L`impresa integrale teoria e metodi, Butera F
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L`impresa integrale teoria e metodi, Butera F
Working Paper L’“impresa integrale”: teoria e metodi Federico Butera WP1 / 2009 È consentita la copia e la distribuzione a scopo divulgativo e didattico, citando la fonte. Sono consentite, inoltre, le citazioni purché accompagnate dall'idoneo riferimento bibliografico. Per ogni ulteriore uso, se ne vieta l'utilizzo senza il permesso scritto degli Autori. Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 1 L’“impresa integrale”: teoria e metodi L’integrazione fra gestione economica e responsabilità sociale nelle “imprese costruite per durare”: un percorso governabile1 Federico Butera2 Sommario Contenuto 2 Responsabilità sociale ed economicità dell’impresa 2 La tesi 3 Un caso italiano di impresa integrale: la Olivetti 4 Un caso straniero di impresa integrale: la Toyota 6 Il profilo dell’“impresa integrale” 8 Le 7 leve chiave per lo sviluppo di imprese integrali 10 I. La gestione del cambiamento strategico e strutturale 11 II. I prodotti socialmente utili 12 III. La sostenibilità sociale e ambientale 12 IV. Organizzazione coerente e appropriata 13 IV a. L’eccellenza dei processi 13 IV b. Un sistema di organizzazione a rete 14 IV c. Sistema di ruoli e professioni 16 IV d. Proprietà di funzionamento integrative: cooperazione, conoscenza, comunicazione, comunità 18 IV e. Leadership e management 21 V. I sistemi di gestione delle persone e la qualità della vita di lavoro 21 VI. Valori e identità dell’impresa 23 VII. La rendicontazione economica e sociale 24 Considerazioni conclusive: narrare e sviluppare l’impresa 26 Bibliografia di riferimento 27 1 Una precedente diversa e più breve versione è in B. Lamborghini (a cura di), L’impresa web, Franco Angeli, Milano, 2009. 2 Ordinario di Scienze dell’Organizzazione all’Università di Milano-Bicocca http://www.organizzazione.sociologia.unimib.it/ Presidente della Fondazione Irso - Istituto di Ricerca Intervento sui Sistemi Organizzativi www.irso.it Direttore di Studi Organizzativi http://www.francoangeli.it/riviste/sommario.asp?IDRivista=73 Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 2 Contenuto In questo saggio viene presentato il concetto di imprese integrale, impresa che persegue in modo integrato elevate performance economiche e sociali, che agisce concretamente per proteggere e sviluppare l’integrità degli stakeholder e dell’ambiente fisico, economico e sociale, che ha condotte eticamente integre. Vengono presentati due esempi. La Olivetti degli anni ’60 e la Toyota. Vengono precisati il profilo e i caratteri dell’impresa integrale, come impresa normale: questo modello può essere utilizzato in Italia per lo sviluppo di imprese “built to last” che contribuiscono a sviluppare una italian way of doing industry. L’articolo indica poi le leve chiave per sviluppare l’impresa integrale avvalendosi dell’esperienza e della metodologia dell’autore e dei suoi colleghi della Fondazione Irso. Viene proposto uno screen per valutare il processo evolutivo dell’impresa che persegue il modello di impresa integrale. Responsabilità sociale ed economicità dell’impresa L’impresa è chiamata a rispondere a molte – alcuni dicono troppe – responsabilità sociali. La tematica della responsabilità sociale dell’impresa sembra a molti moralistica (perché non sanzionabile) o persecutoria (perché aggrava i costi dell’impresa). L’impresa, oltre a perseguire i propri fini di generare ricchezza e margini, partecipa con i contributi fiscali al sistema complessivo, deve rispettare vincoli normativi spesso stringenti in materia di impiego, di condizioni di lavoro, di certificazione economica, di rispetto ecologico, di sostenibilità ambientale e altro. I governi e le organizzazioni internazionali stanno producendo nuove regolamentazioni e nuovi vincoli per le imprese a fronte di emergenze o di superiori interessi nazionali e mondiali: dalla protezione della libertà di concorrenza, dalla difesa della privacy, alle norme sulla trasparenza dei bilanci e delle transazioni finanziarie, alla regolamentazione dei sistemi di governance, alla regolamentazione nell’uso delle nuove infrastrutture di ICT, alle emissioni ambientali, fino alle azioni vecchie e nuove per la repressione dei traffici e delle organizzazioni illegali (al fine di combattere l’inquinamento del sistema delle imprese da parte delle grandi organizzazioni multinazionali del crimine). Tutta la serie di vicoli che il sistema normativo pone all’impresa, ossia la cosiddetta compliance. Ma non è di questo che il presente saggio vuole trattare, bensì delle azioni volontarie che l’impresa adotta per coniugare obiettivi economici ed obiettivi sociali. Ma può un’impresa occuparsi spontaneamente di problematiche che esulano dalla sua funzione principale di perseguire il profitto? Milton Friedman ribadiva che l’obiettivo delle aziende è sempre quello di puntare al massimo profitto nel rispetto delle leggi e della morale corrente, escludendo con ciò la possibilità per le imprese di adottare comportamenti socialmente responsabili. John Kenneth Galbraith (1998), invece, ritorna ancora nell’ultima sua lezione in Canada all’idea del “the socially concerned” che si applica agli individui, alle istituzioni e all’impresa. II fenomeno di imprese che si occupano di problematiche apparentemente estranee al solo processo di creazione del valore tendono a dar ragione a Galbraith. Nel processo di globalizzazione e di crisi in atto, tutte le imprese grandissime, grandi, medie e piccole, a capitale privato, pubblico e cooperativo stanno affrontando un processo economicosociale assai severo che mette spesso in discussione la loro stessa sopravvivenza. Ridurre i costi, acquisire competitività, mantenere e sviluppare il proprio mercato, conservare le risorse, governare lo sviluppo, mantenere identità e autonomia sono i temi su cui le imprese sono sfidate. Sono evidenti tre emergenze: occorre svuotare (dell’inefficiente, dell’inefficace) le istituzioni, le imprese, le Pubbliche Amministrazioni; occorre innovare (con politiche, organizzazione e modelli di azione moderni) prodotti e servizi e processi produttivi perché essi generino ricchezza e occupazione; spesso è necessario ricostruire anche (attraverso etica e cultura) l’identità di istituzioni e imprese che le rendano adeguate a nuovi contesti culturali e degne agli occhi dei clienti cittadini. La grande crisi che stiamo attraversando pone un problema assai rilevante di credibilità e di fiducia verso il Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 3 mondo delle imprese, e non soltanto di quelle finanziarie. Le imprese, in questo contesto, hanno un interesse proprio, diretto e immediato nell’occuparsi di diversi aspetti sociali. Esse sono inesorabilmente obbligate a perseguire il massimo valore per l’azionista: se ciò non avviene, l’azionista, in un mercato globalizzato, abbandona l’impresa e questa vede abbassarsi il valore delle sue azioni. Sarebbe semplicistico tradurre questa indiscutibile realtà nella proposizione che l’impresa deve solo massimizzare i profitti. Quest’ultima è una condizione necessaria ma non sufficiente, è cioè solo una delle “performance” a cui è tenuta: il valore per l’azionista include fattori strutturali quali i “fondamentali” economici e fattori contingenti come la gestione in borsa. Il successo sui “fondamentali” e sull’andamento sulle borse internazionali dipende in parte da fattori culturali e sociali (immagine, fiducia, fidelizzazione dei clienti, propensione all’innovazione, relazioni interne ed esterne e moltissime altre) e da fattori socio-istituzionali che fanno durare l’impresa, rendendola “built to last” (capitale intellettuale, capitale intellettuale, etc.), come sostengono Colin e Porras (1994). Gran parte di queste performance e caratteristiche strutturali che assicurano valore per l’azionista in definitiva hanno una origine non solo economica ma anche sociale (White, 1981). L’impresa ha successo se crea nuovi prodotti e nuovi mercati. Sui mercati domestici non ha altra scelta, spesso, se non quella di proporre offerte ad alto valore per il cliente per diversi segmenti di mercato e quindi ha interesse che crescano benessere e sicurezza, stabilità sociale e propensione al soddisfacimento di dimensioni superiori di qualità della vita: ecco perché l’impresa si rende attiva sia sulla propria offerta che sulla costruzione della comunità, come è avvenuto in molti distretti italiani. Sui mercati del Terzo Mondo l’impresa deve proporre nuovi prodotti e servizi a basso costo e ad elevata utilità e ha interesse ad una “normalità” istituzionale e che masse di diseredati acquisiscano potere d’acquisto e cittadinanza economica: ecco perché non sempre agisce da corruttrice e profittatrice, ma sempre più spesso agisce in partnership con altre imprese del proprio e di altri paesi, e con i governi locali, per favorire processi di modernizzazione. La singola impresa grande, media e piccola spesso non può aspettare che altri risolvano questi problemi o rendano fruibili le opportunità: essa – nei limiti della propria missione, delle proprie risorse e delle proprie priorità e capacità – è frequentemente spinta nel suo quotidiano operare ad affrontare parti grandi o piccole di tali questioni per proteggere o sviluppare la propria missione, le proprie strategie, il proprio conto economico, il proprio patrimonio. La tesi Imprese con lunga storia e imprese recenti hanno, da una parte, il problema di assicurare la propria competitività e sopravvivenza: solo il loro rafforzamento economico e la loro innovazione a 360° lo può assicurare. Dall’altro, diventa cruciale per loro l’assunzione di una forte responsabilità sociale, che riguarda non solo l’evitare diseconomie esterne, ma soprattutto il fornire attivamente contributi concreti alla sostenibilità ambientale, allo sviluppo economico dei territori, alla qualità della vita di lavoratori e clienti, allo sviluppo culturale. Le imprese “costruite per durare” – “built to last” (Collins e Porras, cit.) – hanno maggiori possibilità di superare con successo questa fase difficile. Sono imprese che costruiscono un futuro con un cuore antico. Sono imprese con un’anima, come scrisse Adriano Olivetti. La tesi di questo saggio è che queste missioni contraddittorie sono meglio raggiunte da “imprese integrali”. La integralità di queste imprese vuol dire tre cose: integrazione di economia e socialità, rispetto della integrità degli stakeholder, integrità etica. Le definiamo come imprese che perseguono in modo integrato elevate performance economiche e sociali, che agiscono concretamente per proteggere e sviluppare l’integrità degli stakeholder e dell’ambiente fisico, economico e sociale, che hanno condotte eticamente integre. Non imprese utopiche, ma imprese normali costruite per durare. Mi avvarrò di due esempi storici per illustrare l’idea di “impresa integrale”: Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 4 1. una impresa italiana (la Olivetti degli anni ’60), che da impresa media divenne una impresa internazionale e che, malgrado sia nota più per la condotta sociale del suo leader che per la sua natura peculiare di impresa che raggiunse moltissimi grandi successi oltre che alcuni finali insuccessi, fu soprattutto una impresa che integrò felicemente una organizzazione industriale molto robusta con una elevata responsabilità sociale; 2. una impresa internazionale (la Toyota), oggi la prima azienda automobilistica del mondo, nota soprattutto per i suoi rigorosi sistemi di qualità e di