Leggi l`elaborato - Fogli di Viaggio
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FIORI GIALLI DAL FUOCO ovvero in viaggio inutile CAPITOLO I 1. La cosa più difficile per Periferico era capire come diventare ciò che già era. Voleva vedere e provare tutto, senza saperlo fare. Così, grazie al dono di laurea parentale, dalle pendici dei banchi universitari si trovò nell'ignoto Kashmir. Silenzio finalmente, e un fremito di letterale spaesamento. Cosa facesse lì con una birra tiepida tra le mani, seduto sul nodoso portico di una casa galleggiante sopra un lago di ninfee, tra lo stridio delle aquile e la foschia che rendeva le montagne lontane nocche di giganti brumosi, non lo poteva davvero definire. Salim, il cane da guardia dell'abitazione, lo aveva affiancato nella città fangosa per dirgli che il paese era stato storpiato da un'alluvione – la prima nella storia dato che anche i più vecchi non ne ricordavano una simile – e le strade di Srinagar si mostravano come terrosi rimasugli di case piegate su loro stesse, umidi rifugi per gattacci tisici e vecchie che squartavano polli con le mani facendo spisciolare il sangue negli interminabili canaletti scavati da poco per far defluire l'acqua lungo l'asfalto. Lo portò sul lago in una barca scricchiolante con la vernice consumata, un piccolo bagno, un grande letto e un porticato. Lontano, chissà dove, una donna invisibile si lamentava, e il suo pianto rimbalzava sull'acqua del lago immobile, occhio e specchio che confinava due mondi nei loro riflessi. E coi suoi occhi, Periferico beveva tutto questo. Dopo l'iniziale ospitalità Salim si era dimostrato sempre più insistente, facendo emergere due facce ben distinte; a volte prendeva Periferico da parte e gli parlava di amicizia, poi battendo il piede e sgranando gli occhi tendeva una mano che pretendeva più soldi di quanto pattuito. Anche qui, dove l'unica preoccupazione voleva essere spasmodicamente la contemplazione, il feticcio del denaro rintronava sempre, esigendo come tributo quella tranquillità che pretenderebbe di comprare. “L'una e l'altro sono dunque agli antipodi – ponderava pigramente Periferico grattandosi la bazza barbosa, seduto con le zampe a penzoloni sul pelo dell'acqua – la necessità di denaro allontana la tranquillità e la necessità di tranquillità allontana il denaro.” Fissava gli eleganti barconi colorati, antiche shikara dai baldacchini in legno e stoffa decorati, i cui scafi a banana spaccata scivolavano silenziosi sull'acqua; il tuffo del remo li muoveva con identico sforzo fossero esse piene di pecore coricate, mattoni o ammassi di alghe e ninfee. Le imbarcazioni a motore erano rarissime, le sentiva arrivare da lontano e lasciavano al loro passaggio olezzo di nafta facendo traballare tutto ciò che si appoggiava sul lago; chi li guidava aveva l'aria tronfia e spavalda di chi ha sconfitto la fatica, barche usate dalla polizia militare. La notte precedente erano esplosi distanti fuochi nel buio e le luci dei forti sulle colline avevano ammiccato lasciando in sospeso i cori di preghiere, metallici e uniformi, che salivano come vapore dalla città sull'altra sponda. “Beautiful Kashmir, John!” gli gridò un barcaiolo guercio dal suo guscio di noce blu, con chissà quanti anni di incondivisibili storie sulle spalle. Gente nuova, genti diverse, anche tra sconosciuti nel modo più disparato credeva di cogliere sguardi di aspettativa; la sola compagnia di Salim lo preoccupava. “Forse – sospirò – non troverò mai la pace che tanto desidero.” La sera Periferico decise di parlargli perché erano stati assieme tutto il giorno sulle montagne senza mai rivolgersi la parola. Lassù aveva visto solo un frammento della bellezza che il paese nascondeva tra le sue valli e montagne: picchi innevati a far da sfondo a praterie dove pascolavano liberi cavalli, bianchi templi innalzati lungo fiumi gelidi e sassosi...fugaci acquarelli diventati soltanto un ricordo e che già gli pesavano sul cuore. Nascosto fino al mento da una spessa coperta e disteso a terra sul morbido tappeto della casa galleggiante, il magro custode fissò lo straniero raccontare la storia che l'aveva portato fin là, lo ascoltò fino in fondo per poi dirgli di credere e confidare in dio, e che il troppo pensare può far male alla salute. Contrariamente a ciò che Periferico aveva sempre creduto le sue parole lo placarono facendolo coricare placidamente. Ma l'unica cosa costante nella solitudine di quel reame sconosciuto erano le oscillazioni dell'umore. Era notte inoltrata e fuori dalle zanzariere la nebbia faceva filtrare una luce azzurrina, il profilo della casa barca dei vicini sembrava il fluttuante fantasma di un sogno marino. Un pensiero mordeva Periferico rintuzzato tra le coperte, si rigirava e smaniava al pensiero di non riuscire a fare tutto ciò che avrebbe voluto fare, una paura legata alla materia e al tempo che gli sembravano insufficienti e gli impedivano di vedere ciò che realmente aveva intorno e davanti. Era in questo stato di trepida veglia quando un fortunale prese a ruggire sopra tutta la vallata, lampi resero bianca l'aria e miriadi di pesanti e fitte gocce iniziarono a percuotere il tetto di lamiera; il cielo era tutto un roboare di tuoni interminabili che si susseguivano come un'unica, costante e pietrosa litania. Da due secoli la regione non subiva un'inondazione come quella che di poco aveva preceduto l'arrivo di Periferico e ora il ragazzo, impietrito nel suo letto, sentiva che il destino aveva rimesso l'orologio per tornare a prenderlo. La paura, la paura tramutava tutto. Suoni ed odori che erano sempre stati torpidi e suggestivi conciliatori del sonno, adesso diventavano sussurri e grida, promesse di morte. Ogni variazione di ciò che gli era attorno colpiva una rete agganciata ad immagini interiori, vivide e certe, che prendevano vita dando corpo a visioni da incubo; l'irrazionale, il superstizioso, il misterico si materializzavano nella buia stanza di fragile legno flottante: si vedeva squittire, afferrare per la testa da cavalloni di fango, onde solide che mugghiavano ridendo e cantando: “perché non sei rimasto dentro all'alveare, vicino alla mamma e al focolare? Dove ti portiamo non c'è da sognare”. Come sempre accade, dopo poco la pioggia si diradò e i muezzin cominciarono le loro salmodie aurorali, cori asincronici che il timore sognante trasformava in berci di diavoli e ululati di belve; solo un chioccio pigolio acquatico, il trillo delle folaghe fino ad allora rimaste silenti, riconsegnarono Periferico alla leggerezza del mondo. Aprì gli occhi e rimase disteso sotto la pesante coperta, ascoltando il suo quieto respirare e i tuoni che lentamente si allontanavano, decise di alzarsi e indossò spessi calzini, scavalcò il corpo desto e gravido di musiche indiane di Salim per uscire sul piccolo molo elastico e pericolante. La nebbia serpeggiava sul pelo d'acqua appena increspata, e fluttuava minutissima in ogni direzione, colmava ogni spazio nascondendo anche i primi paletti affondati e le ninfee a pochi passi di distanza. Rimase in piedi con le braccia conserte a fissarla finché le prime aquile non cominciarono a tagliarla con le loro ali, costringendola ad alzarsi e allontanarsi, andando più in là a coprire le montagne. Adesso era ancora lì a rendere grigi e uguali il tempio e il ripetitore sulla montagna, in una bonaccia piena di aspettativa. Periferico non sapeva che fine avrebbe fatto e ancora era in attesa di un qualcosa che sapeva di non dover aspettare. Un vento teso portò via la foschia dei giorni precedenti svelando i fianchi delle montagne fino ad ora rimasti celati, erano coperti di un fitto ricamo di foglie iridescenti. Sarebbe stata una bella giornata. 2. “Qui si pensa a sposarsi già a diciotto anni e il sesso governa quasi tutti gli argomenti, le donne fanno quel che vogliono perché si tengono stretta la verginità fino allo sposalizio, tanto tutti gli uomini vanno a puttane dalla prima pubertà. Non c'è alcun attrito, i ruoli sono perfettamente definiti e al loro interno si può fare tutto tranne mentire ed essere scoperti. Il potere del volere è tutto ciò che conta qui, nessun pensiero per il futuro mentre il passato è retta tradizione, non pensare troppo, non leggere per evitare che altri ti dicano cosa pensare. Cos'è dio? Dio è tutto, tutte le cose buone – qui si dice – e le cose cattive allora? Grazie dio, per le cose cattive. Espressività, ripetitività, tutte le canzoni parlano, con pochissima approssimazione, di amore e di dio e tutto, anche e soprattutto i matrimoni, avvengono nel seno di enormi e pluriconnesse famiglie. L'ontologia è bandita, c'è solo pura, quasi invariabile esistenza.” Quel giorno Periferico decise di abbandonare le sue elucubrazioni e coprirsi di ridicolo, all'ora di pranzo si propose come lavapiatti presso la famiglia abitante alle spalle della sua casa; un compito che in quelle terre è esclusiva di donne dagli occhi grandi e ironici o di servitori, ma vedendo la famiglia mangiare dalla finestra decise che era tempo di fare amicizia. Bussò alla porta salameleccando e gli aprì una pingue donna sorniona dal viso piatto e un nero abito a fiori, la pelle dura, i baffi spessi, lo squadrò divertita dal basso in alto e lo salutò unendo le mani, con un cenno del capo lo invitò ad entrare in una piccola stanza di legno. Dentro brandelli di carta da parati sostenevano legnosi scaffali equilibristi pieni di sparuti utensili, tutta la famiglia era seduta a terra con la schiena appoggiata alle pareti, la cucina era divisa dalla sala da pranzo da una bassa asse messa in verticale. Il pasto si stava svolgendo in silenzio, eccezion fatta per i lamenti atonali dell'anziano e allampanato padre di famiglia, colpito da una trombosi devastante (lamenti evidentemente comprensibili a tutti dato che venivano tradotti sotto forma di domande) e i borborigmi e i singulti dell'unico figlio maschio, “holy man”, affetto da sindrome di down (lui è l'uomo santo e toccato da dio, egli è benedetto in una famiglia in cui solo l'uomo può lavorare, e viene nutrito e curato senza dovere alcuno, trattato come un buffo dono celeste mentre la madre orsa a lui occhieggia toccandosi la punta della lingua con il dito). I restanti componenti erano donne silenziose: una vecchia prugnetta rinsecchita e due ragazze, una grassa e dagli occhi ridenti, l'altra magra e dagli occhi seri e penetranti. Periferico si sedette tra loro e gli venne offerto bianco riso con verdure, buffi sorrisi e sguardi divertiti lo accompagnarono mentre lo divorava fino all'ultimo chicco. Quando la pappatoria finì per tutti, tra fitti cicalecci e grandi rutti, Periferico si slanciò in avanti con le pelose mani protese verso il pentolame, convinto a superare la fitta barriera di proteste che si sarebbe scatenata. Ci volle più di uno stentato calembour in inglese per convincere sia la scorzosa madre che le figlie beffarde a cedergli il compito. Goffo come una scimmia schizzinosa, piegato accanto a un catino di plastica azzurra, Periferico sciacquava e puliva pentole e piatti dal sugo giallo con un solo panno tre volte appoggiato a un sapone bianco e poroso come ricotta; sembrava che non avesse assimilato a dovere il fondamentale valore che fa la differenza tra acqua pulita e acqua sporca e spesso le figlie che non lo perdevano di vista un secondo gli portavano via le stoviglie di mano. Nel frattempo anche le cugine e il cugino vicini di casa si erano affacciati alla finestra per poterlo deridere sonoramente, mentre holy man lo fissava immobile, gli occhi sgranati e la bocca semiaperta come un pesce delle profondità. Finì rovesciando tutta l'acqua sozza sul pavimento, sgrondando così tutta la sporcizia rimasta dalle assi consunte direttamente nel lago. Con un paio di sgraziati inchini e qualche borbottio Periferico se ne uscì tornandosene nella sua veranda a stapparsi una tiepida Kingfisher Beer, pochi istanti dopo ricomparvero le figlie portandogli alcune pere verdastre. In un solo giorno tutto cambiò, e Periferico divenne parte strana della famiglia. Cominciò a mangiare con le mani seduto per terra assieme agli altri in quella casa dai cui numerosi buchi entrava, quasi ogni sera, un nero topo grosso quanto una lattina di birra, che col suo pesante sframpettare faceva sobbalzare le signore per poi bloccarsi a fissare tutti per lunghi istanti coi suoi occhi di bottone e rituffarsi giù lungo i pali di sostegno della palafitta. Nelle sue giornate Periferico aiutò Didi la Prugna – la vecchia zia dalla voce acuta e sgangherata come i pochi denti che le restavano in bocca – ad aiutare Papà a pisciare, traghettandolo per la stanze legnose e i corridoi fino al cesso nel giardino; fece la spesa portando chicche e cioccolata scorrazzando per i mercati galleggianti; contribuì a ricollegare fili elettrici scoperti buscandosi scosse che venivano