuale 4 Cf J. HOURLIER , Le monastère de saint Odilon, in Analecta monastica. Textes et études sur la vie des moines au Moyen Age. Sixième série, «Studia Anselmiana» 50, Pont. Institutum S. Anselmi, Romae 1962, pp. 5-21. 7 Musica e canto Odone promosse il canto liturgico, considerato da lui strumento di elevazione spirituale: «I cantori con le loro modulazioni cacciano tutti i desideri diabolici dal cuore di chi ascolta». Da ricordare la composizione da parte sua di inni e antifone. E tuttavia i Cluniacensi mettevano in guardia da un’esecuzione che si compiace solamente della pura dimensione estetica del canto e ricordano che Agostino scrisse che «prendere piacere più al ritmo musicale che al senso delle parole è una colpa e, come tale, merita la punizione». «Le voci e i canti che hanno qualcosa di teatrale non sono al loro posto nella chiesa; poiché quando si canta per Dio è il cuore che deve cantare più che la voce. Ma noi al contrario, quando cantiamo, prestiamo attenzione alle orecchie degli uomini piuttosto che a Dio». 2. Qualità della celebrazione liturgica Lamento sullo stato di fatto: questo “sacrosanto mistero del Corpo del Signore, nel quale consiste tutta la salvezza del mondo” (Collationes, XXVIII: PL 133,572), è negligentemente celebrato. “I sacerdoti, egli avverte, che accedono all’altare indegnamente, macchiano il pane, cioè il Corpo di Cristo” (ibid., PL 133,572-573). I monaci cluniacensi non si limitano alla denuncia delle condizioni deplorevoli nelle quali talora si svolgeva il culto divino; al contrario, propugnano e attuano una vera e propria ars celebrandi, nella quale emergono particolarmente due caratteristiche a loro care: decor (decoro e bellezza) e nitor (splendore). 3. Feste istituite da Cluny La trasfigurazione del Signore, introdotta da Pietro il Venerabile a partire dal 1132 e per la quale redasse l’ufficio e un sermone (PL 189,953-972). La commemorazione di tutti i defunti il 2 novembre, istituita da Odilone verso il 1030. Essa si estende poi rapidamente in tutto l’Occidente. L’Assunzione commemorata con la stessa solennità di Pasqua e Natale Osservazione Sono tutte celebrazioni che evidenziano e incrementano l’anelito al Cielo. Grazie a questo continuo impegno liturgico a Cluny – come scrive Pietro il Venerabile – «comunità di monaci, a immagine delle truppe celesti che secondo i loro ordini circondano il Signore, si consacrano giorno e notte alle lodi divine e agli altri esercizi delle sante virtù, così che si può loro applicare la parola del Profeta: “Beati coloro che abitano la tua casa, Signore, nei secoli dei secoli ti loderanno” (Sal 83,5)» (Miracoli I,9). C. Carità I monaci cluniacensi – potremmo pensare dopo questa prima presentazione – sono dunque di continuo occupati a cantare le lodi di Dio, a desiderare la patria celeste, a decorare le loro chiese. Ma – potremmo allora chiederci – che ne è del comando evangelico di amare il prossimo come se stessi? Non è forse quella del monaco una scelta dettata da egoismo, certo un ideale altissimo e animato da motivazioni soprannaturali, ma pur sempre egoistico? 1. Elemosine ai vivi L’atto di fondazione stabilisce autorevolmente che gli abitanti del monastero di Cluny dovranno in futuro «occuparsi ogni giorno con molta misericordia dei poveri, degli indigenti, degli stranieri e dei pellegrini». E possiamo dire che la cura degli indigenti fu una preoccupazione costante degli abati cluniacensi. In occasione della carestia del 1033 Odilone vendette quanto era stato qualche anno prima (nel 1015) donato a Cluny dall’imperatore Enrico II (il globo d’oro sormontato da una 8 croce, dono di papa Benedetto VIII all’imperatore al momento della sua consacrazione; il mantello imperiale, due scettri, una corona e una croce d’oro) per darne il ricavato agli indigenti. Pietro il Venerabile era solito portare con sé l’oro e l’argento lasciatogli in eredità dai suoi predecessori allo scopo di avere la possibilità di fare elemosine (cf Lettera 111 a Bernardo di Chiaravalle). 2. Suffragi per i defunti Grande importanza ha poi a Cluny la preghiera per i defunti. Sebbene fin dall’atto di fondazione del monastero che prevedeva il suffragio delle anime dei donatori fosse presente questa pia pratica, essa crebbe di importanza nel corso dei decenni successivi. Un numero sempre crescente di fedeli domandava all’abbazia di essere ricordato una volta che la morte sopraggiungesse. E così si istituirono alcune procedure legate strettamente alla memoria dei defunti: il cimitero appositamente predisposto per i laici; il necrologio, ossia il registro nel quale viene segnato, alla data corrispondente al decesso, il nome del defunto e gli obblighi che i monaci si sono assunti nei suoi riguardi; la