Untitled - Rizzoli Libri
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Jeffery Deaver Solitude Creek Traduzione di Rosa Prencipe Proprietà letteraria riservata © 2015 Gunner Publications, LLC © 2015 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-17-08323-2 Titolo originale dell’opera: SOLITUDE CREEK Prima edizione: giugno 2015 Questo libro è il prodotto dell’immaginazione dell’Autore. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi. Ogni riferimento a fatti o a persone reali, viventi o scomparse, è puramente casuale. Realizzazione editoriale: NetPhilo, Milano Solitude Creek Alle biblioteche e ai bibliotecari in ogni dove... martedì 4 aprile delirio Capitolo 1 il pub era confortevole, simpatico e costava poco. Benissimo. era anche sicuro. Meglio ancora. Una cosa da tenere in conto quando porti a un concerto tua figlia adolescente. Michelle Cooper lo faceva, in ogni caso. Sicurezza per quanto riguardava la band e la loro musica, i clienti e il personale ai tavoli. anche il locale in sé, il parcheggio – ben illuminato –, le uscite antincendio e gli estintori. Michelle li controllava sempre. la faccenda della figlia adolescente, sì. il Solitude Creek attirava una clientela variegata, giovani e vecchi, maschi e femmine, bianchi, ispanici e asiatici, qualche afroamericano. Uno specchio dell’area della baia di Monterey. in quel momento, poco dopo le sette e mezza, si guardò intorno notando le centinaia di avventori giunti dalla contea e da quelle vicine, tutti di ottimo umore, ansiosi di vedere una band in ascesa. Se avevano qualche preoccupazione, tutto veniva accantonato dalla prospettiva di una birra, un cocktail stravagante, un cartoccio di ali di pollo e dalla musica. il gruppo veniva da l.a. – una ex garage band, ex band di supporto e adesso star del locale grazie a twitter, Youtube e Vidster. È il passaparola, insieme al talento, a creare il successo dei gruppi oggigiorno, e i sei ragazzi dei lizard annie si impegnavano sia coi telefoni sia sul palco. Non erano gli o.a.r. né i linkin park, ma lo sarebbero diventati presto, con un pizzico di fortuna. 11 di sicuro avevano il sostegno di Michelle e trish. anzi, la scaltra boy band aveva uno zoccolo duro di fan composto da madri e figlie, a giudicare dal pubblico presente. altri genitori con le figlie adolescenti. le canzoni, quelle più spinte, avevano il bollino giallo. per lo spettacolo di questa sera, l’età del pubblico andava dai sedici ai quarant’anni, più o meno. okay, ammise Michelle, forse quarantacinque. Vide il Samsung stretto nelle mani della figlia e disse: «Messaggia dopo. Non adesso». «Mamma.» «Chi è?» «Cho.» Una ragazza simpatica del corso di musica di trish. «due minuti.» il locale si stava riempiendo. il Solitude Creek era una costruzione vecchia di quarant’anni a un piano solo, con una piccola pista da ballo rettangolare in legno di quercia consumato. tutt’intorno c’erano tavolini alti e sgabelli. il palco, alto un metro, si trovava sul lato nord e il bancone su quello opposto. Una cucina, a est, serviva menu completi, abbattendo la barriera dell’età dei frequentatori: i locali in cui si vendeva alcol erano autorizzati ad ammettere bambini solo se servivano anche cibo. tre uscite antincendio si aprivano sul lato ovest. Sulle pareti di legno scuro c’erano poster e foto dei concerti con autografi veri o fasulli, di tanti dei gruppi che avevano suonato al leggendario Monterey pop Festival nel giugno 1967: Jefferson airplane, Jimi Hendrix, Janis Joplin, ravi Shankar, al Kooper, Country Joe. e dozzine di altri. in una sudicia teca di plexiglas c’era un frammento della chitarra elettrica che, a quanto si diceva, pete townshend degli Who aveva distrutto alla fine dell’esibizione durante il festival. al Solitude Creek i tavoli non si prenotavano, vigeva il principio del «chi prima arriva meglio alloggia», ed erano tutti