accolte con omeriche risa dalla comunità; imparò a portare una barca grazie a uno smilzo bambino infaticabile che per tutti i giorni lo aveva sfidato e combattuto con spade di canniccio nel prato posteriore alla casa. Per tutto questo credette di essere entrato nelle grazie delle figlie, della madre e della zia; in realtà, al di là dell'affetto che alcuni dei loro ambigui sguardi sembravano dimostrare, esse non desideravano altro che di essere viziate. Dentro a questa esigente famiglia, i più contrastanti sentimenti si risvegliarono nel giovane che si rese conto di essere nient'altro che uno sprovveduto, in quel senso che è il più fastidioso da ammettere. Ogni volta che qualcuno gli chiedeva soldi, o un computer, o dei vestiti, o dei monili preziosi indicandogli le pareti scorticate, Periferico si imbarazzava e non riusciva più a spiegarsi bene. Erano le volte in cui più la madre si infuriava con Salim, e tra gli strilli e le lamentele incomprensibili Periferico leggeva lo scorno per non essersi accalappiata un turista spendaccione. Ciononostante la scimmia pensò di restare con loro per un tempo indeterminabile. Tutta la famiglia si riunì la sera in cui avrebbe lasciato quei luoghi diretto a sud e fecero la loro comparsa anche alcuni vicini di casa. Ci furono scene toccanti durante il lungo pasto, l'holy man – che si crede possegga poteri magici e parli del futuro quando riesce a concludere una frase compiuta – cominciò ad accarezzare e baciare la gola del padre in un coro a due di mormorii gutturali, calò allora uno strano silenzio, immobile e gravido di aspettativa miracolare, ma nulla di magico accadde. Per tutta la sera Periferico lottò col pensiero di mollare i suoi fragili piani e restare lì con loro e aiutare a tirare avanti, l'ultima conversazione con Salim però pose fine ai suoi dilemmi. Nella stanza in cui ormai i due dormivano assieme tra il fumo nepalese e le ormai classiche venti canzoni bollywoodiane che riempivano la fredda e umida aria notturna riscaldata dalla nuova stufa elettrica Nitasha, Periferico era finalmente fermo: sarebbe rimasto, se avessero voluto, anche a scapito della convinzione che nulla sarebbe potuto cambiare. La domanda fu diretta, la risposta fu la solita: non aiuto serviva ma fiumi di denaro contante. La discussione finì, rimasero l'uno accanto all'alto sdraiati sugli spessi tappeti, sotto pelose coperte che permettevano alla notte di scivolare via. La mattina dopo Periferico saltò via verso sud chiedendosi se quei giorni, forse i più assurdi della sua esistenza, potessero aver significato qualcosa. 3. Il taxi correva per le strade polverose di Dehli, uomini e cani e donne e motociclette e bambini e risciò e scimmie e automobili e uccelli e immondizia, una girandola spumeggiante dappertutto, dovunque calore, colori e odore. Un pullulare di movimento che Periferico fendeva nella macchina decorata con immagini di elefanti danzanti e finte foglie di palma, l'aria grassa tra i serpenti infiniti di automezzi diretti alla stazione filtrava dal finestrino semichiuso mentre attraversavano a velocità folle quartieri di tende o di palazzi babelici. Scese davanti a quel tempio del moto che è la stazione centrale dei treni chiedendo a tutti indicazioni e ricevendo da tutti consigli per diversi binari, su ognuno riposava o cominciava a scuotersi un lunghissimo treno azzurro tallonato da un altro, ogni banchina ed ogni cabina stracolma di braccia gambe e bagagli; sui tabelloni erano segnati ritardi che andavano dalla sei alle ventiquattro ore, annullando di fatto ogni ritardo in quanto c'era sempre un treno in partenza per qualsiasi direzione, neri scaloni e passaggi sospesi collegavano ogni vena di un fascio di sistemi che si dispiegava secondo leggi mobili, intercambiabili e fluide. Periferico cominciò a roteare su se stesso, poi si proiettò d'un balzo sul primo treno in partenza, si arrampicò su uno strapuntino appeso con le zampe a penzoloni sopra le teste sfreccianti di sotto e da quell'osservatorio si accorse dell'egoismo che tiene unite le persone: lo scompartimento blu strapieno di genti dalle mille fogge – mendicanti striscianti e venditori di te e frutta secca, giocatori di poker e vecchie dagli occhi velati, bambini piroettanti e seri militari – era parte di un intero universo fatto di bisogni che ognuno necessitava di soddisfare attraverso la propria e l'altrui gioia o dolore, Periferico avvertì solo di sfuggita di essere una squama inseparabile da quell'intreccio. La bruma del crepuscolo imbeveva risaie che scorrevano lungo i fianchi del treno indorato di luce, ogni tanto una semina di basse case e una stazione rallentavano il passo a singhiozzo del lungo serpente blu, donne e uomini coperti balzavano aggrappandosi dentro alle sue viscere stracolme di altre donne e uomini coperti, teste e schiene si appoggiavano le une sulle altre nel buio vaporoso dei vagoni ronfando sopra al ritmo ferroviario. Nel suo seggiolo-letto azzurro sobbalzante nella notte rajastana diretto a Jaipur, la capitale, gli si avvicinò un giovane studente e per cinque ore conversarono amabilmente, l'unico filtro tra i due le lingue differenti. Ventitreenne laureato in tecnologia della comunicazione e pronto per un impiego governativo, il naso pronunciato, i denti bianchissimi e un grande neo sulla guancia, vispo e curioso, gli narrò una storia comune che riempì il teschio del suo interlocutore di nuovi dilemmi. Il giovane era ancora vergine, aspettava, per trovare nel sesso l'unione con l'amore e la significanza; per più di otto anni aveva fatto crescere una storia con una coetanea, così come si fa crescere una fragile pianta curandola lungo le stagioni; poi d'improvviso la di lei famiglia decise che fosse dovere della giovane sposare un altro uomo, più vecchio e sconosciuto e che d'improvviso la strappò via portandola a vivere in un'altra città. Le labbra del narratore si piegavano, trasformando il suo sorriso in un ghigno amaro mentre parlando guardava fuori dal finestrino nella notte impenetrabile: non aveva potuto far nulla per impedirlo. Non era corso alla casa di lei prima che il sole sorgesse per rapirla e stiparsi insieme in un treno diretto chissà dove, non aveva sfidato la decisione convocando un concilio familiare sollevando il dito in alto tra occhi bistrati e baffi frementi, non si era immerso con lei in uno degli affluenti del Gange mano nella mano fino a scomparire nell'unità. Casta e famiglia sono vincoli infrangibili, opporsi a tali decisioni significa perdere tutto, inimicarsi la società e il sangue che ti ha fatto crescere. Parlando si assopirono assieme, quando Periferico si svegliò era solo, in una nuova stazione illuminata da immense luci al neon. I cartelli appesi parlavano di Jaipur. Scese stropicciandosi gli occhi e strisciò nel buio dei quartieri accesi fino a una pensione lontana dal centro città, si coricò sotto il ronzio del motore di un ventilatore a soffitto e sprofondò nuovamente nel sonno aspettando l'alba. Adesso Periferico non era più tra i muezzin, ma tra i brahmini, e l'atmosfera era diversa; non solo per i cieli arancione pastoso e il caldo, finalmente uniforme, ma per le persone. Dopo una sola giornata a Jaipur pensò che il sogno che l'aveva portato fin lì fosse reale e reale fosse anche quel gioco di azione e reazione che chiamano karma. Camminava per strada con una bottiglia tra le mani senza essersi accorto di averla tappata male e, reggendola al contrario, ne faceva sgocciolare il contenuto sui marciapiedi; vagando nel bazaar rosa tra donne variopinte e leggere come farfalle e vacche e cani razzolanti in cumuli di immondizia ed escrementi, templi rumorosi e templi silenziosi dove regnavano le onnipresenti ghirlande di fiori arancioni, un volto leggermente squadrato e un paio di neri corti baffi gli si affiancarono avvertendolo con un tocco leggero sulla spalla di come la sua bottiglia fosse rotta. Era un tipico ferma-e-vendi della capitale indiana ma dal volto irresistibilmente buono, dopo una varia conversazione svicolarono assieme dentro una fresca casa composta da due stanze completamente bianche, con a terra bianchi materassi e bianchi cuscini dove sedersi. Era la casa di mercanti d'arte – cartoline dipinte con raffigurazioni sacre e profane in vendita a prezzi eccessivi – e presto comparve uno zio dalle guance cascanti e la camicia salmone che comparve portando due tazze di fumante tè chai; gli mostrarono la mercanzia e gli trovarono una sistemazione a un prezzo ridicolo nel centro della città vecchia, poi lo invitarono a mangiare chapati e dosa insieme con le loro splendide mogli e gli organizzarono una lezione di sitar con un giovane studente. Periferico era incredulo, d'improvviso, con la testa intorpidita su un cuscino, piena di vecchi raga e fragranza d'incenso, gli sembrò di essere piombato in una fantasia multicolore. Rimase a Jaipur più di quanto avrebbe mai pensato di programmare, la pigrizia lo colse nella città rosa tra lezioni musicali e esplorazioni della città. La sera si sedeva sui gradini di un tempio e osservava le vacche navigare per le strade, alle spalle il caos di feste religiose e battaglie tra scimmie e cani randagi; al mattino si alzava prima dell'alba e camminava per le strade ancora vuote mentre l'aria grigia si faceva rubino. Un giorno si arrampicò per una strada che usciva dalla città e saliva per le colline, pietre squadrate sotto i piedi e ai lati mendicanti che gli si facevano intorno mormorando e segnandogli la fronte con polveri colorate, vacche deformi dalla cui gobba spuntava una quinta, raggrinzita zampa erano imbrigliate ai lati della strada per poter essere accarezzate. Capì di non essere lontano da un luogo sacro. Ormai circondato da pellegrini superò la cima di una collina e discese giù per una gola, di là un complesso di templi ocra si dispiegava punteggiando una valle lussureggiante. L'ingresso al santuario era un'immensa vasca piena di fiori di loto e candele che veniva riempita da una testa di mucca scolpita da cui sgorgava un getto d'acqua infinito, centinaia di uomini e donne vi si bagnavano dentro sollevando le mani al cielo in spruzzi e gioiose grida di festa. Mentre nella città i mercanti d'arte lo attendevano per proporgli di lavorare assieme alla fiera del cammello di Pushkar – un evento annuale che convogliava migliaia di persone, e prometteva di farli avvicinare al maggior numero possibile di turisti – Periferico rimase tutto il giorno nella valle a farsi toccare da una spiritualità che avvertiva senza riuscire ad afferrala. Quando ridiscese tra i mercanti e parlò loro della valle dei templi, essi gli concessero l'onore di conoscere il loro guru. Questi si presentò con un bel faccione pingue, camicia bianca, raffinati pantaloni occidentali e scarpe di pelle, due telefoni smart e un sacco di dati da sciorinare: la moglie irlandese, i viaggi nel mondo, la capacità di insegnare a vedere l'invisibile, il suo successo e la sua casa nella montuosa Austria. Era dotato delle caratteristiche condivise da tutti gli uomini di dottrina: una svelta e inarrestabile parlantina, l'aspetto curato da gioielliere in ferie, la capacità di auto correggersi deviando il discorso su altri argomenti. In più aveva una conoscenza astrologica e religiosa orientale sorretta da un'intelaiatura formale e pubblicitaria occidentale. Lo stupì indovinando il giorno in cui era nato partendo dalla data di nascita – un venerdì – poi gli parlò dei chakra, di come gli uomini non siano che antenne trasmettitrici nel cosmo di vibrazioni positive e negative, modificate e rimandate indietro dai pianeti e di come il proprio pensiero influisca direttamente sulla vita: pensando “sono povero” si rimarrà poveri, pensando “sono povero ma diventerò ricco” ricchi si diventerà. Descrisse a Periferico lo sbilanciamento che riusciva ad intuire nella sua aura e come prima soluzione gli propose di offrire undici banane non sbucciate alle vacche sacre o sbucciate alle scimmie, a sua discrezione; un tipo di azione rivolto al benessere altrui che contribuiva all'equilibrio e al recupero di vibrazioni positive. Poi gli rivelò come Giove fosse dalla sua parte ma Saturno no e neppure Marte. Che fare? Per risolvere questa brutta influenza e per rendere la sua anima finalmente spiritualmente viva gli propose una cerimonia. Con l'acquisto di una pietra a scelta tra due tipi e molte quantità – che prontamente il suo discepolo in sandali estrasse da una cassaforte – insieme a certe percentuali di metalli più o meno preziosi, gli promise immantinente: la costruzione di un pendente dall'unione di questi elementi, un rituale con fuoco e mantra da salmodiare insieme, l'attesa di nove giorni da concludersi con l'inzuppamento del talismano in acqua e latte, il raggiungimento dell'equilibrio e la soluzione a tutti i suoi problemi, tranne che quelli monetari. Il tutto per tante rupie (pari a 30 viaggi in autobus tra Jaipur e Ajmer o 30 notti nella Ganpati Vishram Guesthouse o 150 pasti gagliardi nel banchino semovente di riso e chapati, 300 bottiglie di fresca bisleri water o 600 banane). Periferico titubò a lungo, allora il guru concesse di evitare i metalli preziosi, i medesimi vantaggi si sarebbero ottenuti solo con la pietra da legare al braccio per la metà del prezzo precedentemente pattuito, nessuna preoccupazione in caso di rottura del cordino e smarrimento della pietra, anzi, ancora meglio! tutto il male così il talismano lo avrebbe portato con sé. Periferico ponderò ancora, il guru disse che sarebbe partito il giorno dopo per l'Austria, e dunque di pensarci per un'ora e poi fargli sapere; si salutarono cortesemente e prima di svanire questi si portò una mano alla fronte e disse di percepire che sarebbe stato richiamato. Aveva torto. 