Un ospedale con più sollievo

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Un ospedale con più sollievo
Questo il testo del lavoro della studentessa Anna Moisio Corsello premiato in occasione della
Giornata del sollievo ospitata al Massaia
Un ospedale con più sollievo
Ho diciassette anni, e da diciassette anni convivo con la mia malattia rara.
Chi meglio di me può affermare di conoscere gli ospedali?
Ho trascorso sei mesi rinchiusa in rianimazione incatenata da tubi e fili, attaccata alla vita con
le unghie e con i denti, aggrappata alla mano di mia madre, che non ha mai smesso di amarmi
e di pregare affinché ce la facessi, nonostante la mia grave condizione.
Quando si dice avere un gran cuore! Il mio è tre volte più grande di quello degli altri e ogni
giorno gli serve una dose di “benzina” per lavorare, per darmi una vita “di tutto riposo”, come
dice il cardiologo, “il più normale possibile”, dico io.
È una specie di patto tra me e lui, il mio cuore: io ti do sedici pillole tutti i giorni (e non ne
dimentico una!) sto attenta e non mi stanco, e tu continui a battere il tempo dentro al mio
petto, a farmi andare a scuola e farmi partecipare alla vita almeno un po’.
L’ospedale è la mia seconda casa, una volta alla settimana mi ritrovo lì, tra quei corridoi che
conosco a memoria, tra tutti quei camici bianchi e verdi che si muovono veloci, mentre io
aspetto seduta che arrivi il mio turno.
Com’è possibile non soffrire se la malattia è la tua compagna di vita da quando sei nata?
Secondo me la parola malattia è sinonimo di sofferenza, io lo so bene, e non parlo di dolore
fisico, ma anche di paura, solitudine, angoscia; insomma una situazione interiore che a volte fa
più male di quella fisica, una specie di rabbia, per tutto quello che non hai avuto e avresti
voluto avere anche tu, come tutti gli altri.
Sulla sedia di legno accanto a tanti compagni di malattia, aspetto che mi chiamino, che tocchi
a me. Ecco, la vita di un malato è questa: attendere il proprio turno in fila aspettando il
risultato delle analisi o della visita: a volta va meglio e si torna a casa leggeri, a volte va
peggio e allora…
Eppure la formula magica per vivere tutto questo senza arrendersi esiste, qualcosa che non ti
fa perdere la speranza, che ti regala la voglia di andare avanti. Si chiama “sorriso”. Quante
volte mi è successo in tutti questi anni! C’è l’infermiera che ogni volta mi abbraccia e mi
accarezza i capelli, un medico che “batte il cinque” sul palmo della mia mano, il segretario
seduto dietro il bancone che mi parla sempre di canzoni e di Festival di San Remo. E i o mi
sento serena, più leggera, ho meno paura. Mi sento un po’ più a casa mia.
Per dieci anni, ogni compleanno, ho ricevuto un regalo proprio dalla dottoressa che mi ha
salvato la vita, e ogni volta il pacchetto era accompagnato da abbracci, sorrisi, carezze e
allegria. E come posso dimenticare un Natale di alcuni anni fa? Come al solito ero in ospedale e
il tempo non passava mai, poi un medico travestito da Babbo Natale esce dall’ascensore e mi
dona una meravigliosa Barbie ballerina. Non lo dimenticherò mai!
Oggi sono qui, non ci avrebbe scommesso nessuno, me lo hanno detto molte volte in tanti, e
sono certa che la prima medicina che mi ha tenuta in vita è stata proprio il sorriso delle
infermiere che mi cullavano durante la notte.
Accogliere il malato, non farlo sentire da solo, fargli capire che può fidarsi, che non deve
smettere di combattere perché ha tanti alleati al suo fianco: ecco, sono queste le cose che
danno sollievo. Bisogna fargli capire che per farcela deve crederci, perché ci vuole molta forza
e molto coraggio, ma prima di tutto bisogna ascoltarlo, fargli compagnia, essergli di aiuto.
Ammiro tutti i volontari che aiutano i malati e indossando nasi rossi e berretti buffi girano per i
corridoi della pediatria. Vorrei farlo anche io, mi piacerebbe molto fare divertire i bambini
ricoverati, giocare con loro e fare in modo che si dimentichino di essere sdraiati in un letto
d’ospedale. Chi meglio di me può capire i bambini malati? Ora non posso farlo, hanno detto
che mi stancherei troppo, ma forse un giorno sarò più forte, e allora voglio andare a raccontare
agli altri la mia storia, aiutarli con i miei sorrisi, dare sollievo con un abbraccio o anche facendo
compagnia in silenzio.
La mia malattia ha colpito molto la mia famiglia; mio fratello studia per diventare medico e nel
frattempo, quando è libero, diventa il “dottore dei pupazzi”, va in pediatria e cura bambole
rotte e orsacchiotti di pezza, così i bambini capiscono che non devono avere paura del medico,
che il dottore può salvare i loro giocattoli, e per loro il tempo trascorso in ospedale diventa
meno noioso. Mi ha detto che la prima cosa che fa quando entra in reparto è indossare il
camice bianco e il sorriso più bello che ha, e anche i bambini gli sorridono quando lo vedono
arrivare. Secondo me anche questo è donare sollievo a chi sta male.
Io, ormai, ho imparato a convivere con la mia malattia e con tutti i miei difetti, ogni tanto la
tristezza si ripresenta, ma quando entro in ospedale e incontro i sorrisi di tante persone che
conosco da anni e che hanno creduto in me, mi hanno sempre “tenuto per mano”, allora
riparto fiduciosa nel futuro.
Un giorno aiuterò anche io qualcuno che sta male donandogli un sorriso e regalando sollievo.
Anna Moisio Corsello
Classe III
Liceo Linguistico Ugo Foscolo