L`impresa integrale teoria e metodi, Butera F

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L`impresa integrale teoria e metodi, Butera F
Working Paper
L’“impresa integrale”: teoria e metodi
Federico Butera
WP1 / 2009
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1
L’“impresa integrale”: teoria e metodi
L’integrazione fra gestione economica e responsabilità sociale nelle
“imprese costruite per durare”: un percorso governabile1
Federico Butera2
Sommario
Contenuto
2
Responsabilità sociale ed economicità dell’impresa
2
La tesi
3
Un caso italiano di impresa integrale: la Olivetti
4
Un caso straniero di impresa integrale: la Toyota
6
Il profilo dell’“impresa integrale”
8
Le 7 leve chiave per lo sviluppo di imprese integrali
10
I. La gestione del cambiamento strategico e strutturale
11
II. I prodotti socialmente utili
12
III. La sostenibilità sociale e ambientale
12
IV. Organizzazione coerente e appropriata
13
IV a. L’eccellenza dei processi
13
IV b. Un sistema di organizzazione a rete
14
IV c. Sistema di ruoli e professioni
16
IV d. Proprietà di funzionamento integrative: cooperazione, conoscenza, comunicazione, comunità
18
IV e. Leadership e management
21
V. I sistemi di gestione delle persone e la qualità della vita di lavoro
21
VI. Valori e identità dell’impresa
23
VII. La rendicontazione economica e sociale
24
Considerazioni conclusive: narrare e sviluppare l’impresa
26
Bibliografia di riferimento
27
1
Una precedente diversa e più breve versione è in B. Lamborghini (a cura di), L’impresa web, Franco
Angeli, Milano, 2009.
2
Ordinario di Scienze dell’Organizzazione all’Università di Milano-Bicocca
http://www.organizzazione.sociologia.unimib.it/
Presidente della Fondazione Irso - Istituto di Ricerca Intervento sui Sistemi Organizzativi
www.irso.it
Direttore di Studi Organizzativi
http://www.francoangeli.it/riviste/sommario.asp?IDRivista=73
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2
Contenuto
In questo saggio viene presentato il concetto di imprese integrale, impresa che persegue in modo
integrato elevate performance economiche e sociali, che agisce concretamente per proteggere e
sviluppare l’integrità degli stakeholder e dell’ambiente fisico, economico e sociale, che ha condotte
eticamente integre. Vengono presentati due esempi. La Olivetti degli anni ’60 e la Toyota. Vengono
precisati il profilo e i caratteri dell’impresa integrale, come impresa normale: questo modello può
essere utilizzato in Italia per lo sviluppo di imprese “built to last” che contribuiscono a sviluppare una
italian way of doing industry. L’articolo indica poi le leve chiave per sviluppare l’impresa integrale
avvalendosi dell’esperienza e della metodologia dell’autore e dei suoi colleghi della Fondazione Irso.
Viene proposto uno screen per valutare il processo evolutivo dell’impresa che persegue il modello di
impresa integrale.
Responsabilità sociale ed economicità dell’impresa
L’impresa è chiamata a rispondere a molte – alcuni dicono troppe – responsabilità sociali. La
tematica della responsabilità sociale dell’impresa sembra a molti moralistica (perché non
sanzionabile) o persecutoria (perché aggrava i costi dell’impresa).
L’impresa, oltre a perseguire i propri fini di generare ricchezza e margini, partecipa con i contributi
fiscali al sistema complessivo, deve rispettare vincoli normativi spesso stringenti in materia di
impiego, di condizioni di lavoro, di certificazione economica, di rispetto ecologico, di sostenibilità
ambientale e altro. I governi e le organizzazioni internazionali stanno producendo nuove
regolamentazioni e nuovi vincoli per le imprese a fronte di emergenze o di superiori interessi
nazionali e mondiali: dalla protezione della libertà di concorrenza, dalla difesa della privacy, alle
norme sulla trasparenza dei bilanci e delle transazioni finanziarie, alla regolamentazione dei
sistemi di governance, alla regolamentazione nell’uso delle nuove infrastrutture di ICT, alle
emissioni ambientali, fino alle azioni vecchie e nuove per la repressione dei traffici e delle
organizzazioni illegali (al fine di combattere l’inquinamento del sistema delle imprese da parte delle
grandi organizzazioni multinazionali del crimine). Tutta la serie di vicoli che il sistema normativo
pone all’impresa, ossia la cosiddetta compliance. Ma non è di questo che il presente saggio vuole
trattare, bensì delle azioni volontarie che l’impresa adotta per coniugare obiettivi economici ed
obiettivi sociali.
Ma può un’impresa occuparsi spontaneamente di problematiche che esulano dalla sua funzione
principale di perseguire il profitto? Milton Friedman ribadiva che l’obiettivo delle aziende è sempre
quello di puntare al massimo profitto nel rispetto delle leggi e della morale corrente, escludendo
con ciò la possibilità per le imprese di adottare comportamenti socialmente responsabili. John
Kenneth Galbraith (1998), invece, ritorna ancora nell’ultima sua lezione in Canada all’idea del “the
socially concerned” che si applica agli individui, alle istituzioni e all’impresa. II fenomeno di imprese
che si occupano di problematiche apparentemente estranee al solo processo di creazione del
valore tendono a dar ragione a Galbraith.
Nel processo di globalizzazione e di crisi in atto, tutte le imprese grandissime, grandi, medie e
piccole, a capitale privato, pubblico e cooperativo stanno affrontando un processo economicosociale assai severo che mette spesso in discussione la loro stessa sopravvivenza. Ridurre i costi,
acquisire competitività, mantenere e sviluppare il proprio mercato, conservare le risorse, governare
lo sviluppo, mantenere identità e autonomia sono i temi su cui le imprese sono sfidate. Sono
evidenti tre emergenze: occorre svuotare (dell’inefficiente, dell’inefficace) le istituzioni, le imprese,
le Pubbliche Amministrazioni; occorre innovare (con politiche, organizzazione e modelli di azione
moderni) prodotti e servizi e processi produttivi perché essi generino ricchezza e occupazione;
spesso è necessario ricostruire anche (attraverso etica e cultura) l’identità di istituzioni e imprese
che le rendano adeguate a nuovi contesti culturali e degne agli occhi dei clienti cittadini. La grande
crisi che stiamo attraversando pone un problema assai rilevante di credibilità e di fiducia verso il
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mondo delle imprese, e non soltanto di quelle finanziarie.
Le imprese, in questo contesto, hanno un interesse proprio, diretto e immediato nell’occuparsi di
diversi aspetti sociali. Esse sono inesorabilmente obbligate a perseguire il massimo valore per
l’azionista: se ciò non avviene, l’azionista, in un mercato globalizzato, abbandona l’impresa e
questa vede abbassarsi il valore delle sue azioni. Sarebbe semplicistico tradurre questa
indiscutibile realtà nella proposizione che l’impresa deve solo massimizzare i profitti. Quest’ultima
è una condizione necessaria ma non sufficiente, è cioè solo una delle “performance” a cui è
tenuta: il valore per l’azionista include fattori strutturali quali i “fondamentali” economici e fattori
contingenti come la gestione in borsa. Il successo sui “fondamentali” e sull’andamento sulle borse
internazionali dipende in parte da fattori culturali e sociali (immagine, fiducia, fidelizzazione dei
clienti, propensione all’innovazione, relazioni interne ed esterne e moltissime altre) e da fattori
socio-istituzionali che fanno durare l’impresa, rendendola “built to last” (capitale intellettuale,
capitale intellettuale, etc.), come sostengono Colin e Porras (1994). Gran parte di queste
performance e caratteristiche strutturali che assicurano valore per l’azionista in definitiva hanno
una origine non solo economica ma anche sociale (White, 1981).
L’impresa ha successo se crea nuovi prodotti e nuovi mercati. Sui mercati domestici non ha altra
scelta, spesso, se non quella di proporre offerte ad alto valore per il cliente per diversi segmenti di
mercato e quindi ha interesse che crescano benessere e sicurezza, stabilità sociale e propensione
al soddisfacimento di dimensioni superiori di qualità della vita: ecco perché l’impresa si rende attiva
sia sulla propria offerta che sulla costruzione della comunità, come è avvenuto in molti distretti
italiani. Sui mercati del Terzo Mondo l’impresa deve proporre nuovi prodotti e servizi a basso costo
e ad elevata utilità e ha interesse ad una “normalità” istituzionale e che masse di diseredati
acquisiscano potere d’acquisto e cittadinanza economica: ecco perché non sempre agisce da
corruttrice e profittatrice, ma sempre più spesso agisce in partnership con altre imprese del proprio
e di altri paesi, e con i governi locali, per favorire processi di modernizzazione.
La singola impresa grande, media e piccola spesso non può aspettare che altri risolvano questi
problemi o rendano fruibili le opportunità: essa – nei limiti della propria missione, delle proprie
risorse e delle proprie priorità e capacità – è frequentemente spinta nel suo quotidiano operare ad
affrontare parti grandi o piccole di tali questioni per proteggere o sviluppare la propria missione, le
proprie strategie, il proprio conto economico, il proprio patrimonio.
La tesi
Imprese con lunga storia e imprese recenti hanno, da una parte, il problema di assicurare la
propria competitività e sopravvivenza: solo il loro rafforzamento economico e la loro innovazione a
360° lo può assicurare. Dall’altro, diventa cruciale per loro l’assunzione di una forte responsabilità
sociale, che riguarda non solo l’evitare diseconomie esterne, ma soprattutto il fornire attivamente
contributi concreti alla sostenibilità ambientale, allo sviluppo economico dei territori, alla qualità
della vita di lavoratori e clienti, allo sviluppo culturale.
Le imprese “costruite per durare” – “built to last” (Collins e Porras, cit.) – hanno maggiori possibilità
di superare con successo questa fase difficile. Sono imprese che costruiscono un futuro con un
cuore antico. Sono imprese con un’anima, come scrisse Adriano Olivetti.
La tesi di questo saggio è che queste missioni contraddittorie sono meglio raggiunte da “imprese
integrali”. La integralità di queste imprese vuol dire tre cose: integrazione di economia e socialità,
rispetto della integrità degli stakeholder, integrità etica. Le definiamo come imprese che perseguono
in modo integrato elevate performance economiche e sociali, che agiscono concretamente per
proteggere e sviluppare l’integrità degli stakeholder e dell’ambiente fisico, economico e sociale, che
hanno condotte eticamente integre. Non imprese utopiche, ma imprese normali costruite per durare.
Mi avvarrò di due esempi storici per illustrare l’idea di “impresa integrale”:
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1. una impresa italiana (la Olivetti degli anni ’60), che da impresa media divenne una impresa
internazionale e che, malgrado sia nota più per la condotta sociale del suo leader che per la sua
natura peculiare di impresa che raggiunse moltissimi grandi successi oltre che alcuni finali
insuccessi, fu soprattutto una impresa che integrò felicemente una organizzazione industriale
molto robusta con una elevata responsabilità sociale;
2. una impresa internazionale (la Toyota), oggi la prima azienda automobilistica del mondo, nota
soprattutto per i suoi rigorosi sistemi di qualità e di eccellenza produttiva più che per il suo
modello di impresa, che in realtà è cresciuta sviluppando forti reti sociali e un potente sistema di
valori praticati quotidianamente a partire dal presidente fino all’ultimo operaio, fornendo una
identità irripetibile all’impresa.