eccellenza produttiva più che per il suo modello di impresa, che in realtà è cresciuta sviluppando forti reti sociali e un potente sistema di valori praticati quotidianamente a partire dal presidente fino all’ultimo operaio, fornendo una identità irripetibile all’impresa. Un caso italiano di impresa integrale: la Olivetti Vi sono tre periodi ben distinti della storia Olivetti. Il primo periodo è quello dei fondatori, in cui Camillo e Adriano illuminano la scena della costruzione di una delle aziende più moderne del paese con la loro fortissima personalità: in questa fase, la storia più visibile e sorprendente è quella dell’ing. Camillo e dell’ing. Adriano come imprenditori illuminati piuttosto che quella dell’azienda. È ciò che succede tutt’oggi con Ferrero, con Del Vecchio, con Bombassei, con Alessandri: il leader fa tanta luce da far impallidire la struttura dell’impresa. Il secondo periodo, che io ho avuto la fortuna di vivere direttamente, è quello che va dalla scomparsa di Adriano al 1972. Lì credo vada cercato il pattern dell’azienda Olivetti, distinta ma non sconnessa dai suoi leader e fondatori, lì va cercato un modello da riproporre non ad irripetibili Adriano Olivetti, ma a ripetibili validi imprenditori, dirigenti, professional di cui è largamente popolata l’economia italiana. Agli inizi degli anni ’70 avvenne la presa del controllo da parte di Ottorino Beltrami, che introdusse in Olivetti una cultura che assomigliava più a quella della General Electric che a quella mostrata sino ad allora dalla Olivetti, ma non ne poté cambiare il DNA che Carlo De Benedetti ritrovò rilevando l’azienda e che grazie a quel DNA sopravvisse alle turbolenze e agli errori di quella gestione. La precarietà finanziaria che aveva portato a metà degli anni ’60 la Fiat e Mediobanca ad assumere il controllo della Olivetti non aveva modificato in quel decennio la struttura e la cultura della azienda di Adriano Olivetti. Il terzo periodo parte dalla “normalizzazione” della Olivetti sul modello di una ordinata multinazionale creata da Beltrami e Bellisario e arriva fino alla presa del controllo da parte di Carlo De Benedetti. In questa fase gli asset tecnici, economici, manageriali vengono montati e smontati come un lego, con momenti di successo e con un finale amarissimo insuccesso. Questi tre periodi, tuttavia, conservano un DNA comune, anche se non si prestano alla rappresentazione di un modello univoco di management. Io credo invece che ci sia stato un modello imprenditoriale Olivetti che rappresenta un’eredità fondamentale per una emergente generazione di imprese made in Italy protese in operazioni aperte alla competizione internazionale. Esso, assai visibile non esclusivamente ma soprattutto dal 1961 al 1972, era stato generato dalla storia di due imprenditori straordinari (Camillo e Adriano Olivetti), ma proprio per questo la natura dell’impresa che essi avevano costruito appariva, durante la loro vita, sovrastata dalla luce della loro straordinarietà di imprenditori e di persone che sporgevano oltre l’impresa. Ciò avvenne fino alla morte di Adriano: chi parlava di Olivetti parlava soprattutto di Adriano Olivetti e la sua azienda sembrava il prodotto irripetibile di un grande visionario. A 40 chilometri di distanza, molti ritenevano che la Fiat fosse una impresa capitalistica moderna e la Olivetti un grande falansterio come San Leucio. Fra il 1961, data della morte di Adriano, e il 1972 emergono invece l’originalità e la forza intrinseca del modello di impresa che si era sviluppata e che, malgrado le successive contaminazioni di ogni tipo avvenute dal 1972, conservò un DNA visibile e fecondo. Forse ancora vivo: come scrisse Schein (2003) in un famoso libro sulla Digital Equipment, la più innovativa delle imprese elettroniche poi assorbita da HP/Compaq: “DEC is dead: long live DEC”. Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 5 Quale era questo modello? Esso, nel 1962, era visibile fisicamente sui due lati di via Jervis a Ivrea. A sinistra di via Jervis vi era il massimo della razionalità organizzativa del tempo. Innanzitutto, c’erano gli stabilimenti di produzione, le officine e i montaggi, dove erano stati introdotti e perfezionati i più moderni metodi di fabbricazione e montaggio della produzione meccanica mondiale, con innovazioni importanti rispetto al taylorismo sperimentato nelle officine meccaniche internazionali (e anche a quelle delle officine Fiat a soli 40 chilometri di distanza). Poi, c’erano i laboratori di Ricerca e Sviluppo che studiavano prodotti geniali che avevano oltre il 50% di quota di mercato mondiale, come la Tetractys. E ancora, c’erano gli uffici tecnici dove venivano sviluppate le soluzioni più evolute di macchine utensili e stampi. Infine, c’erano gli uffici amministrativi, assai efficienti per quel tempo. Sulla sinistra ideale di via Jervis vi era poi una linea senza fine che legava fra loro consociate, filiali, concessionari distribuiti in tutto il mondo con un cuore nascosto nella campagna toscana che batteva a Villa Natalia dove aveva sede la scuola commerciale, in cui tutti i dirigenti e i quadri imparavano i prodotti e le problematiche di vendite: ci passarono da giovani i leader della Società e anche chi divenne Presidente di Regione come Landi o scrittori come Terzani. A destra di via Jervis, vi era non un altro mondo, non una struttura compassionevole, non un’alternativa all’impresa capitalistica moderna ma un suo completamento integrato con tanta razionalità produttiva: i servizi sociali, l’infermeria, la biblioteca, il centro di sociologia, il centro di psicologia e gli altri servizi che connettevano fra loro persone, territorio e impresa e che rendevano visibile l’“anima” dell’impresa (che era presente anche nelle officine del lato sinistro della strada). Un lato tecnico e un lato culturale della forza di quella straordinaria azienda. I due marciapiedi di via Jervis erano l’espressione visibile di un unico modello di impresa. Forte responsabilità sui processi; ruoli “a geometria variabile e centrati sui risultati; verifica continua della leadership sui risultati; strutture mutevoli in base alle circostanze e alle opportunità; staff di alta qualità; ridondanza di capacità intellettuali; presenza dei dirigenti più alti sul luogo di produzione (il gemba, come più avanti diranno i giapponesi); ossessione per la qualità; sistemi di regolazione sociale raffinati (si pensi alla presenza di un ufficio del personale che prendeva in carico tutti i casi di disagio da qualunque fattore prodotto); relazioni interne efficaci e rispettose; comunità professionali cosmopolite, comunità di pratica, networking e tanto altro. Soprattutto, parte centrale di quel modello di impresa era la grande cura per le persone: reclutate per le loro potenzialità, avviate su percorsi in cui le grandi opportunità offerte dall’azienda si intrecciavano con l’incoraggiamento a sviluppare il proprio workplace within, ossia quel mondo interno di esperienza, cultura e intelligenza patrimonio delle persone. Era ben altro che un sistema di gestione del personale quale quelli ingegnerizzati che le società di consulenza importarono dagli Stati Uniti nelle imprese italiane: era un modello di gestione basato sulla valorizzazione della risorsa più preziosa, la persona vera, la persona integrale, come scriveva Maritain. L’attrattività di Ivrea per i giovani era altissima. La città, per chi veniva da Roma, Napoli o Milano, era veramente poverissima, a parte la gastronomia e la campagna. Tuttavia, abbondavano le 3 T di Florida: talento (Olivetti assumeva 1 persona su 100 scrutinate sulla base della loro creatività e curiosità più che su ristrette competenze tecniche); tecnologia (da Cappellaro a Tchou, dalla Tetractys all’Elea era un ribollire di tecnologie di tutti i tipi); tolleranza (al momento dell’assunzione non si faceva distinzione fra meridionali e settentrionali, tra uomini e donne, non si chiedeva per quale partito si votava né quali erano le preferenze sessuali, ma si scartavano solo le personalità autoritarie e senza un loro sogno; alle serate culturali si incontravano Moravia, Pasolini e altri “scandalosi” intellettuali del tempo). C’erano tante persone notevoli, molte impegnate dando loro il massimo di responsabilità – molti dirigenti a 29 anni –, molte in panchina: ma tutte persone pronte a cambiare progetti, sedi, lavoro. Tutte in un rapporto incessante, una conversazione senza limiti e certamente ridondante fra loro e con i dati e i fatti dell’impresa, del territorio e del nostro paese: si discuteva e si imparava su tutto, ma al momento di fare vi era una grande disciplina, oggi diremmo un forte senso della execution. Era una impresa con una struttura organizzativa potente e severa, ma anche con un’anima condivisa, data dai valori dell’impresa, dalla responsabilità sociale, da un network vivissimo. Qui va Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 6 cercato il modello, forse simile a quello che ha fatto grande anche Toyota, Dell, HP, Google e in Italia Ferrari, Brembo, Ferrero, Luxottica, Zambon. Soprattutto, la Olivetti era una impresa con una straordinaria capacità di imparare, di cambiare, di innovare. Quando i giapponesi cominciarono a produrre le calcolatrici elettroniche a 1/100 del costo delle calcolatrici meccaniche che avevano fatto la fortuna della Olivetti, quest’ultima fu capace di ripensare radicalmente la sua Ricerca e Sviluppo, la sua produzione, la sua struttura commerciale in soli tre anni, in uno dei più leggendari processi di change management dell’industria italiana, a cui ebbi la fortuna di partecipare come responsabile del Centro di Studi Organizzativi, l’Internal Consulting che la Olivetti aveva costituito in “tempo di pace”. Altre aziende fallirono. La Olivetti si rilanciò nella elettronica individuale. Forse avrebbe potuto diventare la Dell: ma questa è una storia che racconterò un’altra volta. Un caso straniero di impresa integrale: la Toyota Adriano Olivetti disse che anche l’impresa ha un’anima. Venne preso per un sognatore. Ora Osono, Shimizu e Takeuchi (2008) nel loro libro Extreme Toyota ci spiegano che lo straordinario successo della Toyota, la più grande azienda automobilistica del mondo, deriva in gran parte dalla sua anima, innestata su un corpo robusto (i sistemi organizzativi e operativi) e abilitata da uno straordinario sistema nervoso (il suo sistema di comunità e networking). Tutti cercano di copiare il potente sistema operativo di Toyota, il Toyota Production System (il TPS fatto di TQM, kanban, kaizen, 5S, etc.): competitori, aziende aeronautiche, medie imprese, enti pubblici reclutano eserciti di consulenti di “lean production”, ma pochi hanno il successo di Toyota. Ossia, il TPS è necessario ma non sufficiente. La Toyota, per Takeuchi e colleghi, non è solo un’azienda automobilistica, ma un’impresa della conoscenza. Tutti (competitori, grandi imprese) hanno sistemi informativi formidabili e vasti programmi di formazione al team work, ma la Toyota di tutto ciò ha fatto l’infrastruttura di un “sistema nervoso” che si autosviluppa (una learning organization vera) creando sistemi di gestione della conoscenza estesi a tutti i livelli e prassi e culture di lavoro comunitario (yakoten, obeya, gemba, etc. fra quelle citate nel loro libro), che legano comunità faccia a faccia e comunità remote in cui si genera e scorre la conoscenza di 300.000 persone che operano in tutto il mondo, di cui meno della metà ormai in Giappone. Sui prodotti non è più scritto made in Japan ma made in Toyota. Mentre i processi sono “asciutti”, la conoscenza è ridondante