4. La prova che tenere due piedi in due staffe non è mai una buona cosa si ottiene con tutto ciò che richieda attenzione, affezione, impegno e relazione. Alla fine della sua permanenza nella capitale Periferico decise di portare con sé il sitar fulvo su cui aveva suonato in quei giorni; la compravendita per ottenere quello strumento fu una nuova prova di quanto il suo sguardo fosse offuscato da un personale tipo di fuliggine. Rincontrò i mercanti per riconfermare il basso prezzo a cui essi avevano proposto una possibile vendita, poco importava che fosse uno di quegli strumenti che rispondono al proprio tocco, uno strumento che entra in risonanza con chi lo suona: la missione era non farsi fregare, amministrare la compravendita, vincere la battaglia, mentire se necessario e uscirne con la soddisfazione di aver battuto dei commercianti navigati, persone che gli avevano offerto casa e chapati. Per raggiungere tale fine si recò in un negozio che vendeva sitar antichi e custodie da viaggio e iniziò col suo proprietario un incredibile tira e molla – accampando scuse relative a ritardi di banche e restituzione di denaro per biglietti di aereo – per un sitar decente ma non eccezionale, vendibile allo stesso prezzo dell'altro; così facendo considerava di avere un asso nella manica per far abbassare il prezzo alla famiglia e avere un paracadute nel caso che con loro l'affaire sitar sfumasse. Nel frattempo la famiglia temporeggiava senza voler definire o onorare i patti precedentemente presi. Una sera, passando da casa loro incontrò lo zio il quale, con i suoi azzurri e sporgenti occhi da rana, gli disse che Davit, il giovane studente e mediatore fra il guru proprietario del sitar e il probabile acquirente, lo avrebbe aspettato la mattina seguente per concludere l'affare. Quando all'alba si presentò nel quartiere non c'era nessuno, alla sua chiamata lo zio lo informò che Davit dormiva e avrebbe dormito a lungo, e che avrebbe dovuto aspettare una sua telefonata per poter avere un prezzo definitivo. Periferico lo maledisse internamente. “Perché si divertono a tenermi così sospeso – ruminava ripulendo dal sugo rosso il suo piatto pomeridiano su una terrazza piena di scheletri di tamburo – pensano forse che un giorno in più mi farà scordare le loro parole? Balordi, babbei!” Passò così tutto il pomeriggio, ribollendo come una pentola di legumi per l'attesa e il desiderio; verso le cinque non riuscì più ad aspettare, chiamò lo zio che subito rispose invitandolo immediatamente a presentarsi da loro. Marciò verso la casa bianca ricolmo di saette, cercò di placarle pensando che la battaglia che stava andando a combattere avrebbe avuto bisogno della pazienza di una pietra e della freddezza di una lama. Entrò in casa e lo zio gli offrì un chai cominciando a tempestarlo di domande cui il ragazzo rispose con sarcasmo e sorrisi affilati. Sapeva che la sua faccia stava tradendo ciò che pensava perché vedeva il suo riflesso negli occhi di chi gli stava davanti. Quando venne deciso il prezzo finale, superiore a quello precedentemente pattuito, Davit uscì dicendo di dover conferire con il guru proprietario dello strumento per un consulto; Periferico restò solo con lo zio e ruppe gli argini della propria frustrazione, ma il suo interlocutore non gradì il tono e sciorinò un paio di frasi in inglese ben poco piacevoli, poi uscì in fretta dalla stanza. Periferico attese un quarto d'ora, poi di colpo si alzò, imbracciò la bisaccia e uscì dalla stanza. Qualcuno lo vide e quattro persone gli si fecero intorno per fermarlo, Davit era andato a mangiare e adesso gli sventolava davanti il cellulare al cui altro capo stava il guru, tutti adesso erano disposti a ritrattare ma Periferico strinse le mani a tutti, diede a tutti degli avidi e dei mascalzoni e se ne andò. Mentre trottava per le strade chiassose si sentiva in testa un pallone pieno d'aria, avvertiva di aver perso qualcosa di importante, e non solo quel sitar di legno rossiccio. Si diresse verso il negozio di strumenti come nella notte ubriaca si cerca una donna qualunque dopo che chi ami ti ha chiuso per sempre la porta in faccia. Provò il sitar davanti al baffuto negoziante, suonava come una scatola vuota, ne provò un altro con la faccia del proprietario che si faceva sempre più scura, e Periferico si sentì il più immane degli idioti. Se ne andò con i suoi spettri in pancia: la brama del possesso, la foga cieca nel voler ottenere a tutti i costi qualcosa che si ama, il cedere a una rabbia inutile, la paura di farsi truffare, la mancanza di rispetto e l'attaccamento al denaro. Non se la sentì di chiamare nessuno della famiglia ma passò dalla loro strada, camminava a testa bassa quando da dietro le spalle gli giunse una voce, si voltò e lo zio lo raggiunse ridendo, gli mise le mani sulle spalle, gli disse di non arrabbiarsi, di stare felice e di non pensare troppo, lo invitò al compleanno di sua figlia e si abbracciarono. Periferico salì in casa, mangiò la torta con loro e rise con loro delle bizze della piccola festeggiata, tutti scherzavano sulla sua pazzia, Davit era felice di rivederlo, diceva di sapere che sarebbe tornato, tutto sembrava a tratti sfocarsi e farsi nuovamente nitido. Alla fine della festa Periferico si sentiva strano, si sentiva felice, lo zio gli strinse la mano dicendogli che il sitar sarebbe stato suo al prezzo che avrebbe voluto. Termina il combattimento quando svanisce l'idea che si debba combattere. 5. Il giorno della partenza per Pushkar uscì presto in strada, stava camminando con la sua nuova borsa ricavata da un sacco di iuta che aveva contenuto riso e una corda a tracolla che lo chiudeva – sistemazione che incontrava aperte risate da parte di tutti i locali che vi incrociavano lo sguardo – quando vide una ragazza magra e bionda in sella a una bici a nolo, impossibile non notarla per i suoi capelli e la sua altezza in mezzo alla bassa fiumana bruna del bazaar, e per i suoi grandi occhiali da sole. Si guardarono mentre lei arrancava in piedi sui pedali lungo la strada gremita di uomini, bestie e motorini e Periferico le rivolse una specie di sorriso, lei fece a fatica un altro paio di metri, poi lo fissò da sotto le lenti scure con una smorfia divertita e esasperata e scese andando a parcheggiare la bici a pochi metri da lui assieme a un'amica che la seguiva. Si salutarono, erano due australiane, Valerie, la bionda, e Nona di origini nippo-messicane. Si misero a camminare assieme, Nona afferrò ridendo un angolo della borsa sacco sottolineandone la pregiatissima fattura, passarono il pomeriggio insieme parlando dei rispettivi paesi e di musica assaggiando cibarie lungo tutto il bazaar. Già si conoscevano. Si sedettero nel tempio di Shiva (sono sempre i templi i luoghi di ritrovo principali, in nessun altro luogo ci sono tante palpabili energie concentrate, fatte di canti, statue levigate dalle carezze, significative e prospere pietre nere cosparse di latte e di fiori, preghiere, colori, musica e odori) tra i rintocchi della campana e le salmodie si fissarono a lungo negli occhi in silenzio Valerie aveva una voce leggermente roca, la pelle trasparente, occhi azzurrissimi; era molto magra e quando si muoveva aveva la grazia leggera delle meduse. Con sé portava sempre un libretto dove tracciava disegni e brevi pensieri e quando rideva forte si metteva una mano davanti alla grande bocca pallida. Nona adorava mangiare qualunque leccornia, poteva sedersi solo per poco tempo, poi cominciava ad annodarsi al dito i lunghi capelli neri e con le sopracciglia invocare altre destinazioni. Quando giunse il buio si ricordarono delle biciclette e si separarono sperando di rincontrarsi. Periferico sorrise mentre le guardava tornare verso il bicinoleggio lontano, poi i suoi piedi seguirono un sinuoso serpentone di scale che lo portò lontano. Adesso, in cima a una vedetta affacciata sul nulla delle colline cespugliose mentre lontano alle sue spalle rumoreggiava la capitale congestionata, si sentì in un particolare stato di pace che non poteva definire. “Per godere serve il silenzio della solitudine o il silenzio dell'intimità. I gioviali che non sanno stare soli forse non la vedono così.” pensava mentre il vento spazzava il cielo e le fronde attorno. Sì, davvero la gente non gli piaceva, richiedeva troppa inutile attenzione per soddisfare le proprie necessità e le proprie vanità. “Vivere nella natura isolati, con una città ad alcune migliaia di passi, una sola persona da amare e uno strumento da suonare: cos'altro si può desiderare?” CAPITOLO II 1. Saltò sul primo autobus per Ajmer, “Ajmerajmerajmer!” gridavano i bigliettai nella stazione tra le costanti partenze di autobus, grandi scatole sbuffanti e sonaglianti, con i fianchi coperti da striature arcobaleno di sputi. Da lì avrebbe dovuto cambiare per Pushkar dove si teneva la fiera del cammello di cui tanto in quei giorni si era sentito parlare in città. Il viaggio fu lungo e buio – sei sobbalzanti ore in un parallelepipedo di metallo lanciato a tutta velocità per le scure autostrade rajastane, dove le vacche deambulavano impunemente e immensi autotreni rettangolari si sorpassavano a lentezze siderali – e sempre di notte arrivò ad Ajmer, località di scambio costruita attorno a un grande lago sulle colline. Allo sportello dei biglietti per Pushkar si imbattè in uno spilungone biondo con una rossa camicia indiana e un pesante zaino sulle spalle. Fu come squadrarsi in uno specchio, nello stesso istante cominciarono a parlarsi. Entrambi venivano da Jaipur, entrambi erano stati sulle montagne – lui quelle vere, due mesi di scalate tra Leh e il Ladak insieme a una coppia in luna di miele – ed entrambi andavano a Pushkar senza una precisa ragione. Ventenne, capelli e barba spettinati e occhi azzurri pronti a strizzarsi per le risa, Lotar, uno scalatore arrivato lì dalla Romania, stava appeso alle maniglie dell'autobus strizzato tra sari e pijamas ridendo e sollevando le spalle. Quando scesero nella stazione di fronte al tempio Sikh di Pushkar schivarono i nugoli di consigli di guesthouse da parte dei consueti acchiappa turisti e andarono a cercare un posto dove mangiare. Camminando per le strade semi deserte della cittadina sconosciuta si resero conto della percentuale di viaggiatori che la fiera stava richiamando, principalmente fricchettoni stranieri in mezzo al marasma di tribù e affaristi locali. Condivisero un chapati con verdura piccante, presero un chai e si diressero verso alcune guesthouse, tutte al completo. In una di queste un individuo magro e placido, somigliante a un baleniere vichingo dalla lunga barba, gli consigliò di restare, offrendogli di dormire con lui in cima al tetto – sempre la soluzione meno costosa, nonché più suggestiva – e promettendogli una razione di bhang dal negozio governativo fuori città. Il bhang è un impasto a base di foglie di marijuana che il vichingo mangiava tutte le mattine mischiato alla colazione per viaggiare come si doveva tra le strade lussureggianti di cose mai viste. Il suo teschio antico, la sua fronte da Zeus e gli occhi limpidi li convinsero a lasciargli tutto il denaro necessario all'uopo, e prontamente il baleniere svanì all'esterno per andare a procacciarselo. Purtroppo il proprietario dell'ostello esigeva per il pernottamento il pagamento anticipato di almeno sei notti e i due non sapevano quanto sarebbero rimasti, approdarono allora alla guesthouse accanto e divisero le quattro pareti con finestra e il letto di legno. Al mattino sbrigarono le formalità e uscirono a girovagare per le gremitissime strade della cittadina dove sciamavano carri in cui stavano assisi bambini mascherati da divinità, Shiva azzurri e nere Kalì, e bande musicali sgangheratissime e scatenate roteavano per le strette strade mentre la variopinta marmaglia spettatrice gettava in aria grida e fiori arancioni. Camminare e camminare schivando fiumane di gente vociante finchè non si misero a parlare sotto