Io non sono molto esigente

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Io non sono molto esigente
Luisa
settembre 1992 (Igor 28, Luisa 19)
Quattro anni prima quella ragazza dai capelli biondi a caschetto e gli occhi verdi,
neomatura di liceo classico, era entrata nel suo studio, alla sezione arabistica di
palazzo Cappello a San Polo, durante il suo orario dedicato all’assistenza degli
studenti. Igor, aveva da poco preso servizio come ricercatore e stava in uno studiolo
assieme a una collega. «Buongiorno professore». «Buongiorno a lei – e sorridendo – non
sono professore, il mio titolo, per quel che può valere, è ‘dottore’ ». La giovane rimase
seria alla sorridente precisazione cui non sembrò far caso. «Mi manda da lei il
professore di arabo del piano di sopra, al momento occupato con degli studenti. Non
ho capito se era una battuta la sua, ma mi ha suggerito che per avere informazioni sui
corsi di arabo era meglio parlassi con una persona più vicina alla mia età ». Igor,
allargando il sorriso: «Ah, il nostro Prof. Era una battuta, sicuramente. E allora – ora
ridendo – cosa ha bisogno di sapere da un docente più giovane?». «Ho finito il liceo e
sono indecisa sul percorso universitario da intraprendere. Mio padre, che fa
l’avvocato, vorrebbe che seguissi le sue orme. Anche perché – una volta laureata –
potrei entrar subito nel suo studio. Ovvio, quindi, che quella dovrebbe essere la mia
strada per cui non ho particolari remore. Ma, prima di indirizzarmici, vorrei
considerare anche altre possibilità che potrebbero forse proporre prospettive più
stuzzicanti e condurre ad attività più interessanti, come dire, più intriganti. Anche più
esotiche, senza voler banalizzare. Al liceo ho avuto per compagna di banco una ragazza
araba figlia di palestinesi da tempo residenti in Italia. Per gioco mi aveva insegnato
qualcosa della sua lingua e così ci si salutava: sabàh al-kheyr, sabàh an-nur, kiif hàlek,
al-hamdu li-llàh bi-kheyr». Finalmente un cenno di sorriso mentre esponeva quelle
semplici espressioni di saluto.
«Ha una buona pronuncia signorina…». «Luisa». «Luisa. E questo potrebbe essere
incoraggiante ipotizzando di avviarsi lungo la strada dell’arabistica. Ma prima di
considerarne gli aspetti positivi – come faccio con tutti – ritengo corretto esporle con
franchezza alcuni aspetti ostici della lingua araba. Perché, checché se ne dica, è una
lingua che presenta difficoltà sotto vari aspetti. Il profano può immaginare che uno
dei suoi maggiori ostacoli ne sia l’alfabeto che ho sentito qualcuno chiamare ‘tutto
vermetti’. Beh, quei ‘vermetti’ divengono leggibilissimi nel giro di qualche settimana
d’applicazione. I veri problemi cominciano a manifestarsi un po’ dopo, cominciando a
trattar la grammatica e il lessico. La lingua araba è una lingua molto esigente.
Pretende molto da coloro che le si accostano sia come tempo che costanza d’impegno.
Se non si parte con l’intenzione, vera e seria, di darsi generosamente, non si arriverà
mai ad apprenderla anche solo decentemente». Luisa ascoltava attenta, la fronte quasi
corrugata. «E per ora sto considerando solo un livello di apprendimento decente.
Quello a cui può arrivare uno studente normale, di media capacità e media attitudine
alle lingue, che abbia la possibilità, e la costanza, appunto, di dedicarsi allo studio e
alla pratica della lingua per almeno quindici, ma anche venti ore alla settimana lungo
due o tre anni, comprendendo i corsi e lo studio individuale. A questo livello di
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conoscenza si può avere la capacità di sostenere in buona parte una generica
conversazione, di leggere e capire mediamente una buona metà di un normale testo
giornalistico e di ascoltare e capire il senso di una normale trasmissione radio o tv.