e tutti lavorano entro comunità di lavoro in vista di risultati concreti. Ma il “corpo” degli eccezionali sistemi organizzativi e operativi che orientano tutte le azioni relative alla concezione, alla esecuzione e al miglioramento incessante dei processi (il TPS) e il “sistema nervoso” delle comunità gestite a tutti i livelli non bastano ancora a spiegare il successo di Toyota. È, in realtà, l’anima dell’impresa che dà visione, orientamento, senso, al lavoro di tutti e genera la loro motivazione. L’anima dell’impresa è data dai suoi valori e dalla sua cultura trasparente e praticata a tutti i livelli. Essa non è data da “carte dei valori” patinate, ma da vere e proprie “forze”, fonti di energia. Gli autori ne ricordano alcuni tratti e li distinguono tra “forze di espansione” e “forze di integrazione”. La leadership fatta di impegno, esempio, umiltà, presenza sul campo si diffonde a tutti i livelli ed è misurata dai risultati e dalla capacità di attivare “forze di espansione” e “forze di integrazione” condivise da tutti. Fra le “forze di espansione” ci sono gli impossible goals, ossia gli obiettivi di lungo periodo e i sogni che il vertice propone, che esso stesso pratica quotidianamente e in cui le 300.000 persone si identificano. Essi sono i driver che parlano alla loro ambizione, al loro orgoglio e alla loro etica. Quando Toyoda nel 1950 annunciò di voler costruire la prima azienda automobilistica del mondo partendo da una mediocre impresa la cui produttività era 1/10 di quella dei competitori, sembrava Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 7 farneticare, ma poi operò in modo corrispondente a quella visione e tutti la condivisero. Toyoda fece leva sulla visione del futuro ma anche sulla valorizzazione del passato. La Toyoda (così si chiamava) aveva una storia di cento anni di primaria fabbrica di macchine tessili, una esperienza cioè nelle macchine utensili e una tradizione a impegnare le persone a progettare macchine utensili sofisticate, a gestire processi, ad assorbire varianze, perché “nel tessile” l’intervento anche manuale del conduttore di macchina è essenziale dal momento che un filo difettoso fa buttar via la tela. Questo DNA stava alla base di quell’impossible goal del 1950. Quando recentemente Toyota decide di fare auto che “migliorano la qualità dell’aria” afferma un controsenso: ma questa “follia” ha un grande peso, insieme al continuo miglioramento dei processi di progettazione e allo sviluppo delle conoscenze tecnologiche, nella velocissima progettazione e messa in produzione delle auto ibride come la Prius e auto all’idrogeno oggi in laboratorio, passi per una futura auto senza emissioni. Un’altra forza di espansione propria del DNA della Toyota sono le pratiche di miglioramento continuo: dallo sforzo innovativo degli ingegneri che hanno fatto nascere la Prius, alle 740.000 proposte di miglioramento che sono state suggerite dai 300.000 dipendenti ed effettivamente realizzate (2 proposte approvate in media per ogni dipendente!). Le “forze di integrazione” muovono dai valori dei fondatori e si sviluppano attraverso un modo condiviso di praticarli nella quotidianità: l’umiltà, l’ossessione per la qualità, la concretezza dell’agire artigiano dentro una impresa gigantesca, il rispetto per le persone, l’attenzione al cliente, lo stare sempre sul campo (gemba), l’andare a vedere le cose con i propri occhi (genchi genbutsu) a tutti i livelli. Questo “stare sul pezzo” si manifesta in pratiche diffuse, dall’andon, ossia la work authority assegnata a tutti di poter fermare un processo difettoso (anche una catena di montaggio!) che costringe tutti a correre a vedere il problema, alla presenza sul campo anche del CEO di Toyota, che a un giornalista che gli chiedeva quando aveva visitato l’ultima volta una fabbrica rispondeva “ieri”, quando aveva visitato un concessionario rispondeva “l’altro ieri”. La formazione sul lavoro e l’apprendimento continuo sono un’altra forza di integrazione: il lavoro è il vero libro di testo, la vera aula di formazione, perché il valore di base è che il lavoro conta, complesso o umile che sia. La open communication consente di far convivere una forte burocrazia e gerarchia con la possibilità di critica, di condotta fuori dai silos, e con la diffusa disponibilità a rischiare. In sintesi, l’anima dell’impresa è fatta dei sogni perseguiti pervicacemente, dalla sua cultura praticata a tutti i livelli, dai suoi valori condivisi. Alla base di questa anima c’è il grande rispetto del CEO per l’ultimo operaio della catena e c’è la fiducia dell’ultimo operaio della catena nei propri capi, perché essi condividono il fatto che lavorano all’interno degli stessi processi che, prima che nei flow chart, sono nella testa delle persone. Toyota vive gestendo contraddizioni, come tutti gli organismi viventi: è stabile e frenetica, è sistematica e sperimentale, è formale e ammette il dissenso, l’open confrontation. In una parola, un esempio di quello che io ho definito come la radice dell’innovazione: “genio e regolatezza” (Butera, 2007). L’esperienza Toyota fornisce indicazioni importanti su due grandi temi dello sviluppo delle organizzazioni in Italia. La prima è la possibilità concreta di sviluppare quella che ho definito “impresa integrale”, l’impresa con un’anima e con forte partecipazione, un modello che va oltre la nozione un po’ pallida di “responsabilità sociale dell’impresa”. La seconda è una importante indicazione su come “narrare l’impresa”, con gli artefatti, con gli scritti, con i media, con i musei: il museo della Toyota mostra i manufatti, i documenti, i pensieri e anche le radici di una impresa nata come industria tessile che ha come DNA le macchine utensili, l’orientamento a tener conto della customer experience, la centralità degli operai e dei capi che dovevano gestire le varianze di una tecnologia non autosufficiente. Il futuro ha un cuore antico: Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 8 questo è particolarmente importante per quanto riguarda le storie delle medie imprese eccellenti italiane, di cui per lo più non si conoscono bene le ragioni del successo. Come in Olivetti e in Toyota, il successo di una impresa non si spiega solo con la genialità dell’imprenditore e neanche solo il “corpo” della sua ottima strategia e struttura, ma bisogna anche comprendere sia il “sistema nervoso” che lega fra loro le persone sia l’’“anima” condivisa dell’impresa che consente il salto da impresa di successo ben gestita e ben diretta a impresa di permanente successo, che continua ad apprendere e che diventa “built to last”, ossia costruita per durare oltre i suoi fondatori. Comprendere questo non è così semplice – ad esempio nei casi di Geox, di Technogym, di Lotto, di Zambon, etc. –, perché una combinazione felice di strategia, struttura, organizzazione e persone, e la grande capacità imprenditoriale di Moretti Polegato, di Alessandri, di Tomat, degli Zambon non spiegano del tutto il successo di quelle imprese. Il profilo dell’“impresa integrale” Allora, come potremmo rappresentare il “modello Olivetti” o il “modello Toyota” che abbiamo tratteggiato brevemente o il modello delle tantissime medie imprese italiane che non abbiamo citato qui, che operano in “reti lunghe” su uno scenario globale ? Esso è un modello proponibile alle imprese italiane nel vivo della competizione internazionale? Come ho anticipato, credo che questo sia il modello dell’“impresa integrale” o dell’impresa eccellente socialmente capace impresa che persegue in modo integrato elevate performance economiche e sociali, che agisce concretamente per proteggere e sviluppare l’integrità degli stakeholder e dell’ambiente fisico, economico e sociale, che ha condotte eticamente integre (Butera, 2004). Presento questo concetto consente per andare oltre le nozioni di “responsabilità sociale” e di “impresa responsabile”, “impresa illuminata”, nozioni che hanno avuto grandi meriti, ma sono state criticate per le loro connotazioni moralistiche e idealistiche o per la loro sostenibilità economica. Parliamo invece di una impresa “normale” che può possedere o meno aggettivi qualificativi ma che semplicemente sviluppa in modo eccellente e congiunto valore economico e sociale attraverso una strategia e azioni concrete. Essa si consegue non adottando un modello, ma attraverso un processo energico e faticoso per definire valori, strategie, per “render conto”, per realizzare le proprie intenzioni. E soprattutto per realizzare risultati e mettere in pratica quei valori, ogni giorno e per tutti. Ciò che fonda questa idea di impresa è il legame di reciprocità fra successo economico e successo sociale di un soggetto collettivo dotato di struttura sua propria e di modi di azione, e non visto solo come un mezzo per raggiungere i fini dei suoi proprietari. L'impresa integrale è il risultato di quell’efficace duplice legame di reciprocità fra impresa e società. Essa è un’istituzione economica che non solo importa dal contesto socio-economico valori, norme e regole sociali, ma che vi esporta anche valori, conoscenze, cooperazione. Questa reciprocità avviene attraverso prodotti, servizi, progetti, ma soprattutto attraverso le persone “vere”, cresciute e socializzate nella e con l'impresa: manager, professional, tecnici, artigiani, semplici lavoratori, e anche clienti e fornitori cittadini di una società della conoscenza. Essa è in qualche modo una istituzione. Ciò che determina l’essere un’impresa integrale non sono solo le qualità morali individuali o le caratteristiche valoriali e carismatiche dell’imprenditore e del gruppo dirigente (sempre fondamentali), ma le reali pratiche operative e di management dell’impresa. Un leader senza un corpo sociale con cui realizzare le cose non costruisce una “impresa integrale” e neanche una impresa “built to last”. Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 9 L’impresa integrale ha alcune caratteristiche chiave: 1. fonda la sua identità su sviluppo, produzione e commercializzazione di beni o servizi socialmente utili per i clienti e le comunità. Esclusi i casi di prodotti ostensibilmente dannosi come la droga o le sigarette, o i servizi basati sulla debolezza del cliente come l’usura e il “pizzo”, in ogni società esiste una discussione su cosa è utile, superfluo o dannoso. La definizione di prodotti “socialmente apprezzabili” è naturalmente del tutto contingente ai valori, alla cultura, all’economia di ogni specifica società. Una società farmaceutica o una società di telecomunicazioni di solito non hanno bisogno di convincere nessuno che i loro prodotti sono utili anche se devono ancora convincere che lo sono davvero e che perseguono scopi etici con mezzi etici. Una impresa di arredamento come IKEA si è impegnata con successo per affermare l’apprezzabilità sociale dei propri prodotti per fasce deboli della clientela e ha consentito a milioni di giovani coppie di arredare la propria casa con gusto e a basso prezzo. L’industria della moda italiana ha convinto tutto il mondo che l’effimero dei suoi prodotti contribuisce a costruire l’identità individuale e collettiva e l’estetica di una società e non è ostentazione di lusso. E così via; 2. poiché tende ad essere fra le best in class nel suo settore o nel suo mercato, è capace di difendersi dalle diseconomie esterne e di attivare propositivamente economie esterne, rafforzando la propria competitività anche in ragione del miglioramento del contesto istituzionale e sociale. Ossia, interviene positivamente sul mondo esterno insieme alle istituzioni (pensiamo al miglioramento dell’ambiente fisico, all’intervento