Un caso italiano di impresa integrale: la Olivetti
Vi sono tre periodi ben distinti della storia Olivetti.
Il primo periodo è quello dei fondatori, in cui Camillo e Adriano illuminano la scena della
costruzione di una delle aziende più moderne del paese con la loro fortissima personalità: in
questa fase, la storia più visibile e sorprendente è quella dell’ing. Camillo e dell’ing. Adriano come
imprenditori illuminati piuttosto che quella dell’azienda. È ciò che succede tutt’oggi con Ferrero,
con Del Vecchio, con Bombassei, con Alessandri: il leader fa tanta luce da far impallidire la
struttura dell’impresa.
Il secondo periodo, che io ho avuto la fortuna di vivere direttamente, è quello che va dalla
scomparsa di Adriano al 1972. Lì credo vada cercato il pattern dell’azienda Olivetti, distinta ma non
sconnessa dai suoi leader e fondatori, lì va cercato un modello da riproporre non ad irripetibili
Adriano Olivetti, ma a ripetibili validi imprenditori, dirigenti, professional di cui è largamente
popolata l’economia italiana. Agli inizi degli anni ’70 avvenne la presa del controllo da parte di
Ottorino Beltrami, che introdusse in Olivetti una cultura che assomigliava più a quella della General
Electric che a quella mostrata sino ad allora dalla Olivetti, ma non ne poté cambiare il DNA che
Carlo De Benedetti ritrovò rilevando l’azienda e che grazie a quel DNA sopravvisse alle turbolenze
e agli errori di quella gestione. La precarietà finanziaria che aveva portato a metà degli anni ’60 la
Fiat e Mediobanca ad assumere il controllo della Olivetti non aveva modificato in quel decennio la
struttura e la cultura della azienda di Adriano Olivetti.
Il terzo periodo parte dalla “normalizzazione” della Olivetti sul modello di una ordinata
multinazionale creata da Beltrami e Bellisario e arriva fino alla presa del controllo da parte di Carlo
De Benedetti. In questa fase gli asset tecnici, economici, manageriali vengono montati e smontati
come un lego, con momenti di successo e con un finale amarissimo insuccesso.
Questi tre periodi, tuttavia, conservano un DNA comune, anche se non si prestano alla
rappresentazione di un modello univoco di management.
Io credo invece che ci sia stato un modello imprenditoriale Olivetti che rappresenta un’eredità
fondamentale per una emergente generazione di imprese made in Italy protese in operazioni
aperte alla competizione internazionale. Esso, assai visibile non esclusivamente ma soprattutto dal
1961 al 1972, era stato generato dalla storia di due imprenditori straordinari (Camillo e Adriano
Olivetti), ma proprio per questo la natura dell’impresa che essi avevano costruito appariva, durante
la loro vita, sovrastata dalla luce della loro straordinarietà di imprenditori e di persone che
sporgevano oltre l’impresa. Ciò avvenne fino alla morte di Adriano: chi parlava di Olivetti parlava
soprattutto di Adriano Olivetti e la sua azienda sembrava il prodotto irripetibile di un grande
visionario. A 40 chilometri di distanza, molti ritenevano che la Fiat fosse una impresa capitalistica
moderna e la Olivetti un grande falansterio come San Leucio. Fra il 1961, data della morte di
Adriano, e il 1972 emergono invece l’originalità e la forza intrinseca del modello di impresa che si
era sviluppata e che, malgrado le successive contaminazioni di ogni tipo avvenute dal 1972,
conservò un DNA visibile e fecondo. Forse ancora vivo: come scrisse Schein (2003) in un famoso
libro sulla Digital Equipment, la più innovativa delle imprese elettroniche poi assorbita da
HP/Compaq: “DEC is dead: long live DEC”.
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Quale era questo modello? Esso, nel 1962, era visibile fisicamente sui due lati di via Jervis a Ivrea.
A sinistra di via Jervis vi era il massimo della razionalità organizzativa del tempo. Innanzitutto,
c’erano gli stabilimenti di produzione, le officine e i montaggi, dove erano stati introdotti e
perfezionati i più moderni metodi di fabbricazione e montaggio della produzione meccanica
mondiale, con innovazioni importanti rispetto al taylorismo sperimentato nelle officine meccaniche
internazionali (e anche a quelle delle officine Fiat a soli 40 chilometri di distanza). Poi, c’erano i
laboratori di Ricerca e Sviluppo che studiavano prodotti geniali che avevano oltre il 50% di quota di
mercato mondiale, come la Tetractys. E ancora, c’erano gli uffici tecnici dove venivano sviluppate
le soluzioni più evolute di macchine utensili e stampi. Infine, c’erano gli uffici amministrativi, assai
efficienti per quel tempo. Sulla sinistra ideale di via Jervis vi era poi una linea senza fine che
legava fra loro consociate, filiali, concessionari distribuiti in tutto il mondo con un cuore nascosto
nella campagna toscana che batteva a Villa Natalia dove aveva sede la scuola commerciale, in cui
tutti i dirigenti e i quadri imparavano i prodotti e le problematiche di vendite: ci passarono da
giovani i leader della Società e anche chi divenne Presidente di Regione come Landi o scrittori
come Terzani.
A destra di via Jervis, vi era non un altro mondo, non una struttura compassionevole, non
un’alternativa all’impresa capitalistica moderna ma un suo completamento integrato con tanta
razionalità produttiva: i servizi sociali, l’infermeria, la biblioteca, il centro di sociologia, il centro di
psicologia e gli altri servizi che connettevano fra loro persone, territorio e impresa e che rendevano
visibile l’“anima” dell’impresa (che era presente anche nelle officine del lato sinistro della strada).
Un lato tecnico e un lato culturale della forza di quella straordinaria azienda.
I due marciapiedi di via Jervis erano l’espressione visibile di un unico modello di impresa. Forte
responsabilità sui processi; ruoli “a geometria variabile e centrati sui risultati; verifica continua della
leadership sui risultati; strutture mutevoli in base alle circostanze e alle opportunità; staff di alta
qualità; ridondanza di capacità intellettuali; presenza dei dirigenti più alti sul luogo di produzione (il
gemba, come più avanti diranno i giapponesi); ossessione per la qualità; sistemi di regolazione
sociale raffinati (si pensi alla presenza di un ufficio del personale che prendeva in carico tutti i casi
di disagio da qualunque fattore prodotto); relazioni interne efficaci e rispettose; comunità
professionali cosmopolite, comunità di pratica, networking e tanto altro.
Soprattutto, parte centrale di quel modello di impresa era la grande cura per le persone: reclutate
per le loro potenzialità, avviate su percorsi in cui le grandi opportunità offerte dall’azienda si
intrecciavano con l’incoraggiamento a sviluppare il proprio workplace within, ossia quel mondo
interno di esperienza, cultura e intelligenza patrimonio delle persone. Era ben altro che un sistema
di gestione del personale quale quelli ingegnerizzati che le società di consulenza importarono dagli
Stati Uniti nelle imprese italiane: era un modello di gestione basato sulla valorizzazione della
risorsa più preziosa, la persona vera, la persona integrale, come scriveva Maritain.
L’attrattività di Ivrea per i giovani era altissima. La città, per chi veniva da Roma, Napoli o Milano,
era veramente poverissima, a parte la gastronomia e la campagna. Tuttavia, abbondavano le 3 T
di Florida: talento (Olivetti assumeva 1 persona su 100 scrutinate sulla base della loro creatività e
curiosità più che su ristrette competenze tecniche); tecnologia (da Cappellaro a Tchou, dalla
Tetractys all’Elea era un ribollire di tecnologie di tutti i tipi); tolleranza (al momento dell’assunzione
non si faceva distinzione fra meridionali e settentrionali, tra uomini e donne, non si chiedeva per
quale partito si votava né quali erano le preferenze sessuali, ma si scartavano solo le personalità
autoritarie e senza un loro sogno; alle serate culturali si incontravano Moravia, Pasolini e altri
“scandalosi” intellettuali del tempo).
C’erano tante persone notevoli, molte impegnate dando loro il massimo di responsabilità – molti
dirigenti a 29 anni –, molte in panchina: ma tutte persone pronte a cambiare progetti, sedi, lavoro.
Tutte in un rapporto incessante, una conversazione senza limiti e certamente ridondante fra loro e
con i dati e i fatti dell’impresa, del territorio e del nostro paese: si discuteva e si imparava su tutto,
ma al momento di fare vi era una grande disciplina, oggi diremmo un forte senso della execution.
Era una impresa con una struttura organizzativa potente e severa, ma anche con un’anima
condivisa, data dai valori dell’impresa, dalla responsabilità sociale, da un network vivissimo. Qui va
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cercato il modello, forse simile a quello che ha fatto grande anche Toyota, Dell, HP, Google e in
Italia Ferrari, Brembo, Ferrero, Luxottica, Zambon.
Soprattutto, la Olivetti era una impresa con una straordinaria capacità di imparare, di cambiare, di
innovare. Quando i giapponesi cominciarono a produrre le calcolatrici elettroniche a 1/100 del
costo delle calcolatrici meccaniche che avevano fatto la fortuna della Olivetti, quest’ultima fu
capace di ripensare radicalmente la sua Ricerca e Sviluppo, la sua produzione, la sua struttura
commerciale in soli tre anni, in uno dei più leggendari processi di change management
dell’industria italiana, a cui ebbi la fortuna di partecipare come responsabile del Centro di Studi
Organizzativi, l’Internal Consulting che la Olivetti aveva costituito in “tempo di pace”. Altre aziende
fallirono. La Olivetti si rilanciò nella elettronica individuale. Forse avrebbe potuto diventare la Dell:
ma questa è una storia che racconterò un’altra volta.
Un caso straniero di impresa integrale: la Toyota
Adriano Olivetti disse che anche l’impresa ha un’anima. Venne preso per un sognatore. Ora
Osono, Shimizu e Takeuchi (2008) nel loro libro Extreme Toyota ci spiegano che lo straordinario
successo della Toyota, la più grande azienda automobilistica del mondo, deriva in gran parte dalla
sua anima, innestata su un corpo robusto (i sistemi organizzativi e operativi) e abilitata da uno
straordinario sistema nervoso (il suo sistema di comunità e networking).
Tutti cercano di copiare il potente sistema operativo di Toyota, il Toyota Production System (il TPS
fatto di TQM, kanban, kaizen, 5S, etc.): competitori, aziende aeronautiche, medie imprese, enti
pubblici reclutano eserciti di consulenti di “lean production”, ma pochi hanno il successo di Toyota.
Ossia, il TPS è necessario ma non sufficiente.
La Toyota, per Takeuchi e colleghi, non è solo un’azienda automobilistica, ma un’impresa della
conoscenza. Tutti (competitori, grandi imprese) hanno sistemi informativi formidabili e vasti
programmi di formazione al team work, ma la Toyota di tutto ciò ha fatto l’infrastruttura di un
“sistema nervoso” che si autosviluppa (una learning organization vera) creando sistemi di gestione
della conoscenza estesi a tutti i livelli e prassi e culture di lavoro comunitario (yakoten, obeya,
gemba, etc. fra quelle citate nel loro libro), che legano comunità faccia a faccia e comunità remote
in cui si genera e scorre la conoscenza di 300.000 persone che operano in tutto il mondo, di cui
meno della metà ormai in Giappone. Sui prodotti non è più scritto made in Japan ma made in
Toyota. Mentre i processi sono “asciutti”, la conoscenza è ridondante e tutti lavorano entro
comunità di lavoro in vista di risultati concreti.