il tetto di un falafel shop; si raccontavano le loro vite nelle case lontano da lì mentre sgranocchiavano il saporito involucro di pane ripieno, storie di famiglie tradizionali e grandi mangiate rituali, di studi e lavori insoddisfacenti. Lì accanto stava seduto un magro e basso individuo dalla folta barba nera, la pelle scura e un cappello da mandriano del Texas, aveva gli occhi scuri e mobili e sembrava ascoltare con sufficienza tutto quello che i due si raccontavano; quando Lotar parlò dello spavento provato alla vista di un serpente fatto saltar fuori da una cesta lo sconosciuto lo interruppe e, con estrema serietà, gli rivelò come quei cobra fossero in realtà privi di veleno. Da questo discutibile preludio scaturì un fiume di parole, da sotto il cappello di cuoio sformato una barba di quattro mesi proclamatasi “proud american retired soldier” cominciò a pontificare di cobra e veleni, di viaggi ai confini della terra, della morale nelle terre selvagge, dell'organizzazione di blitz antiterroristici e di amicizie nelle alte sfere della mafia di Los Angeles. Si presentò come Mohamed, un avventuriero metà indiano e metà americano che raccontava storie talmente incredibili e con un tono talmente serio da far dubitare della sua o della propria sanità mentale; con un incrollabile attitudine all'esagerazione, la facile risata, il turpiloquio e la battuta di spirito monopolizzò in un attimo la conversazione. Il flusso verbale si interruppe quando Periferico saltò in piedi adocchiando una sfumatura bionda tra la folla, di nuovo la camminata diafana di Valerie e i suoi capelli scintillarono sopra al mare di teste, a piccoli passi le camminò incontro e le mise una mano sulla spalla, si sorrisero e si abbracciarono spigolosamente; la invitò a sedersi con loro e si misero tutti a parlare, dopo pochi minuti arrivò anche Nona con le mani piene di nuove leccornie da piluccare. Su quelle seggiole rosse da negozio di falafel, nel centro della fiera del cammello di Pushkar, si stava formando un mucchio di sentimenti ed emozioni proveniente dai quattro angoli del mondo, vite rutilanti che si avvicinavano, variopinte e effimere come ali di farfalla. Mohamed prese il controllo della situazione per far dirigere tutti verso l'arida zona fuori città dove avvenivano i mercanteggiamenti per cavalli e dromedari. Si alzarono e camminarono assieme, l'aria serale era satura di polvere e calda e gli animali si muovevano tra i tendono come rassegnati e ribelli spettri assoggettati. Un magnifico ed immenso cavallo legato, nero come la notte, tentò di addentare la testa di Nona che spiccò un incredibile balzo indietro; dovevano stare attenti a scansarsi continuamente perché grandi carri variopinti trainati da sinuosi e ironici dromedari, bardati con stoffe e specchietti, tagliavano costantemente il sentiero battuto. I cavalli, immensi destrieri dalle linee arcuate e il cranio affilato, li guardavano roteando le pupille, le possenti zampe ancorate con funi a picchetti nel terreno; scalpitavano, erano lì da tutto il giorno a contrarre inutilmente i muscoli, folli per il nervosismo. Si spostarono più avanti dove i dromedari, a centinaia, mugolavano con le zampe piegate sotto il corpo e speroni conficcati sopra l'osso del naso. Si sedettero nella polvere, la ruota panoramica del parco giochi edificato accanto allo stadio dove avvenivano gare e spettacoli scintillava nel crepuscolo screziando con caleidoscopi di luci le nubi di polvere, immense e impalpabili, che si alzavano dal terreno. Da là si sollevavano cacofonie musicali sparate da altoparlanti allo stremo delle forze e gli annunci di bambini smarriti cozzavano con le grida dei venditori di dolciumi ed orologi. Erano tutti seduti, cinque sconosciuti accomunati dall'esserlo, e guardavano davanti a loro nella luce con diversi tipi di sorriso quel mondo che era il loro eppure non lo era. Si mossero per andare a cenare tra l'incessante andirivieni di persone colorate. Recuperarono per la strada un vecchio amico di Mohamed, un minatore australiano di più di cinquant'anni in viaggio perpetuo; Mohamed sembrava avere amici dappertutto e allo stesso tempo essere sempre solo. Si arrampicarono per le ripide scale del Baba Rooftop, sopra la piccola piazza che congiunge numerose strade e vende chai e banane. Tutti erano uniti dalle proprie storie ridicole e avventurose mentre mangiavano, e tra lo scambiarsi di posate e di sguardi cominciavano a delinearsi affinità e simpatie, Lotar il biondo scalatore e Valerie la bionda viaggiatrice sembravano rispolverare qualcosa che chissà quando li aveva uniti. Una stranissima sensazione aleggiava tra le pale del ventilatore a muro, le luci variopinte e la musica che li circondava: la sensazione di essere all'interno di una tela di ragno dove si concentravano gocce di strane energie e vite vissute in precedenza si rincontravano, senza saperlo né crederlo, ma avvertendolo. Finirono di cenare, il minatore lasciandoli per andare a riposare dopo il viaggio intrapreso per raggiungere Pushkar, i nuovi sodali si spostarono in un altro locale dalle luci soffuse e migliaia di striscioline metallizzate appese sul soffitto e sulle pareti, scintillanti e cangianti follicoli piliferi di un animale fatato all'interno del cui stomaco potevano bere birra in teiere di porcellana, ironico simbolo del proibizionismo indiano. Si divertirono a confrontare i costumi religiosi dei propri paesi, le gambe incrociate sopra sottili materassi o distese sotto un basso tavolinetto argentato, se la risero sonoramente della confessione, dei riti a pagamento, delle mani strette tra chiese e stato; ognuno aveva abbandonato una differente religione: un rumeno ortodosso, un cattolico italiano e una calvinista australiana. A volte la discussione veniva interrotta e sviata da argomenti di natura sessuale mentre Mohamed e Nona discutevano tra loro a voce bassa di amori passati. Non era tardi quando il locale decise di chiudere e mentre si spegnevano le luci restavano solo loro, non volendo ancora separarsi. Presero insieme un chai nella piazzetta adesso semivuota, poi si salutarono dandosi un approssimativo appuntamento per il giorno dopo, Periferico e Lotar rientrarono nel cortile interno della loro guesthouse dove, accanto all'albero piegato nel centro del giardinetto sul cui tronco stavano in equilibrio alcune statuette votive, c'erano una decina di ragazzi, indiani e non, intenti a scrivere frasi e disegnare sull'azzurro muro interno rullando canapini, scegliendo pezzi musicali rimbombanti da piccole casse, e parlando e ridendo incessantemente. Si unirono, condivisero un po' di storie e di fumo, ma presto finirono a parlare fra loro dei propri trascorsi sentimentali, donne presenti, assenti e passate, la triste bellezza di Valerie che li aveva scossi...si conoscevano da ventiquattro ore e le loro distanze li rendevano buffamente vicini. Il proprietario dell'ostello, un giovanissimo indiano che si faceva chiamare Filippo, chiese a Periferico di disegnare qualcosa sul muro azzurro, allora con un grande pennarello il ragazzo tracciò i contorni di un monocolo mostro tentacolare con pizzetto e cappello a cilindro, al di sotto il suo corpo era un'isola sospesa sopra il mare attaccata da piccole navicelle. Lotar e un altro paio di avventori videro tra le linee profili di altre facce, non era stata sua intenzione. 2. La mattina dopo si alzò da solo e uscì a girovagare per la città intasata di processioni e bianchi turisti armati di immense macchine fotografiche. Pushkar, tranquilla cittadina costruita attorno a un sacro lago, tutto l'anno quieta meta di pellegrinaggio tra le colline, nei giorni che precedono il plenilunio agli inizi di novembre si ricolma di miriadi di mercanti, religiosi danzanti, azzeccagarbugli variopinti e legioni di turisti giunti lì per brigare o assistere alle sacre celebrazioni e ai tornei di baffi più pittoreschi o del vitello più lustro. Periferico si diresse verso lo stadio dove di solito si svolgevano a tamburo battente le maggiori manifestazioni organizzate per la fiera, e qui fece un nuovo incontro inaspettato. Eccolo là, in mezzo al turbinare polveroso di migliaia di gambe, e una lei di fronte a concentrare ed annullare in sé tutto il mondo attorno. Le braccia nude, i capelli neri raccolti e il naso e il collo leggeri e affilati, la pelle liscia e morbida prima di raggiungere qualunque contatto. Era assieme a una ragazza, stessa statura e atteggiamento, stessa canottiera e pantaloni larghi e variopinti. Solo più tardi capì che il suo rapporto con l'altro sesso non era che una rosea e futile sudditanza declinata in cavalleria e pervertita in piaggeria, presunzione di essere per la donna qualcosa senza il quale essa non può essere tranquilla; si avvicinò molleggiando e con una scusa qualunque si mise a parlare con loro. Lei si chiamava Carmen e quando si tolse gli occhiali lo guardò dal basso in alto con vividi occhi verdi, occhi che sanno di essere irresistibili, sicuri e timorosi allo stesso tempo. Camminarono a lungo fianco a fianco, Amalia, la sorella minore più taciturna ma regina dei tempi comici, sembrava annoiata ma sempre pronta a cogliere l'occasione per farsi una risata, meglio se a scapito di qualcuno. Qualcosa nel cuore e nella mente di Periferico stava già fermentando. Pranzarono assieme in un rooftop lontano dalla calca, parlarono dei propri paesi cugini e delle proprie vite distanti, Carmen era animata da una vitalità prorompente, nervosa e ipocondriaca, cercava rassicurazioni su una mano ferita e spesso sobbalzava per l'arrivo di un insetto. Avevano lavorato per un mese in un ONG a Jaipur e anche loro erano lì avendo subito l'attrazione della fiera. Quando tornarono sulle strade affollate decisero di dirigersi verso un promontorio fuori dal perimetro cittadino, guardarono il sole farsi rosso e poi tuffarsi nel grigio lattiginoso dell'orizzonte dopo aver barbagliato sulla schiena delle colline, degli uomini e dei dromedari; la piccola città alle loro spalle si fece scura e stellata da miriadi di luci, intorno al lago cominciarono a danzare le piccole fiaccole delle preghiere serali, sulle sponde si inseguivano rulli di tamburo e ringraziamenti cosmici, i bambini e i giovani che roteavano le lampade riconfermavano il patto segreto e identico da millenni alle entità che vivevano al di là. Piegarono verso una strada e con un suono di trombetta afona e cembali sferraglianti proruppe un corteo di vecchi barbuti panneggiati d'arancione, danzanti con turbanti, piroettanti coi denti ridenti e le mani in aria a svitar lampadine immaginarie, occhiali da sole da motociclista riflettenti i neon che illuminavano le patine zuccherine dei dolciumi grondanti dalle vetrine, punteggiati di occhi neri di mosca, una fugace apparizione di rockstars morse da tarantole Per le strette vie strapiene nulla restava quieto, una corpulenta ragazza indiana li invitò da una terrazza a raggiungerla, dopo ripide scale arrivarono tra tavolini e cuscini irrorati di musica europea sospesi sopra la brulicante via principale, assieme alla ragazza sedeva Brandon, il vichingo che dormiva sul soffitto. Egli era in realtà un ex costruttore californiano in procinto di sposarsi con una nepalese, ma nella mente di Periferico rimaneva un baleniere di Dierkow che aveva deciso di mollare a casa l'arpione per andare a caccia di belle balene indiane; il lungibarbuto si levò dalla fronte olimpica il morbido cappello e da lì estrasse un involucro di carta contenente una pasta verdastra solida e morbida; la consegnò, ammiccò, e dopo essersi calcato di nuovo la tesa sulla testa si sedette di nuovo in conversazione con la compagna. Periferico agiva ormai come mosso da un sogno, tutto ciò che vedeva era riflesso dagli occhi di Carmen e là, dentro alle sue pupille, cercava un appiglio per arrivarle al cuore. I suoi pensieri correvano avanti e già sentiva la tensione elettrica fluire tra le loro mani che si avvicinavano e allontanavano mentre parlando ridevano fraintendendo le proprie lingue differenti. Beato chi è privo di fantasia e immaginazione! Anche un allocco infatuato si sarebbe affrettato a sapere se la dolcezza guizzante di quella volpina non fosse altro che la gentilezza di una donna che aveva il suo cuore già impegnato altrove; invece l'ignaro Periferico stava precipitando e risalendo in un otto volante mentale fatto di ma e di se che ampliavano a dismisura le sue possibilità immaginarie. Si diceva che l'incantesimo muto era già stato recitato passando da uno sguardo all'altro e bruciando tutto ciò che stava dietro. I tre, su quel terrazzo, erano in preda a una strana ebbrezza dovuta al rutilare degli eventi che gli ruotavano attorno, volevano festeggiare il loro essere là e vivi e così decisero di brindare con un lassi – bevanda di frutta dolce e cremosa – al cui interno disciolsero il fresco fresco bhang. Erano seduti a sorseggiare il denso e delizioso liquido verde guardandosi con strani sorrisi quando dal nulla spuntò fuori Mohamed che ronzava solo in cerca degli altri compari, individuando Periferico lo raggiunse scambiando con lui da in piedi distratte parole. Quando, squadrando meglio la compagnia, gli si palesò la natura dell'incontro con le due ragazze sgranò gli occhi, si diede una pacca sulla coscia emettendo allo stesso tempo un lungo fischio e si fiondò sull'unica sedia rimasta libera, cominciando a parlare a ruota libera. Da quel momento in poi la serata si sarebbe trasformata in una boccia piena di tempere colorate agitata violentemente. Si alzarono e si diressero verso lo stadio, le vie erano stracolme, la testa si faceva più leggera e suoni e colori cominciavano a cambiare, intensificandosi e rivestendosi di valori e brillantezze inedite. A volte Mohamed non visto dava di gomito a Periferico e baciandosi la punta delle dita e allargandole in direzione della minuta figura che di fronte calcava la folla schioccava la lingua e si faceva grasse golose risate. Quando arrivarono dentro alla recinzione di gradinate, dove tra centinaia di uomini scorrazzavano mucche con coccarde, cavalli al galoppo e dromedari sghembi, c'erano uomini e donne sul palco, vestiti da pavone e da divinità che roteavano su loro stessi sommersi da cascate di fiori spugnosi e musica dai ritmi pazzoidi. Carmen strinse la mano di Periferico e gli disse in un sussurro: “don't leave us alone!”