positivo sui processi di istruzione pubblica, alla reazione al “pizzo” di imprese meridionali, in sintonia con le istituzioni); 3. altro elemento chiave dell’apprezzabilità sociale è costituito dalla eccellenza del processo di concezione, realizzazione e consegna del prodotto e servizio: valori come l’intensità della ricerca, l’impiego di tecnologie avanzate, la qualità dell’organizzazione, l’impiego e la valorizzazione delle competenze. Essi rimandano alla utilizzazione e alla valorizzazione del “capitale sociale” e del “capitale intellettuale” dell’impresa; 4. è una organizzazione che funziona e che è internamente coerente e strategicamente appropriata: sviluppano cioè una efficace integrazione di strategie, processi, organizzazione, ruoli, valori, leadership; 5. attiva reti di soggetti economici, istituzionali e di persone che interagiscono positivamente: comunità che interagiscono, dialogano, lavorano, confliggono, convergono, decidono, operano sul territorio e che oggi si possono avvalere delle straordinarie potenzialità delle tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione per creare comunità planetarie; 6. assume spontaneamente impegni e responsabilità riguardanti l’ambiente, la comunità, la clientela, i membri dell’organizzazione e misura la realizzazione di questi impegni. L’impresa integrale ovviamente genera ricchezza per sé e per i proprietari, ma attrae investimenti di investitori, fornitori e clienti, fertilizza comunità, sistemi economici territoriali, Pubbliche Amministrazioni, altre imprese e accumula nel tempo un consistente “capitale sociale”. Tutto ciò rappresenta un fattore di vantaggio competitivo che costruisce imprese “fatte per durare”; 7. produce soprattutto persone, persone vere cresciute e socializzate nella e con l’impresa: manager, professional, tecnici, artigiani, semplici lavoratori, e anche clienti e fornitori. “Product of work is people”. La Olivetti, per esempio, è anche le persone che ha disseminato nell’economia italiana e internazionale; 8. il suo governance system, la sua organizzazione interna, la sua cultura di impresa, le relazioni stabili con le istituzioni e le organizzazioni del territorio sono caratterizzati da valori dichiarati e effettivamente praticati a tutti i livelli, fra cui trasparenza, correttezza, collaborazione, fiducia, passione, energie e altre: ciò ne determina l’identità; 9. nell’impresa integrale operano soggetti che possono avere pregi e difetti, eroismi e storture di ogni genere, ma in tutti i casi svolgono funzioni economico-sociali di straordinaria importanza, stakeholder ossia soggetti a cui l’impresa dà visibilità e importanza: l’imprenditore che fa fare nuove cose o fa fare in modo nuovo cose che si stanno già facendo (innovazione); gli azionisti che apportano risorse economiche all’impresa invece di parcheggiarle nei titoli di Stato o Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 10 esportare capitali nei paradisi fiscali; i dirigenti che portano ad unità elementi dispersi e promuovono il cambiamento; i professional che innovano o sostengono l’apprendimento degli altri; gli operai e gli impiegati che realizzano i processi fondamentali che creano prodotti e servizi e ricchezza; i clienti che sono parte ineliminabile dell’impresa. E così via; 10. dispone di una vasta serie di solidi indicatori economici e finanziari (redditività, ROI, ROE, etc.), di efficacia commerciale (customer satisfaction, etc.) e di efficacia sociale (bilancio di sostenibilità, inchieste nella comunità di riferimento, indagini di clima, analisi della qualità della vita di lavoro, etc.): essi sono strumenti per l’azione a tutti i livelli. Alcuni di questi tratti strutturali li abbiamo visti caratterizzare la Olivetti e la Toyota e sono stati in gran parte la ragione del successo dei distretti industriali e di medie imprese leader nel loro settore. Qui sosteniamo che si applicano ad una più vasta serie di realtà imprenditoriali. Sono tratti riproducibili in un grandissimo numero di imprese vere e normali, la stragrande maggioranza delle quali non ha imprenditori carismatici e socialmente impegnati, ma imprenditori che costruiscono e guidano imprese integrali. Vi sono molte più imprese integrali in Italia di quanto si pensi. Una ricerca e la redazione di storie di impresa, fatte in modo non agiografico, in modo scientifico ma leggibile, è uno dei grandi compiti delle scienze organizzative, dei media, della letteratura. Le 7 leve chiave per lo sviluppo di imprese integrali Le imprese integrali nascono e si sviluppano spontaneamente o si possono anche progettare e sviluppare intenzionalmente? La domanda è cruciale perché rimanda alla questione se può essere perseguito un modello di impresa italiana robusta economicamente che sia parte di un assetto istituzionale equo e che costituisca parte di una italian way of doing industry (Butera e De Michelis, 2009). La crisi in corso vedrà emergere, al suo termine, imprese dotate di paradigmi organizzativi riproducibili nel corso della ripresa. Inoltre, in modo crescente l’opinione pubblica esprime il più alto grado di fiducia nell’impresa come istituzione, capace di assicurare benessere, occupazione, qualità dei prodotti e dei servizi, sviluppo dei territori. La risposta è positiva: qui di seguito proveremo a descrivere le dimensioni più importanti su cui agire per sviluppare e potenziare imprese integrali. Fra di esse quelle organizzative sono le linee di analisi, progettazione e sviluppo dell’organizzazione che chi scrive e la Fondazione Irso adottano da moltissimi anni nelle proprie ricerche, nei progetti, nelle consulenze, nella formazione: esse sono supportate da metodologie provate in un gran numero di casi. Su di esse ci soffermeremo maggiormente (si vedano i seguenti punti 1, 4, 5, 6 e 7). Diventare una impresa integrale è un percorso: 7 sono le leve che possono essere agite I. Gestire il cambiamento strategico e strutturale con modalità partecipative II. Produrre prodotti e servizi socialmente utili III. Partecipare attivamente alla protezione dell’ambiente fisico e sociale IV. Sviluppare organizzazioni internamente coerenti e appropriate a strategie e valori V. Curare la qualità della vita di lavoro e l’identità delle persone: rendere eccellenti i processi e far sì che siano nella testa delle persone; sviluppare l’impresa come rete di fornitori, clienti, persone, istituzioni, comunità; creare professioni ampie, ruoli aperti, e valorizzare il posto di lavoro che è dentro le persone; Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 11 sviluppare comunità basate su cooperazione spontanea, condivisione delle conoscenze, comunicazione estesa; creare cooperazione fra leadership e management dell’impresa. V. Applicare i valori nella prassi quotidiana e valorizzare i fattori hard e soft dell’identità di impresa VII. Sviluppare sistemi integrati di financial e social audit Cambiamento strategico e strutturale Rendicontazione economica e sociale Valori e identità Qualità della vita di lavoro Prodotti e servizi socialmente utili Organizzazione coerente e appropriata Sostenibilità sociale e ambientale Il “radar” delle leve per sviluppare l’impresa integrale © F. Butera e Fondazione Irso Nei prossimi paragrafi esamineremo in dettaglio queste leve e alcuni metodi per attivarle, con particolare attenzione a quelle organizzative su cui chi scrive ha esperienza diretta. I. La gestione del cambiamento strategico e strutturale Molte sono le ragioni per cui le organizzazioni in Italia stanno cambiando e devono urgentemente cambiare: affrontare la crisi finanziaria e industriale internazionale; acquisire competitività strutturale; internazionalizzazione; gestire lo sviluppo dell’impresa nelle aree sistema e dei territori e imprese in rete; richiedere e ottenere l’efficacia e l’efficienza della Pubblica Amministrazione; favorire lo sviluppo di nuovi lavori e di nuovi lavoratori;assicurare l’equilibrio fra sviluppo tecnologico e sviluppo organizzativo; tener conto della dimensione etica e sociale della condotta dell’impresa; promuovere lo sviluppo sostenibile entro una economia globale. In questo processo molte imprese sono indotte ad attivare processi strategici di business che consentano di: a. passare da strategie di solo costo a strategie di diversificazione (Ansoff, 1979); b. allungare la catena del valore (Porter, 1980), ad esempio proponendo prodotti più servizi lungo filiere allungate; c. passare dall’impresa accentrata all’impresa che sceglie continuamente il make or buy (Williamson, 1985), con sistemi di outsourcing e offshoring; d. passare da strategie di mass production centrate su prodotti o servizi commodificati a strategie centrate sul cliente (customer centred organization); e. perseguire, ove appropriato, “strategie di dominanza” (Delta model di Hax, in Hax e Wilde, 1999) e in particolare: Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 12 o offrire “soluzioni proprietarie” rispetto a bisogni primari di grande valore che sono indifferenti al prezzo e che non hanno competitori (ospedali di eccellenza, università di fama, outsourcing di processi ad alto rischio, specialità sanitarie vitali, etc.); o strategia di lock in, ossia rendere il prodotto o servizio non copiabile e non gestibile dai concorrenti (Microsoft, Intel). Identificare una strategia non è difficile. Difficile è realizzarla attivando tutte le risorse interne ed esterne disponibili, prima fra tutte le risorse umane. Il metodo adottato in una varietà di progetti da chi scrive (passaggio dalla meccanica all’elettronica in Olivetti, progettazione del Nuovo Treno Medio della Dalmine, Uffici delle Entrate, Contact Center di Vodafone e molti altri) è quello del Change Management Strutturale (GICS © Federico Butera). Esso rappresenta la concezione e il dimensionamento di architetture innovative e integrate di strategie, prodotto/servizio, tecnologie, persone, cultura che hanno l’obiettivo di realizzare strategie prescelte e appropriate alle risorse e potenzialità dell’organizzazione. Il Change Management Strutturale include fin dall’inizio della concezione un programma e un presidio per il governo dei processi di cambiamento e di implementazione che godono del supporto del vertice e che attuano una integrazione fra progettazione, sviluppo e monitoraggio, suscitando condivisione e partecipazione da parte del management intermedio e degli associate. L’obiettivo del Change Management Strutturale è di innovare e di far accadere le cose. Esso fa coesistere strategie elaborate dall’imprenditore e attivazione di un processo partecipato di realizzazione effettuata da tutta la compagine aziendale. Include infatti: l’ingaggio della committenza a definire e ridefinire problema, strategia e obiettivi operativi; il benchmark internazionale su esempi e best practice; lo studio della situazione concreta; la identificazione e comunicazione di un concept condiviso; la costituzione di una struttura incaricata di abilitare le persone dell’organizzazione: steering committee e design team; un progetto pilota condotto dal team di progetto (un mock up); la realizzazione e la formazione. II. I prodotti socialmente utili La valutazione dell’utilità sociale è storicamente determinata. Indicatori che li misurano solo quelli della qualità della vita, della Customer Satisfaction e della Customer Experience (Fabris, 2008). Questo tema è oggetto di un contributo a parte (Butera, 2007, 2010). III. Curare la sostenibilità sociale e ambientale L’impresa non sopravvive quando è soffocata dalla burocrazia pubblica. Il cambiamento della Pubblica Amministrazione è certamente una condizione necessaria per lo sviluppo dell’impresa L’impresa – in aggiunta alla legittima pressione che può esercitare su questo tema attraverso la sua rappresentanza – può però lavorare attivamente alla modernizzazione, operando con correttezza e con proattività, agendo in partnership con la Pubblica Amministrazione offrendo servizi, proponendo risorse formative e così via. Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 13 L’impresa muore nei territori inquinati dalla criminalità. Quando l’impresa non soggiace alla criminalità, non può non “invadere” positivamente il terreno della convivenza civile e operare come “impresa per la cultura” (Dioguardi, 1994) e come agente di sviluppo. Le iniziative degli imprenditori siciliani contro il “pizzo” e la mafia vanno in questa direzione. Il nostro pianeta è gravemente minacciato da agenti degradanti e inquinanti prodotti dallo sviluppo industriale (F.M. Butera, 1991, 2007). Ridurre i rischi e generare nuove protezioni per l’ecosistema, sviluppare prodotti a basso livello di consumi ed emissioni non rappresenterà solo un costo per l’impresa, ma una delle più ampie aree di affari mai visti. Infatti, quando si definirà bene il mercato della sostenibilità, si svilupperà un volume di azioni di ricerca e sviluppo e di produzione di una magnitudo non inferiore a quella erogata nella prima rivoluzione industriale con i tessuti, le centrali termoelettriche, la siderurgia, le ferrovie e l’automobile. Una prova è lo schierarsi di grandi corporation a fianco di Obama nei programmi di riduzione delle emissioni. Dopo le risorse naturali, l’impresa deve valorizzare le risorse culturali e simboliche delle società in cui opera: non è vero solo per l’industria culturale, per il settore del turismo, per le ICT, ma anche per il settore farmaceutico, delle biotecnologie e per moltissime altre imprese che valorizzano il “capitale intellettuale” di una società. IV. Organizzazione coerente e appropriata IV a. L’eccellenza dei processi Miller e Rice (1967) hanno scritto: “Processo è una trasformazione o una serie di trasformazioni che hanno luogo sull’oggetto dell’attività funzionale di un sistema (throughput), come risultato del quale l’oggetto viene cambiato nella sua posizione, forma, misura o in qualche altro aspetto”. Questa definizione si applica anche a casi in cui l’oggetto è immateriale, come ad esempio l’erogazione di un servizio, l’innovazione, l’educazione: qui gli input sono rappresentati da informazioni sotto forma di segni, segnali e simboli, e gli output da servizi che soddisfano i bisogni di un cliente esterno o interno. L’analisi e il ridisegno dei processi sono i passi di base per ogni innovazione organizzativa necessaria in questa fase. Per capire e intervenire su cosa avviene in un’organizzazione complessa (una fabbrica di automobili, una fabbrica chimica, un ristorante, un ospedale, un ufficio pubblico, un gruppo musicale), dobbiamo capire quali sono i suoi processi: “cosa si fa in quella organizzazione”. E migliorarli incessantemente. Avevo ridefinito il processo come “una sequenza di eventi adeguatamente concepiti, concretamente realizzati ed efficacemente controllati che conducono al raggiungimento degli scopi dell’organizzazione e al soddisfacimento dei bisogni dei clienti/utenti, entro i limiti desiderati delle prestazioni primarie (qualità del prodotto/servizio) e delle prestazioni associate (costo, sicurezza, tempestività, qualità della vita di lavoro dei ‘produttori’, etc.)” (Butera, 1984). La storia dell’Irso - Istituto di Ricerca Intervento sui sistemi Organizzativi si sviluppò a partire dalla primazia accordata all’analisi e alla progettazione dei processi. Secondo la tradizione sociotecnica il processo è il principio di realtà di una organizzazione e ha la sua funzione cruciale non solo quando è definito in un flow chart o in una procedura informatica, ma quando è messo in atto dalle persone: è nella testa delle persone. Il processo è una operation, ma anche il compito che ha un valore che deve essere compreso e condiviso nelle imprese integrali: deve valere più della procedura, della mansione, della struttura organizzativa. Ognuno deve sentirsi impegnato a condurre processi end-to-end, ossia a contribuire ai risultati. Ruoli, organizzazione del lavoro devono essere, secondo la nostra tradizione, centrati sulla piena comprensione dei processi soprattutto quando avvengono varianze, che richiedono un riaggiustamento delle condotte individuali e collettive. Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 14 L’analisi e la riprogettazione dei processi hanno quindi come scopo non solo la semplificazione e la riduzione dei costi e degli sprechi, ma anche l’abilitazione della organizzazione e delle persone a ottimizzare i processi e a identificare, assorbire, fronteggiare le varianze, grandi o piccole che esse siano. La progettazione sociotecnica allora riguarda la concezione e lo sviluppo congiunto di organizzazioni, ruoli, tecnologie, competenze per un pieno controllo dei processi. Senza la work authority data dalla comprensione e dalla capacità di intervento sui processi che implicano responsabilità e cooperazione, è assai difficile costruire imprese integrali, che sono caratterizzate da condivisioni di valori e da partecipazione. L’esempio dell’andon della Toyota, che autorizza l’operaio più modesto a tirare la corda per fermare la linea se vi è un serio problema sui processi, simboleggia questo legame fra controllo dei processi e partecipazione. IV b. Un sistema di organizzazione a rete Le imprese integrali sono sempre di più organizzazioni a rete. Per svilupparle lungo quel modello è necessario padroneggiare la grammatica e la sintassi delle organizzazioni a rete. Analizzarle, svilupparle, progettarle. Questo è l’impegno che chi scrive e la Fondazione Irso esprimevano (Butera, 1991), quando non sembrava che su questo difficile rapporto sulla scelta fra organizzazione e mercato (Williamson, cit.) si potesse intervenire in modo propositivo. Le discipline che si sono occupate di reti sono numerose: economia, ingegneria, informatica, ricerca operativa, scienze dell’organizzazione e molte altre. La ricerca sulle reti organizzative si è sviluppata in varie direzioni senza risolvere il problema del carattere polisemico del termine “rete”. Esso allude infatti a concetti e applicazioni diversissimi: reti telematiche, reti di processi, reti di relazioni, reti di conoscenze, reti organizzative, reti di imprese, reti di imprese e territori, e molto altro. Il termine è insomma adoperato in modo a-specifico per indicare ogni sorta di connessione. Il problema è che molte di queste sono connessioni parallele o convergenti che si incrociano e si intrecciano nel funzionamento dei sistemi sociali ed economici. Da un punto di vista organizzativo, rete equivale certamente a sistema di relazione fra attori, a legami fra soggetti che convergono a realizzare un medesimo processo di produzione e/o di business. Axelsson e Easton (1991) sintetizzano la grande varietà di approcci adottati nelle scienze organizzative in tre grandi gruppi: il primo gruppo vede il network come modello di relazione fra diverse organizzazioni per raggiungere fini comuni (Van de Ven e Ferry, 1980); il secondo gruppo definisce il network come una serie di connessioni “lasche fra organizzazioni legate da relazioni sociali” (Aldrich, 1999); un terzo gruppo vede il network come un insieme di due o più relazioni di scambio. Axelsson e Easton chiariscono bene che solo la prima accezione implica appartenenze, confini, obiettivi, risultati, ossia qualcosa che assomiglia a ciò che definisce una organizzazione. Venkatraman e Henderson (1998) affrontano in modo molto chiaro il problema della cosiddetta virtualità consentita dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, sostenendo che ci vogliono organizzazioni reali per organizzarsi in modo virtuale. La “virtualità” per questi autori è una caratteristica strategica applicabile ad ogni azione organizzativa mentre non esistono organizzazioni virtuali come nuovi modelli. Vi sono invece tre vettori strategici che si sviluppano sulla rete che hanno un ruolo chiave nel successo delle nuove organizzazioni: 1. la leva delle conoscenze ottenuta anche virtualmente attraverso lo scambio di conoscenze sulla Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 15 rete (knowledge management, e-learning, etc.); 2. la leva della relazione con i clienti ottenuta attraverso l’incontro virtuale di offerta e domanda (ecommerce, e-business); 3. la leva della configurazione strutturale delle risorse o asset configuration (subforniture, outsourcing, alleanze, etc., realizzabili con l’ausilio della rete che solo in parte può essere virtuale). Questi tre vettori, innanzitutto, divengono sempre meno virtuali e sempre più strutturali: 1. le conoscenze evolvono da componente virtuale a componente strutturale: la gestione delle conoscenze si estende dallo scambio all’interno della stessa unità di lavoro o comunità di pratica, allo sviluppo di intellectual capital, (Edvinsson, 1997) e alla creazione di comunità professionali cosmopolite (Butera, 1988); 2. la strategia verso i clienti si fa anch’essa struttura: da scambio di informazioni su prodotti e servizi, diviene customizzazione dinamica, fino ad arrivare alla costituzione di comunità di clienti; 3. in sistemi formalizzati di CRM, l’asset configuration evolve dalla identificazione e esternalizzazione di moduli di fornitura alla costituzione di interdipendenza dei processi fino ad arrivare alla coalizione su risorse comuni o all’impresa rete, di cui parleremo oltre. L’impresa rete è un soggetto unitario costituito da un sistema di riconoscibili e multiple connessioni e strutture entro cui operano imprese o unità organizzative di imprese e amministrazioni, ossia “nodi” ad alto livello di autoregolazione (sistemi aperti vitali), capaci di cooperare fra loro (ossia di condurre vari tipi di transazioni efficaci) in vista di fini comuni o di risultati condivisi (Butera, 1991). Le imprese integrali sono sempre di più organizzazioni a rete e sono caratterizzate dai seguenti elementi costitutivi, che sono la grammatica delle reti e che vanno governati, progettati, sviluppati. È ciò che imprenditori geniali hanno fatto anche inconsapevolmente e che manager esperti devono saper fare sapientemente: la valorizzazione, che avviene attraverso una doppia catena del valore – il valore economico e il valore sociale; i processi interfunzionali, interaziendali e interistituzionali che attraversano imprese e unità organizzative diverse; i nodi vitali, capaci cioè di sopravvivere e prosperare autonomamente. Essi sono “nodi produttivi” (imprese, unità organizzative, ruoli professionali) e “nodi istituzionali” (enti pubblici, comuni, scuole, gruppi sociali) che operano nella stessa “arena decisionale”; i legami, laschi e rigidi, che connettono i nodi (scambi economici, procedure, informazioni, comunicazioni, relazioni sociali, rapporti di potere, etc.); le strutture multiple che devono essere fra loro coerenti e adatte alle strategie e alle sfide (gerarchia, mercato, sistema informativo, sistema telematico, strutture sociali, strutture politiche, etc.); le proprietà operative, come sistemi decisionali, sistemi di regolazione dei conflitti, forme di rafforzamento dell’appartenenza alla rete, etc. Il più importante dei sistemi operativi è il sistema di governo (governance system). L’impresa rete è quindi la più composita delle strutture: è contemporaneamente un mercato, una struttura gerarchica, una rete informativa, un sistema sociale, un clan o una famiglia, una struttura “politica”: essa, inoltre, ha una forma di governance più complessa di quella formale. L’impresa integrale si sviluppa tanto più quanto è forte il sistema di governance della rete. Diceva Edith Penrose che un sistema si sviluppa al tasso della crescita dell suo gruppo dirigente. Oggi possiamo dire che una impresa integrale si sviluppa al tasso di crescita della sua capacità di governante della rete, generando cooperazione fra imprenditori, gruppo dirigente e stakeholder. Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 16 IV c. Sistema di ruoli e professioni Nelle imprese integrali abbiamo visto che centrali sono le persone: chi lavora nell’organizzazione, chi la dirige, chi ne possiede una quota, chi è fornitore, chi è cliente. Nell’impresa integrale vi è una grande flessibilità e dinamicità del chi fa che cosa, una scarsa formalizzazione dei percorsi di cambiamento nella professione o nella identità, una infinità varietà di personalità, attitudini, bisogni delle persone vere. L’impresa integrale è a misura della persona. Ma come evitare che esistano tante organizzazioni quante sono le persone o che il continuo cambiamento dissolva ogni certezza dell’organizzazione? È il sistema professionale che evita questo rischio (Abbot, 1988). L’impresa integrale è dinamica e risponde alle caratteristiche delle persone, come la Olivetti delle fasi 1 e 2: disporre di un sistema di ruoli aperti, di sistemi di professioni aziendali a banda larga, valorizzare il “posto di lavoro che c’è dentro ogni persona”. Analizzare e progettare ruoli agiti, broad profession centrate sulle effettive prassi di lavoro e sul ruolo attuale e potenziale come patrimonio della persona: questa è l’esperienza che chi scrive e i colleghi della Fondazione hanno condotto negli anni alla Olivetti, alla Honeywell-Bull, alla Finsiel, alla Boheringer, agli Uffici delle Entrate, per citare solo alcuni esempi. Ora l’approccio e le metodologie seguite sono disponibili per la costruzione di ruoli e professioni, uno degli organi componenti fondamentali dell’impresa integrale. Un sistema di ruoli e professioni è basato su tre dimensioni principali: la progettazione e la gestione dei ruoli assegnati o ascritti. Essi sono uno dei building block del modello organizzativo ed hanno per oggetto: o i processi di lavoro; o le relazioni con le persone e la tecnologia; o le attese organizzative, obiettivi e risultati; o le competenze e i comportamenti richiesti; l’identificazione di professioni o quasi-professioni, ovvero la storia passata e futura di una situazione lavorativa, che è data da istituzioni sociali riconoscibili e gestibili dal sistema scolastico, dall’ordinamento giuridico, dalle agenzie dell’impiego, dalle relazioni industriali, etc.; il riconoscimento e l’abilitazione della persona al lavoro (che altri chiamano personale, risorsa umana, dipendente, etc.), sia come soggetto abilitato ad agire nelle organizzazioni e portatore di conoscenze, abilità, potenzialità, desideri, inclinazioni ed invenzioni, sia come possessore del workplace within, ossia la propria fonte di adattamento, interpretazione e reinvezione di ruoli e professioni. Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 17 contesto organizzativo di riferimento caratteristiche occupazionali Identità Professionale RUOLO PROFESSIONE Sviluppo della Persona nel Ruolo ruolo agito Sviluppo del Ruolo oltre la Persona Sviluppo di Carriera entro e fuori l’organizzazione PERSONA storia, traiettoria personale e sistema sociale © Il modello di analisi e progettazione del lavoro della Fondazione Irso 2009 Le tre dimensioni del modello si originano fuori da uno specifico contesto e da un esteso ambiente organizzativa e societaria. Il ruolo infatti è una parte del sistema organizzativo, che evolve rapidamente distruggendo e creando ruoli. La professione è una porzione del mercato del lavoro, e quest’ultimo le attribuisce valori e compensi in base a dinamiche socio-economiche che trascendono la professione in sé, per quanto le corporazioni tentino di cristallizzarli. La persona al lavoro è la punta dell’iceberg di ciò che la persona è nella sua totalità, è stata, e sarà. Questo modello è alla base degli attuali progetti di analisi, progettazione dei ruoli e delle professioni e dello sviluppo delle persone della Fondazione Irso ed è descritto in Butera, Di Guardo (2009). L’idea centrale di questo approccio è triplice: che i ruoli ascritti siano centrati su risultati, sulla padronanza di processi complessi di conoscenza, implicando relazioni interattive fra le persone e fra esse e le tecnologie, un insieme di competenze di teorie e tecniche, un sistema di attese produttive e sociali, che tendono a costituire forme di lavoro “a senso compiuto”, come lo furono i ruoli degli artigiani e dei professionisti liberali; che un sistema professionale renda visibile le forme di formazione, ingresso, mobilità, riconoscimento sociale, che in una parola fornisca alla persona e al sistema sociale una immagine della identità, delle responsabilità, dei possibili percorsi della persona; che la persona, nello svolgere il suo ruolo agito e nel realizzare percorsi sempre meno codificati, “sporga” oltre i ruoli e le professioni. Se dunque alle persone oggi viene richiesto non tanto l’esecuzione di un task quanto una “performance lavorativa” (che nasce dalla propria capacità di combinare l’esistente ed il dato con il nuovo e l’originato), ecco che l’organizzazione deve necessariamente assomigliare sempre più ad un sistema che facilita questo processo. È la persona che agisce i ruoli e le professioni, che esprime il workplace within (Hirschhorn, 1988), che crea e innova ruoli organizzativi e professioni in rapporto con gli altri elementi del sistema (gerarchie, sistemi sociali, tecnologie, risultati economici, etc.). Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 18 IV d. Proprietà di funzionamento comunicazione, comunità integrative: cooperazione, conoscenza, Quando in una organizzazione gli obiettivi sono altamente variabili e difficili da raggiungere, i processi sono altamente incerti e attraversano una organizzazione a rete, la tecnologia o i processi di reengineering sconvolgono l’organizzazione, l’innovazione deriva in buona misura dalle persone, la cooperazione è richiesta anche fra persone in postazioni remote, è richiesto un nuovo modello di organizzazione che massimizzi la cooperazione, la comunicazione, le conoscenze, la comunità. Esso emerge in una varietà di organizzazione di ricerca e sviluppo, di servizio, di produzione e lo abbiamo definito come modello delle 4C © Federico Butera e Fondazione Irso, ossia il modello della Comunità che innova attraverso la Cooperazione intrinseca e la Comunicazione estesa di Conoscenze condivise (Butera, 1999). Esso è oggi il modello di analisi e progettazione della parte non formale dell’organizzazione adottato nella ricerca, nella progettazione e nella formazione dalla Fondazione Irso. Una organizzazione 4C è caratterizzata dalle seguenti 4 proprietà “di funzionamento”: una cooperazione intrinseca, ossia lavorare insieme con obiettivi comuni e condivisi, con comunità di pratiche, con regole sviluppate in parte dai membri stessi dell’organizzazione; una comunicazione estesa, basata su una ampia diffusione supportata da adeguati media e formati di comunicazione e che si estende oltre i confini dell’organizzazione; una conoscenza condivisa, ossia la condivisione fra tutti i membri dell’organizzazione di una grande varietà e formati di conoscenza, e del suo governo e della sua promozione; una comunità orientata agli obiettivi, ossia una organizzazione razionale e naturale (Scott) fatta di organizzazioni socialmente capaci, team autoregolati, comunità che apprendono, corporazioni cosmopolite. Comunità professionale performante Rete Cooperazione intrinseca Singola Impresa Micro-strutture Ruolo e persona Conoscenza condivisa Comunicazione estesa © Il modello della organizzazione 4C 2000 Federico Butera e Fondazione Irso Le imprese integrali diventano tali solo se governano in modo buono tutte e quattro queste proprietà di funzionamento: esse sono parte di quello che io chiamo strutture di regolazione latenti (Butera, 1979, 2009). Queste dimensioni e proprietà di funzionamento delle strutture latenti sono state confusamente definite come l’informale (Gouldner lo definiva “un concetto squinternato da caffè”), né “i comportamenti” (che ne sono la conseguenza), né la parte “soft” (nozione nebulosa e residuale) delle organizzazione, ma invece proprio la dimensione di regolazione sociale delle organizzazioni che nei modelli organici e a rete quali sono le imprese integrali sono la parte dell’organizzazione che fa la differenza. Le strutture di regolazione latenti sono costituite da componenti non scritte ma forti come il vento, come le correnti marine, sono prassi, conoscenze, Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 19 culture, valori, modalità di relazioni e soprattutto elementi costitutivi delle comunità, ossia di quella porzione della società che vive in ogni organizzazione. Queste proprietà di funzionamento esistevano anche nelle organizzazioni tradizionali ma nell’impresa integrale hanno subito una mutazione di tipo. La cooperazione estrinseca, dominante nei modelli taylor-fordisti, era quella che faceva convergere gli sforzi di lavoro entro un piano definito dall’alto. La cooperazione intrinseca è quella che implica il lavorare insieme sviluppando piani e azioni che consentono ai membri dell’organizzazione di decidere insieme – in tutto o in parte – perché, quando, dove, come lavorare. Barnard (1938) aveva per primo compreso che la cooperazione fonda l’organizzazione e non viceversa e aveva parlato di “sistemi di cooperazione”. Da allora molti autori hanno provato a formulare tipologie di studi sul fenomeno della cooperazione: Thompson (1967) aveva identificato il coordinamento per mutuo adattamento; Gulowsen (1972) e Susman (1976) avevano studiato i tipi e i gradi di autonomia di un gruppo; Argyris e Schön (1978) e Senge (1996) avevano individuato le organizzazioni che apprendono; Weick (1969) aveva individuato i legami deboli oltre a quelli forti. Le scienze organizzative hanno anticipato criteri di funzionamento che si diffondono solo nel pieno dispiegarsi di organizzazioni integrali. Come nei casi Olivetti e Toyota, all’interno della stessa impresa, nel modello che descriviamo, ha luogo una cooperazione strettissima fra pianificazione strategica, ricerca, sviluppo, produzione, marketing, commerciale. Vi è una intensa interazione fra R&D, manutenzione e assistenza tecnica. Come in Olivetti e in Toyota, la cooperazione intrinseca si manifesta attraverso una multipla leadership: gli obiettivi e i piani sono fissati dall’alto, vi è una partecipazione nel definire perché, dove, come, che cosa è necessario per realizzare gli obiettivi. Vi è orientamento a produrre insieme innovazione anche al di là delle aspettative espresse dai piani. Le modalità di cooperazione sono esattamente quelle per mutuo adattamento indicate. Ha luogo un apprendimento continuo. Deborah Ancona della Sloan School del MIT ha sviluppato l’approccio più aggiornato sul team work come modalità strutturale. Nei progetti della Fondazione Irso sviluppiamo forme di cooperazione disegnando processi operativi e decisionali basati su schemi collaborativi, fissando regole che potenzino il lavoro di gruppo, sviluppando ruoli, rendendo accessibili tecnologie della collaborazione, aprendo la porta ai social network resi possibili