Ma il “corpo” degli eccezionali sistemi organizzativi e operativi che orientano tutte le azioni relative
alla concezione, alla esecuzione e al miglioramento incessante dei processi (il TPS) e il “sistema
nervoso” delle comunità gestite a tutti i livelli non bastano ancora a spiegare il successo di Toyota.
È, in realtà, l’anima dell’impresa che dà visione, orientamento, senso, al lavoro di tutti e genera la
loro motivazione. L’anima dell’impresa è data dai suoi valori e dalla sua cultura trasparente e
praticata a tutti i livelli. Essa non è data da “carte dei valori” patinate, ma da vere e proprie “forze”,
fonti di energia. Gli autori ne ricordano alcuni tratti e li distinguono tra “forze di espansione” e “forze
di integrazione”.
La leadership fatta di impegno, esempio, umiltà, presenza sul campo si diffonde a tutti i livelli ed è
misurata dai risultati e dalla capacità di attivare “forze di espansione” e “forze di integrazione”
condivise da tutti.
Fra le “forze di espansione” ci sono gli impossible goals, ossia gli obiettivi di lungo periodo e i sogni
che il vertice propone, che esso stesso pratica quotidianamente e in cui le 300.000 persone si
identificano. Essi sono i driver che parlano alla loro ambizione, al loro orgoglio e alla loro etica.
Quando Toyoda nel 1950 annunciò di voler costruire la prima azienda automobilistica del mondo
partendo da una mediocre impresa la cui produttività era 1/10 di quella dei competitori, sembrava
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farneticare, ma poi operò in modo corrispondente a quella visione e tutti la condivisero. Toyoda
fece leva sulla visione del futuro ma anche sulla valorizzazione del passato. La Toyoda (così si
chiamava) aveva una storia di cento anni di primaria fabbrica di macchine tessili, una esperienza
cioè nelle macchine utensili e una tradizione a impegnare le persone a progettare macchine
utensili sofisticate, a gestire processi, ad assorbire varianze, perché “nel tessile” l’intervento anche
manuale del conduttore di macchina è essenziale dal momento che un filo difettoso fa buttar via la
tela. Questo DNA stava alla base di quell’impossible goal del 1950.
Quando recentemente Toyota decide di fare auto che “migliorano la qualità dell’aria” afferma un
controsenso: ma questa “follia” ha un grande peso, insieme al continuo miglioramento dei processi
di progettazione e allo sviluppo delle conoscenze tecnologiche, nella velocissima progettazione e
messa in produzione delle auto ibride come la Prius e auto all’idrogeno oggi in laboratorio, passi
per una futura auto senza emissioni.
Un’altra forza di espansione propria del DNA della Toyota sono le pratiche di miglioramento
continuo: dallo sforzo innovativo degli ingegneri che hanno fatto nascere la Prius, alle 740.000
proposte di miglioramento che sono state suggerite dai 300.000 dipendenti ed effettivamente
realizzate (2 proposte approvate in media per ogni dipendente!).
Le “forze di integrazione” muovono dai valori dei fondatori e si sviluppano attraverso un modo
condiviso di praticarli nella quotidianità: l’umiltà, l’ossessione per la qualità, la concretezza
dell’agire artigiano dentro una impresa gigantesca, il rispetto per le persone, l’attenzione al cliente,
lo stare sempre sul campo (gemba), l’andare a vedere le cose con i propri occhi (genchi genbutsu)
a tutti i livelli. Questo “stare sul pezzo” si manifesta in pratiche diffuse, dall’andon, ossia la work
authority assegnata a tutti di poter fermare un processo difettoso (anche una catena di montaggio!)
che costringe tutti a correre a vedere il problema, alla presenza sul campo anche del CEO di
Toyota, che a un giornalista che gli chiedeva quando aveva visitato l’ultima volta una fabbrica
rispondeva “ieri”, quando aveva visitato un concessionario rispondeva “l’altro ieri”.
La formazione sul lavoro e l’apprendimento continuo sono un’altra forza di integrazione: il lavoro è
il vero libro di testo, la vera aula di formazione, perché il valore di base è che il lavoro conta,
complesso o umile che sia.
La open communication consente di far convivere una forte burocrazia e gerarchia con la
possibilità di critica, di condotta fuori dai silos, e con la diffusa disponibilità a rischiare.
In sintesi, l’anima dell’impresa è fatta dei sogni perseguiti pervicacemente, dalla sua cultura
praticata a tutti i livelli, dai suoi valori condivisi. Alla base di questa anima c’è il grande rispetto del
CEO per l’ultimo operaio della catena e c’è la fiducia dell’ultimo operaio della catena nei propri
capi, perché essi condividono il fatto che lavorano all’interno degli stessi processi che, prima che
nei flow chart, sono nella testa delle persone.
Toyota vive gestendo contraddizioni, come tutti gli organismi viventi: è stabile e frenetica, è
sistematica e sperimentale, è formale e ammette il dissenso, l’open confrontation. In una parola,
un esempio di quello che io ho definito come la radice dell’innovazione: “genio e regolatezza”
(Butera, 2007).
L’esperienza Toyota fornisce indicazioni importanti su due grandi temi dello sviluppo delle
organizzazioni in Italia. La prima è la possibilità concreta di sviluppare quella che ho definito
“impresa integrale”, l’impresa con un’anima e con forte partecipazione, un modello che va oltre la
nozione un po’ pallida di “responsabilità sociale dell’impresa”.
La seconda è una importante indicazione su come “narrare l’impresa”, con gli artefatti, con gli
scritti, con i media, con i musei: il museo della Toyota mostra i manufatti, i documenti, i pensieri e
anche le radici di una impresa nata come industria tessile che ha come DNA le macchine utensili,
l’orientamento a tener conto della customer experience, la centralità degli operai e dei capi che
dovevano gestire le varianze di una tecnologia non autosufficiente. Il futuro ha un cuore antico:
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questo è particolarmente importante per quanto riguarda le storie delle medie imprese eccellenti
italiane, di cui per lo più non si conoscono bene le ragioni del successo.
Come in Olivetti e in Toyota, il successo di una impresa non si spiega solo con la genialità
dell’imprenditore e neanche solo il “corpo” della sua ottima strategia e struttura, ma bisogna anche
comprendere sia il “sistema nervoso” che lega fra loro le persone sia l’’“anima” condivisa
dell’impresa che consente il salto da impresa di successo ben gestita e ben diretta a impresa di
permanente successo, che continua ad apprendere e che diventa “built to last”, ossia costruita per
durare oltre i suoi fondatori.
Comprendere questo non è così semplice – ad esempio nei casi di Geox, di Technogym, di Lotto,
di Zambon, etc. –, perché una combinazione felice di strategia, struttura, organizzazione e
persone, e la grande capacità imprenditoriale di Moretti Polegato, di Alessandri, di Tomat, degli
Zambon non spiegano del tutto il successo di quelle imprese.
Il profilo dell’“impresa integrale”
Allora, come potremmo rappresentare il “modello Olivetti” o il “modello Toyota” che abbiamo
tratteggiato brevemente o il modello delle tantissime medie imprese italiane che non abbiamo
citato qui, che operano in “reti lunghe” su uno scenario globale ? Esso è un modello proponibile
alle imprese italiane nel vivo della competizione internazionale?
Come ho anticipato, credo che questo sia il modello dell’“impresa integrale” o dell’impresa
eccellente socialmente capace impresa che persegue in modo integrato elevate performance
economiche e sociali, che agisce concretamente per proteggere e sviluppare l’integrità degli
stakeholder e dell’ambiente fisico, economico e sociale, che ha condotte eticamente integre
(Butera, 2004).
Presento questo concetto consente per andare oltre le nozioni di “responsabilità sociale” e di
“impresa responsabile”, “impresa illuminata”, nozioni che hanno avuto grandi meriti, ma sono state
criticate per le loro connotazioni moralistiche e idealistiche o per la loro sostenibilità economica.
Parliamo invece di una impresa “normale” che può possedere o meno aggettivi qualificativi ma che
semplicemente sviluppa in modo eccellente e congiunto valore economico e sociale attraverso una
strategia e azioni concrete. Essa si consegue non adottando un modello, ma attraverso un
processo energico e faticoso per definire valori, strategie, per “render conto”, per realizzare le
proprie intenzioni. E soprattutto per realizzare risultati e mettere in pratica quei valori, ogni giorno e
per tutti.
Ciò che fonda questa idea di impresa è il legame di reciprocità fra successo economico e
successo sociale di un soggetto collettivo dotato di struttura sua propria e di modi di azione, e non
visto solo come un mezzo per raggiungere i fini dei suoi proprietari.
L'impresa integrale è il risultato di quell’efficace duplice legame di reciprocità fra impresa e società.
Essa è un’istituzione economica che non solo importa dal contesto socio-economico valori, norme
e regole sociali, ma che vi esporta anche valori, conoscenze, cooperazione. Questa reciprocità
avviene attraverso prodotti, servizi, progetti, ma soprattutto attraverso le persone “vere”, cresciute
e socializzate nella e con l'impresa: manager, professional, tecnici, artigiani, semplici lavoratori, e
anche clienti e fornitori cittadini di una società della conoscenza. Essa è in qualche modo una
istituzione.
Ciò che determina l’essere un’impresa integrale non sono solo le qualità morali individuali o le
caratteristiche valoriali e carismatiche dell’imprenditore e del gruppo dirigente (sempre
fondamentali), ma le reali pratiche operative e di management dell’impresa. Un leader senza un
corpo sociale con cui realizzare le cose non costruisce una “impresa integrale” e neanche una
impresa “built to last”.
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L’impresa integrale ha alcune caratteristiche chiave:
1.
fonda la sua identità su sviluppo, produzione e commercializzazione di beni o servizi
socialmente utili per i clienti e le comunità. Esclusi i casi di prodotti ostensibilmente dannosi
come la droga o le sigarette, o i servizi basati sulla debolezza del cliente come l’usura e il
“pizzo”, in ogni società esiste una discussione su cosa è utile, superfluo o dannoso. La
definizione di prodotti “socialmente apprezzabili” è naturalmente del tutto contingente ai valori,
alla cultura, all’economia di ogni specifica società. Una società farmaceutica o una società di
telecomunicazioni di solito non hanno bisogno di convincere nessuno che i loro prodotti sono
utili anche se devono ancora convincere che lo sono davvero e che perseguono scopi etici
con mezzi etici. Una impresa di arredamento come IKEA si è impegnata con successo per
affermare l’apprezzabilità sociale dei propri prodotti per fasce deboli della clientela e ha
consentito a milioni di giovani coppie di arredare la propria casa con gusto e a basso prezzo.