. Uscirono tutti e quattro dallo stadio e superarono il luna park che nel frattempo si era tramutato in un gigantesco macchinario alimentato da vibrazioni fotoelettriche e sonore , un nikelodeon ruggente lampi cromatici in cui ogni elemento che si muoveva rilasciava dietro di sé una breve scia nebulosa. Mentre Mohamed era davanti a stordire di chiacchiere Carmen, Periferico restava dietro con Amalia che, con un sorriso sempre crescente, soffiò fuori: “This...this is leaving in a dream!”. Per le successive quattro ore non sarebbe riuscita a dire altro, impossibilitata da un attacco di risa incredibilmente inarrestabili. Euforici, elettrificati dal contatto con le migliaia di persone che gli si stringevano attorno, decisero di trovare riparo in uno dei ristoranti più famosi della città, sito sul tetto di un palazzo completamente blu. Si sedettero con una certa difficoltà e il cameriere con turbante che si avvicinò dimostrò un'immensa ma frangibile pazienza, mentre i quattro impiegavano almeno mezz'ora per decidere cosa ordinare. Se si guardavano negli occhi Carmen e Amalia non riuscivano a respirare dal ridere, allora Mohamed decise di raggiungerli nei loro pianeti e ordinò anche lui un lassi speciale. Pazze, irrefrenabili risate accoglievano qualunque parola e qualunque silenzio. Finirono di cenare e caracollarono per le scale diretti alla guesthouse Lakesee dove alloggiavano le ragazze. Raggiunsero il terrazzo che dava sul lago scintillante e cominciarono a fare una baldoria incontenibile, i toni di voce si amplificavano sempre più assieme agli squilli di tromba delle risa; il cuoco sopraggiunse chiedendogli gentilmente di allontanarsi fino alla parte esterna della terrazza. Qui, con le luci ancor più soffuse e la scia pallida della luna sul lago, Mohamed decise che era tempo di lanciarsi nella più surreale delle auto celebrazioni. Occorre una breve interruzione per precisare che razza di personaggio fosse Mohamed Dasteel: 26 anni dichiarati e la statura e le proporzioni di un ragazzino, cantaleggende spassionato che si dichiarava americano o indiano a seconda dell'occasione, costantemente insistente sul suo passato di cecchino scoppiateste al servizio dell'esercito americano in Iraq e Afghanistan e ciononostante spiccatamente sensibile e privo di qualunque disciplina o organizzazione; a disagio con formiche, auto e sguardi altrui lanciati in tralice nonostante profondesse sforzi e convinzione nel dimostrare scanzonatamente il contrario; essere accompagnato da belle ragazze e l'aspettativa di vedere un leone inesistente lo mandavano su di giri come un bambino dopo un overdose di dolciumi. Era capace di parlare ininterrottamente per ore, dopo un bel “wake 'n' bake” mattutino a base di morbido fumo, infarcendo storie reali di dettagli inimmaginabili. Tutti quelli che lo conoscevano dopo poco lo evitavano, ma la sua solitudine interiore era un magnete per chi condivideva il suo abbandono e la sua crassa ironia. Questo personaggio, adesso con le briglie totalmente allentate, obliquamente illuminato dall'incerta luce di una lampada, confessò di essere uno sceneggiatore, uno scrittore e un venture capitalist con un immenso Ford pick-up nel garage; teneva banco con voce roca, raccontando di come egli ormai fosse un abitante delle badlands, la cui capitale era immersa nel Kingdom of Dongo, dove potevano abitare solo coloro che avevano visto il lato oscuro della luna. Periferico ancora non lo sapeva ma avrebbe passato con lui sedici giorni condividendo tutto, senza però riuscire a capire chi diavolo fosse davvero e da dove diavolo spuntasse fuori. Tra le risate che ormai stavano raggiungendo un livello parossistico le ragazze rivelarono loro che il giorno dopo sarebbero dovute andar via da Pushkar; in quell'istante dall'ombra spuntò un tipo giallognolo e segaligno con un occhio bianco velato da una cataratta e la radice dei denti storti nera e corrosa che, spalleggiato da due ragazzoni, biascicò velenosamente qualcosa in hindi. Nessuno comprese ma il tono fu inteso da tutti. Furono fatti alzare, condotti barcollando verso le scale da quest'ombra bianca che col petto e il dito ossuto intimava alle ragazze di filare in camera e agli onorati ospiti maschili di scomparire. Prima di imboccare le sdrucciolevoli scale che portavano alla sua stanza Carmen attirò l'attenzione di Periferico, sostenendo la sorella verso il corridoio indicò il pavimento col dito indice per poi farlo mulinare orizzontalmente mentre con la bocca sillabava “mañana”. Periferico e Mohamed passarono il resto della serata a decantare la beltà della dama e proclamarono ai tetti della città il loro amore incondizionato mentre guardavano le luci della città farsi di nuovo stabili nel nero della notte. 3. La fiera del cammello era ormai andata, finita; il silenzio che serpeggiava tra le case era il respiro di un amplesso esaurito. Sulle strade la polvere si riadagiava indisturbata e il sole mattutino faceva accartocciare montagne rugose di bucce di frutta, nei piccoli cocci da tè frantumati sul selciato i grumi di latte rimasto lentamente inaridivano. Con le teste rintronate e gli occhi cisposi si ritrovarono ciondolanti e stravaccati sulle sedie da caffè e falafel: Lotar, Nona, Valerie, Mohamed e Periferico si scambiavano poche parole ognuno perduto nell'eco dei propri pensieri; barbe e capelli venivano grattati, sigarette fumate e bicchieri fatti ruotare sulle impronte acquose. Nel medesimo istante tre lingue scattarono a formare con l'aria una domanda interiore: “Should we move?”. Le schiene si raddrizzarono e i gomiti si puntellarono al tavolo, spariti i veli sugli occhi, le ossa più calde. Mohamed si calcò il cappello in testa, Valerie spense il suo mozzicone, Lotar chiuse il libro, Nona ingollò il boccone e Periferico si sistemò le mutande. Un bercio di gatto ed erano in cammino verso la terrosa piazzola dove un bianco dinosauro assopito attendeva di mettere in moto le ruote. Borse e bisacce al collo, zaini sulle spalle; il solo bagaglio di Mohamed baldeagle/loneranger comprendeva un immenso zaino bitorzoluto pieno di felpe e magliette ripiegate, insaccato in un copri zaino contenente pentole e braghe appallottolate e fuoriuscenti alla rinfusa, più un altro zaino di media statura gonfiato da almeno sei paia di scarpe, e una altro più piccolo al cui interno si piegavano libri sulla finanza aggressiva, il controllo della mente altrui e “Le false promesse dell'amicizia”: peso complessivo 30 chilogrammi. Gli altri lo guardarono perplessi mentre perdeva l'equilibrio crollando sulla schiena, agitando nell'aria le zampe e ringhiando come la più blasfema delle tartarughe; lo sollevarono e si spartirono l'assurdo bagagliame, lo sistemarono nell'autobus per Ajmer (Ajmerajmerajmer!) e poi cambiarono per Bundi, misteriosa cittadina che si diceva sperduta tra fresche foreste ed ombrose polle nascoste. Stiparono l'immenso ciarpame nella cabina dell'autista e si sistemarono accanto al suo sedile, il parabrezza immenso e il viso dritto sulla strada che cominciò a scorrere, piena di buche, stretta e gremita come ogni altra strada indiana. Come tutti i viaggi in un autobus governativo, con i suoi interni in acciaio e le balestre delle sospensioni apparentemente sempre sul punto di spezzarsi tra un rimbalzo e l'altro e il largo e monotono ruggito del motore a fare da sfondo, di ore ne passarono parecchie. Il paesaggio scorreva attorno con la sua tinta rossastra, bassi cespugli a perdita d'occhio – oltre a quella strada nessun'altra attorno – il cielo mutava colore sfumando i contorni impregnandoli di rosa mentre attorno cominciavano a mostrarsi i primi laghi segreti. Periferico cominciò a leggere il nuovo libro che avrebbe lasciato su quello stesso autobus, Lotar e Mohamed sonnecchiavano accanto a lui piegati su un materasso appoggiato quasi sulla leva del cambio, dietro Valerie e Nona ronfavano abbracciate, ogni tanto i magri baffetti dell'autista fremevano perplessi mentre scuoteva il capo nella loro direzione. Era già il tramonto quando svoltarono in mezzo a due colline boscose, da sinistra come tigre inattesa balzò fuori il geometrico reticolo di finestre e torrette del palazzo di Bundi, gemma giallo pallido scolpita nel fianco della collina sovrastante il variopinto casamicciolaio della città vecchia. Tutti schiacciarono il naso al vetro come bambini. Scesero alla stazione e andarono verso il centro di Bundi che si estende sotto il forte e il palazzo dei marajas intorno a un quadrato lago artificiale, un insieme di abitazioni tranquille e silenziose; tutti i passanti che incrociavano salutavano con grandi sorrisi. Come al solito poche ma leste motorette sciamavano schivandosi per le strade labirintiche, l'orgoglioso vanto indiano di non avere regole si manifestava nel piccolo paese come nella grande città. Dopo aver ispezionato una decina di poco economiche guesthouse trovarono l'inaspettata perfezione, la vecchia casa di un ex governatore sulla sponda del lago gestita da una coppia di anziani i cui progenitori dicevano di essere stati in cella con Ghandi, li sistemarono in una grande stanza vista lago capace di ospitarli tutti. Da basso si stendevano le acque, ferme e scure e intaccate da banchine di pietra, tra due alberi del giardino era stesa una gialla amaca pigra. Prima di andare a letto Periferico si fece un giro per la città buia. Di fronte alla testa placidelefantina di Ganesh una decina di persone ritmavano con tamburi preghiere di ringraziamento serale, propiziazioni che, con gli occhi chiusi, si trasformavano in buie cascate di luce. Quella notte dormirono profondamente l'uno accanto all'altro e sognarono il palazzo dei marajas: due elefanti di pietra intrecciavano le proboscidi sopra il portone principale e all'interno lo sguardo immaginava geometrie di scale e capitelli. Dietro un portone di legno chiavistellato, imporrato dall'odore di guano, sentirono lo stridio e lo sbatter d'ali di centinaia di pipistrelli, intere stanze svolazzanti dalle cui finestre malchiuse filtrava la luce polverosa sugli spiriti inquieti e ciechi che ridisegnavano i labirinti di stanze dove un tempo avevano governavano certi uomini delle lande. Dipinti di battaglie campali decoravano pareti e soffitti, azzurri dei danzanti in cerchio impegnati a sedurre mortali col suono del flauto, profili morbidi di ballerine, troni istoriati, giardini con fontane e terrazze componevano quel palazzo da cui si osservava il regno estendersi a perdita d'occhio. Come sì può pensare di essere soli al mondo quando qualcuno ti racconta il proprio sogno? Quei gabbamondo si sentivano veri quando si stringevano attorno a un tavolo e ridevano di tutto e di loro stessi, ognuno con la sua storia, ognuno in cerca di qualcosa in luoghi lontani da casa, sperduti ma non perduti, con il cuore e la mente aperta e le tasche bucate; i piedi si toccavano sotto i tavoli e si aprivano i sorrisi come melograni maturi. Presero il via in sella a una moto e due scooter scassati, le cascate ad attenderli chissà dove nel verde circostante; uscirono dalla città senza mai fermarsi, Valerie, Mohamed e Periferico in tre su una vecchia yamaha blu prestata da un tipo gattesco coi capelli rossastri. Il clacson era fuori uso e dovevano urlare “beep” “biiip!!” in faccia a vacche, cani, bambini e autisti di