Pochi sono gli studenti in grado di andar oltre in quei due tre anni, mentre sono molti
coloro che rimangono al di sotto». Luisa s’insinuò: «Mi scusi e mi perdoni l’ingenuità, ma
da incompetente, mi vien da chiederle: l’arabo non è una lingua come le altre? Che
come le altre necessita di buono studio, supportato da stage nei luoghi dov’è parlata?
E alla fine si parla? Se vogliamo alla buona, nel breve medio termine, ma si legge, si
capisce, si parla. L’anno scorso i miei genitori mi hanno fatto seguire un corso di due
mesi a Londra e devo dire che alla fine del periodo me la cavavo bene nelle normali
situazioni della vita ordinaria e mi difendevo anche in temi un po’ complessi. Perché
non dovrebbe esser così anche con l’arabo?». Igor tacque qualche attimo guardandola.
Carina Luisa, si disse. Riprese: «Purtroppo le lingue non sono tutte allo stesso livello di
difficoltà. Magari l’arabo fosse nella situazione dell’inglese, per cui basta andare
qualche mese a seguire un corso a Londra, facendone pratica per tutto il tempo, in
ogni luogo si vada, con quasi tutte le persone con cui si abbia a che fare. E questo è
reso possibile dalla capacità di quasi tutti gli inglesi di parlare una lingua media
prossima a quella letteraria, come è il caso di tutte le altre lingue europee, chi più chi
meno. Per cui la lingua che si apprende ai corsi è quella dei giornali e degli altri media e
circa la stessa – appunto – parlata da chiunque. Non è così per l’arabo per cui entra a
gamba tesa un fenomeno che nelle nostre lingue pesa relativamente. Lo vediamo qui a
Venezia. Lei è veneziana, mi pare?». «Sì». «Quindi sa bene che tuttora molti veneziani
hanno come cosiddetta linguamadre il dialetto locale». «Certo, anche i miei genitori
parlano dialetto tra loro». «Sì. Anche per i miei era così. Però, a vari livelli e per lo più
buoni, tutti i veneziani dialettofoni s’arrangiano anche con l’italiano. È quel fenomeno
chiamato diglossia, termine che sommariamente, e pure da etimologia, si può rendere
con bilinguismo, anche se il termine si applica in genere a lingue nazionali. Solo che,
relativamente all’arabo, la diglossia si manifesta come un forte divario tra, da una
parte la lingua della letteratura, degli atti ufficiali e dei media quali la stampa, i
telegiornali e, dall’altra, le lingue informali – chiamiamole sommariamenti ‘dialetti’ –
parlate praticamente in quasi tutte le situazioni della vita perché tutti gli arabi usano
normalmente solo quelle. E se per lo più possono capire la letteraria – altrimenti non
capirebbero documenti, giornali e tv – pochi sono coloro che riescono a parlarla
decentemente. Questo è un forte handicap per l’arabista, costretto in sostanza a
imparare almeno un ‘dialetto’ per poter comunicare con la gente di un certo luogo in
quasi tutte le situazioni. A meno che – e capita, seppur raramente – uno studente si
dia soltanto alla lingua letteraria, permanendo nell’ambito certo più importante della
lingua, ma escludendosi in buona parte la possibilità orale normale».
La ragazza finalmente sorrise a tutto tondo: «Mi vien da dirle che la sua franchezza
nell’esporre obiettivamente le difficoltà della lingua araba è in grado di tarpare ogni
entusiamo nell’ipotetico aspirante arabista». «Già. È vero e me ne dispiace. Talvolta mi
dico che forse sono eccessivo nel mio pessimismo. Poi, la mia esperienza sembra darmi
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ragione. Purtroppo. E non è ancora finita. Altri ostacoli nei confronti
dell’apprendimento dell’arabo, di carattere locale, sono causati dalle attuali normative
universitarie, con tutti i loro deleteri insegnamenti obbligatori. Tipo l’italiano, l’inglese,
sulla cui importanza non si discute, ma che dovrebbero essere stati acquisiti prima o
altrove. E poi il francese, spacciandolo per utile nello studio dell’arabo. E la glottologia
e altre cianfrusaglie non utili a tutti e alcune solo a pochi casi con particolari obiettivi
di studio. E poi la letale obbligatorietà di una seconda lingua orientale sostenendola
“una preziosa opportunità di rafforzare, potenziare e integrare lo studio della lingua
principale”. Balle, al lato pratico, utili a particolari interessi. E non certo alla maggior
parte degli studenti che si presentano alle sezioni orientalistiche avendo in mente una
sola lingua. La scelta di una seconda lingua orientale, per esser proficua, dovrebbe
essere ragionata e rivolta a un chiaro obiettivo. Solo in questo caso può venir utile e
anche fondamentale. Ma sono casi più unici che rari. Quello che trovo micidiale per lo
studente è proprio l’obbligatorietà di queste discipline. Poi, io non ho niente da dire se
uno studente vuol studiare cinque lingue orientali di sua sponte, con coscienza – o
anche senza – avendo un suo scopo preciso, ma anche no. Sono affari suoi e se è un
genio sfolgorerà, dall’arabo al cinese, passando per il persiano, l’hindi e magari il
coreano. Affari suoi». Igor si stava infervorando. Prese un volumetto dal tavolo.