L’industria della moda italiana ha convinto tutto il mondo che l’effimero dei suoi prodotti
contribuisce a costruire l’identità individuale e collettiva e l’estetica di una società e non è
ostentazione di lusso. E così via;
2.
poiché tende ad essere fra le best in class nel suo settore o nel suo mercato, è capace di
difendersi dalle diseconomie esterne e di attivare propositivamente economie esterne,
rafforzando la propria competitività anche in ragione del miglioramento del contesto
istituzionale e sociale. Ossia, interviene positivamente sul mondo esterno insieme alle
istituzioni (pensiamo al miglioramento dell’ambiente fisico, all’intervento positivo sui processi di
istruzione pubblica, alla reazione al “pizzo” di imprese meridionali, in sintonia con le istituzioni);
3.
altro elemento chiave dell’apprezzabilità sociale è costituito dalla eccellenza del processo di
concezione, realizzazione e consegna del prodotto e servizio: valori come l’intensità della
ricerca, l’impiego di tecnologie avanzate, la qualità dell’organizzazione, l’impiego e la
valorizzazione delle competenze. Essi rimandano alla utilizzazione e alla valorizzazione del
“capitale sociale” e del “capitale intellettuale” dell’impresa;
4.
è una organizzazione che funziona e che è internamente coerente e strategicamente
appropriata: sviluppano cioè una efficace integrazione di strategie, processi, organizzazione,
ruoli, valori, leadership;
5.
attiva reti di soggetti economici, istituzionali e di persone che interagiscono positivamente:
comunità che interagiscono, dialogano, lavorano, confliggono, convergono, decidono, operano
sul territorio e che oggi si possono avvalere delle straordinarie potenzialità delle tecnologie
dell’Informazione e della Comunicazione per creare comunità planetarie;
6.
assume spontaneamente impegni e responsabilità riguardanti l’ambiente, la comunità, la
clientela, i membri dell’organizzazione e misura la realizzazione di questi impegni. L’impresa
integrale ovviamente genera ricchezza per sé e per i proprietari, ma attrae investimenti di
investitori, fornitori e clienti, fertilizza comunità, sistemi economici territoriali, Pubbliche
Amministrazioni, altre imprese e accumula nel tempo un consistente “capitale sociale”. Tutto
ciò rappresenta un fattore di vantaggio competitivo che costruisce imprese “fatte per durare”;
7.
produce soprattutto persone, persone vere cresciute e socializzate nella e con l’impresa:
manager, professional, tecnici, artigiani, semplici lavoratori, e anche clienti e fornitori. “Product
of work is people”. La Olivetti, per esempio, è anche le persone che ha disseminato
nell’economia italiana e internazionale;
8.
il suo governance system, la sua organizzazione interna, la sua cultura di impresa, le relazioni
stabili con le istituzioni e le organizzazioni del territorio sono caratterizzati da valori dichiarati e
effettivamente praticati a tutti i livelli, fra cui trasparenza, correttezza, collaborazione, fiducia,
passione, energie e altre: ciò ne determina l’identità;
9.
nell’impresa integrale operano soggetti che possono avere pregi e difetti, eroismi e storture di
ogni genere, ma in tutti i casi svolgono funzioni economico-sociali di straordinaria importanza,
stakeholder ossia soggetti a cui l’impresa dà visibilità e importanza: l’imprenditore che fa fare
nuove cose o fa fare in modo nuovo cose che si stanno già facendo (innovazione); gli azionisti
che apportano risorse economiche all’impresa invece di parcheggiarle nei titoli di Stato o
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esportare capitali nei paradisi fiscali; i dirigenti che portano ad unità elementi dispersi e promuovono
il cambiamento; i professional che innovano o sostengono l’apprendimento degli altri; gli operai
e gli impiegati che realizzano i processi fondamentali che creano prodotti e servizi e ricchezza; i
clienti che sono parte ineliminabile dell’impresa. E così via;
10. dispone di una vasta serie di solidi indicatori economici e finanziari (redditività, ROI, ROE,
etc.), di efficacia commerciale (customer satisfaction, etc.) e di efficacia sociale (bilancio di
sostenibilità, inchieste nella comunità di riferimento, indagini di clima, analisi della qualità della
vita di lavoro, etc.): essi sono strumenti per l’azione a tutti i livelli.
Alcuni di questi tratti strutturali li abbiamo visti caratterizzare la Olivetti e la Toyota e sono stati in
gran parte la ragione del successo dei distretti industriali e di medie imprese leader nel loro
settore. Qui sosteniamo che si applicano ad una più vasta serie di realtà imprenditoriali. Sono tratti
riproducibili in un grandissimo numero di imprese vere e normali, la stragrande maggioranza delle
quali non ha imprenditori carismatici e socialmente impegnati, ma imprenditori che costruiscono e
guidano imprese integrali.
Vi sono molte più imprese integrali in Italia di quanto si pensi. Una ricerca e la redazione di storie
di impresa, fatte in modo non agiografico, in modo scientifico ma leggibile, è uno dei grandi compiti
delle scienze organizzative, dei media, della letteratura.
Le 7 leve chiave per lo sviluppo di imprese integrali
Le imprese integrali nascono e si sviluppano spontaneamente o si possono anche progettare e
sviluppare intenzionalmente? La domanda è cruciale perché rimanda alla questione se può essere
perseguito un modello di impresa italiana robusta economicamente che sia parte di un assetto
istituzionale equo e che costituisca parte di una italian way of doing industry (Butera e De Michelis,
2009). La crisi in corso vedrà emergere, al suo termine, imprese dotate di paradigmi organizzativi
riproducibili nel corso della ripresa. Inoltre, in modo crescente l’opinione pubblica esprime il più alto
grado di fiducia nell’impresa come istituzione, capace di assicurare benessere, occupazione,
qualità dei prodotti e dei servizi, sviluppo dei territori.
La risposta è positiva: qui di seguito proveremo a descrivere le dimensioni più importanti su cui
agire per sviluppare e potenziare imprese integrali.
Fra di esse quelle organizzative sono le linee di analisi, progettazione e sviluppo
dell’organizzazione che chi scrive e la Fondazione Irso adottano da moltissimi anni nelle proprie
ricerche, nei progetti, nelle consulenze, nella formazione: esse sono supportate da metodologie
provate in un gran numero di casi. Su di esse ci soffermeremo maggiormente (si vedano i seguenti
punti 1, 4, 5, 6 e 7).
Diventare una impresa integrale è un percorso:
7 sono le leve che possono essere agite
I. Gestire il cambiamento strategico e strutturale con modalità partecipative
II. Produrre prodotti e servizi socialmente utili
III. Partecipare attivamente alla protezione dell’ambiente fisico e sociale
IV. Sviluppare organizzazioni internamente coerenti e appropriate a strategie e valori
V. Curare la qualità della vita di lavoro e l’identità delle persone:
 rendere eccellenti i processi e far sì che siano nella testa delle persone;
 sviluppare l’impresa come rete di fornitori, clienti, persone, istituzioni, comunità;
 creare professioni ampie, ruoli aperti, e valorizzare il posto di lavoro che è dentro le
persone;
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 sviluppare comunità basate su cooperazione spontanea, condivisione delle conoscenze,
comunicazione estesa;
 creare cooperazione fra leadership e management dell’impresa.
V. Applicare i valori nella prassi quotidiana e valorizzare i fattori hard e soft dell’identità di
impresa
VII. Sviluppare sistemi integrati di financial e social audit
Cambiamento strategico
e strutturale
Rendicontazione economica
e sociale
Valori e identità
Qualità della vita di lavoro
Prodotti e servizi
socialmente utili
Organizzazione coerente
e appropriata
Sostenibilità sociale
e ambientale
Il “radar” delle leve per sviluppare l’impresa integrale © F. Butera e Fondazione Irso
Nei prossimi paragrafi esamineremo in dettaglio queste leve e alcuni metodi per attivarle, con
particolare attenzione a quelle organizzative su cui chi scrive ha esperienza diretta.
I. La gestione del cambiamento strategico e strutturale
Molte sono le ragioni per cui le organizzazioni in Italia stanno cambiando e devono urgentemente
cambiare: affrontare la crisi finanziaria e industriale internazionale; acquisire competitività strutturale;
internazionalizzazione; gestire lo sviluppo dell’impresa nelle aree sistema e dei territori e imprese in
rete; richiedere e ottenere l’efficacia e l’efficienza della Pubblica Amministrazione; favorire lo sviluppo di
nuovi lavori e di nuovi lavoratori;assicurare l’equilibrio fra sviluppo tecnologico e sviluppo
organizzativo; tener conto della dimensione etica e sociale della condotta dell’impresa; promuovere
lo sviluppo sostenibile entro una economia globale.
In questo processo molte imprese sono indotte ad attivare processi strategici di business che
consentano di:
a. passare da strategie di solo costo a strategie di diversificazione (Ansoff, 1979);
b. allungare la catena del valore (Porter, 1980), ad esempio proponendo prodotti più servizi lungo
filiere allungate;
c. passare dall’impresa accentrata all’impresa che sceglie continuamente il make or buy
(Williamson, 1985), con sistemi di outsourcing e offshoring;
d. passare da strategie di mass production centrate su prodotti o servizi commodificati a strategie
centrate sul cliente (customer centred organization);
e. perseguire, ove appropriato, “strategie di dominanza” (Delta model di Hax, in Hax e Wilde,
1999) e in particolare:
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o offrire “soluzioni proprietarie” rispetto a bisogni primari di grande valore che sono indifferenti
al prezzo e che non hanno competitori (ospedali di eccellenza, università di fama,
outsourcing di processi ad alto rischio, specialità sanitarie vitali, etc.);
o strategia di lock in, ossia rendere il prodotto o servizio non copiabile e non gestibile dai
concorrenti (Microsoft, Intel).
Identificare una strategia non è difficile. Difficile è realizzarla attivando tutte le risorse interne ed
esterne disponibili, prima fra tutte le risorse umane.
Il metodo adottato in una varietà di progetti da chi scrive (passaggio dalla meccanica all’elettronica
in Olivetti, progettazione del Nuovo Treno Medio della Dalmine, Uffici delle Entrate, Contact Center
di Vodafone e molti altri) è quello del Change Management Strutturale (GICS © Federico Butera).
Esso rappresenta la concezione e il dimensionamento di architetture innovative e integrate di
strategie, prodotto/servizio, tecnologie, persone, cultura che hanno l’obiettivo di realizzare strategie
prescelte e appropriate alle risorse e potenzialità dell’organizzazione.
Il Change Management Strutturale include fin dall’inizio della concezione un programma e un
presidio per il governo dei processi di cambiamento e di implementazione che godono del supporto
del vertice e che attuano una integrazione fra progettazione, sviluppo e monitoraggio, suscitando
condivisione e partecipazione da parte del management intermedio e degli associate.
L’obiettivo del Change Management Strutturale è di innovare e di far accadere le cose.
Esso fa coesistere strategie elaborate dall’imprenditore e attivazione di un processo partecipato di
realizzazione effettuata da tutta la compagine aziendale. Include infatti:
 l’ingaggio della committenza a definire e ridefinire problema, strategia e obiettivi operativi;
 il benchmark internazionale su esempi e best practice;
 lo studio della situazione concreta;
 la identificazione e comunicazione di un concept condiviso;
 la costituzione di una struttura incaricata di abilitare le persone dell’organizzazione: steering
committee e design team;
 un progetto pilota condotto dal team di progetto (un mock up);
 la realizzazione e la formazione.
II. I prodotti socialmente utili
La valutazione dell’utilità sociale è storicamente determinata. Indicatori che li misurano solo quelli
della qualità della vita, della Customer Satisfaction e della Customer Experience (Fabris, 2008).