dal web 2.0 e molto altro, integrando una varietà di metodologie esistenti e proprietarie. La comunicazione estesa (a base tecnologica o meno) non inizia e non si sviluppa senza alcuni prerequisiti sociali che preesistono alla comunicazione. Fra tali requisiti vi sono i seguenti: a) devono preesistere gruppi sociali che abbiano proprie risorse e regole in cui si svolge la comunicazione; b) devono esistere valori e obiettivi dei gruppi sociali che sottendono alla comunicazione; c) le conoscenze devono avere un contenuto adeguato agli scopi e ai bisogni della comunità, devono essere accessibili da tutti i membri della comunità, devono essere comprensibili, devono essere usabili, devono avere libera circolazione entro e fuori la comunità; d) devono preesistere all'emissione di messaggi sistemi di regolazione sociale che definiscano le regole per l'accesso alle informazioni e la non esclusione, l'abilitazione ad usarle, il loro costo. In Olivetti e Toyota la comunicazione avveniva entro comunità costituite socialmente e continuamente evolventi. Nel modello 4C come lo abbiamo concepito la comunicazione: Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 20 è basata su flussi a due vie di informazioni, comprensibili, accessibili presentati in un formato usabile; è costitutiva dell’organizzazione a rete; è di proprietà di persone e gruppi sociali che hanno sviluppato competenze, orientamento, meccanismi sociali tali da rendere aperta e significativa la comunicazione; serve ad aumentare il “sensemaking” condiviso nel vedere gli obiettivi, i processi, i risultati; è componente del servizio reso ad altre unità o persone (“la palla va passata”). Una illustrazione di modalità di comunicazione entro una comunità universalistica e sul campo è stata sviluppata dalla nostra collega Sara Albolino, esaminando le fasi del round (la vista collettiva) e del fly (l’operazione) di una équipe chirurgica in un ospedale americano dove, nella fase del fly, la comunicazione avviene per cenni e per condivisione del sensemaking (Albolino e Cook, 2005). I “processi di conoscenza condivisa” sono la principale componente delle brainpower industries. La “reingegnerizzazione dei processi di conoscenza” (come uso e ristrutturazione dell'“ingenium”) cui abbiamo accennato prima è proposta da Hamel e Prahalad (1994), Von Krogh, Ichijo e Nonaka (2000), Davenport e Prusak (1997), Leonard-Barton (1995), Edvisson e Malone (1997), De Michelis (2001) . Il modello 4C dà valore e sviluppa: tutti i tipi di conoscenza: dati, informazioni, esperienza, skill, valori, vision, etc., sia quella esplicita che quella tacita proveniente dalla pratica; tutti i processi di condivisione, acquisizione, distribuzione, reperimento e valorizzazione delle conoscenze; la riconciliazione tra conoscenza embedded (nei testi, nel software, etc.) e conoscenza esperta (nella testa delle persone); il passaggio dalla conoscenza al conoscere (knowing). La conoscenza nel modello 4C: è prima di tutto nella testa delle persone; è un flusso visibile di condivisione e scambio tra le persone e l’organizzazione; è “situata” nei team, nell’organizzazione, nella rete; è un attributo delle comunità. I progetti di knowledge management (Davenport e Prusak, cit.) o knowledege enabling (Von Krogh et al., cit.), fuori dalla visione esclusivamente tecnologica come proposto da quegli autori e da Giorgio De Michelis (1995, 2001) hanno consentito a colleghi della Fondazione Irso di identificare progettare e gestire l’organizzazione del lavoro della conoscenza come progetti socio tecnici di ultima generazione (Morici, 2008). La comunità di lavoro è una organizzazione naturale e razionale in cui i processi di lavoro e i processi sociali non sono compressi ma posti in un “framework organizzativo”. Essa è immersa (embedded) all’interno di comunità locali e cosmopolite. Una comunità di lavoro efficace ed efficiente implica: un comune sentimento di partecipazione; interessi condivisi o positivamente mediati; obiettivi, significativi, risultati in parte comuni; valori condivisi; lealtà multiple ai processi, alla professione, all’organizzazione di appartenenza; appartenenza sia alla comunità locale che ad una comunità professionale. Una comunità orientata al successo implica il passaggio dalla comunità intesa come “organizzazione informale clandestina per proteggere l’individuo” alla comunità intesa come “piccola società” per sostenere la crescita e le performance delle persone. Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 21 L'“organizzazione del lavoro esperto”, descritta da Abbott (cit.), consiste nell’animazione e nel coordinamento sia di conoscenze reificate sia di conoscenze esperte, suscitando energia, creatività, alleanze tra diverse forme di conoscenze: le figure a più alto livello di conoscenza sono parte essenziale ma non esclusiva delle nuove forme di lavoro esperto. La più rilevante innovazione è l'introduzione di sistemi professionali che rendono visibili, ruoli, responsabilità, percorsi di crescita, etc. Tutto ciò genera nuove “piccole società” o “comunità professionali”: team face-to-face e remoti, gruppi di lavoro, task force. Si sviluppano “comunità di pratiche”: forme organizzative scarsamente strutturate per lo sviluppo della cooperazione, lo scambio di informazioni, il mutuo supporto fra persone operanti in organizzazioni formali e in organizzazioni e/o corporazioni differenti operanti su “pratiche” uguali (Seely Brown e Duguid, 1991). IV e. Leadership e management Noi vediamo la leadership come l’animatrice di processi di cooperazione. Adriano Olivetti e Kiichiro Toyoda attivarono forme di cooperazione di straordinaria energia e autonomia. La cooperazione deriva dai messaggi e dalla sollecitazione del vertice ma è anche una caratteristica strutturale dell’impresa moderna. Abbiamo già parlato di cooperazione intrinseca. Gli ingredienti strutturali della cooperazione a livello di impresa sono gli obiettivi, i processi e i ruoli, la cultura e le competenze delle persone (Goshal e Bartlett, 1997). Sono questi gli elementi che generano condivisione e identificazione con i fini e con i mezzi dell’organizzazione. Questa costruzione dell’organizzazione è oggetto di responsabilità, progettazione e cambiamento strategico-organizzativo del vertice, giustifica e fa condividere modifiche di poteri e privilegi, riduce l’impegno a gestire dissensi e resistenze. Leadership significa principalmente, quindi, costruire imprese integrali e “built to last”, una responsabilità dell’imprenditore e del management che cooperano a tutti i livelli. La formazione del management in questa prospettiva diventa fondamentale. V. I sistemi di gestione delle persone e la qualità della vita di lavoro L’impresa ha fame di innovazione e l’innovazione la fanno principalmente le persone sostenute da adeguata organizzazione e tecnologia. La richiesta di competenza, creatività, impegno, partnership, rivolta a una popolazione di knowledge worker che rappresenta già nei paesi avanzati il 50% della popolazione lavorativa, non può avvenire se l’impresa non attiva forme di “organizzazione naturale” e “organizzazione professionale” che sono in parte fuori dal suo pieno controllo, poiché essa le condivide con la società. L’impresa che ha successo nell’innovazione ha promosso una alleanza con sistemi professionali e individui che rispondono a logiche sociali prima che economiche. L’innovazione non può avvenire senza programmi di sviluppo di competenze e di empowerment delle persone. Senza un surplus di efficienza, qualità, flessibilità l’impresa perde la sua partita competitiva. I risultati dipendono in grande misura dalla cooperazione e convergenza delle persone su quei valori e sulle azioni relativa: motivazione, partecipazione, competenze, creatività, energia, gioia, fatica, assunzione di rischio sono le variabili (sociali) che consentono prestazioni elevati alle imprese. La persona tende a lavorare entro confini concentrici. A un primo livello tali confini possono includere luoghi fisicamente identificati, dall’ufficio nel classico grattacielo alla propria casa, sempre più caratterizzati però da “domesticità” e funzionalità rispetto ai ruoli e alle piccole società entro cui sono immersi. A un livello più esterno, per molti, tali confini sono “planetari”, e riguardano flussi di comunicazione su reti senza confini, come il web, dove la persona non è sola ma lavora esplorando reti telematiche globali per riportare “nel suo ufficio” dati, immagini, idee, rapporti: ossia Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 22 l’informazione va nel mondo e ritorna entro una comunità sociale di persone in carne e ossa e di uffici con le porte e le finestre. L’integrità della persona e delle persone, o qualità della vita, è al centro di questo processo di ridefinizione delle organizzazioni. Ossia, organizzazione e comunità saranno accettabili se una o più dimensioni della qualità della vita di lavoro sono accettabili. Qualità della vita di lavoro significa integrità della persona (ovvero benessere, assenza di pericoli potenziali, assenza di malattie), e include: o integrità fisica (proteggere la salute ed evitare infortuni); o integrità cognitiva (ricevere informazioni comprensibili); o integrità emotiva (evitare stress, strain e condizioni psicologicamente avverse); o integrità professionale (valore delle competenze e riconoscibilità della professione); o integrità sociale (ad esempio l’effetto sul ritmo della vita sociale di chi lavora a turni, o nei call center, o nelle vendite); o integrità del sé, dell’identità della persona. Vita fisica Vita cognitiva Vita professionale Qualità della Vita e del lavoro Vita emotiva Vita sociale Vita riflessiva Il modello della “Qualità della vita e del lavoro” (Butera, 1984) La Fondazione Irso ha sviluppato una metodologia di assessment della qualità della vita di lavoro e un modello di gestione integrata di performance review che ne tiene conto. Il cambiamento del modello d’impresa che abbiamo tratteggiato modifica profondamente i modi di gestione delle persone. Modello tradizionale Gerarchia Norme e procedure esterne Inquadramento su mansioni Contrattazione collettiva del rapporto di lavoro Retribuzione come compenso per la prestazione Carriere verticali Modelli nuovi Integrazione, cooperazione, gioco di squadra: team building e leadership education Deontologie e obiettivi interiorizzati: gestione per valori Identità basate su professioni: nuovi sistemi professionali Contrattazione collettiva del campo di gioco Retribuzione come partecipazione al rischio Carriere orizzontali senza confini Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 23 Lo sviluppo delle persone entro carriere senza confini è stato sviluppato da Sebastiano Bagnara (Kieselbach, Mader, Bagnara, Bargigli, 2004). VI. Valori e identità dell’impresa L’approccio che stiamo illustrando assegna un valore centrale ai valori e alla identità dell’impresa: abbiamo visto l’importanza dell’anima dell’impresa negli esempi Olivetti e Toyota. Ma nelle nostre ricerche e nei nostri progetti questa dimensione chiave dell’impresa integrale è sempre strutturalmente legata alle altre dimensioni: i valori sono sostenuti dai processi, dalle strutture formali e latenti, dai ruoli, dalle proprietà di funzionamento. Le carte dei valori fatte a tavolino e presentate in carta patinata non contribuiscono in quanto tali a sviluppare l’impresa integrale, anzi rischiano di darne una immagine moralistica e caricaturale. La cultura di una organizzazione, come dice Schein (1985) è basata su tre dimensioni: 1. ARTEFATTI 2. ASSUNTI DI