tuk tuk nel vespaio delle ore di mercato. Il traffico doveva essere fenduto, mai fermarsi o frenare ma immettersi nei fluidi flussi di veicoli sorpassando qualunque mezzo più lento e rispondendo a ogni colpo di clacson. Fuori dalla città la strada si fece di nuovo una soltanto, cominciarono a filare sorpassandosi tra loro, sbracciando e cantando attraverso pianeggianti paesaggi punteggiati di bufali d'acqua, uno di essi aveva la testa completamente bianca, un maialino fu colpito dalla ruota di una macchina e rotolò in cerchio sulla schiena agitando in aria le zampe come se stesse morendo dal ridere. Raggiunsero un immenso lago dalle acque fermissime, superarono un pianoro di roccia rossa geometrica e chiesero indicazioni in un villaggio dove i bambini scappavano al loro avvicinarsi per poi voltarsi a fissarli di nuovo da lontano, sagome nere senza volto e con le dita in bocca contro il biancore del sole. Al di là di una ferrovia finirono in una depressione di rocce aguzze e taglienti, la moto rimbalzava sulle selci color sangue emettendo schiocchi e boati metallici, tre fantocci sussultanti sopra a schiacciarsi a vicenda i genitali sul serbatoio rovente. All'improvviso emersero a fianco di un tempio affacciato sul vuoto verticale di una grande U di pietra, qui la strada sprofondava verticalmente nella vegetazione, un fiume di chissà dove scorreva e lì precipitava in una cascata immensa e sorniona che formava al piano inferiore un bacino d'acqua limpida. Si riunirono in danze smontando dai mezzi sbuffanti, alzando le braccia al cielo scesero le scale del tempio percorrendo un centinaio di metri su enormi pietroni grigi da cui spuntavano alti alberi lisci, con un solo movimento si tolsero gli abiti e senza fermarsi entrarono nell'acqua fresca, tutto il corpo percorso da un lungo brivido morbido. Approssimandosi alla tonante massa d'acqua che piombava verticalmente dall'alto scorrendo su lastre ricoperte da rampicanti, Periferico si aprì al fluido abbraccio, nuotò fino a dove l'impatto delle gocce precipitate dal cielo formavano nubi iridescenti, superò il sipario d'acqua e arrivò al di là della cascata, l'unico suono il suo scrosciare rombante contro le pietre e l'acqua del lago. Dal tumultuoso muro bianco emerse scintillante Velerie, lo raggiunse là sotto e sorrisero guardandosi dire qualcosa di inudibile, l'acqua faceva tutto splendente, laghi di azzurro negli occhi, avvicinarono le teste e si diedero un bacio, poi si rituffarono insieme al di là della cortina d'acqua arcobaleno, ridendo come bambini. Tutti cominciarono ad arrampicarsi sulle viscide rocce per tuffarsi dall'alto, salti lunghissimi che toglievano il fiato, bevvero birra e giocarono a carte, quando arrivò il tempo di andare andarono. Raggiunsero nuovamente il culmine della cascata su per le scale del tempio e i raggi del sole acquisirono un'entità materica, mielosa, che scolpiva i profili delle cose: le rocce rosse, la moto blu parcheggiata, tutto emetteva una luce intensa e squillante, vivida e palpabile, come se non fossero cose reali ma i loro simulacri appena venuti al mondo. Risalirono sui mezzi e ripresero a sobbalzare sul pazzo pianoro, sostarono sulla sponda di un lago dove videro il sole diventare due soli, uno di nuovo e poi sparire. Quando arrivarono in città era già buio, tempo di mangiare meravigliose sfere arancioni di pastella fritta, saporite di pollo e spumose come midolla di pane pur non essendo fatte né con l'uno né con l'altra. Quella sera molti di loro partirono alla volta di casa o di luoghi ancor più remoti, la compagnia si sciolse con le promesse di incontri nel futuro o nel passato del ricordo. 4. “Madrepadre di colline secolari la mia mente ha bisogno di ritrovarsi – pensava Periferico sdraiato sull'ombreggiata amaca gialla – riuscire a vedere dove è davvero la strada, perché di direzioni ce ne sono parecchie. Rispondi a ciò che non so chiedere”. Impossibilitato a dormire ancora nella stessa guesthouse Periferico decise all'ultimo secondo di partire alla volta di Udaipur insieme a Mohamed, Ludmilla e Greta, due ragazze del nord Europa incontrate qualche giorno prima sulla banchina del lago in cerca di far suonare una chitarra; presero il bus la mattina presto ed arrivarono nella romantica città dei laghi. Periferico era inquieto e pensoso, andarono insieme in bicicletta nelle campagne circostanti, al tempio dei topi, a una riserva dove il custode corrotto li guidò a far scintillare la sua torcia sull'occhio lontano di un coccodrillo nel nero incipiente della notte; tornarono passando accanto a industrie fumiganti dove bagliori artificiali e stridii infernali davano forma a neri macchinari, caricarono le bici in un pick up di passaggio e mangiarono banane lanciando le bucce nel vento alle loro spalle. Periferico era sempre pensoso e inquieto, la notte giunse in città accendendo tutte le luci e scintillando lucciole sulle increspature dell'acqua, sul giardino pensile di una guesthouse aspettava l'alba assorto. Si riscosse quando si rese conto di essere rimasto quasi solo al tavolo, tutti gli altri erano andati in camera a dormire o a fumare, all'altro lato stava mangiando la sua cena in silenzio una ragazza i cui occhi a mandorla lo fissavano. Periferico si guardò attorno, rimase in silenzio alcuni minuti poi si sfregò nervosamente il palmo delle mani e ruppe il silenzio chiedendole da dove ella venisse. Da quando gli rispose “Japan” a quando si salutarono alle cinque di quella stessa mattina non smisero mai di parlare. Si chiamava Fumiko e le era appena scaduto il passaporto, le avevano cancellato il volo per la Thailandia lo stesso giorno della partenza avvertendola con un sms – meraviglie della Spicejet airways – eppure se la rideva beatamente. Chiese in prestito il telefono a Periferico per prenotare un nuovo volo e con un paio di chiamate riuscì a ottenerne uno per il pomeriggio successivo da Dehli, allora si avvicinarono e presero a conversare fitto: conoscevano gli stessi film, confrontavano le rispettive gastronomie e abitudini, credenze e convinzioni e sghignazzavano di ciò che l'uno fraintendeva degli stereotipi dell'altro. Fumiko aveva imparato karate fino alla cintura marrone per potersi difendere dal padre e aveva preso a pugni un indiano che l'aveva smanacciata in strada, era una cuoca girovaga in Australia con gli occhi nocciola e una spolverata di lentiggini. Si approssimava l'alba e la ragazza doveva cominciare a preparare i bagagli; Periferico non aveva sonno e le chiese se fosse potuto restare a guardarla mentre rifaceva lo zaino. Lei accettò con divertita curiosità, si sedettero sul letto nella sua piccola camera, quando finì lo guardò con occhi timidamente risoluti e gli chiese se volesse ancora evitare di dormire. Si avvicinarono l'uno all'altra, si presero le mani, si abbracciarono e si baciarono, tornarono sul tetto dove si distesero assieme su una grande amaca rossa e blu. La notte scrosciava dei fuochi d'artificio di mille matrimoni. Restarono là per un'ora coperti dal sacco a pelo, poi le zanzare si intromisero prepotentemente nella loro intimità. Tornarono in camera e rimasero l'uno nell'altra fino a che lei non si dovette alzare per scendere in strada e andarsene via, si baciarono nel grigiore dell'alba salutati dall'urlo di un autista di rickshaw. Che gioia spontanea e che sorda tristezza! Preziosa, improvvisa e fugace, come se entrambi sapessero che qualcosa doveva essere bevuto tutto d'un fiato prima che la rotazione terrestre li dividesse per sempre. A giorno fatto Periferico si trovò a vagare perduto per le strade finché non sentì un caldo suono di flauto serpeggiare fuori da un negozio di strumenti. Bussò ed entrò, un compatriota imparava a suonare il bansuri insieme a un maestro dal naso aquilino e le sopracciglia cespugliose. Cominciarono a parlare entrambi liberati dal filtro della lingua e si trovarono lontani fratelli, dopo poco riunirono Mohamed e le due ragazze, quindici indiani, un'austriaca, una bulgara e un'americana per suonare chitarra, tablas e armonium fino a tardi nella terrazza di un ristorante. Quando il locale chiuse i due conterranei rimasero per strada, passarono tutta la notte a parlare delle scelte che li avevano portati là, del fatto che il solo esistere rendesse uguale anche ciò che è diverso, della propria volontà e del potere nascosto in ognuno di essere felice dovunque fosse. Al mattino guardarono il sole sorgere sopra il palazzo di Udaipur. Il giorno dopo Periferico decise, salutò tutti e partì da solo alla volta del deserto. CAPITOLO III 1. Dormì solo un paio d'ore a singhiozzo tra il saltellante public bus e il duro pavimento della stazione di Jodhpur, a metà del suo percorso notturno il bus aveva scartato per evitare un auto che filava in direzione opposta nella campagna, fari bianchi accecanti, si era imbarcato a sinistra piegandosi al punto di dare un gran colpo col fianco sulla parete di roccia che costeggiava la strada – un bambino urlò. Per lo schianto il mezzo si era sollevato sulle sospensioni come una nave sull'onda, al colpo di timone del pilota era rimbalzato a destra finendo con le ruote sullo sterro per poi, grazie a un'altra brusca sterzata, tornare con uno scarto in carreggiata. I passeggeri si erano alzati di scatto con un grido unanime, il tutto era durato meno di cinque secondi e per un instante parve di stare su uno scivolo acquatico, pronti all'impatto finale. Un minuto dopo tutto era nuovamente composto, tranquillo e sonnolento; l'autista filava alla medesima velocità per la strada invisibile. A una stazione di sosta scesero tutti per vedere la parte anteriore sinistra squarciata proprio al di sopra della ruota. Peggio però fu per Periferico ruttare per il resto dell'insonne viaggio il muttar paneer mangiato nella stazione: un sapore come di carne rancida e polistirolo nonostante il piatto dovesse contenere solo verdure e pezzi di formaggio cubici, un pasto che gli mulinava in pancia mentre saltava orizzontalmente sui duri seggiolini dell'autobus. Arrivò alla stazione dei treni di Jodhpur e per evitare la fredda notte dormì un pò tra il calore delle decine di persone in attesa dei lunghi vagoni blu: assiepate, coperte, distese assieme, producevano dolci odori e tepori casalinghi, funestati dal freddo luminoso dei neon e dagli annunci gracchiati in hindi e in inglese dagli alti angoli dell'enorme edificio. Alle cinque del mattino Periferico si scosse il sonno di dosso e saltò sull'express che da Delhi porta fino all'estrema Jaisalmer, l'ultimo avamposto prima dell'immancabilmente odiato Pakistan, si arrampicò su un lettino e dormì fino all'alba rossa del deserto. Quando arrivò nella remota cittadina, in cui un forte si ritaglia il profilo nel cielo indaco come un castello di sabbia decorato da un dio dalle minute manine, trovò una sistemazione sul tetto di un ostello al prezzo di un cono gelato, inclusa cucina, nel cui secco calore desertico girovaghi già ronfavano come ghironde. Passò un paio di giorni nell'assoluta tranquillità tra le stradine ornate di tappeti e le terrazze merlettate, giocò a badmington con la famiglia della futura sindaca e finì nel tipico tornado familiare fatto di continue domande e risate inaspettate, trucchi di magia e bambini buffoneschi. Lì sgorgava un'energia che trovava sempre sorprendente, fatta dell'assenza di vizi devastanti come alcool e noia; ognuno, adulti, ragazzi e bambini, poteva scoppiare a ridere, con il medesimo ardore, della medesima battuta anche se presentata per la quindicesima volta. Lì venne a sapere di Khuri, un piccolo agglomerato di case lontano da tutto da cui, in venti minuti di cammino, si potevano incontrare basse dune chiare nel mezzo del tipico deserto cespuglioso rajastano fatto di pietre grige e terra dura; si fece scaricare là, all'ombra di piccole casette bianche di fango, trulli desertici freschi di giorno e caldi di notte. La sera andò a guardare il sole tramontare scomparendo prima di toccare terra nella coltre di foschia, le stelle cominciarono ad accendersi e la lunga zanna della via lattea cominciò a scintillare. Si ricompose al suono di tamburi che ritmavano l'arrivo del freddo notturno, luci di fiaccole danzavano lontano emergendo da una bassa struttura risuonante, la sabbia si era fatta grigia tutt'intorno a lui, il cielo nero e blu, tra quest'armonia di colori solo quelle vivide luci arancioni lontane facevano l'occhiolino. Coprendosi con un telo si avviò verso i canti e i battimani che sciamavano portati dal vento, superò la carcassa di una mucca cui la fredda luce della torcia ingigantì le orbite vuote, arrivò fino a un finto forte circolare da cui giungevano risate, applausi, musica e la vampa viva delle fiamme, lì davanti un altissimo ragazzo canadese cercava di sbirciare all'interno aggrappandosi alla cima del muro; Periferico lo imitò. Dentro