Questo tema è oggetto di un contributo a parte (Butera, 2007, 2010).
III. Curare la sostenibilità sociale e ambientale
L’impresa non sopravvive quando è soffocata dalla burocrazia pubblica. Il cambiamento della
Pubblica Amministrazione è certamente una condizione necessaria per lo sviluppo dell’impresa
L’impresa – in aggiunta alla legittima pressione che può esercitare su questo tema attraverso la
sua rappresentanza – può però lavorare attivamente alla modernizzazione, operando con
correttezza e con proattività, agendo in partnership con la Pubblica Amministrazione offrendo
servizi, proponendo risorse formative e così via.
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L’impresa muore nei territori inquinati dalla criminalità. Quando l’impresa non soggiace alla
criminalità, non può non “invadere” positivamente il terreno della convivenza civile e operare come
“impresa per la cultura” (Dioguardi, 1994) e come agente di sviluppo. Le iniziative degli
imprenditori siciliani contro il “pizzo” e la mafia vanno in questa direzione.
Il nostro pianeta è gravemente minacciato da agenti degradanti e inquinanti prodotti dallo sviluppo
industriale (F.M. Butera, 1991, 2007). Ridurre i rischi e generare nuove protezioni per l’ecosistema,
sviluppare prodotti a basso livello di consumi ed emissioni non rappresenterà solo un costo per
l’impresa, ma una delle più ampie aree di affari mai visti. Infatti, quando si definirà bene il mercato
della sostenibilità, si svilupperà un volume di azioni di ricerca e sviluppo e di produzione di una
magnitudo non inferiore a quella erogata nella prima rivoluzione industriale con i tessuti, le centrali
termoelettriche, la siderurgia, le ferrovie e l’automobile. Una prova è lo schierarsi di grandi
corporation a fianco di Obama nei programmi di riduzione delle emissioni.
Dopo le risorse naturali, l’impresa deve valorizzare le risorse culturali e simboliche delle società in
cui opera: non è vero solo per l’industria culturale, per il settore del turismo, per le ICT, ma anche
per il settore farmaceutico, delle biotecnologie e per moltissime altre imprese che valorizzano il
“capitale intellettuale” di una società.
IV. Organizzazione coerente e appropriata
IV a. L’eccellenza dei processi
Miller e Rice (1967) hanno scritto: “Processo è una trasformazione o una serie di trasformazioni
che hanno luogo sull’oggetto dell’attività funzionale di un sistema (throughput), come risultato del
quale l’oggetto viene cambiato nella sua posizione, forma, misura o in qualche altro aspetto”.
Questa definizione si applica anche a casi in cui l’oggetto è immateriale, come ad esempio
l’erogazione di un servizio, l’innovazione, l’educazione: qui gli input sono rappresentati da
informazioni sotto forma di segni, segnali e simboli, e gli output da servizi che soddisfano i bisogni
di un cliente esterno o interno.
L’analisi e il ridisegno dei processi sono i passi di base per ogni innovazione organizzativa
necessaria in questa fase. Per capire e intervenire su cosa avviene in un’organizzazione
complessa (una fabbrica di automobili, una fabbrica chimica, un ristorante, un ospedale, un ufficio
pubblico, un gruppo musicale), dobbiamo capire quali sono i suoi processi: “cosa si fa in quella
organizzazione”. E migliorarli incessantemente.
Avevo ridefinito il processo come “una sequenza di eventi adeguatamente concepiti,
concretamente realizzati ed efficacemente controllati che conducono al raggiungimento degli scopi
dell’organizzazione e al soddisfacimento dei bisogni dei clienti/utenti, entro i limiti desiderati delle
prestazioni primarie (qualità del prodotto/servizio) e delle prestazioni associate (costo, sicurezza,
tempestività, qualità della vita di lavoro dei ‘produttori’, etc.)” (Butera, 1984).
La storia dell’Irso - Istituto di Ricerca Intervento sui sistemi Organizzativi si sviluppò a partire dalla
primazia accordata all’analisi e alla progettazione dei processi. Secondo la tradizione sociotecnica
il processo è il principio di realtà di una organizzazione e ha la sua funzione cruciale non solo
quando è definito in un flow chart o in una procedura informatica, ma quando è messo in atto dalle
persone: è nella testa delle persone. Il processo è una operation, ma anche il compito che ha un
valore che deve essere compreso e condiviso nelle imprese integrali: deve valere più della
procedura, della mansione, della struttura organizzativa. Ognuno deve sentirsi impegnato a
condurre processi end-to-end, ossia a contribuire ai risultati.
Ruoli, organizzazione del lavoro devono essere, secondo la nostra tradizione, centrati sulla piena
comprensione dei processi soprattutto quando avvengono varianze, che richiedono un
riaggiustamento delle condotte individuali e collettive.
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L’analisi e la riprogettazione dei processi hanno quindi come scopo non solo la semplificazione e la
riduzione dei costi e degli sprechi, ma anche l’abilitazione della organizzazione e delle persone a
ottimizzare i processi e a identificare, assorbire, fronteggiare le varianze, grandi o piccole che esse
siano.
La progettazione sociotecnica allora riguarda la concezione e lo sviluppo congiunto di
organizzazioni, ruoli, tecnologie, competenze per un pieno controllo dei processi.
Senza la work authority data dalla comprensione e dalla capacità di intervento sui processi che
implicano responsabilità e cooperazione, è assai difficile costruire imprese integrali, che sono
caratterizzate da condivisioni di valori e da partecipazione.
L’esempio dell’andon della Toyota, che autorizza l’operaio più modesto a tirare la corda per
fermare la linea se vi è un serio problema sui processi, simboleggia questo legame fra controllo dei
processi e partecipazione.
IV b. Un sistema di organizzazione a rete
Le imprese integrali sono sempre di più organizzazioni a rete. Per svilupparle lungo quel modello è
necessario padroneggiare la grammatica e la sintassi delle organizzazioni a rete. Analizzarle,
svilupparle, progettarle. Questo è l’impegno che chi scrive e la Fondazione Irso esprimevano
(Butera, 1991), quando non sembrava che su questo difficile rapporto sulla scelta fra
organizzazione e mercato (Williamson, cit.) si potesse intervenire in modo propositivo.
Le discipline che si sono occupate di reti sono numerose: economia, ingegneria, informatica,
ricerca operativa, scienze dell’organizzazione e molte altre. La ricerca sulle reti organizzative si è
sviluppata in varie direzioni senza risolvere il problema del carattere polisemico del termine “rete”.
Esso allude infatti a concetti e applicazioni diversissimi: reti telematiche, reti di processi, reti di
relazioni, reti di conoscenze, reti organizzative, reti di imprese, reti di imprese e territori, e molto
altro. Il termine è insomma adoperato in modo a-specifico per indicare ogni sorta di connessione. Il
problema è che molte di queste sono connessioni parallele o convergenti che si incrociano e si
intrecciano nel funzionamento dei sistemi sociali ed economici.
Da un punto di vista organizzativo, rete equivale certamente a sistema di relazione fra attori, a
legami fra soggetti che convergono a realizzare un medesimo processo di produzione e/o di
business.
Axelsson e Easton (1991) sintetizzano la grande varietà di approcci adottati nelle scienze
organizzative in tre grandi gruppi:
 il primo gruppo vede il network come modello di relazione fra diverse organizzazioni per
raggiungere fini comuni (Van de Ven e Ferry, 1980);
 il secondo gruppo definisce il network come una serie di connessioni “lasche fra organizzazioni
legate da relazioni sociali” (Aldrich, 1999);
 un terzo gruppo vede il network come un insieme di due o più relazioni di scambio.
Axelsson e Easton chiariscono bene che solo la prima accezione implica appartenenze, confini,
obiettivi, risultati, ossia qualcosa che assomiglia a ciò che definisce una organizzazione.
Venkatraman e Henderson (1998) affrontano in modo molto chiaro il problema della cosiddetta
virtualità consentita dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, sostenendo che ci
vogliono organizzazioni reali per organizzarsi in modo virtuale. La “virtualità” per questi autori è
una caratteristica strategica applicabile ad ogni azione organizzativa mentre non esistono
organizzazioni virtuali come nuovi modelli. Vi sono invece tre vettori strategici che si sviluppano
sulla rete che hanno un ruolo chiave nel successo delle nuove organizzazioni:
1. la leva delle conoscenze ottenuta anche virtualmente attraverso lo scambio di conoscenze sulla
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rete (knowledge management, e-learning, etc.);
2. la leva della relazione con i clienti ottenuta attraverso l’incontro virtuale di offerta e domanda (ecommerce, e-business);
3. la leva della configurazione strutturale delle risorse o asset configuration (subforniture,
outsourcing, alleanze, etc., realizzabili con l’ausilio della rete che solo in parte può essere
virtuale).
Questi tre vettori, innanzitutto, divengono sempre meno virtuali e sempre più strutturali:
1. le conoscenze evolvono da componente virtuale a componente strutturale: la gestione delle
conoscenze si estende dallo scambio all’interno della stessa unità di lavoro o comunità di
pratica, allo sviluppo di intellectual capital, (Edvinsson, 1997) e alla creazione di comunità
professionali cosmopolite (Butera, 1988);
2. la strategia verso i clienti si fa anch’essa struttura: da scambio di informazioni su prodotti e
servizi, diviene customizzazione dinamica, fino ad arrivare alla costituzione di comunità di
clienti;
3. in sistemi formalizzati di CRM, l’asset configuration evolve dalla identificazione e
esternalizzazione di moduli di fornitura alla costituzione di interdipendenza dei processi fino ad
arrivare alla coalizione su risorse comuni o all’impresa rete, di cui parleremo oltre.
L’impresa rete è un soggetto unitario costituito da un sistema di riconoscibili e multiple connessioni
e strutture entro cui operano imprese o unità organizzative di imprese e amministrazioni, ossia
“nodi” ad alto livello di autoregolazione (sistemi aperti vitali), capaci di cooperare fra loro (ossia di
condurre vari tipi di transazioni efficaci) in vista di fini comuni o di risultati condivisi (Butera, 1991).
Le imprese integrali sono sempre di più organizzazioni a rete e sono caratterizzate dai seguenti
elementi costitutivi, che sono la grammatica delle reti e che vanno governati, progettati, sviluppati. È
ciò che imprenditori geniali hanno fatto anche inconsapevolmente e che manager esperti devono saper
fare sapientemente:
 la valorizzazione, che avviene attraverso una doppia catena del valore – il valore economico e il
valore sociale;
 i processi interfunzionali, interaziendali e interistituzionali che attraversano imprese e unità
organizzative diverse;
 i nodi vitali, capaci cioè di sopravvivere e prosperare autonomamente. Essi sono “nodi
produttivi” (imprese, unità organizzative, ruoli professionali) e “nodi istituzionali” (enti pubblici,
comuni, scuole, gruppi sociali) che operano nella stessa “arena decisionale”;
 i legami, laschi e rigidi, che connettono i nodi (scambi economici, procedure, informazioni,
comunicazioni, relazioni sociali, rapporti di potere, etc.);
 le strutture multiple che devono essere fra loro coerenti e adatte alle strategie e alle sfide
(gerarchia, mercato, sistema informativo, sistema telematico, strutture sociali, strutture politiche,
etc.);
 le proprietà operative, come sistemi decisionali, sistemi di regolazione dei conflitti, forme di
rafforzamento dell’appartenenza alla rete, etc. Il più importante dei sistemi operativi è il sistema
di governo (governance system).