BASE 3. VALORI Ossia: 1. gli artefatti sono manifestazioni visibili della cultura, sono l’architettura, i prodotti/servizi, la tecnologia, il layout, i documenti ufficiali, il linguaggio, gli archivi, etc.; 2. gli assunti fondamentali sono quelli che un gruppo ha sviluppato imparando ad affrontare i propri problemi e che hanno funzionato abbastanza bene da essere considerati validi, e perciò tali da essere insegnati ai nuovi membri – come il corretto modo di percepire, pensare e sentire”; 3. i valori sono convinzioni radicate, princìpi condivisi, dati per scontati, modalità di come le persone interpretano la realtà. Manifestazioni visibili della cultura: architettura, prodotti/servizi, tecnologia layout, documenti ufficiali, linguaggio, archivi, etc. ARTEFATTI VALORI Percezione da parte delle persone di come “dovrebbero” essere fatte le cose Convinzioni radicate, valori condivisi, dati per scontati. Come le persone interpretano la realtà ASSUNTI DI BASE La cultura organizzativa di E. Schein Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 24 Per definire l’identità dell’impresa si usano diverse espressioni che sembrano sinonimi ma non lo sono: o identità: è costituita dagli attributi che definiscono l’impresa, da come l’impresa comunica se stessa (chi siamo?); o brand: racchiude le expectation of delivery in termini di prodotto, servizio e customer experience (che diciamo di fare?); o immagine (una o multiple): è come l’azienda viene percepita dai suoi pubblici, (cosa pensano i nostri stakeholder su chi siamo e cosa raccontiamo di noi?); o reputazione: le rappresentazioni positive e negative delle immagini, costruite nel tempo (cosa pensano di bene e di male i nostri stakeholder su chi siamo e su cosa abbiamo fatto nel tempo?). Melewar, Storrie (2001) così identificano i fattori da cui dipende l’identità, alcuni hard altri soft. STRATEGIA IDENTITA’ D’IMPRESA PRODOTTI E SERVIZI ORGANIZZAZIONE CULTURA e LEADERSHIP • Mercati di riferimento • Posizionamento strategico • Business model • Piano strategico: crescita e profittabilità • Il portafoglio dei prodotti e servizi • Il valore competitivo dei prodotti e servizi • Le business idea • Processi • Organizzazione del lavoro: conoscenza, cooperazione, comunicazione, comunità • Reclutamento e dismissione • Sistema professionale •Comportamento manageriale •Comportamento delle persone Valori condivisi Condivisione della storia e del futuro Dare senso agli artefatti materiali e immateriali Assicurare guida e attivare cooperazione L’identità d’impresa come integrazione fra strategia, prodotti, organizzazione e valori (elaborata da Melewar e Storrie, 2001) VII. La rendicontazione economica e sociale Da dove vengono i bilanci di sostenibilità che quasi ogni impresa oggi possiede? Esse sono forme di rendicontazione sociale che si sono affermati nel corso dell’ultimo secolo e che hanno oggi raggiunto rilevanti sofisticazioni tecniche, al punto di rappresentare , se lasciate da sole senza lo sviluppo delle altre leve citate, forme di washing (green washing, social washing), ossia modi di presentarsi positivamente senza aver fatto davvero molto per contribuire ai problemi di sostenibilità (Butera, Catino et al., 2000). A differenza della rendicontazione aziendale di tipo finanziario e contabile, la rendicontazione sociale è un fenomeno nato nel corso del XX secolo. Uno dei primi ad utilizzare il termine social audit fu, nel 1940, Theodore J. Kreps. Alla luce della depressione economica post 29 che aveva colpito gli Stati Uniti, Kreps ipotizzò che le imprese avevano il dovere di assumersi le proprie responsabilità, e di rendicontare le proprie azioni alla società. Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 25 Già in questa prima fase del dibattito sulla rendicontazione sociale è evidente la diversità con cui questo strumento può essere inteso. Mentre infatti Kreps ne aveva parlato come di un dovere dell’azienda verso la società, Bowen lo concepisce come un management tool, un report interno all’azienda per il miglioramento del management. Queste due interpretazioni – la rendicontazione sociale come management tool o come accountability mechanism – sono tutt’oggi presenti nel dibattito sul social auditing. Tuttavia, esse hanno trovato una via di convergenza. Già negli anni sessanta George Goyder spiegava il bisogno di quello che lui indicava come social auditing: …[il bilancio finanziario] rappresenta solo una facciata degli affari di un’azienda ed è una pratica nata in un periodo in cui le aziende avevano dimensioni inferiori e la rendicontazione pubblica era semplice… In un’economia basta sulla globalizzazione… c’è chiaramente una crescente esigenza di una rendicontazione sociale, oltre che finanziaria (Goyder, 1961, p. 109). Lo studioso individuava le finalità di questo strumento: … è un mezzo ovvio attraverso il quale il pubblico può essere informato sul modo in cui una grande azienda… si assume le proprie responsabilità nel campo delle relazioni di lavoro, della politica dei prezzi, dello sviluppo della comunità… Nel caso di grandi aziende esso può assumere un’importante e utile “valvola di sicurezza” contro le contestazioni e le critiche. Ma è essenziale che il social audit, quando viene realizzato, non si concentri sono nell’area delle relazioni umane e di lavoro, ma sia anche un canale di collegamento tra l’impresa e i suoi clienti, i suoi fornitori e la comunità (Ibidem, pp. 110-111). Goyder si fa interprete, con circa trenta anni di anticipo, dell’attuale visione del social and ethical accounting: uno strumento utile sia al management dell’azienda, sia all’insieme di stakeholders cui essa fa riferimento, sia alle istituzioni di regolazione. Un report del 1979 dello US Department of Commerce riassumeva così i motivi dell’importanza del social and ethical reporting: molte aziende hanno ormai assunto la consapevolezza che gli sforzi per migliorare le performance sociali conducono a una positiva percezione dei loro servizi… e, dati gli elevati costi di regolamentazione, alcuni prevedono che i costi di breve termine sostenuti per rendicontare le conseguenze sociali delle attività di 3 business, risulteranno essere nel lungo termine fonte di profitto. Dopo una fase di declino delle esperienze di rendicontazione sociale, corrispondente grosso modo agli anni ’80, è seguita una fase di grande ripresa, che ha visto tra le aziende più attente ed attive quelle americane e inglesi. Tra i motivi che hanno generato questo ritrovato interesse verso il social accounting ci sono certamente l’emergere delle pratiche di environmental auditing, legato al tema dell’ecologia e del rispetto ambientale, e lo sviluppo di fondi di investimento composti da titoli di imprese quotate in borsa e selezionate sulla base di criteri etico sociali. L’utilizzo di social screens – criteri di valutazione e selezione di tipo sociale – nelle scelte degli investitori viene definito “social rating”. Si tratta di è un fenomeno di portata crescente. Le prime esperienze risalgono ai primi anni ’70 e prendono il via negli Stati Uniti, dove il sistema di rating più diffuso è il Domini 400 Social Index. Oggi il fenomeno è diffuso anche in Europa, dove altri due sistemi di rating hanno preso piede: Etjos e Dow Jones Sustainability Index. Ciascun sistema adotta differenti criteri e metodologie, in generale è tuttavia possibile distinguere due tipologie di social screen: 3 US Department of Comerce, 1979, Corporate Social Reporting in the United States and Western Europe: Report of the Task Force on Corportae Social Performance, Washington, DC, US Department of Commerce. Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 26 negative screen: sono criteri di esclusione. Sulla loro base viene infatti controllata l’adozione di pratiche socialmente “irresponsabili” da parte delle aziende e, una volta appurata la presenza, condotta l’esclusione di alcune imprese dal sistema di gestione degli investimenti (ad esempio aziende del settore del tabacco, della produzione di armi, dell’energia nucleare, etc.) positive screen: sono criteri di valutazione. Sulla loro base viene valutato il grado con cui le aziende soddisfano dei parametri di responsabilità sociale. “Quanto più l’impresa soddisfa questi criteri, tanto più i suoi titoli saranno inclusi nel portafogli di investimento etico” (Chiesi, Martinelli, Pellegatta, 2000, p. 38). Divenire impresa integrale è un processo. Occorre misurare i progressi nel controllo delle diverse dimensioni di responsabilità sociale governate. Il diagramma che segue è l’esempio di un progetto che abbiamo seguito relativo una impresa che voleva valutarsi e migliorarsi lungo alcune delle dimensioni che abbiamo presentato. Ne emerse un “radar” di partenza che l’impresa migliorò in tutte le dimensioni che erano risultate carenti. Cambiamento strategico e strutturale Rendicontazione economica e sociale Prodotti e servizi socialmente utili Organizzazione coerente e appropriata Valori e identità Sostenibilità sociale e ambientale Qualità della vita di lavoro T Cambiamento strategico e strutturale Rendicontazione economica e sociale Prodotti e servizi socialmente utili Organizzazione coerente e appropriata Valori e identità Sostenibilità sociale e ambientale Qualità della vita di lavoro 0 T 1 L’evoluzione dell’impresa integrale ©Fondazione Irso Considerazioni conclusive: narrare e sviluppare l’impresa Le caratteristiche delle grandi e medie imprese eccellenti italiane che hanno proiezione internazionale sono simili a quelle delle imprese integrali che abbiamo descritto. I modelli di leadership e di organizzazione che esse presentano non assomigliano ai modelli di burocrazia industriale e dei servizi tipici delle grandi imprese internazionali che hanno dominato l’economia del XX secolo. Per le imprese italiane di successo occorre innanzitutto fare un intenso “lavoro clinico”, ossia di descrizione e interpretazione della propria storia, del proprio “caso”, dei propri successi e dei propri fallimenti, della propria “anima”. Questo sforzo, fatto da Chandler (1966) e Perrow (1969) per la grande impresa americana, e da Osono, Shimizu e Takeuchi (cit.) per la Toyota, non è stato fatto per le medie imprese eccellenti italiane che non hanno l’abitudine di analizzare se stesse e proporsi come “case” sia verso l’interno che verso l’esterno. Descrizione e interpretazione poi devono essere orientate all’intervento, ossia alla gestione, alla progettazione, al cambiamento, all’innovazione del sistema impresa verso un modello di impresa integrale, valorizzando la storia all’interno di un progetto di costruzione del futuro. Fondazione Irso - Piazza Giovine Italia 3 - 20123 Milano Tel. +39 02 48016162 - Fax +39 02 48016195 - www.irso.it - [email protected] 27 Bibliografia di riferimento Abbott, A., 1988, The System of Professions: An Essay on the Division of Expert Labor, University of Chicago Press, Chicago. Albolino, S., Cook, R., 2005, “Medici in terapia intensiva:sensemaking, sicurezza sul lavoro”, in Studi Organizzativi, No. 2. Aldrich, H., 1999, Organizations and Environment, Prentice Hall, Englewood Cliffs. Ancona, D., Kochan, T.A., Scully, M., Van Maanen, J., Westney, D.E., 2005, Managing for the future. Organizational Behavior and Processes, Thomson – South-Western, Mason (Ohio), Third Edition. Ansoff, I.H., 1979, Strategic management, Macmillan, London (Edizione italiana: Management strategico, Etas Libri, Milano, 1980) Argyris, C., Schön, D., 1978, Organizational Learning: A Theory of Action Perspective, McGraw-Hill, New York. 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