professione ad succurrendum, cioè la consacrazione monastica di laici allorché si avvicinava l’ora della morte. Infatti erano soprattutto i monaci ad usufruire delle preghiere di suffragio: quando muore un fratello, per trenta giorni sei sacerdoti celebrano la Messa per lui, come pure fanno nell’anniversario del trapasso. Inoltre, sempre durante i trenta giorni successivi, viene offerto a un povero un pasto, quello che prima nutriva il fratello scomparso; e così avveniva ogni anno il giorno dell’anniversario. Se invece moriva l’abate, per tutto un anno si distribuiva ad un povero il vitto, mentre nella data dell’anniversario si nutrivano dodici poveri. I monaci di Cluny si dedicarono così in maniera speciale ai suffragi per i defunti. Fu la più caratteristica espressione della carità cristiana da essi messa in atto. Un fatto rilevante lo testimonia ulteriormente. Si racconta nella vita di Odilone che papa Benedetto VIII, una volta morto, apparisse al vescovo di Porto e gli manifestasse di essere stato sottoposto ad una terribile espiazione; lo incarico allora di chiedere al suo successore Giovanni XIX di mandare un messaggero a Cluny allo scopo di ottenere dai monaci e da Odilone preghiere in suo suffragio. Qualche giorno più tardi il monaco di Cluny Eldeberto ebbe la visione di papa Benedetto che entrò in monastero e si diresse verso la sala del capitolo dove sedeva l’abate. Ivi giunto si inginocchiò davanti ad Odilone, poiché grazie ai suffragi della sua comunità era stato liberato dalla pena e poteva essere innalzato alla beatitudine celeste. Il senso della morte Pietro prova sulla sua pelle il dolore per la morte di altri, specialmente la madre e i confratelli. Ma in questo dolore cerca di alzare lo sguardo interiore per cogliere il senso di questo tremendo distacco con gli occhi della fede. E allora la morte gli appare come un passaggio ad una destinazione molto più beata che la vita terrena: «anche se la via per cui si transita alla morte sembra dura, è gioiosissima ed eterna la vita alla quale si giunge» (Lettera 133 ai cluniacensi). Il fermarsi troppo sui sentimenti umani di paura e di rassegnazione davanti alla morte può anche apparire allora come una sorta di stoltezza: «quale viaggiatore che percorra con fatica un cammino lunghissimo, e tende per quella strada a raggiungere il desiderato riposo, è così stolto da non volere giungere mai al riposo, e non finire mai la durissima fatica del percorso? Quale contadino è così rozzo che, nel tormento dell’inverno, nell’assalto delle piogge, nella calura dell’estate, vuole soltanto arare la terra, spargere il seme, e non desidera affatto raccogliere i frutti? Quale mercante che per terra e per mare ha dovuto spesso sopportare i ladri, sempre nella paura, sempre nel sospetto, soffrendo molte volte numerosi flagelli e ferite, non brama con tutto il sentimento del suo animo di essere liberato da mali così gravi e tornare a rivedere con un ricco guadagno patria e 9 parenti? Quale erede stabilito dal padre non ambisce con tutta la forza della mente a ottenere l’eredità promessa» (Lettera 48 ai Certosini). 3. Carità fraterna in comunità Da non trascurare un ultimo aspetto della carità vissuta a Cluny; si tratta di quella vigente tra i membri della comunità monastica. Voglio citare un solo brano di Pietro il Venerabile, nel quale il grande abate rievoca lo strettissimo legame umano e spirituale che lo tiene unito ai suoi monaci: «Quale padre ha mai ricevuto dai figli carnali tanta obbedienza, tanto amore sincero, tanto e così pronto rispetto nei propri confronti come io ho trovato in voi? Se ho attraversato le Alpi italiane e di Spagna, voi le avete attraversate con me con il vostro affetto. Se sono andato a Roma, vi siete uniti a me come compagni di inseparabili. Se ho passato i mari, nel vostro animo avete navigato con me. Con me nella devozione, con me nelle preghiere. Se mi sono lievemente ammalato, vi siete ammalati con me con la compassione e una grande sofferenza nell’animo» (Lettera 133 ai cluniacensi). Conclusione Sappiamo, almeno a grandi linee, come la storia della Congregazione cluniacense sarebbe proseguita: un lento declino, con vari tentativi di ripresa e poi la fine inesorabile segnata dall’avvento del regime rivoluzionario al termine del XVIII secolo. Come ogni opera umana ha avuto la sua nascita, il suo decorso e la sua fine; eppure la sintesi spirituale da essa raggiunta al suo apogeo conserva un valore emblematico e significativo anche per oggi. Rimane un “carisma” al quale, tenuto conto della situazione culturale e religiosa odierna, come pure dei “carismi” a ciascuno di noi concessi, ispirarsi ancora per trarne anche solo una parola di ciò che lo Spirito dice alle Chiese. 10