L’impresa rete è quindi la più composita delle strutture: è contemporaneamente un mercato, una
struttura gerarchica, una rete informativa, un sistema sociale, un clan o una famiglia, una struttura
“politica”: essa, inoltre, ha una forma di governance più complessa di quella formale. L’impresa
integrale si sviluppa tanto più quanto è forte il sistema di governance della rete. Diceva Edith
Penrose che un sistema si sviluppa al tasso della crescita dell suo gruppo dirigente. Oggi
possiamo dire che una impresa integrale si sviluppa al tasso di crescita della sua capacità di
governante della rete, generando cooperazione fra imprenditori, gruppo dirigente e stakeholder.
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IV c. Sistema di ruoli e professioni
Nelle imprese integrali abbiamo visto che centrali sono le persone: chi lavora nell’organizzazione,
chi la dirige, chi ne possiede una quota, chi è fornitore, chi è cliente. Nell’impresa integrale vi è una
grande flessibilità e dinamicità del chi fa che cosa, una scarsa formalizzazione dei percorsi di
cambiamento nella professione o nella identità, una infinità varietà di personalità, attitudini, bisogni
delle persone vere. L’impresa integrale è a misura della persona. Ma come evitare che esistano
tante organizzazioni quante sono le persone o che il continuo cambiamento dissolva ogni certezza
dell’organizzazione? È il sistema professionale che evita questo rischio (Abbot, 1988).
L’impresa integrale è dinamica e risponde alle caratteristiche delle persone, come la Olivetti delle
fasi 1 e 2: disporre di un sistema di ruoli aperti, di sistemi di professioni aziendali a banda larga,
valorizzare il “posto di lavoro che c’è dentro ogni persona”. Analizzare e progettare ruoli agiti,
broad profession centrate sulle effettive prassi di lavoro e sul ruolo attuale e potenziale come
patrimonio della persona: questa è l’esperienza che chi scrive e i colleghi della Fondazione hanno
condotto negli anni alla Olivetti, alla Honeywell-Bull, alla Finsiel, alla Boheringer, agli Uffici delle
Entrate, per citare solo alcuni esempi. Ora l’approccio e le metodologie seguite sono disponibili per
la costruzione di ruoli e professioni, uno degli organi componenti fondamentali dell’impresa
integrale.
Un sistema di ruoli e professioni è basato su tre dimensioni principali:
 la progettazione e la gestione dei ruoli assegnati o ascritti. Essi sono uno dei building block
del modello organizzativo ed hanno per oggetto:
o i processi di lavoro;
o le relazioni con le persone e la tecnologia;
o le attese organizzative, obiettivi e risultati;
o le competenze e i comportamenti richiesti;
 l’identificazione di professioni o quasi-professioni, ovvero la storia passata e futura di una
situazione lavorativa, che è data da istituzioni sociali riconoscibili e gestibili dal sistema
scolastico, dall’ordinamento giuridico, dalle agenzie dell’impiego, dalle relazioni industriali, etc.;
 il riconoscimento e l’abilitazione della persona al lavoro (che altri chiamano personale, risorsa
umana, dipendente, etc.), sia come soggetto abilitato ad agire nelle organizzazioni e portatore
di conoscenze, abilità, potenzialità, desideri, inclinazioni ed invenzioni, sia come possessore del
workplace within, ossia la propria fonte di adattamento, interpretazione e reinvezione di ruoli e
professioni.
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contesto organizzativo
di riferimento
caratteristiche
occupazionali
Identità
Professionale
RUOLO
PROFESSIONE
Sviluppo della Persona
nel Ruolo
ruolo agito
Sviluppo del Ruolo
oltre la Persona
Sviluppo di Carriera
entro e fuori l’organizzazione
PERSONA
storia, traiettoria personale
e sistema sociale
©
Il modello di analisi e progettazione del lavoro della Fondazione Irso 2009
Le tre dimensioni del modello si originano fuori da uno specifico contesto e da un esteso ambiente
organizzativa e societaria. Il ruolo infatti è una parte del sistema organizzativo, che evolve
rapidamente distruggendo e creando ruoli. La professione è una porzione del mercato del lavoro,
e quest’ultimo le attribuisce valori e compensi in base a dinamiche socio-economiche che
trascendono la professione in sé, per quanto le corporazioni tentino di cristallizzarli. La persona al
lavoro è la punta dell’iceberg di ciò che la persona è nella sua totalità, è stata, e sarà.
Questo modello è alla base degli attuali progetti di analisi, progettazione dei ruoli e delle
professioni e dello sviluppo delle persone della Fondazione Irso ed è descritto in Butera, Di
Guardo (2009).
L’idea centrale di questo approccio è triplice:
 che i ruoli ascritti siano centrati su risultati, sulla padronanza di processi complessi di
conoscenza, implicando relazioni interattive fra le persone e fra esse e le tecnologie, un insieme
di competenze di teorie e tecniche, un sistema di attese produttive e sociali, che tendono a
costituire forme di lavoro “a senso compiuto”, come lo furono i ruoli degli artigiani e dei
professionisti liberali;
 che un sistema professionale renda visibile le forme di formazione, ingresso, mobilità,
riconoscimento sociale, che in una parola fornisca alla persona e al sistema sociale una
immagine della identità, delle responsabilità, dei possibili percorsi della persona;
 che la persona, nello svolgere il suo ruolo agito e nel realizzare percorsi sempre meno
codificati, “sporga” oltre i ruoli e le professioni.
Se dunque alle persone oggi viene richiesto non tanto l’esecuzione di un task quanto una
“performance lavorativa” (che nasce dalla propria capacità di combinare l’esistente ed il dato con il
nuovo e l’originato), ecco che l’organizzazione deve necessariamente assomigliare sempre più ad
un sistema che facilita questo processo. È la persona che agisce i ruoli e le professioni, che
esprime il workplace within (Hirschhorn, 1988), che crea e innova ruoli organizzativi e professioni
in rapporto con gli altri elementi del sistema (gerarchie, sistemi sociali, tecnologie, risultati
economici, etc.).
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IV d. Proprietà di funzionamento
comunicazione, comunità
integrative:
cooperazione,
conoscenza,
Quando in una organizzazione gli obiettivi sono altamente variabili e difficili da raggiungere, i
processi sono altamente incerti e attraversano una organizzazione a rete, la tecnologia o i processi
di reengineering sconvolgono l’organizzazione, l’innovazione deriva in buona misura dalle persone,
la cooperazione è richiesta anche fra persone in postazioni remote, è richiesto un nuovo modello di
organizzazione che massimizzi la cooperazione, la comunicazione, le conoscenze, la comunità.
Esso emerge in una varietà di organizzazione di ricerca e sviluppo, di servizio, di produzione e lo
abbiamo definito come modello delle 4C © Federico Butera e Fondazione Irso, ossia il modello
della Comunità che innova attraverso la Cooperazione intrinseca e la Comunicazione estesa di
Conoscenze condivise (Butera, 1999).
Esso è oggi il modello di analisi e progettazione della parte non formale dell’organizzazione
adottato nella ricerca, nella progettazione e nella formazione dalla Fondazione Irso.
Una organizzazione 4C è caratterizzata dalle seguenti 4 proprietà “di funzionamento”:
 una cooperazione intrinseca, ossia lavorare insieme con obiettivi comuni e condivisi, con
comunità di pratiche, con regole sviluppate in parte dai membri stessi dell’organizzazione;
 una comunicazione estesa, basata su una ampia diffusione supportata da adeguati media e
formati di comunicazione e che si estende oltre i confini dell’organizzazione;
 una conoscenza condivisa, ossia la condivisione fra tutti i membri dell’organizzazione di una
grande varietà e formati di conoscenza, e del suo governo e della sua promozione;
 una comunità orientata agli obiettivi, ossia una organizzazione razionale e naturale (Scott)
fatta di organizzazioni socialmente capaci, team autoregolati, comunità che apprendono,
corporazioni cosmopolite.
Comunità
professionale
performante
Rete
Cooperazione
intrinseca
Singola Impresa
Micro-strutture
Ruolo e
persona
Conoscenza
condivisa
Comunicazione
estesa
©
Il modello della organizzazione 4C 2000 Federico Butera e Fondazione Irso
Le imprese integrali diventano tali solo se governano in modo buono tutte e quattro queste
proprietà di funzionamento: esse sono parte di quello che io chiamo strutture di regolazione latenti
(Butera, 1979, 2009). Queste dimensioni e proprietà di funzionamento delle strutture latenti sono
state confusamente definite come l’informale (Gouldner lo definiva “un concetto squinternato da
caffè”), né “i comportamenti” (che ne sono la conseguenza), né la parte “soft” (nozione nebulosa e
residuale) delle organizzazione, ma invece proprio la dimensione di regolazione sociale delle
organizzazioni che nei modelli organici e a rete quali sono le imprese integrali sono la parte
dell’organizzazione che fa la differenza. Le strutture di regolazione latenti sono costituite da
componenti non scritte ma forti come il vento, come le correnti marine, sono prassi, conoscenze,
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culture, valori, modalità di relazioni e soprattutto elementi costitutivi delle comunità, ossia di quella
porzione della società che vive in ogni organizzazione.
Queste proprietà di funzionamento esistevano anche nelle organizzazioni tradizionali ma
nell’impresa integrale hanno subito una mutazione di tipo.
La cooperazione estrinseca, dominante nei modelli taylor-fordisti, era quella che faceva
convergere gli sforzi di lavoro entro un piano definito dall’alto. La cooperazione intrinseca è
quella che implica il lavorare insieme sviluppando piani e azioni che consentono ai membri
dell’organizzazione di decidere insieme – in tutto o in parte – perché, quando, dove, come
lavorare.
Barnard (1938) aveva per primo compreso che la cooperazione fonda l’organizzazione e non
viceversa e aveva parlato di “sistemi di cooperazione”. Da allora molti autori hanno provato a
formulare tipologie di studi sul fenomeno della cooperazione: Thompson (1967) aveva identificato il
coordinamento per mutuo adattamento; Gulowsen (1972) e Susman (1976) avevano studiato i tipi
e i gradi di autonomia di un gruppo; Argyris e Schön (1978) e Senge (1996) avevano individuato le
organizzazioni che apprendono; Weick (1969) aveva individuato i legami deboli oltre a quelli forti.
Le scienze organizzative hanno anticipato criteri di funzionamento che si diffondono solo nel pieno
dispiegarsi di organizzazioni integrali.
Come nei casi Olivetti e Toyota, all’interno della stessa impresa, nel modello che descriviamo, ha
luogo una cooperazione strettissima fra pianificazione strategica, ricerca, sviluppo, produzione,
marketing, commerciale. Vi è una intensa interazione fra R&D, manutenzione e assistenza tecnica.
Come in Olivetti e in Toyota, la cooperazione intrinseca si manifesta attraverso una multipla
leadership: gli obiettivi e i piani sono fissati dall’alto, vi è una partecipazione nel definire perché,
dove, come, che cosa è necessario per realizzare gli obiettivi. Vi è orientamento a produrre
insieme innovazione anche al di là delle aspettative espresse dai piani. Le modalità di
cooperazione sono esattamente quelle per mutuo adattamento indicate. Ha luogo un
apprendimento continuo.