pieni. ormai mancavano quindici minuti allo spettacolo e i camerieri giravano con le ultime ordinazioni, reggendo sui palmi aperti 12 grossi hamburger, ali di pollo e vassoi di bevande. dalle quinte un miagolio di chitarre che venivano accordate, l’arpeggio di un sax, un giro di basso. trepidazione. Quegli eccitanti momenti prima di essere catturati e sedotti dalla musica. Gli spettatori in piedi cercavano di accaparrarsi i posti migliori in una confusione di voci. poiché il palco non era alto e il pavimento in piano, a volte era difficile riuscire a vedere bene il concerto. Qualche spintone, ma pochi scontri verbali. Quello era il Solitude Creek. Niente ostilità. Sicurezza... a ogni modo, c’era una cosa di cui Michelle Cooper non aveva tenuto conto. la claustrofobia. i soffitti del locale erano bassi, la sala in penombra non era particolarmente spaziosa, l’aerazione non era il massimo; un miscuglio di odori corporei e dopobarba/ profumo aleggiava, ancora più persistente degli aromi di cibo grigliato e fritto, contribuendo al senso di costrizione. Una sensazione come di essere in scatola, tipo sardine. No, quello non andava mai a genio a Michelle Cooper. lei e sua figlia erano sedute a un tavolo centrale, a pochi centimetri da altra gente. Sentiva puzza di sudore, profumo scadente e aglio. Michelle si passò distrattamente la mano tra le mèche bionde e guardò di nuovo le uscite. Non erano troppo lontane e si sentì rassicurata. Un altro sorso di vino. Si accorse che trish stava dando una ripassata con gli occhi a un ragazzo di un tavolo vicino. Capelli flosci, faccia sottile, fianchi magri. lineamenti strepitosi. Stava bevendo una birra, perciò la madre mise un veto immediato alla propensione di trish, anche se tacitamente. Non per via dell’alcol, ma per l’età. Se beveva, voleva dire che aveva più di ventuno anni, perciò era proibito per la sua diciassettenne. poi pensò cinica: o almeno posso provarci. Un’occhiata al rolex con diamanti. Cinque minuti. «era Escape? Quella nominata per i Grammy?» domandò a trish. 13 «Sì.» «Concentrati su di me, ragazzina.» la giovane fece una smorfia. «Mamma.» distolse lo sguardo dal ragazzo con la Birra. Michelle sperava che i lizard annie suonassero quella canzone. Escape era orecchiabile, e le riportava alla mente bei ricordi. l’aveva ascoltata dopo un recente primo appuntamento con un avvocato di Salinas. Nei sei anni seguiti a un brutto divorzio, Michelle aveva avuto un sacco di cene e cinema imbarazzanti, ma la serata con ross era stata divertente. avevano riso. avevano discusso su quali fossero i migliori episodi di Veep e Homeland. e non c’erano state pressioni, di nessun tipo. dunque molto raro per un primo appuntamento. Madre e figlia mangiarono ancora un po’ di sformato di carciofi e Michelle bevve dell’altro vino. Quando guidava non si concedeva più di due bicchieri prima di mettersi al volante. la ragazza si sistemò il cerchietto a fiori rosa e sorseggiò una diet Coke. indossava jeans neri non troppo aderenti – evviva! – e una maglia bianca. Michelle portava jeans più stretti di quelli della figlia – e ciò in conseguenza della mancanza di esercizio, non per una dichiarazione di stile – e una blusa di seta rossa. «Mamma. San Francisco questo weekend? ti prego. Ho bisogno di quella giacca.» «andremo a Carmel.» Michelle spendeva un sacco delle sue commissioni di agente immobiliare negli eleganti negozi della pittoresca e carinissima cittadina. «Cavolo, mamma. Non sono una trentenne.» Cioè, non sono antica. trish stava semplicemente esprimendo il dato di fatto, più o meno corretto, che trovare bei vestiti da adolescente non era facile nella penisola, la quale veniva definita, con una piccola esagerazione, un posto per sposi novelli e per gente con un piede nella fossa. «Va bene. Ci organizzeremo.» trish la abbracciò e il mondo di Michelle si illuminò. 14