stava prendendo vita uno spettacolo per alcune scuole giunte lì in gita di piacere, gli studenti seduti a decine in cerchio attorno a un grande fuoco, tre percussionisti lo animavano assieme a una ballerina contorsionista ammantata di un sari ornato di nappe e sonagli e un'altra ballerina, un eunuco con grossi bracciali bianchi a circondare i bicipiti. La danzatrice piegava la schiena al contrario afferrando banconote con la bocca portandosi le piante dei piedi fino alla nuca dipinta dalla luce agitata delle fiamme, i percussionisti tambureggiavano lentamente. I due stranieri decisero di imbucarsi insieme, seguirono il perimetro delle mura e giunsero a un grande portone aperto, entrarono nell'emiciclo con circospezione, gli occhi di tutti ruotarono su di loro ma nessuno li fermò. Si sedettero a gambe incrociate su un tappeto rosso, gli occhi bistrati della ballerina li fissavano penetranti. La canzone finì, scrosciarono applausi e i tamburi cominciarono a battere un ritmo molto più serrato, sinuoso, la contorsionista si drizzò e a passi leggeri si avvicinò a Periferico, gli prese le mani e lo fece alzare. Il ritmo incalzava, la danzatrice cominciò a portarlo e Periferico la seguì impacciato, i ragazzi attorno presero a gridare e ridere come pazzi. Il giovane allora mollò gli ormeggi. Cominciò a sciogliere tutte le sue giunture agitando gli arti in ogni direzione come attaccata a una presa di corrente, saltabeccando con goffa malagrazia in ogni direzione, trascinata dai tamburi come una piumetta nel vento. In un istante lo spettacolo divenne una bolgia, il canadese e tutti gli altri si proiettarono in piedi mentre la musica aumentava di intensità, passi di danza inventati si facevano il verso ruotando attorno al fuoco, cerchi e spirali si formavano e si scioglievano, perfino i professori saltarono su cominciando a roteare le braccia come aeroplani. Era il piacere della danza pura: ritmo di tamburi, nessuno schema, intensità sempre crescente. Ballarono come scimmie impazzite, nelle pause tra le canzoni torme di ragazzi urlanti si stringevano attorno ai nuovi venuti strizzandogli l'occhio e ridendo, ridendo come forsennati. Ballarono ancora e ancora attorno al fuoco col fiato sempre più corto e il sudore lucente, un grande cerchio rotante li unì tutti per le mani. Tutt'a un tratto la musica si interruppe e una tempesta baffuta piombò addosso agli intrusi. I due vennero presi per le camicie da due pugni collegati a baffi a manubrio frementi di sdegno, il proprietario del resort era esploso dal nulla come lava da un vulcano, ben deciso a presentare le sue rimostranze e pretendendo dai due imbucati il pagamento immediato di una cifra sconsiderata, vista la natura privata dello spettacolo. Cominciò allora una nuova danza, ancor più elettrica perchè carica di violenza. Il canadese non sopportava di essere toccato e gli veniva impedito di uscire, partirono un paio di spintoni poderosi; fuori i due autobus pieni di studenti fermi osservavano dal buio, ne scesero dei professori e spuntò una banconota, il proprietario l'afferrò e la premette contro la mano di Periferico, colpo di teatro a dimostrare la volontà di non volere più nulla, poi si accontentò. Dai finestrini i ragazzi mostravano i denti bianchi, i due strinsero le mani ai professori, li risarcirono e salutarono. Quello stesso pomeriggio Periferico pensava di essere morto e che nulla potesse più scuoterlo, eppure quel finale di serata col suo “dancing and fighting” gli aveva messo il fuoco sotto la pelle. Forse che fosse il bisogno di situazioni estreme o presunte tali a dare una scossa alla sua anedonia interiore? I due si fecero un paio di partite a scacchi prima di andare a dormire, sognarono sogni strani senza memoria, poi la mattina si svegliarono per andare assieme a vedere l'alba. Là, in mezzo a quel deserto silenzioso, tutto era tranquillo e non c'era nulla da fare, le giornate passavano senza farsi sentire. 2. Alla fine Periferico sprofondò nel deserto, nella completa solitudine. Partì prima che il sole sorgesse, con sé solo una bottiglia d'acqua zuccherata. Prima dell'alba dromedari neri galoppavano sulle dune sollevando poco le zampe come cormorani sul mare, seguì le cime di quelle onde spazzate dal vento, morbide e fredde, finché il sole non urlò da dietro l'orizzonte. Allora si arrotolò la camicia sul capo, corse salendo e scendendo quel muto mare di pietre polverizzate, a volte si fermava ansimando gettandosi lungo disteso sulla schiena, poi si rizzava di nuovo e ricominciava a correre cercando di non lasciare impronte dietro di sé. D'improvviso la sabbia finì trasformandosi in dura terra grigia, allora Periferico prese una strada che emergeva dall'ultima polvere, fatta di sassi porosi come spugne, rosa e bianchi, in mezzo a quella terra piatta e crepata in cui cespugli di rovi si aprivano come tentacoli di medusa lasciando a terra triboli spinosi. Scese attraverso un campo rossastro con fossi scavati seguendo il garrire lontano di una bandiera bianca. Accanto spuntavano due case abbandonate, tetti di paglia, una aveva la porta chiusa da un lucchetto, l'altra era aperta; dentro ciotole spaccate, un corno di gazzella e certi bracciali concentrici, Periferico se ne mise uno al polso. Fuori, lungo la strada, sorgeva un altare ocra con dentro un uomo a cavallo, candele di coccio e incenso. Periferico allargò le braccia come una ipsilon e gracchiò al cielo, poi si rimise in cammino. La strada saliva e curvava sinuosa, intorno solo cespugli spinosi e non un albero a spargere ombra, una buca obliqua sulla destra, sulla sinistra correva una volpe grigia che si voltò fermandosi con una zampa sollevata a mezz'aria e lo fissò, si guardarono, ognuno a modo suo, poi ripresero il cammino. Sulla strada arsa e sbrecciata Periferico infilò troppo a fondo unghie troppo lunghe nella narice sinistra, l'aria era arida e secca dopo alcune ore dacché il sole aveva fatto uscire il suo capone, e quando snasò uscirono grosse gocce di sangue che gli colorarono la mano e colarono giù fino al gomito. La testa pulsava per il calore, gli occhi dietro le lenti nere faticavano a mettere a fuoco il tremolio che saliva dalla linea dell'orizzonte; lontano vide degli alti arbusti che venivano rosicchiati da cupi dromedari, li raggiunse arrancando e disturbandoli si stese nel mezzo dell'ombra rada; i ruminanti lo guardarono perplessi, poi si allontanarono lentamente. Si chiese quanto avrebbe dovuto aspettare tra la merda secca di cammello prima di potersi muovere di nuovo, poggiò il capo e chiuse gli occhi. All'improvviso si fece udire uno schlak-lak di ciabatte, dalla collina sulla sinistra un uomo vestito di bianco, baffi grigi, pelle nera e un turbante rosso vivo, passò senza vederlo con una caraffa di metallo in mano, i suoi passi erano il rintocco di un metronomo che si allontanava. A volte sono le altre persone a dimostrarti ciò che è possibile fare. Periferico emerse dall'ombra, salì su una spalla di sabbia e vide in lontananza la strada scorrere e costeggiare un minuscolo parallelepipedo marrone, sulla sinistra si impettivano alberi e nuove, morbide dune. Decise di raggiungerle, recuperò i suoi averi e ricominciò a camminare sotto il sole di non si sa che ore cantando una canzone hindi inventando le parole e stonandole tutte. Quando giunse finalmente in pianura, il parallelepipedo era diventato una scuola chiusa – era domenica – con davanti decine di vacche bianche pazienti e un laghetto di mota nera, quattro uomini tiravano acqua su da un pozzo con un secchio di morbida plastica. Davano da bere alla mandria, anche il ragazzo riempì una vasca per loro che con lunghe linguone scolarono in un istante; poi si sciacquò il viso, il collo, le braccia e dietro le orecchie. Degli uomini riarsi uno solo parlava inglese e rideva sempre, il più vecchio era uno spaghetto con strani occhi incassati, la bocca sprofondata nel mento rugoso, baffi a punta e una voce così profonda da sembrare irreale. Salirono assieme sul tetto della scuola e da lassù Periferico vide la direzione che avrebbe preso, là dove un paio di frondosi alberi emergevano dalle dune. Saltarono giù, i mandriani del deserto gli offrirono un giro in dromedario, cortesemente rifiutò e li salutò. Riprese a salire a lenti passi e superò un'alta duna dura, qui era nascosto a tutto, una leggera brezza spirava infrangendosi alle sue spalle; davanti si allungava una visione di colline sabbiose e sterpaglie a perdita d'occhio. Camminò fino a due alberi dai tronchi grigi e larghi, secchi e rugosi, le foglie scure; uno era più grande dell'altro e aveva un foro da gufo nel centro, senza gufo, come una sbadiglio o un grande occhio nero privo di palpebre. Sotto quell'amico frondoso gettò la bisaccia, stese il suo grande telo rosso e si addormentò. Fuori dall'ombra il cielo cuoceva. Si risvegliò per un forte frullare d'ali, aprì gli occhi appena in tempo per vedere gli artigli di un grande uccello bianco sorvolarlo e allontanarsi dietro la collina, seguendoli il suo sguardo si posò su un piccolo teschio di capra che lo aveva fissato dormire per tutto quel tempo. Si alzò, lo sollevò da terra, era completamente bianco, ripulito dalla lama del sole e dai becchi dei rapaci che altissimi sopra volteggiavano, lo spazzolò dalla polvere e andò a incastrarlo dentro alla nera bocca dell'albero. Non sentiva più fame e sete ora, solo silenzio assoluto. Il sole cominciava lentamente a portare a termine la sua parabola e ardeva dietro alle ultime foglie della chioma, le ombre si allungavano e la luce si faceva sempre più succosa e densa. Periferico si sedette incrociando le gambe, cominciò a respirare a fondo con gli occhi chiusi, concentrandosi solo sull'aria che entrava ed usciva dai polmoni nella ritmica placidità di quel suono di mantice, tutt'uno col soffiare del vento. Tutti i muscoli del corpo cominciarono ad allentarsi e sentì come una morbida onda di miele sgorgargli dalla base del collo. D'un tratto saltò su, come colto da scossa elettrica; uno scarafaggio del deserto, un nero, tozzo e antennuto insettone del deserto, gli stava mordicchiando un dito del piede. E' bene far notare che Periferico da sempre odiava gli insetti, fin da bambino, quando un cervo volante gli era piombato dentro il colletto della maglia mentre in estate andava avanti e indietro in altalena; sciocchi e orrendi turbatori della quiete gli insetti, invadenti anche nel luogo più isolato e inaccessibile. Il giovane decise che era il momento per provare una volta per tutte a sopportarli, voleva non avere più paura di loro, andar contro al dover aver paura. Si rimise a gambe incrociate e aspettò che uno di essi lo grattasse con le sue tenaglie, una decina marciavano là attorno a varie distanze con i coriacei sederi all'insù. Provò a non pensare a niente, si concentrò sulle foglie dell'albero e con la coda dell'occhio ne vide uno avvicinarsi zigzagando, serrò le palpebre e si sentì pronto al contatto; aspettò, aspettò con la testa che ronzava e canticchiava imponendosi calma. Appena una delle antenne lo sfiorò, esplose in aria bestemmiando e schiaffeggiandosi le cosce. Impossibile, non poteva frenare quel disgusto che dal corpo gli si proiettava come una folgore nel cervello. Forse era il caso di andarsene anche da lì. Ma quel luogo aveva assunto una certa carica magica, ispirava una silenziosa e attesa beatitudine, dove avrebbe potuto ritrovare una tale pace? Allora si sedette di nuovo, la schiena dritta, le mani appoggiate alle ginocchia. Il sole uscì dall'ultima fronda, un ramo di luce gli colorò la pancia e il volto. Perché odiare gli insetti? Perché sono brutti, e diversi; hanno occhi senza pupille, proboscidi, corazze pelose, antenne, zampucce in eccesso... perché sono stupidi, e fragili; sbattono per ore contro lo stesso vetro fino a morire, cercano per intere notti il contatto con una luce che li porterà a bruciare, la pressione di un foglio di carta può farli scoppiare. E gli uccelli allora? Anche loro possono essere definiti da qualcuno brutti e diversi, stupidi e fragili, qualcuno odia anche loro perché ne ha paura. E allora le persone? Non possono sbattere contro vetri immateriali fino alla fine dei loro giorni? Non cercano luci che li fanno bruciare? Non possono far paura ed essere odiate? Queste parole, bello e brutto, intelligente e stupido, diverso e uguale, non erano che etichette dai diversi colori – ognuna con un diverso, deciso valore – applicate da lui a vasi fatti della stessa materia e contenenti la medesima essenza: la vita che si esprime come esistenza immediata, che accomuna tutti nell'uguale diversità di stessi elementi ricombinati sotto forme diverse. Quello che temeva era in realtà quello che vedeva in se stesso: l'effimero, l'incontrollabile, il non conforme, lo sconosciuto e l'inconoscibile. Anche queste parole non erano