Deborah Ancona della Sloan School del MIT ha sviluppato l’approccio più aggiornato sul team
work come modalità strutturale.
Nei progetti della Fondazione Irso sviluppiamo forme di cooperazione disegnando processi
operativi e decisionali basati su schemi collaborativi, fissando regole che potenzino il lavoro di
gruppo, sviluppando ruoli, rendendo accessibili tecnologie della collaborazione, aprendo la porta ai
social network resi possibili dal web 2.0 e molto altro, integrando una varietà di metodologie
esistenti e proprietarie.
La comunicazione estesa (a base tecnologica o meno) non inizia e non si sviluppa senza alcuni
prerequisiti sociali che preesistono alla comunicazione. Fra tali requisiti vi sono i seguenti:
a) devono preesistere gruppi sociali che abbiano proprie risorse e regole in cui si svolge la
comunicazione;
b) devono esistere valori e obiettivi dei gruppi sociali che sottendono alla comunicazione;
c) le conoscenze devono avere un contenuto adeguato agli scopi e ai bisogni della comunità,
devono essere accessibili da tutti i membri della comunità, devono essere comprensibili,
devono essere usabili, devono avere libera circolazione entro e fuori la comunità;
d) devono preesistere all'emissione di messaggi sistemi di regolazione sociale che definiscano le
regole per l'accesso alle informazioni e la non esclusione, l'abilitazione ad usarle, il loro costo.
In Olivetti e Toyota la comunicazione avveniva entro comunità costituite socialmente e
continuamente evolventi.
Nel modello 4C come lo abbiamo concepito la comunicazione:
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 è basata su flussi a due vie di informazioni, comprensibili, accessibili presentati in un formato
usabile;
 è costitutiva dell’organizzazione a rete;
 è di proprietà di persone e gruppi sociali che hanno sviluppato competenze, orientamento,
meccanismi sociali tali da rendere aperta e significativa la comunicazione;
 serve ad aumentare il “sensemaking” condiviso nel vedere gli obiettivi, i processi, i risultati;
 è componente del servizio reso ad altre unità o persone (“la palla va passata”).
Una illustrazione di modalità di comunicazione entro una comunità universalistica e sul campo è
stata sviluppata dalla nostra collega Sara Albolino, esaminando le fasi del round (la vista collettiva)
e del fly (l’operazione) di una équipe chirurgica in un ospedale americano dove, nella fase del fly,
la comunicazione avviene per cenni e per condivisione del sensemaking (Albolino e Cook, 2005).
I “processi di conoscenza condivisa” sono la principale componente delle brainpower
industries. La “reingegnerizzazione dei processi di conoscenza” (come uso e ristrutturazione
dell'“ingenium”) cui abbiamo accennato prima è proposta da Hamel e Prahalad (1994), Von Krogh,
Ichijo e Nonaka (2000), Davenport e Prusak (1997), Leonard-Barton (1995), Edvisson e Malone
(1997), De Michelis (2001) .
Il modello 4C dà valore e sviluppa:
 tutti i tipi di conoscenza: dati, informazioni, esperienza, skill, valori, vision, etc., sia quella
esplicita che quella tacita proveniente dalla pratica;
 tutti i processi di condivisione, acquisizione, distribuzione, reperimento e valorizzazione delle
conoscenze;
 la riconciliazione tra conoscenza embedded (nei testi, nel software, etc.) e conoscenza esperta
(nella testa delle persone);
 il passaggio dalla conoscenza al conoscere (knowing).
La conoscenza nel modello 4C:
 è prima di tutto nella testa delle persone;
 è un flusso visibile di condivisione e scambio tra le persone e l’organizzazione;
 è “situata” nei team, nell’organizzazione, nella rete;
 è un attributo delle comunità.
I progetti di knowledge management (Davenport e Prusak, cit.) o knowledege enabling (Von Krogh
et al., cit.), fuori dalla visione esclusivamente tecnologica come proposto da quegli autori e da
Giorgio De Michelis (1995, 2001) hanno consentito a colleghi della Fondazione Irso di identificare
progettare e gestire l’organizzazione del lavoro della conoscenza come progetti socio tecnici di
ultima generazione (Morici, 2008).
La comunità di lavoro è una organizzazione naturale e razionale in cui i processi di lavoro e i
processi sociali non sono compressi ma posti in un “framework organizzativo”. Essa è immersa
(embedded) all’interno di comunità locali e cosmopolite.
Una comunità di lavoro efficace ed efficiente implica:
 un comune sentimento di partecipazione;
 interessi condivisi o positivamente mediati;
 obiettivi, significativi, risultati in parte comuni;
 valori condivisi;
 lealtà multiple ai processi, alla professione, all’organizzazione di appartenenza;
 appartenenza sia alla comunità locale che ad una comunità professionale.
Una comunità orientata al successo implica il passaggio dalla comunità intesa come
“organizzazione informale clandestina per proteggere l’individuo” alla comunità intesa come
“piccola società” per sostenere la crescita e le performance delle persone.
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L'“organizzazione del lavoro esperto”, descritta da Abbott (cit.), consiste nell’animazione e nel
coordinamento sia di conoscenze reificate sia di conoscenze esperte, suscitando energia,
creatività, alleanze tra diverse forme di conoscenze: le figure a più alto livello di conoscenza sono
parte essenziale ma non esclusiva delle nuove forme di lavoro esperto. La più rilevante
innovazione è l'introduzione di sistemi professionali che rendono visibili, ruoli, responsabilità,
percorsi di crescita, etc. Tutto ciò genera nuove “piccole società” o “comunità professionali”: team
face-to-face e remoti, gruppi di lavoro, task force. Si sviluppano “comunità di pratiche”: forme
organizzative scarsamente strutturate per lo sviluppo della cooperazione, lo scambio di
informazioni, il mutuo supporto fra persone operanti in organizzazioni formali e in organizzazioni
e/o corporazioni differenti operanti su “pratiche” uguali (Seely Brown e Duguid, 1991).
IV e. Leadership e management
Noi vediamo la leadership come l’animatrice di processi di cooperazione. Adriano Olivetti e
Kiichiro Toyoda attivarono forme di cooperazione di straordinaria energia e autonomia. La
cooperazione deriva dai messaggi e dalla sollecitazione del vertice ma è anche una caratteristica
strutturale dell’impresa moderna.
Abbiamo già parlato di cooperazione intrinseca. Gli ingredienti strutturali della cooperazione a
livello di impresa sono gli obiettivi, i processi e i ruoli, la cultura e le competenze delle persone
(Goshal e Bartlett, 1997). Sono questi gli elementi che generano condivisione e identificazione con
i fini e con i mezzi dell’organizzazione. Questa costruzione dell’organizzazione è oggetto di
responsabilità, progettazione e cambiamento strategico-organizzativo del vertice, giustifica e fa
condividere modifiche di poteri e privilegi, riduce l’impegno a gestire dissensi e resistenze.
Leadership significa principalmente, quindi, costruire imprese integrali e “built to last”, una
responsabilità dell’imprenditore e del management che cooperano a tutti i livelli.
La formazione del management in questa prospettiva diventa fondamentale.
V. I sistemi di gestione delle persone e la qualità della vita di lavoro
L’impresa ha fame di innovazione e l’innovazione la fanno principalmente le persone sostenute da
adeguata organizzazione e tecnologia. La richiesta di competenza, creatività, impegno,
partnership, rivolta a una popolazione di knowledge worker che rappresenta già nei paesi avanzati
il 50% della popolazione lavorativa, non può avvenire se l’impresa non attiva forme di
“organizzazione naturale” e “organizzazione professionale” che sono in parte fuori dal suo pieno
controllo, poiché essa le condivide con la società. L’impresa che ha successo nell’innovazione ha
promosso una alleanza con sistemi professionali e individui che rispondono a logiche sociali prima
che economiche. L’innovazione non può avvenire senza programmi di sviluppo di competenze e di
empowerment delle persone.
Senza un surplus di efficienza, qualità, flessibilità l’impresa perde la sua partita competitiva. I
risultati dipendono in grande misura dalla cooperazione e convergenza delle persone su quei valori
e sulle azioni relativa: motivazione, partecipazione, competenze, creatività, energia, gioia, fatica,
assunzione di rischio sono le variabili (sociali) che consentono prestazioni elevati alle imprese.
La persona tende a lavorare entro confini concentrici. A un primo livello tali confini possono
includere luoghi fisicamente identificati, dall’ufficio nel classico grattacielo alla propria casa,
sempre più caratterizzati però da “domesticità” e funzionalità rispetto ai ruoli e alle piccole società
entro cui sono immersi. A un livello più esterno, per molti, tali confini sono “planetari”, e riguardano
flussi di comunicazione su reti senza confini, come il web, dove la persona non è sola ma lavora
esplorando reti telematiche globali per riportare “nel suo ufficio” dati, immagini, idee, rapporti: ossia
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l’informazione va nel mondo e ritorna entro una comunità sociale di persone in carne e ossa e di
uffici con le porte e le finestre.
L’integrità della persona e delle persone, o qualità della vita, è al centro di questo processo di
ridefinizione delle organizzazioni. Ossia, organizzazione e comunità saranno accettabili se una o
più dimensioni della qualità della vita di lavoro sono accettabili.
Qualità della vita di lavoro significa integrità della persona (ovvero benessere, assenza di pericoli
potenziali, assenza di malattie), e include:
o integrità fisica (proteggere la salute ed evitare infortuni);
o integrità cognitiva (ricevere informazioni comprensibili);
o integrità emotiva (evitare stress, strain e condizioni psicologicamente avverse);
o integrità professionale (valore delle competenze e riconoscibilità della professione);
o integrità sociale (ad esempio l’effetto sul ritmo della vita sociale di chi lavora a turni, o nei call
center, o nelle vendite);
o integrità del sé, dell’identità della persona.
Vita fisica
Vita
cognitiva
Vita
professionale
Qualità della
Vita e del lavoro
Vita
emotiva
Vita
sociale
Vita riflessiva
Il modello della “Qualità della vita e del lavoro” (Butera, 1984)
La Fondazione Irso ha sviluppato una metodologia di assessment della qualità della vita di lavoro e
un modello di gestione integrata di performance review che ne tiene conto.
Il cambiamento del modello d’impresa che abbiamo tratteggiato modifica profondamente i modi di
gestione delle persone.
Modello tradizionale






Gerarchia
Norme e procedure esterne
Inquadramento su mansioni
Contrattazione collettiva del rapporto di lavoro
Retribuzione come compenso per la prestazione
Carriere verticali
Modelli nuovi
 Integrazione, cooperazione, gioco di squadra: team
building e leadership education
 Deontologie e obiettivi interiorizzati: gestione
per valori
 Identità basate su professioni: nuovi sistemi professionali
 Contrattazione collettiva del campo di gioco
 Retribuzione come partecipazione al rischio
 Carriere orizzontali senza confini
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Lo sviluppo delle persone entro carriere senza confini è stato sviluppato da Sebastiano Bagnara
(Kieselbach, Mader, Bagnara, Bargigli, 2004).