«Anche riguardo gli ipotetici sbocchi professionali dei nostri laureati non c’è da
essere ottimisti. Se si va a guardare alle promettenti ipotesi di professioni che
troviamo qui, nelle pagine di presentazione dei nostri corsi di laurea nella guida dello
studente, andiamo dal giornalismo all’editoria al turismo. A tutti i servizi che si
rifanno a contesti multilinguistici e multiculturali; all'accoglienza e all'integrazione dei
cittadini extracomunitari, agli enti culturali e museali, alle istituzioni pubbliche
nazionali e comunitarie. E leggiamo ancora “la redazione e traduzione di testi aventi
rilevanza culturale e letteraria e di attività di assistenza linguistica a imprese, enti e
istituti pubblici. I nostri laureati possono svolgere professioni legate
all'organizzazione e alla promozione di eventi culturali ed artistici (mostre, rassegne,
festival, eccetera)”. E poi le consulenze a imprese e istituti commerciali e finanziari
interessati ai mercati del Vicino Oriente, come pure in istituzioni e organismi
internazionali e in ambito diplomatico. E così via sognando, con la preparazione media
che ci si ritrova. Il Prof – che lei ha conosciuto di sopra – mi diceva che quando si
laureò lui lo sbocco più comune per i laureati in arabo era l’insegnamento dell’inglese
alle scuole medie, grazie ai due miseri esami di quella lingua che comparivano
obbligatoriamente nella carriera di tutti. Ora mi pare che per il giovane arabista vada
forte fare il cameriere, a quanto vedo e sento. Sia prima che dopo la laurea. Una
nostra laureata è pure qui presso la trattoria ‘La patatina’ al ponte di San Polo che lei
conoscerà». «Davvero? Sì, conosco la ‘Patatina’. Qualche volta ci sono andata con
compagni di scuola. Ma, mi scusi la curiosità professore, anzi, dottore, visto che ci
tiene – e sorrise – dopo questo suo trattamento quanti sono gli studenti masochisti
che decidono per questo tipo di suicidio come lo mostra lei ?». «Quasi tutti. Perché in
genere quando arrivano qua hanno già deciso e pochi sono coloro che riescono a
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staccarsi da questo loro percorso mentale ormai consolidato e senza essersi poste
altre alternative come invece sta considerando opportunamente lei. Oltre al fatto poi
che solo pochi passano prima a informarsi sui corsi. Per lo più si iscrivono senza
indagini preventive. Poi, naturalmente, molti di essi, ‘muoiono’ arabisticamente fin dal
primo anno».