che etichette a cui lui aveva deciso di dare un valore e un colore negativi, vasi che, marchiati o meno dal suo giudizio, sarebbero comunque esisti andando assieme a comporre un vaso che tutto contiene, pur non essendo un contenitore; e che tutto comprende, pur non essendo comprensibile. Tutto perciò era “il tutto”. Cominciò ad andare oltre il rumore del vento e il contatto con il suolo. Non era altri che lui ciò che aveva intorno, la stessa vibrazione li vivificava, ed era lui stesso la luce aranciata che filtrava attraverso le sue palpebre chiuse. Sentì la sua pelle raschiata da morbide pinze vive, aprì gli occhi nel sole e rimase immobile. “Anche lui prende parte al tutto” si disse ridendo; fissò di fronte a sé il teschio morto nel cavo dell'albero, una capra nata da poco era arrivata a rosicchiare gli arbusti dietro di lui. “Anche Lei prende parte al tutto” si disse. Le tenaglie diedero un altro assaggio elastico, sentì come una fila di cinque morbidi dentini solleticarlo; non si mosse. Il sole si fece più arancione, l'albero emerse dallo sfondo come scolpito nella cera, il cranio dentro fu più bianco del bianco. Da sotto il suo piede spuntò lo scarabeo e a piccoli passi si allontanò. I pensieri si rivelarono distintamente dentro al silenzio, finalmente Periferico riuscì a sentirsi pensare. Capì di volere altre cose da quelle che prima doveva desiderare, tutto era sepolto dentro di lui, e fino a quel deserto alieno si era dovuto spingere per poterlo far affiorare. “Siamo come su un deserto la notte, per trovare il calore dobbiamo scavare”. Passò del tempo, la luce cambiò e Venere si accese, fu allora che decise di andare. Riprese il cammino verso il villaggio e camminò sui suoi passi tra il giorno e la notte; il silenzio totale, rotto solo a volte dal vento, si riempiva di un eco che non tornava mai, ma si propagava tutt'intorno sulle piatte dune, all'infinito. Continuò per la strada di sassi rosa, superò l'arbusto dove aveva trovato ombra e la tana della volpe grigia; due gazzelle corsero fuori dalle sterpaglie per attraversare la strada, tru-tru-tru-tru-tru, trottavano morbide e velocissime, Periferico corse per raggiungerle e incrociarle sulla strada, ma passarono e sparirono in un lampo. Si portò fuori dalla strada nello stesso punto che aveva attraversato all'andata, sul vasto pianoro fulvo che precedeva le prime dune. L'aria divenne rossa, solo adesso gli si rivelò davvero lo scenario: le fosse scavate che aveva oltrepassato all'andata erano in realtà tombe vuote, ognuna con la sua piramide di terra accanto, un cimitero indiano dove finisce e inizia il deserto. Strani brividi lo percorsero quando gettò l'occhio dentro ai sepolcri vuoti, a terra lì vicino riposava una bianca tazza del cesso frantumata. Risalì sulle dune che si facevano grige, si butto ai piedi di una e guardò le stelle farsi vive anche per questa notte. La fame lo prese e non disse di no, tornò alle case bianche dove gli offrirono quattro chapati e verdure miste, il pasto più gustoso di tutti. Lesse per un po' poi cadde nel sogno, quando si svegliò il mattino era d'oro. Volò via da Khuri sul tetto di un bus, come cavalcando una balena balorda. 3. Oggi era provato. Da tempo stava nuotando al largo in direzione di un'isola, il mare caldo e trasparente sosteneva il corpo magro dopo che la bassa marea si era fatta solcare a piedi per un'ora buona; stava iniziando ad annaspare per la stanchezza mentre si rafforzava l'idea che quel lembo di terra lontano fosse soltanto un miraggio irraggiungibile. Allora, molto distante, gli apparve un faro in mezzo all'acqua, galleggiava apparendo e sparendo tra le onde. Decise di puntare a quella strana piramide colorata in lontananza e riposarvi ai piedi, ma più si avvicinava ad essa più questa sembrava perdere i contorni di edificio e tramutarsi in una scultura, una scultura leggera che gli stava veleggiando incontro. Continuò a battere il mare di bracciate senza perderla di vista un attimo e allora capì: una lunga barca gialla con un piccolo motore untuoso e borbottante trainava verso la riva palmata una zattera di bamboo, sopra di essa un tempio di legno argentato con fini guglie e sottili bandiere triangolari. Cercò di tagliare la traiettoria della barca per provare ad afferrarne un'estremità e così sfruttare un passaggio per la riva, raddoppiò lo sforzo e gli si fece sotto. Fendendo le onde vide sfilare gli occhi dei piloti del barcone in maniche corte, sentì il motore tossire e accelerare e la corda tesa intrisa trascinare via quel traliccio incrostato di telline, mulinò nell'acqua un braccio soltanto e con l'altro provò ad arpionare una canna sbeccata. Mancò la presa per lo spazio di una mano, bevendo dal naso tentò di nuotare ancora per raggiungerlo, ma la zattera scivolava alla sua stessa andatura, non si avvicinava, né si allontanava. Il tempio danzò via dondolando contro le grasse nuvole grige e rosate. Quando finalmente Periferico tornò a riva l'intera struttura, tempio e zattera trascinate sulla sabbia, crepitava tra lingue di fuoco. Era arrivato nelle isole Andaman dove la notte la luna ondeggia al sussurro delle palme nel vento caldo, le cale si vestono di fiori rossi e miriadi di paguri si scambiano conchiglie sul bianco morbido della sabbia. Verde, più di ogni altro verde mai immaginato prima, con l'oceano calmo come uno specchio in cui ruotare a testa in giù e vedere il mare incurvarsi e il cielo espandersi in trionfi di torri di nubi. Qui conobbe un ragazzo durante una partita a carte e un giorno decisero di percorrere assieme il perimetro della loro isola a piedi. Periferico decise di partire senza calzature, non fu la prima volta che compì un errore di valutazione, né l'ultima. Seguirono la costa di mangrovie disturbando granchi variopinti che fuggivano con le chele verticali sopra la testa, come leggeri topi d'appartamento arresisi a scappare; dalla sabbia emergevano ossa levigate e ogni genere di plastico reperto umano portato lì e lavorato dalla corrente. Camminarono fino al tramonto, poi si resero conto che l'isola era troppo grande per poter essere così semplicemente circumnavigata, allora si sedettero sotto un albero a guardare il mare rotolare sopra i lisci ciottoli neri. Guardavano in silenzio come con liquidi abbracci e respiri si compenetrassero pietre e piante rampicanti, nuvole e meduse; cominciarono a parlare della natura come primitiva e primaria opera artistica, dalla cui contemplazione e osservazione era stato copiato tutto lo scibile umano; concordarono nel non aver mai assistito al dispiegarsi di una bellezza simile, tale da riempire l'animo e curare ogni livore con la sua presenza senza scopo. Mentre parlavano e mentre tacevano ogni angolo dei loro occhi era accarezzato da questo influsso che dall'esterno spirava e si riversava dentro placando ed esaltando pensieri e sentimenti. Rimasero distesi nella risacca a farsi cullare finché si accorsero che si stava facendo rapidamente buio ed erano ancora molto lontani da casa, allora si addentrarono nella giungla per trovare una strada asfaltata e imboccarono uno stretto sentiero fangoso perpendicolare alla spiaggia, immergendosi nell'umido e gravido crepuscolo arboreo punteggiato da indecifrabili richiami. Il sentiero era nero, grasso fango che a volte diventava così morbido da sprofondarci dentro fino allo stinco o che si arricchiva di strati di tappeti di foglie, il verde tutto attorno era una silenziosa affermazione di rampicante supremazia. Il cielo era stato completamente annullato dal fogliame, camminarono sostenendosi a vicenda con sorrisi nervosi nel reame di invisibili rospi mentre intorno tutto si faceva più nero. Tutto attorno strilli, squilli, berci, pigolii, un concerto di intensità e composizione irrazionale; poi a un tratto sentirono attorno a loro un suono che coprì tutti gli altri, come un frinire, un borbottare e un frusciare insieme, senza un'origine precisa; si bloccarono e si guardarono, immobili in un cerchio di ombre, le schiene tese e madide, sperando che finisse. Il suono non si allontanava né si avvicinava ma sembrava irradiare da ogni foglia, da ogni spina, da ogni stelo; una sommessa vibrazione che non si spiegavano come potesse provenire da chissà quale gola o arto sfregato. Sembrava che non fosse mai iniziato, ma li avesse sempre accompagnati. Cominciarono a marciare a testa bassa ricoperti di sudore e con le mascelle serrate, senza dire una parola scansavano larghe foglie fradice e pallide ragnatele, persi e immersi nei loro personali labirinti di timori innominabili e terribili bestemmie; non si resero neppure conto che quel suono era cessato quando alfine emersero in una radura, poche case con tetti di lamiera spuntavano in mezzo alle risaie, e luci di fuochi accesi dissiparono in un soffio la paura del buio. Si guardarono perplessi e risero sgangheratamente, avevano i piedi ricoperti da spessi stivali di fango. Raggiunsero una delle basse e scure case in mezzo agli alberi polverosi, vacche al di fuori e pollame, e chiesero dove si trovasse la strada a una bellissima bambina; lei col dito indicò una direzione che seguirono. Batterono un sentiero tra i campi di riso fruscianti e spuntarono in una strada bianca, si fecero scortare da una famiglia in cammino fino a un mercato dove la via si faceva d'asfalto. Lì, alle luci delle lampade elettriche, si pulirono ed esaminarono i piedi, tra escoriazioni e piccole ferite stavano attaccate grasse e nere sanguisughe, le staccarono versandovi sopra una mistura di alcool e disinfettante e quelle lumachette si contorsero staccandosi, lasciandosi dietro una copiosa scia di sangue. Chiesero di farsi caricare alla prima jeep di passaggio, l'autista avrebbe accettato solo col pagamento di troppe rupie, lo salutarono e cominciarono a camminare verso la spiaggia da dove erano partiti quella mattina, dall'altra parte dell'isola. Dopo molti passi nel buio della campagna silenziosa sentirono da lontano una musica assordante che si avvicinava, da dietro una curva apparvero fasci di luce bianca accecante, i due si sbracciarono saltellando e gridando e li affiancò una jeep stracarica di persone di tutte le età, si sistemarono stretti nei sedili anteriori, qualcuno si spostò nel bagagliaio per far loro spazio risparmiandogli un lunghissimo ritorno. Periferico non aveva più rupie, nella sua tasca piegato un consunto biglietto d'aereo per volare a casa, tornò sulla spiaggia, aspettò la notte e rimase a fissare Orione. Il terzo dei trentatré nomi di dio, possente, costante, caldo e gentile suonava le rigide foglie di palma. Tolse dalla custodia il sitar e cominciò a pizzicarlo. Sognò di restare lì per sempre. L'idea spalancò in lui un nuovo modo di vedere le cose, più eccitante di qualunque sensazione mai provata prima, un mondo completamente inesplorato racchiuso dietro a un sottile cancello intrecciato di fili di paura. Le responsabilità del ritorno a casa, il loro umido grigiore, gli sembravano ancor più muffose nel suono della risacca illuminata debolmente d'argento. Tutto ciò che aveva visto cosa gli aveva insegnato? Il ritorno aveva l'odore delle occasioni bruciate. Perché non scordare tutto e restare? La libertà più vera, quella della propria volontà, è dentro di sé uno squillo di tromba che solo chi si assorda riesce a evitare. Si addormentò sulla sabbia, al mattino vide un'alba intermittente tra palpebre che si aprivano e chiudevano, stralci di nembi sfilacciati illuminati di rosso e d'oro. Fece un ultimo lungo bagno, l'acqua era più fredda e la marea più alta. Andò nella sua capanna ed accese il telefono, un messaggio dalla compagnia lo avvertiva di aver cancellato il volo che avrebbe dovuto riportarlo a casa. EPILOGO Da dentro l'aereo si vede un villaggio di case sparute in mezzo all'infinito deserto pietroso, solo una lunga strada lo attraversa senza addossarsi all'ombra di nessuna montagna. Chi vive lì? Chi regola i campi? Niente importa nel mondo tranne la bellezza coltivata nell'ascolto dell'istinto, chetato tutto il resto; farsi ruggire addosso l'acqua di una cascata avvertendo soltanto il proprio respiro interiore, parte di quello scrosciare. La bellezza ispira bellezza e la bellezza è in ogni dove, forse non nelle parole ma negli spazi tra le parole, nella pazienza della luce che il sole lascia sulle nuvole dopo che è tramontato. Cirri torreggianti, galoppanti barbagli, troni di luce cremisi nel ghiaccio, l'esistenza che brulica dentro non vista, le migliaia di miliardi di mondi che nessuno conoscerà, l'urlo inudibile della vita in tutte le vite. Tenerezza è in tutto questo e le parole possono solo solleticarne la peluria superficiale, là dove serpeggia il brivido che unisce le cose singole all'unità. Un amore – ridicolo se pronunciato – per tutto. Un amore che è tutto. Ma questo, forse, ancora Periferico non lo sentiva.