VI. Valori e identità dell’impresa
L’approccio che stiamo illustrando assegna un valore centrale ai valori e alla identità dell’impresa:
abbiamo visto l’importanza dell’anima dell’impresa negli esempi Olivetti e Toyota. Ma nelle nostre
ricerche e nei nostri progetti questa dimensione chiave dell’impresa integrale è sempre
strutturalmente legata alle altre dimensioni: i valori sono sostenuti dai processi, dalle strutture
formali e latenti, dai ruoli, dalle proprietà di funzionamento. Le carte dei valori fatte a tavolino e
presentate in carta patinata non contribuiscono in quanto tali a sviluppare l’impresa integrale, anzi
rischiano di darne una immagine moralistica e caricaturale.
La cultura di una organizzazione, come dice Schein (1985) è basata su tre dimensioni:
1. ARTEFATTI
2. ASSUNTI DI BASE
3. VALORI
Ossia:
1. gli artefatti sono manifestazioni visibili della cultura, sono l’architettura, i prodotti/servizi, la
tecnologia, il layout, i documenti ufficiali, il linguaggio, gli archivi, etc.;
2. gli assunti fondamentali sono quelli che un gruppo ha sviluppato imparando ad affrontare i
propri problemi e che hanno funzionato abbastanza bene da essere considerati validi, e
perciò tali da essere insegnati ai nuovi membri – come il corretto modo di percepire,
pensare e sentire”;
3. i valori sono convinzioni radicate, princìpi condivisi, dati per scontati, modalità di come le
persone interpretano la realtà.
Manifestazioni visibili della cultura: architettura, prodotti/servizi,
tecnologia layout, documenti ufficiali, linguaggio, archivi, etc.
ARTEFATTI
VALORI
Percezione da parte delle persone di come
“dovrebbero” essere fatte le cose
Convinzioni radicate, valori condivisi, dati per scontati.
Come le persone interpretano la realtà
ASSUNTI DI BASE
La cultura organizzativa di E. Schein
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Per definire l’identità dell’impresa si usano diverse espressioni che sembrano sinonimi ma non lo
sono:
o identità: è costituita dagli attributi che definiscono l’impresa, da come l’impresa comunica se
stessa (chi siamo?);
o brand: racchiude le expectation of delivery in termini di prodotto, servizio e customer experience
(che diciamo di fare?);
o immagine (una o multiple): è come l’azienda viene percepita dai suoi pubblici, (cosa pensano i
nostri stakeholder su chi siamo e cosa raccontiamo di noi?);
o reputazione: le rappresentazioni positive e negative delle immagini, costruite nel tempo (cosa
pensano di bene e di male i nostri stakeholder su chi siamo e su cosa abbiamo fatto nel
tempo?).
Melewar, Storrie (2001) così identificano i fattori da cui dipende l’identità, alcuni hard altri soft.
STRATEGIA
IDENTITA’
D’IMPRESA
PRODOTTI E SERVIZI
ORGANIZZAZIONE
CULTURA e
LEADERSHIP
• Mercati di riferimento
• Posizionamento strategico
• Business model
• Piano strategico: crescita e profittabilità
• Il portafoglio dei prodotti e servizi
• Il valore competitivo dei prodotti e servizi
• Le business idea
• Processi
• Organizzazione del lavoro: conoscenza,
cooperazione, comunicazione, comunità
• Reclutamento e dismissione
• Sistema professionale
•Comportamento manageriale
•Comportamento delle persone




Valori condivisi
Condivisione della storia e del futuro
Dare senso agli artefatti materiali e immateriali
Assicurare guida e attivare cooperazione
L’identità d’impresa come integrazione fra strategia, prodotti, organizzazione e valori (elaborata da Melewar e
Storrie, 2001)
VII. La rendicontazione economica e sociale
Da dove vengono i bilanci di sostenibilità che quasi ogni impresa oggi possiede? Esse sono forme
di rendicontazione sociale che si sono affermati nel corso dell’ultimo secolo e che hanno oggi
raggiunto rilevanti sofisticazioni tecniche, al punto di rappresentare , se lasciate da sole senza lo
sviluppo delle altre leve citate, forme di washing (green washing, social washing), ossia modi di
presentarsi positivamente senza aver fatto davvero molto per contribuire ai problemi di sostenibilità
(Butera, Catino et al., 2000).
A differenza della rendicontazione aziendale di tipo finanziario e contabile, la rendicontazione
sociale è un fenomeno nato nel corso del XX secolo. Uno dei primi ad utilizzare il termine social
audit fu, nel 1940, Theodore J. Kreps. Alla luce della depressione economica post 29 che aveva
colpito gli Stati Uniti, Kreps ipotizzò che le imprese avevano il dovere di assumersi le proprie
responsabilità, e di rendicontare le proprie azioni alla società.
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Già in questa prima fase del dibattito sulla rendicontazione sociale è evidente la diversità con cui
questo strumento può essere inteso. Mentre infatti Kreps ne aveva parlato come di un dovere
dell’azienda verso la società, Bowen lo concepisce come un management tool, un report interno
all’azienda per il miglioramento del management.
Queste due interpretazioni – la rendicontazione sociale come management tool o come
accountability mechanism – sono tutt’oggi presenti nel dibattito sul social auditing. Tuttavia, esse
hanno trovato una via di convergenza. Già negli anni sessanta George Goyder spiegava il bisogno
di quello che lui indicava come social auditing:
…[il bilancio finanziario] rappresenta solo una facciata degli affari di un’azienda ed è una pratica nata in un
periodo in cui le aziende avevano dimensioni inferiori e la rendicontazione pubblica era semplice… In
un’economia basta sulla globalizzazione… c’è chiaramente una crescente esigenza di una rendicontazione
sociale, oltre che finanziaria (Goyder, 1961, p. 109).
Lo studioso individuava le finalità di questo strumento:
… è un mezzo ovvio attraverso il quale il pubblico può essere informato sul modo in cui una grande
azienda… si assume le proprie responsabilità nel campo delle relazioni di lavoro, della politica dei prezzi,
dello sviluppo della comunità… Nel caso di grandi aziende esso può assumere un’importante e utile “valvola
di sicurezza” contro le contestazioni e le critiche. Ma è essenziale che il social audit, quando viene realizzato,
non si concentri sono nell’area delle relazioni umane e di lavoro, ma sia anche un canale di collegamento tra
l’impresa e i suoi clienti, i suoi fornitori e la comunità (Ibidem, pp. 110-111).
Goyder si fa interprete, con circa trenta anni di anticipo, dell’attuale visione del social and ethical
accounting: uno strumento utile sia al management dell’azienda, sia all’insieme di stakeholders cui
essa fa riferimento, sia alle istituzioni di regolazione.
Un report del 1979 dello US Department of Commerce riassumeva così i motivi dell’importanza del
social and ethical reporting:
molte aziende hanno ormai assunto la consapevolezza che gli sforzi per migliorare le performance sociali
conducono a una positiva percezione dei loro servizi… e, dati gli elevati costi di regolamentazione, alcuni
prevedono che i costi di breve termine sostenuti per rendicontare le conseguenze sociali delle attività di
3
business, risulteranno essere nel lungo termine fonte di profitto.
Dopo una fase di declino delle esperienze di rendicontazione sociale, corrispondente grosso modo
agli anni ’80, è seguita una fase di grande ripresa, che ha visto tra le aziende più attente ed attive
quelle americane e inglesi. Tra i motivi che hanno generato questo ritrovato interesse verso il
social accounting ci sono certamente l’emergere delle pratiche di environmental auditing, legato al
tema dell’ecologia e del rispetto ambientale, e lo sviluppo di fondi di investimento composti da titoli
di imprese quotate in borsa e selezionate sulla base di criteri etico sociali.
L’utilizzo di social screens – criteri di valutazione e selezione di tipo sociale – nelle scelte degli
investitori viene definito “social rating”. Si tratta di è un fenomeno di portata crescente. Le prime
esperienze risalgono ai primi anni ’70 e prendono il via negli Stati Uniti, dove il sistema di rating più
diffuso è il Domini 400 Social Index. Oggi il fenomeno è diffuso anche in Europa, dove altri due
sistemi di rating hanno preso piede: Etjos e Dow Jones Sustainability Index.
Ciascun sistema adotta differenti criteri e metodologie, in generale è tuttavia possibile distinguere
due tipologie di social screen:
3
US Department of Comerce, 1979, Corporate Social Reporting in the United States and
Western Europe: Report of the Task Force on Corportae Social Performance, Washington, DC,
US Department of Commerce.
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

negative screen: sono criteri di esclusione. Sulla loro base viene infatti controllata l’adozione di
pratiche socialmente “irresponsabili” da parte delle aziende e, una volta appurata la presenza,
condotta l’esclusione di alcune imprese dal sistema di gestione degli investimenti (ad esempio
aziende del settore del tabacco, della produzione di armi, dell’energia nucleare, etc.)
positive screen: sono criteri di valutazione. Sulla loro base viene valutato il grado con cui le
aziende soddisfano dei parametri di responsabilità sociale. “Quanto più l’impresa soddisfa
questi criteri, tanto più i suoi titoli saranno inclusi nel portafogli di investimento etico” (Chiesi,
Martinelli, Pellegatta, 2000, p. 38).
Divenire impresa integrale è un processo. Occorre misurare i progressi nel controllo delle diverse
dimensioni di responsabilità sociale governate. Il diagramma che segue è l’esempio di un progetto
che abbiamo seguito relativo una impresa che voleva valutarsi e migliorarsi lungo alcune delle
dimensioni che abbiamo presentato. Ne emerse un “radar” di partenza che l’impresa migliorò in
tutte le dimensioni che erano risultate carenti.
Cambiamento strategico
e strutturale
Rendicontazione economica
e sociale
Prodotti e servizi
socialmente utili
Organizzazione coerente
e appropriata
Valori e identità
Sostenibilità sociale
e ambientale
Qualità della vita di lavoro
T
Cambiamento strategico
e strutturale
Rendicontazione economica
e sociale
Prodotti e servizi
socialmente utili
Organizzazione coerente
e appropriata
Valori e identità
Sostenibilità sociale
e ambientale
Qualità della vita di lavoro
0
T
1
L’evoluzione dell’impresa integrale ©Fondazione Irso
Considerazioni conclusive: narrare e sviluppare l’impresa
Le caratteristiche delle grandi e medie imprese eccellenti italiane che hanno proiezione
internazionale sono simili a quelle delle imprese integrali che abbiamo descritto.
I modelli di leadership e di organizzazione che esse presentano non assomigliano ai modelli di
burocrazia industriale e dei servizi tipici delle grandi imprese internazionali che hanno dominato
l’economia del XX secolo.
Per le imprese italiane di successo occorre innanzitutto fare un intenso “lavoro clinico”, ossia di
descrizione e interpretazione della propria storia, del proprio “caso”, dei propri successi e dei propri
fallimenti, della propria “anima”. Questo sforzo, fatto da Chandler (1966) e Perrow (1969) per la
grande impresa americana, e da Osono, Shimizu e Takeuchi (cit.) per la Toyota, non è stato fatto
per le medie imprese eccellenti italiane che non hanno l’abitudine di analizzare se stesse e
proporsi come “case” sia verso l’interno che verso l’esterno.
Descrizione e interpretazione poi devono essere orientate all’intervento, ossia alla gestione, alla
progettazione, al cambiamento, all’innovazione del sistema impresa verso un modello di impresa
integrale, valorizzando la storia all’interno di un progetto di costruzione del futuro.
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