A questo punto Igor si aprì in un mezzo sorriso: «Di solito però non mi fermo qui, alle
dolenti note. Come le accennavo all’inizio del nostro colloquio, dopo aver fatto cocci
dell’arabo comincio a raccoglierli e a ricomporne alcuni. A chi riesce – anche solo in
modo decente – di gestire questa lingua, si apre un mondo spesso di rara suggestione e
varietà che nessun turista può immaginare e nemmeno alcun residente occidentale in
quei luoghi, se non ha le basi della lingua. Si viene a contatto con una civiltà variegata,
di cui fan parte popolazioni diversissime tra loro: bianchi e neri, in tutte le loro
gradazioni, nomadi e sedentari, beduini, rurali e cittadini. Con nature che vanno dal
verde di certe aree montane, nel cosiddetto Crescente fertile, culla delle civiltà nate
in Libano, Siria, Mesopotamia; nella valle del Nilo, in alcune aree dello Yèmen, per
arrivare ai più aspri deserti della Penisola araba e del Nordafrica con le loro infinite
dune e le fascinose oasi. Dicevo civiltà variegata. Direi meglio, un mondo composto da
tante civiltà, culture, entità, genti e razze il cui unico possente collante e motivo di
comune identità è costituito da quell’elemento che finora sembra che io abbia
denigrato: la lingua araba. Ma se lei ci fa mente locale, dovrà convenire che non ho
maltrattato l’arabo di per sé, ma ho solo sottolineato – a mio avviso obiettivamente e
ribadisco: a mio avviso datomi dalla mia esperienza – certe sue peculiarità, intrinseche
ed estrinseche, che non ne fanno una lingua agevole. Ho per lo più evidenziato le
difficoltà che si frappongono qui, nei nostri ambiti universitari, all’apprendimento
serio di una lingua che necessita – e mi ripeto – di forte e costante impegno oltre ad
una auspicabile predisposizione per queste lingue non frequente nell’italiano medio. Ma
una volta acquisita questa conoscenza decente si possono avere delle esperienze
straordinarie che già di per sé stesse ripagano ogni impegno e ogni fatica. Entrare in
un famiglia araba, goderne l’ospitalità, osservarne la vita quotidiana sono eventi unici.
Lì si potranno gustare i genuini piatti della cucina locale, con tutti i presenti che fanno
a gara per onorare l’ospite offrendogli i bocconi più prelibati. Bellissime le esperienze
coi beduini, dove si mangia seduti sui tappeti all’interno della tenda prendendo il cibo
con le mani dall’ampio vassoio al centro del cerchio e col capofamiglia che lancia i più
succosi pezzi di carne dalla parte degli ospiti. A me è capitato nei pressi di Petra in
Giordania, nelle steppe siriane e nel deserto omanita e sono state suggestioni uniche».
E qui con aria smaliziata: «Senza però cadere nella trappola di quell’ospitalità, il cui
eccesso può divenire una prigione». Tacque un momento guardandola, poi: «Va inoltre
rilevato – e lo trovo importante – che ben pochi di coloro che si sono laureati in arabo
si sono pentiti di quella scelta, anche se poi non hanno avuto modo di usare tale
competenza nelle attività successive. Già quei loro anni di studio e soprattutto le
esperienze avute sono stati sufficienti a non far rimpiangere l’impegno profuso in quel
periodo della loro vita nei confronti di quella lingua. Le posso dire ancora…».
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In quel momento fu bussato alla porta. «Avanti». Uno studente mise la testa dentro e:
«Ah, mi scusi professore. Aspetto fuori». E richiuse. Luisa s’alzò: «Mi perdoni
professore. Realizzo che le ho rubato un bel po’ di tempo e non voglio importunarla
ulteriormente». «Nessun disturbo. Fa parte del mio lavoro. Spero di non averla troppo
delusa, tarpandole le sue nascenti velleità arabistiche. Comunque, nella sua situazione,
il consiglio spassionato che mi sento di darle è di tenere in forte considerazione le
prospettive di buona certezza che – nella sua situazione – le offrono le scienze
giuridiche. Senza escludere – perché no – di fare un po’ d’arabo come hobby senza
alcuna ambizione di andare oltre un’infarinatura. Nel qual caso le potrei proporre
qualche metodo simpatico». «Davvero? La ringrazio. Lei è molto gentile. Beh, ci
penserò, consultandomi anche con i miei». «Va bene. Se ha bisogno di chiarimenti o
altri consigli, sono qua». «Grazie ancora. È stato di grande utilità ascoltarla e – devo
dirle – anche un piacere. Arrivederla». «Grazie a lei. Fa sempre piacere far piacere.
Arrivederci».
(continua alla prossima)
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